Ma per Ettore Gotti Tedeschi il film è banale

È la fine
se gli affari diventano un fine


di Gaetano Vallini

"L'ho trovato piuttosto scontato e un po' banale. Il primo era geniale, questo no. Riferimenti a quello che è successo tra il primo e il secondo film, ovvero la grande crisi che si è prodotta attraverso il sostegno di una crescita economica a debito che non stava in piedi, non c'è da nessuna parte. Inoltre non c'è un personaggio positivo". Ettore Gotti Tedeschi, presidente del Consiglio di sovrintendenza dell'Istituto per le Opere di Religione, ha preso appunti dall'inizio alla fine, utilizzando la fioca luce del cellulare nella sala buia. Alla fine della proiezione il giudizio dell'economista è senza sconti:  "Di questo Wall Street. Il denaro non dorme mai - spiega - non mi è piaciuto niente. Il primo offriva messaggi anche di carattere morale. La stessa figura dello speculatore Gekko, pur nel suo cinismo, risultava negativamente meravigliosa mentre faceva le grandi operazioni. Quando all'assemblea degli azionisti spiegava il break up della compagnia, mi sembrava di essere seduto lì, era vero, credibile. Qui di credibile non c'è nulla. Un vero peccato".

Insomma, Oliver Stone ha perso un'occasione?

Ha perso la possibilità di spiegare l'origine e lo sviluppo della crisi economica che nasce in America e sconvolge il mondo intero. Non c'è l'evoluzione che promette all'inizio:  l'evoluzione della bolla, l'evoluzione dello speculatore. Sarebbe stato interessante se avesse fatto vedere la collusione tra le grandi banche che decidevano di sostenere i subprime in connessione con i governi, che spingevano per tenere su il pil. Ma questo non c'è.

Che cosa c'è, allora?

C'è solo la storia di due vendette contro la stessa persona simbolo:  il banchiere, il vero cattivo che ha creato la crisi collettiva, mentre Gekko tuttalpiù serviva a movimentare il mercato.

Ha riconosciuto qualcuno dei banchieri "cattivi" del film?

Certo non ho riconosciuto il grande banchiere dei subprime, il grande banchiere  illuminato  delle  major investment banks. Li ho cercati ma non trovati; mi sono sembrati anche loro dei grandi pescecani. Il vero banchiere ha un altro stile, si comporta in un altro modo. Nel film non c'è una sola figura che veramente risalti. Ma soprattutto non ho trovato un solo messaggio positivo.

Ma qualcosa l'avrà pur colpita in questo film?

Di sicuro il riferimento alla cultura evoluzionistica dei banchieri squali e delle bolle finanziarie. Un'evoluzione in peggio:  peggior banchiere, peggiore bolla; le due specie sono entrambe destinate a imbarbarirsi. Mi ha colpito anche una battuta:  "No profit:  che cosa è, una nuova malattia?" Ecco, credo che qualcuno veramente consideri il no profit una malattia da curare ed eliminare. In questa visione, solo il profit deve restare misura etica di valore.

Che cosa produce culturalmente un film così?

Molti a Wall Street pensano che lo speculatore e l'insider trading siano parte del meccanismo necessario del mercato. Molti sono convinti che è morale ciò che crea ricchezza, prescindendo da come la crea e perché, ma non spiegano come la ricchezza falsamente creata possa distruggersi e non sostenersi.

A proposito di distruzione:  nel film, durante la drammatica riunione alla Federal Reserve in cui vengono decisi gli aiuti al sistema bancario, il banchiere più anziano spazza i dubbi di chi reputa troppo grande lo sforzo da fare dicendo:  "Vuoi assistere alla fine del mondo?". Quanto ci siamo andati vicini?

Non lo sa nessuno. O meglio, forse non lo sanno neppure loro. Noi sappiamo soltanto che dall'inizio della crisi il sistema bancario ha perso un valore che oscilla intorno ai 50-60 trilioni di dollari. È una stima. Su quella cifra le banche hanno fatto ricapitalizzazione soltanto per un cinque per cento e hanno messo a bilancio fino a oggi soltanto un dieci per cento di queste potenziali perdite. Ciò vuol dire che se le portano dietro, perché il sistema bancario non può saltare. Se fosse saltato sarebbe stata davvero la fine del mondo.

C'è un passaggio tra il primo e il secondo film riguardo alle responsabilità.

Il film assolve, rendendogli persino merito, il finanziere-pescecane alla Gekko - che non si pente affatto - e condanna invece le banche che hanno avuto più responsabilità di lui, per aver fatto le stesse cose, solo più istituzionalmente. Ma le condanna solo perché invece di creare ricchezza hanno distrutto ricchezza, prescindendo completamente da ciò che hanno fatto. In tal senso mi era piaciuto di più il primo Wall Street:  lì si condannava il finanziere per gli atti intrinsecamente disonesti che aveva compiuto, con responsabilità personale, anche se creavano valore.

In sostanza il fine giustifica i mezzi?

Esatto, ma attenzione, il fine deve giustificare i mezzi, altrimenti chi li giustifica? Il problema è che un fine buono non può giustificare un mezzo cattivo. Qui sono negativi il fine e i mezzi.

A suo avviso il film rispecchia la cosiddetta cultura protestante americana?

La conclusione del film rispecchia il termine con cui si è usi definire (appropriatamente o no) una parte di questa "cultura" che ritiene che la natura corrotta dell'uomo lo renda incapace di fare del bene esercitando virtù, non lo biasima se fa atti illeciti producendo valore (gli chiede però di pentirsi fortemente); lo biasima solo se produce perdite (la natura è si corrotta, ma può fare soldi o perderli) e invece sembra esaltarlo se con il risultato dei "malaffari" produce altra ricchezza. Questa produzione di altra ricchezza sembra equivalere al pentimento, alla catarsi. Ma si conta in dollari.

Dopo aver visto un film così, lo spettatore cosa dovrebbe imparare?

Che negli affari non si fanno atti di fede. Gli affari sono semplicemente un mezzo, uno strumento che può essere a beneficio dell'uomo, se si da loro un senso. Se gli affari diventano un fine, è la fine.



(©L'Osservatore Romano 13 novembre 2010)
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