A colloquio con il patriarca di Cilicia degli Armeni in vista del sinodo per la Chiesa in Medio Oriente

Alla ricerca dell'unità perduta
in una terra assetata di pace


di Mario Ponzi

Sofferenza e povertà, prospettive di lavoro pressoché inesistenti, incertezza per il futuro, progressiva perdita dell'identità cristiana a causa di un crescente clima di secolarizzazione:  sono le sfide che affrontano i cattolici in Medio Oriente, spesso accompagnate da atteggiamenti persecutori nei loro confronti da parte di comunità maggioritarie. "Sono le ragioni principali che causano l'emorragia cristiana nel Medio Oriente". Lo ribadisce in questa intervista al nostro giornale Sua Beatitudine Nerses Bedros xix, patriarca di Cilicia degli Armeni, in Libano, uno dei patriarchi mediorientali ai quali Benedetto XVI ha consegnato il 6 giugno scorso a Cipro, l'Instrumentum laboris dell'assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi, che si svolgerà, come è noto, dal 10 al 24 ottobre prossimo in Vaticano.

Tra qualche mese sarete chiamati a vivere l'esperienza forte dell'assemblea sinodale. Quali sono le attese della comunità?

Speriamo innanzitutto che l'assise sia in grado di dare una freschezza nuova al messaggio evangelico. Dobbiamo comunicare ai nostri fedeli la gioia e la fierezza di essere cristiani, di sentirsi in qualche modo responsabili del buon andamento della famiglia, dell'ambiente di lavoro nel quale siamo chiamati a dare la nostra testimonianza, della politica fondata sulla giustizia e sull'equità, e di tutta la società. Dobbiamo anche essere convinti di vivere là dove il Signore ci ha voluto affinché fossimo la luce, il sale e il fermento degli ambienti nei quali siamo chiamati a testimoniare. E poi speriamo che lasci finalmente scorgere l'orizzonte della pace sulla nostra terra, aiuti i nostri popoli a vivere in un clima di maggiore sicurezza e di minori tensioni politiche. Come pastori ci auguriamo soprattutto che i cattolici avvertano di più la loro identità di figli di Cristo.

Perché? Oggi non hanno il senso della loro identità cristiana?

Direi che in molti casi si sentono piuttosto appartenenti a una certa confessione o a un particolare rito. Sentire che tutti i cristiani si vogliono bene e collaborano insieme, cattolici, ortodossi ed evangelici per dare una testimonianza di unità, per essere veri testimoni del Vangelo sarebbe veramente una grazia di Dio. È noto che la divisione dei cristiani è un impedimento all'annuncio del Vangelo ed è uno scandalo davanti ai non cristiani. I cristiani divisi perdono la loro credibilità come discepoli di Cristo, che ha predicato l'amore e l'unità. Però è anche importante che i cattolici avvertano e vivano coraggiosamente la loro identità di Chiesa in comunione con la Chiesa universale, la Chiesa di Roma, ma anche con le altre Chiese sorelle del Medio Oriente. Questo è fondamentale per dare risposte concrete alle tante sfide che dobbiamo affrontare.

Di quali sfide parla?

Sono di diversi tipi. Innanzitutto la povertà. Sta velocemente assumendo i contorni del dramma sociale. La situazione è sempre più insostenibile. Aumenta costantemente il numero di chi è costretto a vivere in condizioni di precarietà poiché manca dell'essenziale. A ciò si aggiunge un mutamento profondo nella società medio orientale:  non c'è più la classe media; o si è poverissimi o si è ricchi. Oggi però vanno diminuendo anche i benestanti. I pochi rimasti preferiscono investire le loro risorse all'estero. I più bisognosi vivono in condizioni estremamente disagiate, spesso drammatiche. Non trovano i mezzi per pagare l'affitto per una casa da abitare, non si possono permettere spese per curarsi; non hann0 alcuna possibilità di lavoro. Le poche famiglie che sino a oggi avevano la fortuna di avere almeno il padre che lavorava, tremano sotto la scure dei licenziamenti dovuti alla crisi che, chiaramente in queste terre ha un peso maggiore e più gravoso. Dunque spetta al figlio o alla figlia cercare di lavorare per consentire la sopravvivenza della famiglia, spesse volte sacrificando la frequenza della scuola. A questa drammatica situazione si aggiunge poi il problema della mancanza di sicurezza. Per la verità si tratta di un problema comune a tutto il Medio Oriente, una zona di conflitti continui. Il Libano non è mai riuscito a vivere in pace per cinque anni di seguito.

Per questo i cristiani abbandonano le loro terre?

Certamente queste sono due delle cause principali che costringono i cristiani a emigrare con tutte le loro famiglie. Ultimamente, anche se le famiglie decidono di resistere in attesa di tempi migliori, i giovani vanno via; decidono di andare a cercare altrove possibilità di vivere anche contro la volontà delle le loro famiglie.

In quale modo cercate di venire incontro alle necessità dei fedeli?

Cerchiamo soprattutto di riportare la speranza in mezzo a loro. E non è un'impresa facile. Anzi spesso abbiamo visto svanire immediatamente quel soffio che eravamo riusciti a ispirare nei loro cuori. Non hanno più fiducia nell'avvenire. Ed è difficile convincere la gente che cerca di vivere decentemente, o anche semplicemente di sopravvivere, che ha una missione di testimonianza cristiana da svolgere nella propria terra, e dunque che non deve emigrare. Poi ci sforziamo di aprire il loro animo alla solidarietà. Purtroppo dobbiamo constatare che chi è più fortunato, chi in sostanza si può considerare ricco o comunque benestante, non sempre si comporta cristianamente.

Sta dicendo che manca una visione cristiana della vita?

Sì il problema è anche questo:  alla mancanza di una possibilità di vivere dignitosamente si aggiunge la mancanza di una visione cristiana della vita. Molti cristiani si sono lasciati prendere da quel clima di secolarizzazione che segna sempre più evidentemente la nostra società. L'aborto è divenuto una pratica molto in uso. Molte coppie vi fanno ricorso solo perché vedono un figlio come un impedimento per una vita sociale più agiata e più libera. È un limite per le nascite. E questo atteggiamento, a lungo andare, si ripercuote pesantemente anche sulla vita della Chiesa. Non è un caso se ci stiamo confrontando, e sarà anche peggio in futuro, con una grave crisi di vocazioni sacerdotali.

Sono tutte problematiche che saranno affrontate nel prossimo Sinodo il cui l'Instrumentum laboris lei ha ricevuto a Cipro dalle mani del Papa. Come ha vissuto quest'esperienza accanto a Benedetto XVI?

Innanzitutto ho sperimentato cosa significa quando si dice che il Papa è messaggero di pace. Per molti è stato chiaro infatti che il Pontefice è andato a Cipro come pellegrino e pacificatore, ed è stato ben accolto da tutti, malgrado le tensioni che esistono dal 1974 tra le due comunità, quella greca e quella turca, e anche tra cristiani e musulmani dell'Isola.

Cos'è rimasto più impresso, secondo lei, del messaggio complessivo che il Papa ha lasciato a Cipro?

Quel che mi ha colpito di più, forse per la mia particolare sensibilità verso questo problema, è stato proprio il continuo ripetersi di un messaggio di pace per tutti, di concordia e di perdono. Ha avuto una parola di conforto nella fede per i cattolici. Ha potuto rafforzare i legami con la Chiesa greco ortodossa, nonostante i tentativi per impedire questa visita da parte di qualcuno. Ho trovato di buon auspicio anche il seppur breve incontro del Papa con un capo religioso musulmano, il gran sufi. È stato un colloquio molto significativo benché improvvisato, cioè non programmato, e soprattutto voluto proprio dal sufi. Per le nostre Chiese, tutta la visita, è stata un invito a costruire l'unità tra noi prima ancora che con gli altri.



(©L'Osservatore Romano 21 luglio 2010)
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