A colloquio con il gesuita Franco Imoda, presidente di Avepro

Università ecclesiastiche di qualità
per la sfida educativa


di Gianluca Biccini

Si scrive Avepro, si legge Agenzia della Santa Sede per la valutazione e la promozione della qualità delle università e facoltà ecclesiastiche. È l'organismo che da tre anni realizza in concreto l'adesione vaticana al "processo di Bologna" per la creazione di uno spazio comune europeo nell'ambito dell'istruzione superiore. Ne abbiamo parlato con il gesuita Franco Imoda, che presiede l'agenzia voluta da Benedetto XVI nel settembre 2007.

Cos'è il "processo di Bologna"?

È un movimento non legislativo, volontario, non impositivo - anche se fortemente appoggiato dai governi europei - che mira alla creazione di un'ampia area di insegnamento superiore nel vecchio continente, caratterizzata da mobilità di studenti e docenti e, ovviamente, da un innalzamento del livello qualitativo.

Com'è nato?

Dalla convergenza di due fattori:  il primo è la proposta di contribuire alla creazione di un'unione non solo economica ma anche culturale, scaturita dall'incontro di alcuni ministri dell'istruzione in occasione dei novecento anni dell'ateneo bolognese. La conseguenza di questa volontà è stata, nel 1999, la dichiarazione di Bologna, in cui 29 Paesi si impegnavano a intraprendere un cammino comune. Il secondo fattore è stato offerto dalla necessità dei Paesi d'oltrecortina, all'indomani della caduta del muro di Berlino, di riscrivere l'ordinamento universitario e di poterlo fare in armonia con l'insieme dell'Europa.

Da allora sono passati più di dieci anni e il processo ha continuato a fare passi in avanti.

Sono seguiti analoghi summit dei ministri - a Praga nel 2001, a Berlino nel 2003, quando è entrata la Santa Sede, a Bergen nel 2005, a Londra nel 2007, a Lovanio nel 2009 e a Budapest-Vienna nel 2010 - con una partecipazione crescente, tanto che a oggi hanno aderito 47 nazioni. Nel corso dei vari appuntamenti è stata definita una serie di obiettivi che avrebbero dovuto essere conseguiti entro quest'anno:  l'adozione di un sistema di titoli di semplice leggibilità e comparabilità, attraverso un sistema accademico a tre cicli; la mobilità per studenti, docenti, ricercatori e personale tecnico-amministrativo, mediante la rimozione degli ostacoli alla libera circolazione; la cooperazione europea nella valutazione della qualità interna e fra le istituzioni universitarie dei diversi Paesi.

Gli studenti hanno voce in capitolo o si tratta di un meccanismo che riguarda solo i docenti?

Uno dei principi del "processo di Bologna" è che gli studenti vengano coinvolti a tutti i livelli. Anzitutto strutturale:  nell'Avepro, per esempio, uno studente è membro di diritto del consiglio direttivo, e un altro del consiglio scientifico. Inoltre a livello più quotidiano, essi partecipano, già da tempo in molti casi, al processo di valutazione interna delle istituzioni. Gli studenti oggi sono molto più disimpegnati rispetto a quarant'anni fa, quando oltre alle tensioni nelle università c'era anche voglia di partecipazione. Ora si fa fatica persino a eleggere il rappresentante degli studenti.

Nel 2010 il processo si sarebbe dovuto concludere. Cos'è successo invece?

Il 12 e il 13 marzo si è tenuta una conferenza a Budapest e a Vienna che ha inteso celebrare la "conclusione" del processo. Di fatto il processo è l'avvio di un cammino destinato a continuare e non a terminare. Gli obiettivi - certamente ambiziosi e a lungo termine - non sono ancora stati pienamente realizzati, né avrebbero potuto esserlo soprattutto allo stesso grado e in tutte le nazioni. Pensiamo all'armonizzazione delle qualifiche, che sono progressivamente concepite in modo sempre più simile o paragonabile nei vari Paesi europei:  al primo livello c'è il baccalaureato, che corrisponde alla laurea italiana, seguito dal master e dal dottorato. Un altro esempio è quello della valutazione della qualità secondo norme condivise. Un lavoro enorme se si considera che le università e facoltà nel vecchio continente - e parlando solo delle istituzioni ecclesiastiche - sono circa 180, senza contare gli istituti aggregati o affiliati.

Perché la Santa Sede non è voluta rimanere estranea a questo movimento?

Per il grande numero di istituzioni accademiche a essa riconducibili. Per questo dopo l'adesione al "processo", avvenuta nel 2003, su suggerimento della Congregazione per l'Educazione Cattolica, il Papa ha eretto nel 2007 l'Avepro, ponendola alle dipendenze della Segreteria di Stato, anche alla luce della autonomia di cui deve godere nei confronti del dicastero dell'educazione. Lavoriamo in stretta sintonia con le università e le facoltà ecclesiastiche in tutta Europa, per sviluppare una promozione della qualità che soddisfi i requisiti richiesti dal "processo di Bologna".

Quindi il vostro campo d'azione è il vecchio continente?

Non solo. Questo compito richiede una stretta collaborazione tra l'agenzia e le 180 facoltà ecclesiastiche - inserite in oltre cento diverse istituzioni - presenti in 18 Paesi dei cinque continenti. L'Avepro, del resto, assicura che le istituzioni, nell'applicare la costituzione apostolica Sapientia christiana nel contesto dei cambiamenti attuali, si confrontino con tutti gli standard internazionali.

La parola processo rimanda a una realtà in evoluzione. Anche l'Avepro deve adeguarsi continuamente ai cambiamenti?

Sì, per questo abbiamo strutture flessibili:  un consiglio direttivo, che si riunisce due o tre volte l'anno, e un consiglio scientifico, che si incontra più spesso.

E cosa avete fatto in concreto?

Abbiamo avviato la valutazione della qualità per le sette università romane - Gregoriana, Lateranense, Urbaniana, Angelicum, Salesiana, della Santa Croce, Antonianum - e quasi completato il sito web. È stato inoltre ultimato un progetto pilota nel 2008 per conoscere in concreto la realtà del lavoro che siamo chiamati a svolgere.

In cosa consisteva?

Si trattava della valutazione interna e del miglioramento della qualità in otto facoltà ecclesiastiche di diversa tipologia istituzionale:  due in Germania, due in Italia, due in Polonia e due in Spagna. Dopo aver elaborato delle linee guida per la preparazione di un rapporto di autovalutazione da parte della facoltà interessata, ci sono state la visita in loco e la relazione di un gruppo di nostri esperti, il follow-up e l'attuazione delle raccomandazioni.

Un'esperienza quindi utile?

Certamente, soprattutto perché ci ha permesso di chiarire alcuni punti, come quelli riguardanti la situazione delle istituzioni che si trovano in nazioni nelle quali lo Stato accredita e finanzia le facoltà e quella delle istituzioni che hanno già avuto o avranno a breve la visita da parte delle agenzie nazionali. Per il primo aspetto si è pensato all'eventualità di creare articolazioni territoriali - come per esempio già in Germania - mentre il secondo si dovrebbe risolvere con lo sviluppo progressivo del lavoro di valutazione dell'Avepro in collaborazione con le diverse agenzie locali. L'impressione generale sul progetto pilota è stata comunque molto positiva. Le istituzioni hanno trovato utile il lavoro di autovalutazione per analizzare meglio le loro specificità, i punti di forza e anche quelli su cui lavorare. Hanno apprezzato anche lo spirito nel quale sono state effettuate le visite e la professionalità delle équipe. Nella composizione di queste ultime, la molteplicità delle nazionalità e delle discipline ha rappresentato un elemento propulsivo. I membri hanno trovato arricchente il lavoro in comune e si sono sentiti accolti dalle facoltà visitate.

Quali indicazioni avete avuto da questo progetto?

Abbiamo utilizzato l'esperienza acquisita per modificare le linee guida e per formulare un adeguato piano generale per i sistemi di valutazione interna della qualità nelle istituzioni ecclesiastiche di tutta Europa. E ora l'obiettivo è di aiutare le istituzioni ecclesiastiche a sviluppare una cultura della qualità che riguardi tutte le attività, l'insegnamento, la ricerca e i servizi.

Lei è stato rettore di uno storico ateneo, la Gregoriana. Cosa pensa del modello universitario europeo?

Esso è in genere una realtà sempre viva e in continua evoluzione. Le finalità formative rimangono valide. Ogni università cattolica o ecclesiastica ha come scopi la formazione, la ricerca e il servizio della società e quindi della Chiesa. Nello stesso processo europeo è stato utile il dibattito circa i modelli universitari non solo come fornitori di un pur necessario mercato del lavoro. La Santa Sede ha promosso attraverso la Congregazione per l'Educazione Cattolica un seminario nel 2006, che ha avuto notevole successo, per interesse e la partecipazione, proprio sul tema "Il patrimonio culturale e i valori accademici delle università europee e l'attrattività dello spazio europeo dell'istruzione superiore".

Ritiene che quando il Papa parla di emergenza educativa si riferisca anche all'ambiente accademico?

Dovunque ci si trovi si sente parlare di crisi e di sfide del sistema educativo. È ovvio che le congiunture mondiali si ripercuotono nell'ambito universitario, che è una finestra sensibile. Il successo del seminario citato può indicare un bisogno e un desiderio di continuare a coltivare valori e finalità formative che vadano oltre le pur legittime esigenze dettate dalla tecnica e dal pragmatismo utilitario. I valori etici, il dialogo tra culture e religioni e i temi antropologici che li sottendono rimangono una sfida di altissimo profilo.

Per concludere, crede che l'Avepro possa favorire una maggior armonizzazione anche all'interno delle strutture accademiche pontificie e delle università cattoliche?

Penso di sì. La nostra istituzione non si preoccupa soltanto della cultura della qualità, ma punta a un sistema di qualità, basato sull'informazione e sulla trasparenza riproponendo a tutti gli interessati le caratteristiche di un sistema di insegnamento superiore o università. Questo sistema non vuole e non può essere una gabbia uniforme e rigida, ma è importante che comunque si sviluppi. Da parte sua la Santa Sede si trova a dover trovare un equilibrio tra la necessità di una presenza capillare in tutto il mondo - il che in alcuni casi va a detrimento della qualità nelle piccole facoltà in Paesi remoti - e le eccellenze cui puntano i grandi atenei di fama internazionale.



(©L'Osservatore Romano 15 luglio 2010)
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