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CONGREGAZIONE PER I VESCOVI

DIRETTORIO PER LA VISITA «AD LIMINA»

PREMESSE

 

La visita «ad limina Apostolorum» da parte di tutti i Vescovi che presiedono nella carità e nel servizio alle Chiese particolari in ogni parte del mondo, in comunione con la Sede Apostolica, ha un preciso significato e cioè: il rafforzamento della loro responsabilità di successori degli Apostoli e della comunione gerarchica con il Successore di Pietro e il riferimento, nella visita a Roma, alle tombe dei Ss. Pietro e Paolo, pastori e colonne della Chiesa Romana.

Essa rappresenta un momento centrale dell’esercizio del ministero pastorale del Santo Padre: in tale visita, infatti, il Pastore Supremo riceve i Pastori delle Chiese particolari e tratta con essi questioni con­cernenti la loro missione ecclesiale.

L’analisi dell’origine e dello sviluppo storico-giuridico della visita e la riflessione sul suo significato teologico-spirituale-pastorale permettono di approfondire il senso e di illuminare i fondamenti, le ragioni e le finalità di una istituzione così veneranda per la sua antichità e così carica di valore ecclesiale.

Per questo si annettono tre note, una teologica, una spirituale-pastorale ed una terza storico-giuridica.

Qui ci limiteremo a segnalare alcuni punti per una migliore comprensione del Direttorio.

I. La visita «ad limina» non può essere intesa come un semplice atto giuridico-amministrativo, consistente nell’assolvimento di un obbligo rituale, protocollare e giuridico.

Nella legislazione canonica stessa che la prescrive (C.I.C., can. 400) sono chiaramente indicati i due scopi essenziali di tale visita:

a) venerare i sepolcri dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo;

b) incontrarsi con il Successore di Pietro, il Vescovo di Roma.

II. La venerazione ed il pellegrinaggio ai «trofei» degli Apostoli Pietro e Paolo sono praticati fin dalla remota antichità cristiana, e conservano il loro profondo significato spirituale e di comunione ecclesiale; per questo sono stati istituzionalizzati proprio per i Vescovi.

Esprimono, infatti, l’unità della Chiesa, fondata dal Signore sugli Apostoli ed edificata sul beato Pietro loro capo, con Gesù Cristo stesso come pietra maestra angolare e il suo «evangelo» di salvezza per tutti gli uomini.

III. L’incontro con il Successore di Pietro, primo custode del deposito di verità trasmesso dagli Apostoli, tende a rinsaldare l’unità nella stessa fede, speranza e carità, e a far conoscere ed apprezzare l’immenso patrimonio di valori spirituali e morali che tutta la Chiesa, in comunione col Vescovo di Roma, ha diffuso in tutto il mondo. Le modalità e la frequenza dell’incontro col Papa possono variare e sono variate nei secoli; ma il significato essenziale rimane sempre lo stesso.

IV. In un mondo che tende ad una più effettiva unificazione e in una Chiesa che sa di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano» (LG 1), appare indispensabile promuovere e favorire una continua comunicazione tra le Chiese particolari e la Sede Apostolica con un interscambio di informazioni e una condivisione di sollecitudine pastorale circa problemi, esperienze, sofferenze, orientamenti e progetti di lavoro e di vita.

Il movimento di questa comunicazione ecclesiale è duplice. Da una parte c’è la convergenza verso il centro e fondamento visibile dell’unità che, nell’impegno e nella responsabilità personale di ogni Vescovo e con lo spirito della collegialità (affectus collegialis), si esprime in gruppi e conferenze che sono vincoli di unità e strumenti di servizio. Dall’altra c’è il munus «concesso singolarmente a Pietro» (LG 20) a servizio della comunione ecclesiale e dell’espansione missionaria, affinché nulla sia lasciato di intentato per promuovere e custodire l’unità della fede e la disciplina comune alla Chiesa intera, e si ravvivi la coscienza che appartiene al corpo dei Pastori la cura d’annunziare ovunque il Vangelo.

V. È evidente che il Vescovo di Roma, per adempiere questo suo munus, ha bisogno di informazioni autentiche e autorevoli sulle situazioni concrete delle varie Chiese, sui loro problemi, sulle iniziative che vi si prendono, sulle difficoltà che vi si incontrano e sui risultati che vi si raggiungono. E questo può avvenire, oggi più che in altri tempi, con le comunicazioni epistolari, con i mezzi di informazione pubblica, con le relazioni dei Rappresentanti della Sede Apostolica nei vari Paesi, e anche mediante i contatti che il Santo Padre può prendere con le realtà locali nei suoi viaggi apostolici: ma resta insostituibile il rapporto diretto che i singoli Vescovi o le Conferenze che li associano nei vari Paesi possono avere periodicamente col Sommo Pontefice a Roma, durante la loro visita-pellegrinaggio, dopo un’adeguata preparazione remota e prossima dell’incontro.

La visita di Paolo a Pietro e la sua permanenza di quindici giorni presso di lui (cf. Gal 1,18) fu un incontro di reciproco aiuto nel rispettivo ministero. In modo analogo la visita dei Vescovi, vicari e legati di Cristo nelle Chiese particolari loro affidate, al Successore di Pietro, «vicario di Cristo e capo visibile di tutta la Chiesa» (LG 18), porta un arricchimento di esperienze anche al ministero pettino e al suo servizio di illuminare i gravi problemi della Chiesa e del mondo, percepiti nelle loro differenziate connotazioni a seconda dei luoghi, dei tempi e delle culture.

VI. Di questa preparazione fa parte la relazione quinquennale prescritta dal Codice (can. 399) con riferimento alla visita «ad limina» (can. 400).

Tale relazione è un mezzo per facilitare il rapporto di comunione tra le Chiese particolari e il Romano Pontefice. Deve essere inviata tempestivamente affinché il Santo Padre abbia un proficuo contatto personale e pastorale con ogni Vescovo, e affinché i Dicasteri competenti, debitamente informati, possano avere un dialogo costruttivo con i pastori diocesani.

VII. Di qui la necessità, sentita dal Santo Padre, dai Vescovi e dai Dicasteri della Curia Romana, di regolare lo svolgimento della visita «ad limina» degli Ordinari di rito latino, e prima ancora la sua preparazione da parte sia dei Vescovi sia dei Dicasteri, con una normativa adeguata espressa dal presente Direttorio.

Per i Vescovi di rito orientale si attende la promulgazione del Codice di Diritto Canonico Orientale.

DIRETTORIO

1. Preparazione remota

I momenti principali di questa preparazione remota sono: la preparazione spirituale, l’elaborazione e l’invio della relazione quinquennale, i contatti con il locale Rappresentante Pontificio.

1.1 Un tempo di riflessione e di preghiera

La migliore preparazione è spirituale. La visita «ad limina» è un atto che ciascun Vescovo compie per il bene della propria diocesi e di tutta la Chiesa, per favorire l’unità, la carità, la solidarietà nella fede e nell’apostolato. Ogni Ordinario cercherà quindi di cogliere nella propria esperienza gli elementi salienti della situazione, farne oggetto di attenta disamina e sintetizzare le conclusioni che ritiene di trarne al cospetto di Dio per il bene della Chiesa.

In questo momento sentirà senza dubbio il bisogno di coinvolgere nella riflessione e nella preghiera l’intera comunità diocesana, in particolare i monasteri di clausura od altri centri di orazione e di penitenza, per l’atto eminentemente ecclesiale che si accinge a compiere.

1.2 La relazione quinquennale

1.2.1 In previsione della visita «ad limina» l’Ordinario vorrà porre ogni cura nella stesura della relazione quinquennale sullo stato della circoscrizione ecclesiastica che gli è affidata: relazione prescritta dal Codice per tutti gli Ordinari in sede per almeno due anni interi del quinquennio stabilito.[1]

1.2.2 Per comodità di lavoro e per una certa uniformità redazionale, utile ad ogni successivo esame e dialogo, l’Ordinario potrà avvalersi dell’apposito schema preparato dalla Congregazione per i Vescovi.[2]

1.2.3 Pregi della relazione saranno la conciliazione della brevità con la chiarezza, la precisione, la concretezza, l’obiettività nella descrizione reale della Chiesa particolare cui l’Ordinario è preposto, dei suoi problemi e dei rapporti con le altre comunità religiose non cattoliche e non cristiane e con la società civile e le pubbliche autorità.

1.2.4 Nella stesura della relazione l’Ordinario potrà chiedere la collaborazione di persone competenti e di sua fiducia, salva sempre la riservatezza che deve circondare tali documenti come tutta la corrispondenza con la Sede Apostolica circa i problemi fondamentali della Chiesa.

1.2.5 La relazione ordinariamente dovrà essere inviata alla Congregazione per i Vescovi circa sei mesi (e in ogni caso non meno di tre) prima della visita «ad limina», perché possa essere studiata e riassunta in una esposizione sintetica da presentare al Santo Padre, per consentirGli di prendere conoscenza dello stato e dei problemi di ciascuna Chiesa, prima della visita.[3]

1.2.6 Sarebbe opportuno che l’Ordinario inviasse tre copie della relazione, oppure estratti completi secondo la specifica competenza dei vari Dicasteri, per eventuali problemi o casi da trattare con essi.

1.3 Collaborazione del Rappresentante Pontificio

1.3.1 In ogni Paese sarà cura del Rappresentante Pontificio di ri­cordare ai singoli Vescovi, con alcuni mesi di anticipo sull’inizio dell’anno, il tempo stabilito per la visita.

1.3.2 Nello stesso tempo inviterà il Presidente della Conferenza episcopale a stabilire, d’intesa con i Vescovi, uno o più periodi dell’anno nei quali i Vescovi, singolarmente o, se le circostanze lo suggeriscono, a gruppi, intendono recarsi a Roma per la visita, fermo restando che detto calendario dovrà essere sottoposto all’approvazione del Sommo Pontefice.[4]

1.3.3 Il Rappresentante Pontificio solleciterà pure l’invio della Relazione quinquennale da parte degli Ordinari che vi sono tenuti.

2. Preparazione prossima

La preparazione prossima riguarda gli accordi previi con l’ufficio competente della Congregazione per i Vescovi per stabilire le date e i particolari della visita.

2.1 Accordi previi con la Congregazione per i Vescovi

2.1.1 La data della visita «ad limina» da parte dei Vescovi di ogni singolo Paese o regione ecclesiastica verrà concordata tra la Segreteria della Conferenza episcopale e la Prefettura della Casa Pontificia, la quale ne darà comunicazione allo speciale Ufficio di Coordinamento delle visite, esistente in seno alla Congregazione per i Vescovi.

2.1.2 Normalmente verrà fissata una data comune per tutti i Vescovi di una medesima Provincia Ecclesiastica o Regione Pastorale, sicché tutti i Vescovi che vi appartengono possano trovarsi a Roma nello stesso periodo di tempo, e che il carattere della visita è eminentemente personale.

2.1.3 La Segreteria della Conferenza fornirà allo stesso Ufficio di Coordinamento la descrizione del gruppo che sta per compiere la visita: numero e identità dei componenti, situazione socio-pastorale dalla quale provengono, problemi che riguardano le loro zone, soluzioni che propongono, ecc. A tale scopo sarà opportunpppo un documentamente all’Ufficio di Coordinamento, contenente le informazioni, le proposte e le eventuali richieste da far presenti alla Sede Apostolica.

2.1.4 La stessa Segreteria della Conferenza episcopale concorderà col detto Ufficio di Coordinamento gli incontri che i Vescovi, singolarmente o in gruppo, avranno con i Dicasteri romani per scopi e su argomenti da specificare, in modo che se ne possa preparare la trattazione. I singoli Vescovi sono comunque liberi di chiedere direttamente gli incontri e di esporne gli scopi.

2.1.5 Per tutte le trattative riguardanti la visita, la Conferenza episcopale (nazionale o regionale) vorrà designare un Responsabile residente in Roma, incaricato di seguire localmente la preparazione e lo svolgimento della visita e di mantenere perciò i contatti tra i Vescovi e l’Ufficio di Coordinamento. Della eventuale designazione sarà data comunicazione al medesimo Ufficio di Coordinamento.

2.2 Compiti dell’Ufficio di Coordinamento

2.2.1 A servizio dei Vescovi l’Ufficio di Coordinamento tratta con la Segreteria della Conferenza o con il Responsabile tutte le questioni riguardanti la preparazione e lo svolgimento della visita «ad limina» ed in particolare il calendario della visita, il programma e l’orario delle celebrazioni e degli incontri romani e i rapporti con i vari Dicasteri.

2.2.2 Allo scopo di favorire il lavoro dei singoli Dicasteri interessati all’incontro con i Vescovi durante la visita «ad limina», l’Ufficio di Coordinamento:

— comunica a ciascun dicastero le date previste delle visite del semestre;

— li informa tempestivamente circa i dati ricavati dai contatti con le Segreterie delle Conferenze o con i Responsabili designati;

— trasmette ai Dicasteri, secondo la competenza, stralci delle relazioni quinquennali sui punti che li interessano;

— tratta con i Dicasteri per trasmettere le richieste e fissare le date di incontro da parte dei vari Vescovi, o per sapere se i Dicasteri stessi desiderino incontrare, singolarmente o in gruppo, i Vescovi in visita;

— in tal caso informa la Segreteria della Conferenza o il Responsabile designato o, qualora sia il caso, direttamente il Vescovo interessato; mentre fornisce ai Dicasteri ogni informazione possibile sulle situazioni, sulle persone e sui gruppi.

2.2.3 Ferma restando la competenza della Prefettura della Casa Pontificia nello stabilire e nel comunicare le date degli incontri dei Vescovi o di loro gruppi con il Santo Padre, l’Ufficio di Coordinamento:

— trasmette annualmente alla Prefettura l’elenco completo dei Vescovi tenuti alla visita «ad limina», comunicando altresì le date orientative da essi preferite, di cui sia a conoscenza;

— riceve dalla Prefettura, con congruo anticipo, il calendario di massima fissato per le Udienze ai singoli Vescovi, o a loro gruppi, e ne trasmette notizia ai Dicasteri della Curia Romana.

2.2.4 Per i Vescovi che fanno capo alle Congregazioni per le Chiese Orientali e per l’Evangelizzazione dei Popoli l’Ufficio di Coordinamento dà la sua collaborazione agli uffici delle visite «ad limina» di tali Dicasteri.

3. Svolgimento della visita «ad limina»

I momenti fondamentali della visita «ad limina» sono:

— il pellegrinaggio e l’omaggio alle tombe dei Principi degli Apostoli;
— l’incontro con il Santo Padre;
— i contatti con i Dicasteri della Curia Romana.

Ad essi si può aggiungere qualche contatto con la realtà pastorale della Chiesa Romana.

3.1 II momento liturgico

3.1.1 II pellegrinaggio alle tombe dei Principi degli Apostoli, un momento essenziale della visita, si concreterà in una celebrazione liturgica che cementi la comunione ecclesiale ed edifichi coloro che vi partecipano, siano Vescovi o fedeli, od altri che per qualsiasi ragione vi assistano, come spesso avviene in Roma.

3.1.2 A tale scopo l’Ufficio di Coordinamento, d’intesa con la Segreteria della Conferenza episcopale o col Responsabile designato, terrà i contatti con le Papali Basiliche di San Pietro e di San Paolo per fissare i tempi e i luoghi per le celebrazioni della Santa Messa ed eventualmente della Liturgia delle Ore o della Parola e preordinare tutto quanto riguarda l’ambiente e le persone perché l’atto liturgico si svolga in modo decoroso, degno e significativo in relazione alle finalità della visita.

3.1.3 II rituale proposto per tale celebrazione è annesso al pre­sente Direttorio.

3.1.4 Qualora i Vescovi, singolarmente o in gruppo, vogliano effettuare qualche celebrazione anche nelle Basiliche Papali di Santa Maria Maggiore e di San Giovanni in Laterano, l’Ufficio di Coordinamento potrà occuparsi per fissare gli orari e perché sia predisposto l’occorrente.

3.1.5 Sarebbe bene che a tali celebrazioni, come a qualche incontro romano, partecipassero dei pellegrini provenienti dalle diocesi o regioni dei Vescovi, o altri connazionali residenti a Roma o in Italia, per unirsi ai loro Pastori nella testimonianza di fede e di comunione ecclesiale intorno alle tombe dei Principi degli Apostoli e alla Cattedra di Pietro.

3.2 L‘incontro con il Santo Padre

3.2.1 Ogni Vescovo incontrerà il Successore di Pietro per un colloquio personale, nel giorno e nell’ora fissati dalla Prefettura della Casa Pontificia per l’Udienza.

3.2.2 Qualora sia possibile una celebrazione comunitaria o un incontro collettivo con il Santo Padre, il luogo ed il tempo esatto saranno comunicati agli interessati o al Responsabile designato.

3.2.3 L’abito da indossare durante gli incontri col Santo Padre è la veste filettata con fascia paonazza.

3.3 I contatti con i Dicasteri

3.3.1  La visita dei Vescovi ai Dicasteri della Curia Romana riveste un particolare significato ed assume una grande importanza in forza dell’intimo collegamento esistente tra il Papa e gli organismi curiali, che sono gli strumenti ordinari del «ministero petrino».

È quindi auspicabile che i singoli Vescovi, o loro gruppi o commissioni, durante la visita «ad limina» si rechino presso i vari Dicasteri per esporre problemi e quesiti, chiedere informazioni, fornire delucidazioni, rispondere ad eventuali richieste. È comunque opportuno che i Presidenti delle singole commissioni facciano visita ai corrispondenti Dicasteri. Tutto ciò in spirito di comunione nella verità e nella carità.

3.3.2 Perché i contatti siano fruttuosi è necessario che i Dicasteri siano preventivamente informati sulle relazioni quinquennali, per la parte di loro competenza, che l’Ufficio di Coordinamento metterà tem­pestivamente a loro disposizione, come pure sulle questioni particolari che i Vescovi vogliano trattare personalmente.

3.3.3 In ogni caso è opportuno fissare il giorno e l’ora e le modalità delle visite mediante l’Ufficio di Coordinamento, che procurerà di provvedere nel miglior modo possibile alle richieste dei Vescovi.

3.3.4 Presso il medesimo Ufficio i Vescovi potranno avere le delucidazioni che loro occorressero circa le competenze dei Dicasteri e su tutto quanto concerne gli uffici e le persone a cui rivolgersi, la prassi da seguire, i recapiti a cui indirizzarsi per ogni occorrenza riguardante la visita.

3.3.5 In caso di visita collegiale, uno dei Vescovi partecipanti presenterà il gruppo, dando un quadro sintetico della situazione pastorale nella regione rappresentata e tratterà le questioni di competenza di quel dicastero. Se tra i partecipanti vi è il Vescovo presidente della Conferenza episcopale o di una commissione eventualmente riunita e in visita al Dicastero, sembra opportuno che sia lui a presentare il gruppo e a riferire.

3.3.6 Le delucidazioni e risposte dei Dirigenti dei Dicasteri, pur non avendo valore ufficiale finché non siano scritte e protocollate nel modo consueto della Curia Romana, possono però servire come informazione, consiglio, orientamento e guida nel comportamento generale e nella soluzione dei particolari problemi nei quali sia opportuno applicare le norme pratiche convalidate dall’esperienza e dalla tradizione canonica.

3.4 Possibilità di contatti con la realtà ecclesiale e pastorale romana

3.4.1 In funzione della comunione tra le Chiese particolari e la Chiesa Romana i Vescovi che lo desiderino possono avere uno o più incontri con qualche parrocchia romana o con qualche altra comunità particolarmente significativa, o con dei centri di azione religiosa, culturale, assistenziale, ecc., per una reciproca conoscenza e uno scambio di esperienze pastorali intorno a questioni di interesse comune e a situazioni analoghe.

3.4.2 Dato il caso, sarà opportuno tener conto della propria chiesa nazionale, esistente in città, delle eventuali parrocchie personali e della chiesa cardinalizia, soprattutto se fossero centri di attività pastorali.

3.4.3 Se da tali incontri nascesse qualche forma di collaborazione sul piano pastorale e caritativo, sarebbe un frutto concreto della comunione ecclesiale rinsaldata dalla visita «ad limina».

3.4.4 Anche per l’attuazione di tali incontri ed in particolare per i necessari contatti con i competenti Centri Pastorali del Vicariato di Roma, per la scelta dei luoghi e delle persone, per la fissazione dei giorni adatti, ci si potrà servire dell’Ufficio di Coordinamento.

Roma, dalla Congregazione per i Vescovi, 29 giugno 1988, nella solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo.

+ Bernardin Card. Gantin, Prefetto

+ Giovanni Battista Re, Segretario

 

 

PREMESSA ALLE NOTE

Teologica - Spirituale-pastorale - Storico-giuridica

Fin dalle origini, l’istituto della visita «ad limina» ha racchiuso per i Pastori che la compiono e per le Chiese Particolari loro affidate un profondo significato teologico, spirituale-pastorale e giuridico.

Perché tale ricchezza di contenuti sia meglio compresa e se ne possa godere sempre più la fecondità per la vita delle singole comunità ecclesiali, a titolo di semplice contributo e intendendo impegnare l’esclusiva responsabilità degli autori, si riportano, qui di seguito, tre testi.

La nota teologica di S. E. il Card. Joseph Ratzinger è stata preparata per introdurre il colloquio con alcuni Vescovi brasiliani, rappresentanti di quell’episcopato, nell’incontro con il Santo Padre e la Curia Romana a conclusione della visita «ad limina» (marzo 1986): viene qui inserita perché presenta aspetti essenziali della visita stessa.

Le riflessioni di S. E. Mons. Lucas Moreira Neves offrono degli spunti sulla dimensione spirituale-pastorale della «visitatio»; Mons. Vicente Càrcel Orti, infine, ne delinea lo sviluppo storico-giuridico.

NOTA TEOLOGICA

La visita «ad limina» non èuna procedura di ordine puramente amministrativo. Essa implica una ecclesiologia e la traduce in atti concreti; essa è — in altre parole — una ecclesiologia praticata.

Il Vaticano II con la sua profonda concatenazione delle quattro grandi costituzioni sulla Liturgia, la Chiesa, la Parola di Dio e la Chiesa nel mondo, ci ha insegnato di nuovo il dinamismo della Chiesa sempre protesa verso la salvezza del mondo, guidata dalla forza motrice del Vangelo, e ci ha insegnato che il centro della vita e della costituzione della Chiesa è nell’adorazione, nella liturgia. La Chiesa non celebra solo la comunione; la Chiesa è comunione. La struttura essenziale della Chiesa risulta dal suo centro liturgico, il quale è il centro del suo essere Chiesa. Così penso che una breve analisi di alcuni elementi costitutivi della preghiera eucaristica possa aiutarci a capire meglio il contesto teologico e le radici profonde di un atto ecclesiale così importante qual è la visita «ad limina».

1. La perichoresi tra Chiesa universale e chiesa locale
e il suo centro Petrino nella liturgia eucaristica

Il soggetto concreto della celebrazione eucaristica è la comunità locale, la quale, ricevendo la presenza del Signore, la presenza di Cristo, riceve l’intero dono della salvezza e diventa così realizzazione della Chiesa. Dicendo questo dobbiamo tener presenti le implicazioni essenziali della Cristologia. Cristo è il nostro mediatore presso il Padre, ci guida al Padre unendoci nell’unione dello Spirito Santo. La conclusione solenne del Canone indica questo carattere trinitario della liturgia, esprimendo le dimensioni della Cristologia con le parole «per - cum - in», guidando al «Tu» del Padre («Tibi») ed includendo tutto «in unitate Spiritus Sancti». La ricerca storica ci insegna che questa formula «in unitate Spiritus Sancti» è equivalente ad un’altra, tradotta per esempio nel canone di Ippolito e cioè: «in sancta Ecclesia tua»: la Chiesa è l’unità creata dallo Spirito Santo. La Cristologia implica la fede trinitaria; il dinamismo e il realismo della fede trinitaria implicano la cattolicità di ogni celebrazione eucaristica. La presenza del Signore è la presenza dei suoi, l’unione della comunità locale con tutti i membri della Chiesa di Dio. Chiesa particolare e Chiesa universale si compenetrano in una perichoresi indissolubile.

Questa perichoresi tra Chiesa particolare e universale è uno dei dati fondamentali di una ecclesiologia biblica, una conseguenza logica della connessione tra cristologia ed ecclesiologia. La liturgia ci indica anche le diverse dimensioni di questa perichoresi. L’Eucaristia viene celebrata alla presenza degli angeli di Dio, ci dice il prefazio. Nella liturgia siamo collegati con i santi e con le anime ancora sofferenti nel purgatorio — fatto molto importante nell’attuale discussione relativa al problema dell’inculturazione. La questione degli antenati è molto importante in Africa, ma non solo in Africa e ci potrebbe aiutare a riscoprire l’estensione della Chiesa oltre i limiti della morte — una universalità non limitata dal muro della morte. E finalmente si celebra l’Eucaristia «una cum Papa nostro et cum antistite nostro ...». La ricerca storica ci ha mostrato che queste formule si trovano nella liturgia Romana almeno dal terzo secolo; tale espressione della presenza della Chiesa universale nella Chiesa particolare appartiene in realtà all’essenza della coscienza cristiana.

Già siamo arrivati al punto, nel quale si delinea il significato teologico delle visite «ad limina». I singoli sacerdoti celebrano l’Eucaristia in unione con il loro vescovo, il quale è il loro collegamento con la catena della tradizione cattolica e questa catena è — secondo il personalismo radicale del cristianesimo — una catena personalizzata e sacramentale: la successione apostolica. Con il vescovo entra nell’Eucaristia anche la dimensione diacronica, la fede di ogni tempo. Ma i vescovi non sono una massa informe, uno accanto all’altro, come insinua una idea oggi abbastanza diffusa circa una cosiddetta conciliarità della Chiesa. Sulle orme del Concilio di Nicea la Chiesa Bizantina aveva formulato l’idea della Pentarchia, cioè di cinque punti centrali nei quali si concretizza l’unità e l’universalità della Chiesa. Il nucleo teologico di questo modello fu l’idea petrina, qui interpretata nella tradizione delle tre sedi Petrine (Gerusalemme, Antiochia, Roma), della sede di San Marco (Alessandria) inserita nella tradizione Petrina tramite il collegamento tra San Pietro e il suo interprete nel mondo greco, e della sede del fratello di San Pietro, Andrea (Costantinopoli). È evidente che il fondamento storico di questa costruzione è molto debole per quanto concerne Alessandria e Costantinopoli. Importante è che con questa struttura anche l’Oriente ha mantenuto l’idea del fondamento Petrino dell’unità e la concretezza dell’unità e dell’universalità della Chiesa nella successione di San Pietro. L’unità non risulta solo da una vaga sinfonia di una auspicata conciliarità delle diverse chiese particolari tra di loro; l’unità ha un nome: Pietro, e una sede: Roma. Perciò celebriamo la Messa non solo in unità con il vescovo locale, ma «una cum Papa nostro». Questa unione con il vescovo di Roma unisce anche i vescovi tra loro, è condizione fondamentale della loro collegialità.

2. La visita « ad limina » come conseguenza concreta di questa struttura

Come tutte le altre dimensioni dell’Eucaristia, questo «una cum» esige una prassi. Non può essere pura formula. Un primo elemento di questa prassi implicata nella parola è un ordine comune, il diritto della Chiesa, la cui funzione è di custodire la permanenza dei dati essenziali dell’unità: la fede e i sacramenti, e di regolare il buon andamento della comunione ecclesiale giorno per giorno. Un secondo elemento di questo «una cum» è quindi la collaborazione concreta con il Papa nella vita quotidiana della Chiesa e l’obbedienza al Papa come garante dell’unità e interprete autentico delle sue esigenze. Il personalismo cristiano esige finalmente che questo «una cum» non si esaurisca in strutture burocratiche e amministrative, ma diventi anche un incontro personale presso la sede di San Pietro. La visita «ad limina» è così uno strumento ed una espressione concreta della cattolicità della Chiesa, dell’unità del collegio dei vescovi incorporata nella persona del successore di Pietro e significata dal luogo del suo martirio; essa è realizzazione visibile di quella perichoresi di Chiesa universale e Chiese particolari, di cui abbiamo parlato sopra. La traccia di una prima visita «ad limina» la troviamo nella lettera di San Paolo ai Galati, dove parla della sua conversione e del suo cammino verso l’apostolato per i pagani, e — benché fosse apostolo chiamato e istruito immediatamente dal Signore risorto — dice: «In seguito ... andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni...» (1, 18). Lo stesso gesto si ripete 14 anni dopo ancora una volta: «Dopo 14 anni andai di nuovo a Gerusalemme ... Esposi loro il Vangelo che io predico per i pagani... per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano» (2, 2). In un certo senso si potrebbe dire che nelle visite «ad limina» viene continuato anche un elemento importante della religiosità del Vecchio Testamento espresso in Esodo 34, 24: «... tre volte all’anno salirai per comparire alla presenza del Signore tuo Dio ...». Questo precetto era dato per conservare e concretizzare l’unità di Israele; in questo pellegrinaggio permanente si continuava anche l’esperienza degli anni di migrazione nel deserto: Il popolo d’Israele rimaneva così un popolo pellegrinante verso l’unità, verso il suo Dio. Il pellegrinaggio, l’essere in cammino verso l’unità e l’espressione locale e personale dell’unità conservano tutto il loro valore anche nella Chiesa del Nuovo Testamento.

3. Le dimensioni ecclesiologiche della visita «ad limina»

La perichoresi tra Chiesa universale e Chiese particolari, realizzata e visibilmente espressa nelle visite «ad limina», implica anche tre dimensioni concrete dell’esercizio del ministero episcopale, alle quali vorrei accennare brevemente alla fine delle mie riflessioni.

a)  Questa perichoresi implica la perichoresi tra collegialità dei vescovi e primato del successore di San Pietro. La visita esige un incontro reciproco: il Papa riceve il vescovo, si riferisce ai membri del collegio episcopale; lui, il garante dell’unità, dell’universalità, della cattolicità della Chiesa, ha bisogno di incontrarsi con i vescovi fratelli, con la cattolicità concreta della Chiesa: Cattolicità giuridica, teologica e cattolicità concreta, empirica devono incontrarsi, penetrarsi, per far crescere sempre più la vera cattolicità della Chiesa conforme ai criteri teologici e riempirla della realtà molteplice della fede dei popoli.

Il Papa si riferisce ai Vescovi, i Vescovi si riferiscono al Papa «per non trovarsi nel rischio di correre o di aver corso invano» (Gal 2, 2). Essi sono i membri del collegio episcopale, che è succeduto al collegio degli apostoli; nella visita a Roma esprimono la loro consapevolezza che la collegialità esige il centro Petrino e diventa una idea irreale senza questo centro.

b) L’incontro tra collegialità e primato implica conseguentemente un incontro tra esperienza attuale e confessione permanente della fede, tra l’aspetto sincronico e quello diacronico della fede, tra i principi e la realtà vissuta. Questo incontro può essere difficile; tanto più è necessario. La fede per essere concreta ha bisogno delle esperienze sempre nuove della storia umana, ma queste esperienze sempre parziali diventano ricchezza della cattolicità solo se vengono purificate e illuminate dalla luce splendente e bruciante della fede comune. Nel periodo tra le due guerre mondiali si diceva spesso che le grandi esperienze umane hanno bisogno di essere battezzate; ed è vera questa affermazione. Ma si dimenticava qualche volta che il battesimo non è una piccola aspersione con un pò d’acqua, ma è morte e risurrezione dalla morte a una vita nuova. La fede non nasce dall’esperienza — nasce dalla parola di Dio —, però s’incarna e si verifica nell’esperienza. La penetrazione di cattolicità teologica e cattolicità giuridica — scopo delle visite «ad limina» — esige la penetrazione sempre nuova tra esperienza e dottrina della fede: l’esperienza deve riferirsi alla fede, purificarsi nella fede; la fede deve essere fecondata dall’esperienza.

c)  La visita «ad limina» implica finalmente un incontro tra il principio personale e il principio comunitario nel governo della Chiesa. Il Signore ha affidato il governo della sua Chiesa a delle persone e non a delle strutture. Le strutture non sono responsabili, sono responsabili solo le persone, nella cui coscienza si riflette la voce di Dio. Il fatto che l’unità della Chiesa finalmente non si esprime in una vaga conciliarità, ma in una persona, questo fatto è solo l’ultimo perno del personalismo della costituzione della Chiesa. D’altra parte le persone isolate sono sempre in pericolo di cadere nell’arbitrarietà; il personalismo diventa unilaterale senza il complemento della dimensione comunitaria. La responsabilità personale del Papa e dei singoli Vescovi diocesani sono connesse nella collegialità di tutti i successori degli Apostoli e nella comunione delle Chiese particolari. Oltre il legame fondamentale della fede e dei sacramenti, tramite il quale si realizza il «noi» della Chiesa, la tradizione conosce soprattutto la figura del «consiglio», al quale appartengono elementi come riflessione comune, dialogo, discussione, votazione, e nel quale troviamo una sintesi tra responsabilità personale e struttura comunitaria. Nella visita «ad limina» si riflette anche questa perichoresi tra personalismo e dimensione comunitaria (collegiale). Si incontrano due persone, il Vescovo di una Chiesa particolare e il Vescovo di Roma, successore di Pietro, ciascuno con la sua responsabilità inderogabile, ma s’incontrano non come persone isolate; ciascuno rappresenta a suo modo il «noi» della Chiesa, il «noi» dei fedeli, il «noi» dei vescovi, e deve rappresentare questo «noi». Nella loro comunione comunicano i loro fedeli, comunicano Chiesa universale e Chiese particolari.

Così, alla fine, ritorniamo al nostro punto di partenza. Tutto questo è indicato nell’«una cum» della preghiera eucaristica.

La visita «ad limina» trova la sua radice teologica e il suo conte­nuto concreto in queste parole.

Joseph Card. Ratzinger

II

NOTA SPIRITUALE-PASTORALE

È dovere di ciascun Vescovo, alla scadenza di ogni quinquennio, in ossequio ad una precisa norma canonica (can. 400) e nello spirito del «Directorium de pastorali ministerio Episcoporum» (N. 45 f), allon­tanarsi dalla sua diocesi e recarsi a Roma per compiere la «visitatio ad limina Apostolorum». Questo gesto si ricollega, almeno implicitamente, ad alcuni spunti dogmatici che del gesto medesimo evidenziano il contenuto teologico, dal quale derivano l’afflato spirituale e il significato profondamente pastorale della «visitatio».

Anche per non ridurre l’antico e venerabile atto della visita «ad limina» ad un adempimento meramente amministrativo o giuridico-disciplinare, giova mettere a fuoco, sia pur sommariamente, quegli elementi che gli conferiscono una dimensione teologica (e, più precisamente, ecclesiologica), spirituale e pastorale.

I. La collegialità episcopale

La visita «ad limina» richiama innanzitutto la dottrina — antica quasi come la Chiesa stessa, più volte e in vari modi consolidatasi lungo la storia, talvolta forse rimasta in ombra, ma oggi confermata con particolare vigore dal Concilio Vaticano II — circa la collegialità episcopale.

«Come San Pietro e gli altri Apostoli costituiscono, per volontà del Signore, un unico Collegio apostolico, in pari modo il Romano Pontefice, successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli, sono uniti fra di loro»: in questa dichiarazione della Lumen Gentium (n. 22), si trova il cardine dell’insegnamento della Chiesa circa la collegialità episcopale. Alcune fondamentali osservazioni del testo conciliare costituiscono gli elementi essenziali di questo «locus theologicus» e della dottrina che esso trasmette:

1) il Collegio dei Dodici, scelto e costituito da Gesù, ha, riguardo al Collegio dei Vescovi, un rapporto di causalità: non solo di causa esemplare, in quanto ne è prototipo e modello, ma, più profondamente, di causa efficiente. Dal Collegio apostolico scaturisce infatti il Collegio episcopale, sia in forza della successione apostolica, sia a causa della continuità per cui ambedue trasmettono la stessa fede, perpetuano la stessa missione salvifica, comunicano gli stessi sacramenti della grazia, edificano e mantengono nell’unità la stessa comunità di credenti;

2) ogni Vescovo è tale in risposta ad una vocazione personale, incomunicabile e irripetibile e quindi nel quadro di una sua singolare individualità; ma lo è in seno ad un Collegium e in collegamento ontologico con quanti lo compongono;

3) all’interno del Collegio episcopale si tramandano, nel corso dei secoli e lungo tutta la storia, sia il carisma e la missione comuni a tutti i successori degli Undici, sia il ministerium Petri di «confermare i fratelli» (Lc 22, 32), «a lui singolarmente concesso dal Signore» (LG 20);

4) grazie, appunto, al ministero petrino, la persona del successore di Cefa si trova profondamente inserita nel Collegio e in esso svolge una funzione che non si spiegherebbe ai margini o al di sopra di esso; tale funzione, espressamente voluta da Cristo Gesù, lo colloca, comunque, nella posizione di Capo del Collegio stesso e come principio visibile di comunione di tutti i membri del medesimo (LG 18, 22 e 23; cf. Nota praevia, 3°). Perciò «il Collegio o corpo episcopale non ha (...) autorità se non (...) insieme col Romano Pontefice, successore di Pietro, quale suo capo» (ibid.). La formula — «cum Petto et sub Petto» (AG 38) — definisce appropriatamente la natura del Collegio nella visione teologica del Concilio Vaticano II, in perfetta sintonia con il Magistero precedente: nel Collegio il Pontefice Romano è veramente il capo al quale le membra si riferiscono tramite una chiara comunione gerarchico-sacramentale (cf. Nota praevia, 2° e 3°).

Con l’atto di incontrare ufficialmente il Pontefice Romano, ciascun Vescovo implicitamente professa il suo rapporto più profondo — rapporto appunto di comunione gerarchica affettiva ed effettiva — con Colui che, detenendo nella Chiesa il primato corrispondente al Capo visibile, è anche principio visibile di unità fra i Vescovi (LG 23).

Per quest’ultimo motivo, nel Successore di Pietro e Capo del Collegio, il Vescovo che compie la visita «ad limina» incontra idealmente l’universalità dei suoi fratelli Vescovi di tutto il mondo; li incontra in quel vivente legame di comunione e punto di convergenza che è per tutti il fratello posto a capo dei fratelli.

Non si può, rigorosamente parlando, definire la visita «ad limina» come un atto di collegialità: tale espressione è riservata al Concilio, nonché all’azione concorde dei Vescovi, pur sparsi per il mondo, se tale azione è approvata o almeno accolta dal medesimo Capo (cf. LG 22). Si può dire, tuttavia, che la visitatio è un atto ispirato — derivato, se si vuole — dal principio di collegialità e specialmente dallo spirito di collegialità, grazie al quale i Membri del Collegio esprimono sempre il loro innato riferimento al Capo dello stesso.

II. Chiesa particolare e Chiesa universale

La visita «ad limina» richiama vigorosamente un altro dato teologico: quello dell’intimo rapporto fra Chiesa particolare e Chiesa universale.

Anche questo è un punto dottrinale di forte incidenza nell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, dottrina il cui contenuto giova ricordare sia pur succintamente.

1. Il Nuovo Testamento enuncia, con semplicità e naturalezza, due distinte dimensioni della Chiesa: da una parte, la sua unicità e universalità e, dall’altra, la sua realizzazione in una molteplicità di comunità sparse in tutto il mondo e segnate da tratti geografici, storici e culturali che conferiscono loro una propria identità.

«La mia Chiesa»: con questa espressione (cf. Mt 16, 18) Gesù si riferisce certamente ad una realtà unica, non circoscritta dai limiti di una città, provincia o nazione, ma pronta a diffondersi nell’universo intero. In tale dimensione universalistica la vede l’autore degli Atti degli Apostoli quando scrive che «la Chiesa era in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria e cresceva e camminava ...» (At 9, 31). Anche Paolo pensa spesso alla Chiesa diffusa ed estesa al di là della piccola comunità locale, cui magari egli si rivolge: così quando vuole «la Chiesa soggetta a Cristo come la sposa al suo sposo» (cf. Ef 5, 24); o quando, nella stessa linea, dichiara che «Egli (Cristo) è il Capo del corpo che è la Chiesa» (Col 1, 18. 24); e persino quando confessa di «aver perseguitato la Chiesa di Dio» (1 Cor 15, 9).

Altre volte la parola ecclesìa si riferisce alle diverse comunità lo­cali: in questo senso, usando il plurale, il veggente di Patmos scrive alle Chiese (Ap 1, 4-11. 20) e l’autore del libro degli Atti annota che Paolo «attraversando la Siria e la Cilicia dava nuova forza alle Chiese» (At 15, 41). Paolo, a sua volta, non esita a parlare delle Chiese che si trovano in una provincia (cf. 1 Cor 16, 19: «le Chiese dell’Asia»; Gal 1,1: «Le Chiese della Galazia»); in una città (1 Cor 1, 1: « la Chiesa di Dio che è a Corinto »; Col 4, 15: «la Chiesa dei laodicesi»; 1 Tess 1, 1: «la Chiesa dei tessalonicesi»); persino in una casa di famiglia (1 Cor 16, 19: «Aquila e Prisca e la chiesa che si raduna nella loro casa»).

2. La Chiesa medita su questo dato, sia a livello del suo cammino nella storia, sia a livello della sua riflessione dottrinale. Essa sa di essere contemporaneamente — non alternativamente o successivamente — universale e particolare. Non due Chiese, ma la stessa Chiesa che, per un verso, è universale e, per l’altro, appare locale o particolare. (Ancora fluida nei documenti conciliari, la terminologia Chiesa locale o Chiesa particolare si è meglio precisata nel dopo-Concilio. Il nuovo Codice di Diritto Canonico, nell’adottare l’espressione Chiesa particolare come sinonimo di diocesi, contribuisce a consolidare ancora di più tale terminologia).

Universale — chiamata anche, in questo senso, la Katholikè o la Oikuméne — la Chiesa lo è in quanto è per tutti gli uomini senza distinzione, fino ai confini della terra, «sacramentum salutis», segno e strumento, cioè, di quella salvezza attuata nella croce e risurrezione del Figlio di Dio, abbracciata nella fede, presente nei sacramenti, sempre rivissuta nella Parola annunciata e accolta.

Particolare, la Chiesa lo è mentre fa presente lo stesso disegno salvifico in questa o quella concreta comunità umana radunata e guidata dai Pastori inviati dal Signore.

Nel volere di Dio e nel disegno di Cristo Salvatore la Chiesa compare nella sua unicità e universalità; tuttavia questa stessa universalità si compie e si realizza concretamente nelle varie Chiese particolari disseminate per il mondo. Non che la Chiesa universale sia la somma numerica o la giustapposizione materiale, una specie di federazione di Chiese particolari preesistenti, ma ne è senz’altro la comunione e l’interscambio di vita. D’altra parte, è la Chiesa unica e universale che si riflette tutta intera nelle Chiese particolari; queste sono «formate ad immagine della Chiesa universale» (LG 23).

Il mistero pieno della Chiesa esige l’armonica attuazione delle due dimensioni della stessa. L’aspetto della cattolicità, debitamente accentuato, riscatta l’autentica universalità della Chiesa da una connotazione «sinagogale» e da una sua concezione riduttiva, limitata, cioè, entro i confini di un popolo o di una cultura; troppo esaltata, questa stessa universalità potrebbe condurre ad una visione idealizzata di Chiesa, lontana dall’incarnazione storica concreta. Viceversa, la dimensione particolare, debitamente messa in rilievo, ha il merito di mostrare il volto preciso di una Chiesa fatta di persone concrete e concrete situazioni storiche e geografiche, di una Chiesa definita dai contorni di una determinata porzione di umanità; eccessivamente marcato, questo carattere particolare rischierebbe di ghettizzare la Chiesa, frantumandone la globalità.

3. Nel costante passaggio dalla Chiesa universale a quella particolare e viceversa, i Vescovi hanno un ruolo privilegiato e singolare. Capi delle loro Chiese particolari e insieme membri del Collegio episcopale, nelle loro persone, in unione con il Pastore universale, le Chiese particolari si integrano nella Chiesa universale e questa permea quelle.

È lecito perciò affermare che la visita «ad limina» costituisce per ogni Vescovo un pressante invito — anzi, uno stimolo — a confrontare la sua missione nei riguardi della Chiesa particolare affidatagli, con la vocazione universalistica della Chiesa. Può accadere che il suo impegno verso quella comunità ristretta che è la sua Chiesa particolare riduca gli «spatia caritatis» che egli deve tenere aperti alla «sollicitudo omnium Ecclesiarum» (2 Cor 11, 28); la visitatio lo aiuterà a capire in profondità ciò che è affermato dal Concilio: che «i singoli Vescovi, preposti a Chiese particolari, esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del Popolo di Dio a loro affidata, non sopra le altre Chiese né sopra la Chiesa universale. Ma in quanto membri del Collegio episcopale e legittimi successori degli Apostoli per istituzione e precetto di Cristo, i singoli Vescovi sono tenuti ad avere per tutta la Chiesa una sollecitudine che, sebbene non esercitata con atti di giurisdizione, sommamente contribuisce al bene della Chiesa universale» (LG 23). La visita «ad limina» può ravvivare la coscienza di tale sollecitudine.

La riflessione sul tema dei «rapporti Chiesa universale - Chiese particolari» ha una peculiare incidenza su quello della Chiesa di Roma. Questa, infatti, gode di una situazione singolare.

1. La Chiesa di Roma non si identifica semplicemente con la Chiesa universale. Essa è, sotto ogni aspetto, una Chiesa particolare con il suo Pastore, le sue istituzioni proprie, la sua peculiare fisionomia.

Eppure, poiché il suo primo pastore è stato l’Apostolo Pietro, costituito dal Signore capo del Collegio Apostolico e investito di un primato conferitogli come «roccia» sulla quale fu edificata la Chiesa, la «sedes romana» ha acquistato dalle origini della Chiesa un posto privilegiato fra tutte le altre Chiese. «Essa presiede alla carità universale», scriveva nel sec. II Ignazio di Antiochia (Lett. ai Romani, Proemio). Essa è chiamata — dichiarava da parte sua Cipriano — a vigilare «su tutti co­loro che invocano il nome del Signore» (Lett. 8, 2-3). E il fatto che un Vescovo di Roma quale Clemente potesse autorevolmente dare orien­tamenti e rivolgere ammonizioni alla Chiesa di Corinto, indica quale onore fosse tributato e quale responsabilità venisse riconosciuta, sin dagli albori, alla Chiesa romana.

Il Concilio Vaticano II, completando e approfondendo l’insegnamento del Vaticano I e dei Concilî precedenti, ribadisce con forza e chiarezza il perenne insegnamento circa la centralità della cattedra romana e del suo Pastore, in forza di un irrefutabile disegno del fondatore della Chiesa. Grazie a questa centralità tutte le Chiese guardano a quella di Roma, ad essa si riferiscono e da essa attendono luce, orientamento, conforto e sostegno.

Fra le Chiese sparse per il mondo e la Chiesa di Roma, si instaura perciò un movimento che un eminente teologo ha definito «perichoresis» o circolazione vitale e che altri teologi non esitano a paragonare al movimento di diastole-sistole per il quale il sangue parte dal cuore verso le estremità del corpo e da queste torna al centro, che è il cuore.

Nella Chiesa universale, la Chiesa di Roma ha questa funzione di convergenza e di concentrazione a beneficio delle Chiese stesse e a beneficio dell’universalità. La storia, spesso travagliata, delle Chiese particolari attesta abbondantemente quanto è servito loro l’appoggio e il sostegno del Primato.

La Chiesa di Roma, dunque, non è la Chiesa universale, ma possiede, per vocazione divina e destino storico, una grazia per cui intorno ad essa — e non ad altra Chiesa — si consolida l’unità di tutte le altre fra di loro e quindi l’universalità.

2. Tale «carisma» della «Petri sedes» o «cathedra romana» trova una sua espressione concreta nella visita «ad limina».

Nel compiere ciò che l’Apostolo Paolo chiamava «videre Petrum», e nell’esprimere concretamente la loro fede nel primato del Pontefice Romano, i singoli Vescovi riconoscono pubblicamente — anche ad edificazione dei loro fedeli — il ruolo proprio e caratteristico della Chiesa romana, «mater et centrum omnium ecclesiarum orbis». Ciò non significa che le Chiese particolari sotto tutti i cieli debbano servilmente copiare l’essere e l’agire della Chiesa romana: un centralismo romano, corruzione e caricatura della sullodata centralità, non rispetterebbe la legittima autonomia delle Chiese particolari, ne impoverirebbe il patrimonio spirituale e pastorale, ne deformerebbe la fisionomia e non contribuirebbe alla «varietà nell’unità». È certo, però, che nella Chiesa romana e nel suo Pastore ogni Chiesa particolare può vedere riflesse e come concentrate le immagini di tutte le altre Chiese.

Il «Romam adire», gesto fondamentale della visita, trova un ulteriore significato nel pellegrinaggio, che dà nome alla visita stessa, «ad limina (o ad trophaea) Apostolorum».

Se Roma gode della menzionata centralità nella Chiesa è grazie alla testimonianza resa dai due insigni Apostoli che ivi hanno effuso il proprio sangue. Proprio per questa testimonianza, essi sono considerati fondamenta della Chiesa di Roma e, allo stesso modo, fondamenta della Chiesa universale. Il pellegrinaggio presso le loro ossa è sempre stato ed è tuttora per milioni di «romei» un ritorno alle sorgenti, un re-incontro con le origini più profonde e decisive della fede e della Chiesa.

Per un successore degli Apostoli il significato del pellegrinaggio è ancora più pregnante: è il duplice visibile riferimento, da una parte, alla missio apostolica compiuta da Pietro e Paolo proprio sul suolo di Roma, in un frangente decisivo della storia della Chiesa; dall’altra, alla confessio fidei portata a termine dall’uno e dall’altro Apostolo sul Colle Vaticano e alle Tre Fontane sulla via Ostiense.

Nella testimonianza di entrambi ogni Vescovo amerà rispecchiare, in questo modo, la propria missione e la propria testimonianza episcopale di fronte alla sua Chiesa particolare.

* * *

Si potrebbero sottolineare altri aspetti della visita «ad limina» per una sua comprensione spirituale e pastorale. Le considerazioni che precedono sembrano sufficienti, nel quadro del Direttorio qui offerto ai Vescovi per la loro utilità.

Lucas Card. Moreira Neves

 

III

NOTA STORICO-GIURIDICA

Normativa canonica

I cann. 399 e 400 del nuovo Codice di Diritto Canonico trattano della relazione quinquennale che i Vescovi debbono presentare alla Santa Sede e della visita «ad limina Apostolorum».

II can. 399 stabilisce:

«1. Il Vescovo diocesano è tenuto a presentare ogni cinque anni una relazione al Sommo Pontefice sullo stato della diocesi affidatagli, secondo la forma e il tempo stabiliti dalla Sede Apostolica.

2. Se l’anno determinato per la presentazione della relazione coincide in tutto o in parte con il primo biennio dall’inizio del governo della diocesi, il Vescovo, per quella volta, può astenersi dal compilare e presentare la relazione».

Secondo il can. 400:

«1. Il Vescovo diocesano nell’anno in cui è tenuto a presentare la relazione al Sommo Pontefice, se non è stato stabilito diversamente dalla Sede Apostolica, si rechi nell’Urbe per venerare le tombe dei Beati Apostoli Pietro e Paolo e si presenti al Romano Pontefice.

2. Il Vescovo adempia personalmente tale obbligo, se non ne è legittimamente impedito; in tal caso vi soddisfi tramite il Coadiutore, se lo ha, o l’Ausiliare, oppure tramite un sacerdote idoneo del suo presbiterio, che risieda nella sua diocesi.

3. Il Vicario apostolico può soddisfare tale obbligo tramite un procuratore, anche residente nell’Urbe; il Prefetto apostolico non è tenuto a tale obbligo».

 

Tradizione storica

Sebbene non risulti una data concreta, neppure approssimativa, in cui collocare le prime origini della visita «ad limina»[5] numerose tuttavia sono le testimonianze che, a partire dal sec. IV, parlano della sua esistenza. Più antica poi fu la consuetudine di venire in pellegrinaggio a Roma per pregare dinanzi ai sepolcri degli Apostoli Pietro e Paolo. I primi Concili trattano delle relazioni tra le Chiese particolari e la Chiesa di Roma e nell’anno 343 il Sinodo Sardicense indirizzò al Papa Giulio (337-352) — ad Iulium urbis Romae episcopum — una lettera per prospettargli l’opportunità ch’egli venisse informato della situazione re­ligiosa nelle diverse parti o province dell’impero romano[6].

Nel maggio del 597, il Papa San Gregorio Magno (590-604) rammentò al suo legato Cipriano l’antica usanza, messa in atto dai Vescovi della Sicilia, secondo la quale ogni tre anni essi visitavano la Città Eterna. Il medesimo Pontefice stabilì che la visita «ad limina» avvenisse ogni cinque anni[7]. Il Concilio Romano del 743 emanò nuove disposizioni sulla visita stessa[8].

In pieno medioevo, all’Arcivescovo eletto di Spalato in Dalmazia, il quale aveva manifestato sorpresa per il giuramento che gli veniva richiesto di compiere la visita «ad limina», il Papa Pasquale II (1099-1118) ricordò che quello della visita era obbligo comune a tutti i Vescovi, che vi si impegnavano col giuramento che precede la consacrazione episcopale, e gli fece inoltre osservare che anche i Vescovi delle regioni più remote d’Europa, come quelli della Sassonia e della Danimarca, la compivano annualmente per mezzo dei loro delegati.[9]

Durante i secoli XI e XII i Vescovi erano a conoscenza dell’obbligo annuale della visita, quantunque non tutti la compissero a causa delle difficoltà che presentava il viaggio a Roma. Per tale motivo, durante i pontificati di Innocenzo IV (1243-1254) e Alessandro IV (1254-1261) furono concesse numerose dispense[10].

Riforma tridentina

Nel 1540, prima del Concilio di Trento, alcuni Vescovi fecero presente a Paolo III che l’obbligo annuale della visita «ad limina» costituiva un grave impedimento per la residenza dei Vescovi nelle rispettive diocesi e proposero una periodicità triennale o quinquennale, a seconda della lontananza da Roma delle loro sedi.[11]

Il Concilio si occupò della questione[12] e la visita «ad limina» fu inclusa nel denso programma di riforme promosse dai Papi post-tridentini, in relazione al ministero pastorale dei Vescovi.

Ma fu Sisto V (1585-1590) a riformare, con la costituzione apostolica Romanus Pontifex del 20 dicembre 1585[13], l’antica disciplina sulla visita «ad limina» e ad introdurre alcune innovazioni che furono estese obbligatoriamente a tutti i Vescovi, giacché le decisioni del Concilio tridentino non erano debitamente osservate in tutte le diocesi. Sisto V intensificò la vigilanza su tale materia, mutando in norma l’antica consuetudine di visitare la Sede Apostolica e imponendo l’obbligo di informare periodicamente il Papa sullo stato materiale e spirituale delle Chiese particolari. Rammentò anche la necessità che venissero mantenute comunicazioni periodiche coi prelati affinché fossero conosciute direttamente le necessità delle diverse diocesi e si potesse fronteggiare il crescere e l’espandersi dell’eresia.

Nella parte dedicata alle disposizioni, la costituzione di Sisto V stabilì che tutti i Patriarchi, i Primati, gli Arcivescovi e i Vescovi, come anche i Cardinali, prima d’essere consacrati o di ricevere il pallio o d’essere trasferiti ad altre sedi, giurassero di adempiere fedelmente la visita personale ai sepolcri degli Apostoli Pietro e Paolo e quella al Pontefice, intesa a informarlo sul loro ministero pastorale ed a ricevere le necessarie istruzioni, tanto del Papa come dei dicasteri della Curia romana. Se un Vescovo fosse stato legittimamente impedito, avrebbe potuto assolvere l’obbligo per mezzo di un procuratore o delegato, che sarebbe potuto essere un canonico o un sacerdote di riconosciuto prestigio. L’impedimento del Vescovo doveva essere documentato dinanzi al Cardinale protodiacono.

Al fine di organizzare e facilitare lo svolgersi delle visite, la stessa costituzione apostolica divise le diocesi in quattro gruppi, stabilendo i seguenti periodi per la loro effettuazione:

ogni tre anni i Vescovi dell’Italia e isole adiacenti, Dalmazia e Grecia;

ogni quattro anni quelli di Germania, Francia, Spagna, Belgio, Boemia, Ungheria, Inghilterra, Scozia, Irlanda, paesi baltici e isole del Mediterraneo;

ogni cinque anni i rimanenti Vescovi d’Europa, quelli delle coste vicine all’Africa e quelli delle altre isole europee e africane dell’Atlantico;

ogni dieci anni quelli dell’Asia, dell’America e del resto del mondo.

Quanto al computo dei periodi suddetti, la costituzione sistina chiariva che il termine di decorrenza del tempo assegnato a ciascun Vescovo avrebbe avuto inizio dal momento della sua consacrazione (e non si sarebbe potuto addurre come pretesto per differire la visita il fatto di non aver preso possesso della diocesi o di non aver preso la residenza in essa) o dal momento in cui riceveva il pallio o era trasferito ad altra sede. E affinché le visite «ad limina» non si distanziassero troppo, il Papa chiarì che bisognava computare anche il tempo trascorso dalla morte, trasferimento o inadempienza del Vescovo precedente, qualunque ne fosse stata la causa.

Le pene previste per coloro che non avessero osservato l’obbligo sarebbero state molto gravi: sospensione «ipso facto» dall’amministrazione spirituale e temporale della diocesi, dalla riscossione dei frutti della stessa e addirittura sospensione «ab ingressu ecclesiae», fintanto che non venissero assolti dalla Santa Sede.

Con la citata costituzione sistina furono aboliti tutti i privilegi, di­spense, concessioni e autorizzazioni precedenti, incluse quelle che lo stesso Sisto V aveva accordate [R. Robres Lluch y V. Castell Maiques, La visita «ad limina» durante el pontificado de Sixto V (1585-1590). Datos para su estadistica general. Su cumplimiento en Ibero-américa: «Anthologica annua» 7 (1959), pp. 147-213)]

Lo storico dei Papi, Von Pastor, afferma che il grande impulso che ricevette la chiesa tedesca alla fine del secolo XVI e all’inizio del XVII coincise con l’applicazione della costituzione sistina. E altri studi successivi hanno permesso di approfondire e completare tale opinione, in modo da giungere alla conclusione che la costituzione Romanus Pontifex segna uno dei momenti più importanti della riforma dell’episcopato dopo il Concilio di Trento, per il fatto di esigere la presenza dei pastori nella Curia romana al fine di rendere periodicamente conto dello stato delle rispettive Chiese[14].

La competenza per controllare le visite «ad limina» ed esaminare le relazioni dei Vescovi, come anche per rispondere ad essi con le necessarie osservazioni, fu affidata in un primo momento alla commissione di Cardinali, istituita nel 1564 da Pio V per interpretare autenticamente e curare l’esatta applicazione delle norme stabilite dal Concilio di Trento. Buona parte delle competenze di tale commissione passò poi alla nuova Congregazione del Concilio, creata da Sisto V con la costituzione apostolica Immensa Aeterni Dei del 22 gennaio 1588[15].

Riforme successive fino al Codice del 1917

Dopo l’istituzione della Congregazione de Propaganda Fide (22 giugno 1622), le diocesi dei territori di missione passarono sotto la competenza del nuovo dicastero, al quale i Vescovi rimisero le loro relazioni.[16] Tuttavia le diocesi ispanoamericane continuarono a dipendere dalla Congregazione del Concilio, in quanto erano sottoposte al patronato della corona di Spagna, che si estendeva a quelle Chiese.

A partire dal secolo XVIII i Pontefici introdussero diverse modifiche circa il modo in cui effettuare la visita «ad limina» e circa il rapporto o relazione, mentre lasciarono inalterata la sostanza della costituzione sistina nel suo triplice aspetto: venerare le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo nelle rispettive basiliche romane, render visita al Papa e rimettere la relazione sullo stato della diocesi[17].

L’innovazione di maggior rilievo, introdotta da Benedetto XIII (1724-1730) e confermata da Benedetto XIV (1740-1758), consistette nella pubblicazione di un’istruzione pontificia nella quale venivano espressamente indicati i punti che i Vescovi avrebbero dovuto trattare nella relazione, pur lasciando al criterio personale di ciascun Vescovo la trattazione di altri argomenti non inclusi nell’istruzione stessa. Tale decisione si era resa necessaria giacché l’esperienza aveva dimostrato che molti Vescovi si limitavano a inviare la relazione accompagnandola con una breve lettera di saluto e adesione al Papa, senza approfondire — e a volte senza neppure indicare — i temi che potevano interessare la Santa Sede. In altri casi, i Vescovi inviavano il loro procuratore senza la relazione, autorizzandolo a informare verbalmente il Papa, se lo avesse ricevuto in udienza, o la Congregazione del Concilio sullo stato della diocesi.

Secondo la predetta istruzione, la relazione doveva comprendere nove capitoli: stato materiale della diocesi; attività del Vescovo; clero secolare; clero regolare; religiose; seminario; chiese; confraternite e luoghi pii; popolo e richiesta di grazie o facoltà[18].

Benedetto XIV modificò le scadenze della visita «ad limina » come segue: ogni tre anni per i Vescovi dell’Italia e isole adiacenti, ogni cinque per tutti gli altri Vescovi[19].

Durante il Concilio Vaticano I non mancarono Vescovi che avvertirono la necessità di introdurre alcune innovazioni nel modo di effettuare la visita «ad limina» e, in particolare, nel questionario predisposto per la relazione, al fine di adattarlo alle esigenze della Chiesa nella società del secolo XIX. Si giunse anzi a preparare uno schema o progetto di riforma, che non poté essere discusso a causa dell’inattesa interruzione del Concilio.[20]

I nuovi orientamenti dovettero attendere fino al pontificato di San Pio X (1903-1914) e furono incorporati nel quadro generale di riforma della Curia romana, che entrò in vigore il 29 giugno 1908, con la costituzione apostolica Sapienti consilio[21], in virtù della quale cessò la competenza della Congregazione del Concilio in merito all’attività pastorale dei Vescovi, per essere assunta dalla Congregazione Concistoriale.

Questo dicastero emanò il 31 dicembre 1909 il decreto De relationibus dioecesanis et visitatione SS. Liminum, diretto «a tutti gli Ordinari non soggetti alla S. Congregazione de Propaganda Fide», nel quale venivano introdotte modifiche notevoli all’antica disciplina in materia, soprattutto nei riguardi della periodicità della visita «ad limina», che avrebbero dovuto effettuare tutti i Vescovi ogni cinque anni, a partire dal 1° gennaio 1911, secondo un calendario stabilito dal dicastero. Si insisteva in esso sui noti aspetti fondamentali dell’obbligo: venerare i sepolcri degli Apostoli e render visita al Papa. A tale decreto tenne dietro l’Ordo servandus in relatione de statu ecclesiarum, che conteneva un questionario di 150 domande alle quali i Vescovi avrebbero dovuto rispondere e che rispecchiava, nella sostanza, i nove capitoli dell’istruzione di Benedetto XIII, completati con altri argomenti relativi alla formazione della gioventù, l’attività di confraternite e associazioni pie, le opere di carità e assistenza sociale, la stampa e la lettura di libri proibiti[22].

Il Codice di Diritto Canonico del 1917 trattò della visita «ad limina» ai cann. 340, 341 e 342 dando precedenza all’obbligo di presentare la relazione quinquennale sull’atto di venerazione dei sepolcri degli Apostoli e sulla visita da rendere al Papa. In detto Codice la visita «ad limina» fu inclusa nell’insieme degli obblighi fondamentali dei Vescovi: residenza, applicazione della messa prò populo, relazione scritta alla Santa Sede sul governo della diocesi e visita pastorale. Un anno dopo la promulgazione del Codice, la Congregazione Concistoriale predispose un nuovo formulario cui attenersi nel redigere la relazione. Anche la Congregazione de Propaganda Fide si adattò alla nuova legislazione canonica[23].

La Congregazione Concistoriale, inoltre, con decreto del 28 febbraio 1959, estese ai Vicari castrensi l’obbligo di effettuare la visita «ad limina» e di rimettere ogni cinque anni la relazione sullo stato del vicariato, ai sensi del can. 341[24].

Tanto durante la preparazione del Concilio Vaticano II quanto nell’assemblea conciliare alcuni Vescovi presentarono diverse proposte in relazione alla visita «ad limina» e all’opportunità di introdurre modifiche alle norme vigenti. Terminato il Concilio, la Santa Sede insistette ripetutamente sulla necessità e l’importanza delle relazioni tra il Papa e i Vescovi.[25] E la Congregazione per i Vescovi, nel Directorium de pastorali ministerio episcoporum del 1973[26], chiarì che la visita «ad limina» e le relazioni quinquennali sono necessarie per promuovere i contatti personali tra il Pontefice romano e i Vescovi: «Visitationem ad limina peragens laetam arripit occasionem videndi Petrum (Gal 1, 18), cum eoque de rebus suae particularis necnon universalis Ecclesiae fraterne colloquendi».[27]

Il medesimo dicastero il 29 giugno 1975 emanò il decreto Ad Romanam Ecclesiam, che tratta «De visitatione SS. Liminum deque relationibus dioecesanis» e si divide in due parti: la prima, espositiva, contiene una serrata sintesi teologico-storica della predetta istituzione canonica e giustifica la nuova normativa; la seconda, che contiene le disposizioni, regola in cinque articoli la legislazione al riguardo.

All’inizio il decreto illustra la necessità di conservare e promuovere l’unità tra le Chiese particolari e quella di Roma, dov’è la sede di Pietro, che è principio perpetuo e fondamento visibile della comunione dei Vescovi e altresì dei fedeli, secondo la dottrina di Sant’Ireneo e il decreto Unitatis redintegratio del Vaticano II sull’ecumenismo. Facendo riferimento a un testo di San Leone Magno, secondo il quale la solidità di Pietro si trasmette ai suoi successori, conclude affermando che la sua cattedra, mentre protegge le differenze legittime, veglia affinché le particolarità delle diverse Chiese, lungi dall’essere un ostacolo per l’unità, la favoriscano. Perciò il Papa non ha solo la missione di provvedere al bene comune della Chiesa universale, ma anche a quello delle Chiese particolari, secondo la dottrina conciliare del decreto Christus Dominus. Di qui l’opportunità della sua presenza nei diversi Paesi del mondo per conoscere da vicino le necessità e le circostanze locali delle varie comunità di credenti.

Tuttavia, afferma il decreto Ad Romanam Ecclesiam, sebbene il progresso materiale abbia messo a disposizione del Vescovo di Roma mezzi che gli permettono di recarsi con frequenza in Paesi lontani, conviene non abbandonare le consuetudini secolari che hanno grande importanza in quanto sono manifestazione della comunione ecclesiale al più alto livello. Di conseguenza, il decreto insiste sulla necessità di intensificare i contatti personali tra il Papa e i Vescovi, non solo per il tramite della corrispondenza epistolare, ma soprattutto per mezzo dei viaggi a Roma. È difatti evidente, e così si giustificano tali incontri, che nella Chiesa, al moto che parte dal centro in direzione degli estremi raggiungendo tutte e ciascuna delle Chiese particolari, deve corrispondere un moto di segno opposto, che dalla periferia conduca al centro, al cuore stesso della Chiesa.

Tenendo in conto le predette considerazioni, è sembrato opportuno rivedere la legislazione precedente sulla visita «ad limina» e dettare una nuova normativa, adeguata ai nostri tempi, nella quale si fissano nuovi criteri per la suddivisione dei quinquenni; si dà incarico ai Rappresentanti pontifici di ricordare, vari mesi prima dell’inizio del nuovo anno, ai Vescovi dei Paesi interessati il tempo stabilito per l’effettuazione della visita «ad limina» e di invitare i Presidenti delle rispettive Conferenze episcopali a predisporre, d’intesa coi Vescovi, il calendario delle date in cui ciascuno di essi, o per gruppi se così consigliano circostanze particolari, si recherà a render visita al Papa; e si raccomanda loro l’invio della relazione diocesana con sufficiente anticipo rispetto ai tempi del viaggio. Tale rapporto dev’essere redatto secondo il questionario opportunamente predisposto dalla Congregazione per i Vescovi[26]

La prassi recente

Dal 1° gennaio 1976, data dalla quale si cominciano a computare i nuovi quinquenni per la visita «ad limina», secondo quanto stabilito nel decreto Ad Romanam Ecclesiam, Paolo VI instaurò in relazione alla visita stessa una nuova prassi, di cui c’era stata, ma isolatamente, qualche anticipazione negli anni precedenti[28].

In effetti, alcuni Vescovi spagnoli non avevano potuto esser ricevuti in udienza privata dal Pontefice nell’autunno del 1972, a causa dell’intensa attività svolta in quei giorni dal Papa, che era impegnatissimo nei lavori del Sinodo dei Vescovi. Non potendo riceverli individualmente, Paolo VI li ricevette in una udienza collettiva e indirizzò loro un discorso nel quale li assicurò che avrebbe esaminato con la dovuta attenzione le relazioni quinquennali, per scoprire in esse «non tanto una mera esposizione scritta quanto lo zelo, la dedizione e lo spirito di ciascuno di voi, come pastori del vostro gregge, dei vostri sacerdoti, dei religiosi e dei fedeli, che collaborano nella missione di render presente il regno di Dio fra tutti gli uomini; sono, senza dubbio, le vostre, pagine bellissime di vita ecclesiale, la cui lettura ci colmerà di gioia spirituale, e fin d’ora vogliamo manifestare a voi e a tutti i vostri collaboratori la nostra sincera ammirazione e amore nel Signore»[29].

Dopo l’entrata in vigore del decreto Ad Romanam Ecclesiam il sistema di udienze collettive fu reso stabile e Paolo VI, dal 1976 fino alla morte, dimostrò che desiderava intensificare i contatti personali con i Vescovi.[30]

Un’analisi attenta dei suoi ultimi discorsi ci permette di sintetizzare gli aspetti fondamentali della visita «ad limina». In un discorso, diretto ai Vescovi cecoslovacchi il 18 marzo 1977, indicò espressamente i tre atti essenziali di essa — venerare i sepolcri degli Apostoli Pietro e Paolo, render visita al Papa e informarlo dello stato delle diocesi[31] —, mentre ai Vescovi francesi della regione del nord ricordò l’antichità di tale istituzione canonica.[32]

Paolo VI giustificò le nuove norme impartite dalla Congregazione per i Vescovi in un discorso ai Vescovi italiani delle Marche, ai quali illustrò chiaramente i valori dell’incontro diretto e della visita personale: «Come in ogni visita, si tratta di un incontro, cioè di un’occasione per parlare, per stare insieme, per scambiarci nel nome di Cristo il bacio santo della carità e della pace. Se da parte vostra essa si attua nella venuta a Roma e in determinati adempimenti e doveri... da parte nostra si esprime nella reciprocità della comunione e nell’apertura a pensieri che ci piace confidarvi. ... Naturalmente, nella visita intendiamo onorare ogni singolo Pastore. Prima che sorgessero le Conferenze episcopali, che sono un’istituzione recente, la visita consisteva in un incontro diretto, a due del pastore di ciascuna diocesi col Vicario di Cristo. Ora questo non è un dato superato, anche se l’evoluzione dei tempi, la complessità dei problemi, il carattere “superdiocesano” di certe situazioni hanno privilegiato, a livello di prassi pastorale, la formula associativa e comunitaria. Non si potrà mai mortificare né snaturare l’esatta e distinta fisionomia che la singola diocesi, col suo pastore e col suo presbiterio, ha nell’ambito della Chiesa universale: non è forse vero che il mistero di Cristo è integralmente presente nella Chiesa particolare, la quale — come c’insegna il Concilio (cf. Cost. Lumen gentium, n. 23) — è formata ad immagine dell’unica Chiesa e ne riproduce i lineamenti? Ecco perché ripetiamo — l’onore è diretto a ciascuno di voi. Nostro desiderio è, perciò, quello di riconoscere l’autorità di ogni Vescovo, di aiutarlo in tutti i possibili modi, di confermarlo nel senso evangelico di questa parola (cf. Le 22, 32), di confortarne il suo senso di responsabilità, perché vegli sul gregge di cui lo Spirito Santo l’ha costituito Pastore (cf. At 20, 28)».[33]

Paolo VI dette anche la dovuta importanza alla relazione quinquennale, che non è una semplice formalità burocratica, ma un mezzo che rende possibile al Papa e alla Santa Sede «una conoscenza approfondita non solo della vostra personalità, ma anche dell’attività ministeriale, che impegna le vostre energie tra gioie, sofferenze e speranze»[34]; e allo stesso tempo un riflesso dell’interesse pastorale che sentono i Vescovi di conoscere la vita dei loro diocesani. «Vos rapports quinquennaux — disse ai Vescovi francesi della regione occidentale — redigés avec un grand souci de vérité et de précision, reflètent votre préoccupation de connaìtre et d’aimer tout ce qui fait la vie de vos diocésains».[35]

In tutti i discorsi diretti ai Vescovi Paolo VI spiegò il senso profondo che racchiude la visita «ad limina», la sua ragion d’essere e la sua finalità, partendo da un insieme di idee che sono la base dottrinale dei discorsi stessi: comunione ecclesiale, comunione di tutti i Vescovi con la sede di Pietro, comunione mutua tra i Vescovi e il Papa35. Per Paolo VI il contatto con i Vescovi era uno degli atti più importanti e suscitatori di commozione della sua missione ecclesiale36, giacché esprimeva il profondo senso di adesione e comunione dei pastori con il Capo del Collegio Episcopale37.

Sua Santità Giovanni Paolo II ha dato alla visita «ad limina» un impulso radicalmente nuovo, che non ha precedenti nella storia della Chiesa, intensificando gli incontri con i Vescovi, discutendo con essi i problemi pastorali delle diverse diocesi e dando loro consigli e orientamenti in ampi discorsi dottrinali. In tal modo le norme canoniche acquistano un profondo significato ecclesiale, giacché oltrepassano l’aspetto puramente burocratico della visita e ne rivelano l’autentica ragion d’essere, che è essenzialmente quella di manifestare e rafforzare l’unione dei Vescovi con il Papa, come anche di confermare la sollecitudine di tutti per la Chiesa di Cristo.38

Vicente Càrcel Orti

 

INDICE

Premesse

Direttorio

1. Preparazione remota
2. Preparazione prossima
3. Svolgimento della visita « ad limina »

Premessa alle note

I. Nota teologica (Joseph Card. Ratzinger)
II. Nota spirituale-pastorale (Lucas Card. Moreira Neves) 
III. Nota storico-giuridica (Vicente Càrcel Orti)

 

[1] Cf. C.I.C., can. 399, § 2. Per i quinquenni cf. Decreto De visitatione SS. Liminum deque relationibus dioecesanis, 29 giugno 1975, n. 2: AAS LXVII (1975), pp. 675-676.

[2] Formula Relationis Quinquennalis, Typis Polyglottis Vaticanis, 1982.

[3] Cf. Decreto De visitatone SS. Liminum deque relationibus dioecesanis, n. 5: AAS LXVII (1975), p. 676.

[4] Cf. Decreto De visitatione SS. Liminum deque relationibus dioecesanis, n. 4: AAS LXVII (1975), p. 676.

[5] Dal latino, limen, liminis.In italiano si traduce con soglia; in francese con pas ou seuil d’une porte) in spagnolo con el umbral de la puerta) in tedesco con Schwelle, der Querbalken an der Ture, und zwar oben und untevi) in inglese con thè threshold of a door, also thè lintel. Nella letteratura latina si usa anche per indicare la porta o l’ingresso ad un luogo (Ae. Forcellini, Lexicon totius latinitatis, III, Patavii 1940, p. 88). Menzionando la visita ad limina apostolorum,la Chiesa si riferisce ai sepolcri degli Apostoli Pietro e Paolo, conservati, secondo la tradizione, in Roma.

[6] J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, vol. III (Graz 1960), col. 40.

[7] Migne, P.L., vol. 77, col. 875.

[8] Mansi, vol. XII, col. 382, Corpus luris Canonici, ed. Richter-Friedberg, pars prior (Graz 1955), col. 321.

[9] Corpus luris Canonici, pars secunda, col. 50.

[10] Bullarium Romanum,  III, p. 383; J. B. Ferreres, Las relaciones diocesanas y la visita «ad limina»: «Razón y Fe» 27 (1910), p. 385.

[11] Concilium Tridentinum... tomus quartus, actorum pars prima, ed. Goerresiana (Friburgi Br. 1904), p. 484, n. 27.

[12] Ibid., tomus secundus, diariorum pars secunda, pp. 750. 782. 790; tomus nonus, actorum pars sexta, p. 854.

[13] Bullarium Romanum, vol. VIII (Augustae Taurinorum 1863), pp. 642-645.

[14] R. Robres Lluch y V. Castell Maiques, art. cit., p. 212.

[15] F. Romita, Le origini della S. C. del Concilio: «La Sacra Congregazione del Concilio. Quarto Centenario della Fondazione (1564-1964). Studi e ricerche» (Città del Vaticano 1964), pp. 13-50.

[16] Collectanea S. Congregationis de Propaganda Fide seu decreta instructiones rescripta prò apostolicis missionibus, vol. I (Romae 1907), p. 10, n. 24.

[17] V. Càrcel Orti, La visita « ad limina Apostolorum Vetri et Pauli ». Notas históricas desde sus origenes basta 1975: «Questioni canoniche» (Studia Universitatis S. Thomae in Urbe: 22) (Milano, Massimo, 1984), pp. 101-132.

[18] A. Lucidi, De visitatione Sacrorum Liminum. Instructio S. C. Concila edita iussu Benedicti XIII, ed. tertia, I (Romae 1883).

[19] Ibid.

[20] V. Martin, Documenta Concila Vaticani (Romae 1876), pp. 131 ss.

[21] AAS 1 (1909), pp. 7-35.

[22] AAS 2 (1910), pp. 13-16; F. M. Cappello, De visitatione SS. Liminum et dioeceseon ac de relatione S. Sedi exhibenda. Commentarium in decretum «A remotissima Ecclesiae aetate», iussu VII X, Pont. O. M. a S. Congregatone Consistoriali die 31 decembris 1909 editum (Romae 1912-13), 2 v.; A. Boudinhon, La visite «ad limina» et le rapport sur Vétat du diocèse: «Le Canoniste contemporain» 33 (1910), pp. 219-226.

[23] AAS 14 (1922), pp. 287-307.

[24] AAS 51 (1959), pp. 272-274.

[25] V. Càrcel Orti, Legislación vigente sobre la visita «ad limina». El decreto «Ad Romanam Ecclesiam» de 1975: «Questioni canoniche» (Studia Universitatis S. Thomae in Urbe: 23) (Milano, Massimo, 1984), pp. 99-136.

[26] L. De Echeverria, El directorio para el ministerio pastoral de los obispos: «Revista espanola de Derecho Canònico » 29 (1973), pp. 385-419.

[27] S. C. prò Episcopis, Directorium de pastorali ministerio Episcoporum (Typ. Polygl. Vaticanis 1975), p. 51, n. 45.

[28] V. Càrcel Orti, Legislación vigente sobre la visita «ad limina» pp. 108-117.

[29] L'Osservatore Romano, n. 249, 7 ottobre 1972.

[30] V. Càrcel Orti, Legislación vigente sobre la visita «ad limina» ..., pp. 117-120.

[31] AAS 69 (1977), p. 461.

[32] Ibid., p. 467; cf. anche Discorso ai Vescovi della Puglia, ibid., p. 401.

[33] AAS 69 (1977), pp. 414-415.

[34] Ibid., p. 397.

[35] Ibid., p. 457.

35 AAS 69 (1977), p. 341.

36 Ibid., p. 401.

37 Ibid., p. 337.

38 Ibid., p. 341.

 

 

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