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IL CONSIGLIO PRESBITERALE


L'art. 97 della Costituzione Apostolica Pastor Bonus, sulla Curia Romana, demanda alla competenza della Congregazione per il Clero anche tutte le questioni riguardanti il Consiglio presbiterale.

 

Fissiamo, qui di seguito, in modo sintetico, alcuni aspetti di questo organismo diocesano, che ne delineano il quadro giuridico-dottrinale essenziale di riferimento: una breve considerazione sulla definizione, un richiamo al presbiterio da cui provengono i sacerdoti membri del Consiglio presbiterale, qualche puntualizzazione sulla natura della rappresentanza di cui sono investiti, il contenuto della partecipazione al governo della diocesi, il titolo del mandato dei membri e la sua cessazione, il rapporto tra il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale.

 

 

1. Coetus e senato

 

Il can. 495 presenta una definizione del Consiglio presbiterale, che si traduce in una descrizione realistica. Esso è "un gruppo di sacerdoti che, rappresentando il presbiterio, sia come il senato del Vescovo, con il compito di coadiuvare il Vescovo nel governo della diocesi, a norma del diritto, affinché sia promosso, il più efficacemente possibile, il bene pastorale della porzione di popolo di Dio a lui affidata".

 

Il Consiglio presbiterale non viene designato come "collegio", ma semplicemente come "coetus (gruppo)", a differenza di quanto, al contrario, si afferma a proposito del Collegio dei consultori, nel can. 502, e del Capitolo dei canonici, nel can. 503. Questa diversità terminologica non è, tuttavia, suffragata da motivazioni sostanziali che siano sufficientemente giustificanti. Infatti non è possibile trovare una qualche differenza di sostanza per cui quello dei consultori è chiamato "collegio", mentre quello presbiterale "coetus". E' vero che i membri del Collegio dei consultori sono tutti di nomina vescovile, anche se il gruppo dal quale vanno scelti è già predeterminato, ed è anche vero che lo stesso Collegio dei consultori non decade quando la sede diventa vacante e che il Consiglio presbiterale, invece, cessa di esistere; ma simili caratteristiche sono proprie anche del Consiglio per gli affari economici della diocesi, eppure esso non viene chiamato collegio.

 

Anche i membri del Consiglio presbiterale hanno tutti, come avviene in un collegio, la stessa posizione di uguaglianza in ordine alla convocazione, all'attività, ai pareri; inoltre, le decisioni, quando richieste secondo le norme canoniche, possono essere formulate solo in modo collegiale: il parere del Consiglio, ad esempio, in ordine all'erezione di una parrocchia, è quello espresso a norma del diritto dal consiglio legittimamente convocato.

 

Il Consiglio presbiterale è denominato come il senato del Vescovo. Questa qualificazione è stata molto criticata con motivazioni diverse. Di fatto, in un primo tempo, era stata tolta, ma poi fu definitivamente inserita nel Codice. Vedremo in seguito come anche questa denominazione, debba essere considerata sui generis, se viene messa a confronto con i senati delle moderne democrazie.

 

 

2. Presbiterio rappresentato

 

Non indugio sulla discussione intorno alla 'identità' del presbiterio diocesano, anche se è fuori di dubbio che l'identificazione teologicamente fondata dei componenti 'naturali' del presbiterio di una struttura ecclesiale, quali sono quelle individuate dal can.368, integrate dalla Prelatura personale e dall'Ordinariato militare (o Vicariato castrense), costituisce la base per una formulazione più precisa in ordine all'organismo che deve prestare aiuto al Vescovo nel governo della sua diocesi.

 

Mi fermo soltanto al dato di fatto, fissato nell'attuale legislazione, che provvede, con il can.498, a determinare un 'corpus' di presbiteri, costitutivo dei soggetti chiamati ad eleggere o ad essere eletti in un Consiglio presbiterale (presbiterio elettivo, in senso attivo e passivo). E' questo canone che ci fa individuare con sufficiente chiarezza, pur con la necessità di qualche precisazione, a quale 'presbiterio' facciamo riferimento.

 

Il presbiterio elettivo (o che sceglie i suoi rappresentanti), quale può essere ricostruito dalla normativa codiciale, ha un carattere pratico e tiene soprattutto presente la finalità specifica attribuita al Consiglio presbiterale. Esso risulta così composto:

 

a) da tutti Ai sacerdoti secolari incardinati nella diocesi@;

 

b) dai Asacerdoti secolari non incardinati nella diocesi e i sacerdoti membri di un istituto religioso o di una società di vita apostolica i quali, dimorando nella diocesi, esercitano in suo favore qualche ufficio@;

 

c) da "altri sacerdoti che abbiano nella diocesi il domicilio o il quasi domicilio", se così è previsto negli statuti.

 

Questa disposizione legislativa ci permette di ricavare il principio per determinare l'elemento essenziale e indispensabile perché un presbitero possa far parte del presbiterio elettivo di un Consiglio presbiterale diocesano: si tratta del vincolo di unità (comunione gerarchica) con il Vescovo della diocesi. Il presbiterio elettivo di una diocesi, quindi, è costituito dai presbiteri che hanno una qualche relazione con il Vescovo della stessa o in forza dell'incardinazione, o in forza di uno specifico incarico, comunque esso venga conferito, o in forza di una disposizione particolare, statutaria, che costituisca il punto di contatto tra un presbitero e il Vescovo diocesano.

 

L'analisi più approfondita del canone, inoltre, conduce a ritenere che un ulteriore elemento determinante (o specificativo) perché un presbitero goda di voto attivo o passivo in ordine alle elezioni è che esso abbia, personalmente, un mandato specifico (o licenza o permesso, esplicito o implicito) a servizio della diocesi.

 

Gli altri elementi intercorrenti: residenza, domicilio, quasi-domicilio, incardinazione come dato a sé stante, vita consacrata, devono essere considerati soltanto 'condicio iuris', che conferiscono eventualmente una capacità giuridica ma che, per se stessi, non danno una capacità di agire.

 

Qualcuno ritiene che, per quanto riguarda i sacerdoti secolari l'unico elemento richiesto sarebbe la incardinazione e, pertanto, non dovrebbe essere necessario fare riferimento a un servizio. A sostegno di questa tesi si richiama il dettato letterale del canone e si cita quanto riportato in 'Communicationes' 13 (1981) p.130 e 14 (1982) p.216.

Non sembra che questi richiami intacchino la validità di quanto sopra affermato, anzi ne sono proprio una conferma, sia per una considerazione di carattere generale, sia per alcuni dati di fatto.

 

E' vero che il canone, per i sacerdoti secolari, espressamente, non fa riferimento all'esercizio di un ministero. Ma la disposizione non può essere valutata da sola, prescindendo dal resto della normativa codiciale. Il can.17 ci insegna che "le leggi ecclesiastiche sono da intendersi nel significato proprio delle parole, considerato nel testo e nel contesto..."; cioè una legge va interpretata in coordinazione con le altre esistenti e, più in generale, deve essere armonizzata all'interno dell'intero sistema dell'ordinamento canonico, considerato come un tutt'uno organicamente strutturato.

 

Non va trascurato il fatto che l'istituto dell'incardinazione ha una sua connotazione giuridica specifica. Le norme del Codice che configurano l'uso di tale istituto mostrano con evidenza che, nella linea della normalità giuridica, non si dà separazione tra incardinazione e servizio. Il can.266, '1, afferma esplicitamente che "uno diviene chierico con l'ordinazione diaconale e viene incardinato nella Chiesa particolare o nella Prelatura personale al cui servizio è stato ammesso". Si stabilisce così, senza equivoci, che l'incardinazione ha una ordinazione connaturale al servizio, il quale deve essere presente o come dato di fatto, a come situazione soggettiva per sé possibile di essere concretizzata 'ad acta', o come rapportato in tale maniera a un presbitero che questi può ricevere il titolo di emerito.

 

Per sé, la ragione giustificante dell'incardinazione è la necessità o l'utilità della Chiesa. L'incardinazione non ha completezza di significato se non coimplica nel soggetto il suo essere ordinato al servizio. L'incardinazione serve per individuare con chiarezza il soggetto respnsabile, atto a dare una 'missio canonica', cioè a concretizzare il servizio di un presbitero e a far sì che non esistano "chierici acefali o girovaghi" (can.265).

 

Secondo quanto si desume anche dalla risposta al n.3 di cui in Communicationes (pp.216-217), riportata precedentemente in nota, l'incardinazione è certamente la 'radice' della capacità giuridica in ordine al diritto attivo e passivo di voto, ma perché non si determinino situazione giuridiche patologiche, al fine di salvaguardare la razionalità della norma, la medesima incardinazione per generare una possibilità di agire deve avere un nesso giuridico con il servizio.

 

Per una comprensione giuridicamente precisa della disposizione del can.498, ' 1, 1, si può tener presente che mentre in presenza di un presbitero che abbia un servizio ministeriale a favore della diocesi, o che comunque gli è stato affidato dal Vescovo della stessa, si può essere certi che egli goda del diritto attivo e passivo in ordine alle elezioni per un Consiglio presbiterale, la stessa cosa non è sempre vera per i presbiteri che presentino un legame con la diocesi costituito semplicemente dall'istituto giuridico dell'incardinazione.

 

I casi in cui l'incardinazione può sussistere da sola senza la 'possibilità' che, perdurante una determinata situazione, sia compresente ancora un rapporto giuridico con l'ufficio o con il Vescovo che abbia la facoltà di conferirlo, sono quelli derivanti da:

 

a) una sentenza o un decreto con cui si infligge la pena della scomunica,

 

b) da un atto di incardinazione, come puro fatto formale, come puro supporto giuridico per un presbitero destinato costitutivamente ad essere soggetto a un superiore diverso dal Vescovo incardinante e ad avere uffici non dipendenti dallo stesso Vescovo.

 

Consideriamoli brevemente.

 

a. Prendiamo ad esempio il can.1364. Esso dice che "l'apostata, l'eretico e lo scismatico incorrono nella scomunica latae sententiae...". Tale scomunica può essere dichiarata a norma di legge. Allo scomunicato, secondo il can.1331, ' 1, 3° è fatto divieto "di esercitare funzioni in uffici e ministeri o incarichi ecclesiastici qualsiasi, o di porre atti di governo". Un chierico che si trovasse in simile situazione, cioè con una scomunica dichiarata, può anche non essere ancora dimesso dallo stato clericale e, quindi, risultare ancora incardinato in una diocesi senza nessun rapporto possibile, fino a quando perdura lo stato in atto, con un servizio ministeriale. Questo sacerdote, giuridicamente ancora incardinato, ha il diritto attivo e passivo in ordine alle elezioni?

 

Si può concludere con facilità che non può essere soggetto passivo, in quanto non è nella possibilità giuridica di esercitare un qualsiasi ufficio e, di conseguenza e tanto meno, quello di membro di un Consiglio presbiterale.

 

Altrettanto chiara, inoltre, è anche la sua esclusione dal diritto attivo di elezione. Infatti è il can.171, ' 1, 3° a stabilire che "sono inabili a dare il voto" - in ordine alla elezione per un ufficio - "... chi è legato dalla pena della scomunica sia per sentenza giudiziale sia per decreto con il quale la pena viene inflitta o dichiarata".

 

Pertanto, ci troviamo di fronte a un caso emblematico a conferma dell'affermazione che la sola incardinazione non è elemento sufficiente per fondare l'agire giuridico nel nostro caso, secondo il contesto della legislazione ecclesiastica..

 

b. La seconda fattispecie presenta qualche complessità in più. Si tratta dei presbiteri appartenenti a quelle società di vita apostolica oppure aggregati alle cosiddette associazioni di presbiteri, che richiedono l'incardinazione in una diocesi, ma che, sia dal punto di vista giuridico sia sul piano di fatto, restano totalmente sganciati dal Vescovo della stessa diocesi quanto all'esercizio del loro ministero sacerdotale, dipendendo totalmente dall'Ordinario proprio o dal Moderatore dell'associazione.

 

Trascurando alcune particolarità legate alle singole situazioni, prendiamo come riferimento soltanto il caso del presbitero che con la diocesi incardinante abbia un rapporto limitato al puro fatto giuridico dell'incardinazione. Quale posizione giuridica gli può essere riconosciuta in ordine alle elezioni per il Consiglio presbiterale della medesima diocesi, sulla base delle norme attuali?

 

Se si prendesse alla lettera la disposizione del can.498, ' 1, 1°, si dovrebbe rispondere che a questo presbitero va riconosciuto sia il diritto attivo che il diritto passivo.

 

Ma, se si tiene conto di quanto, nello stesso canone si esige per i sacerdoti membri di un istituto religioso o di una società di vita apostolica, per i quali si richiede esplicitamente che esercitino in favore della diocesi un qualche ufficio, si deve concludere che, anche i sacerdoti di cui sopra, senza un servizio concreto non possono essere portatori di un diritto di agire. Infatti, la situazione 'di fatto' di questi presbiteri è analoga a quelli incardinati in un istituto religioso o, se previsto dalle costituzioni, in una società di vita apostolica. La loro incardinazione in una diocesi si riduce, in pratica, ad una pura 'fictio iuris', perchè non genera nel presbitero quei vincoli giuridici con l'autorità incardinante (il Vescovo diocesano) che, per sé, l'istituto dell'incardinazione intende normalmente stabilire.

 

A ciò si può aggiungere, almeno per l'aspetto passivo del diritto di elezione, che anche la finalità intrinseca alla funzione di un Consiglio presbiterale - coadiuvare nel governo della diocesi - rende manifestamente inidoneo a tale collaborazione chi con il Vescovo non ha nessun rapporto né di diritto né di fatto.

 

Una conferma indiretta può essere ricavata anche dal Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, dove si dice: "...I presbiteri, poi, incardinati in una diocesi, ma per il servizio di qualche movimento ecclesiale approvato dalla competente autorità ecclesiastica, siano consapevoli di essere membri del presbiterio della diocesi in cui svolgono il loro ministero e di dover sinceramente collaborare con esso".

 

Per completare il quadro, vi sono ancora due casi tipici che meritano una qualche considerazione.

 

Il primo è quello dei presbiteri diocesani che, abitualmente esercitano il proprio ministero presso una diocesi diversa da quella di incardinazione o presso altre istituzioni ecclesiastiche quali, ad esempio, la Conferenza Episcopale o la Santa Sede. Si deve osservare che questi sacerdoti sono in posizione giuridica diversa rispetto a quelli dei due casi precedentemente considerati. Infatti essi, come presbiteri, non sono collegati al proprio Vescovo solo dal fatto dell'incardinazione, ma anche da un rapporto di subordinazione diretta e da un suo mandato (o da una sua licenza o da un suo permesso) a esercitare un ufficio, pur se il destinatario del ministero non è direttamente la diocesi in cui sono incardinati. In tali presbiteri, pertanto, noi troviamo presenti sia l'incardinazione, sia il vincolo con l'autorità del Vescovo, sia l'esercizio di un ministero, che al medesimo Vescovo rinvia come mandante.

 

Il secondo caso è quello dei presbiteri secolari incardinati in diocesi e che, di fatto, sono 'senza servizio', pur dimorando nella propria diocesi oppure vivendo fuori. Anche questi presbiteri sono in una posizione giuridica particolare. Innanzi tutto essi sono nella situazione personale di poter ricevere un diretto comando da parte del proprio Vescovo e, quindi, nella possibilità di ricevere un servizio. Qualora per disobbedienza o negligenza non volessero assumersi un incarico, allora al Vescovo è riconosciuta la facoltà di esautorarli, a norma di legge, dall'esercizio del diritto attivo e passivo di elezione. Questa facoltà concessa al Vescovo, secondo il suggerimento contenuto nella risposta riportata da Communicationes, è una dimostrazione diretta della connessione, percepita anche dagli esperti che stavano elaborando le norme codiciali, tra l'incardinazione e l'esercizio di un ufficio perché entri in gioco il diritto di agire in ordine alle elezioni. Certo fino a quando la 'condicio iuris', in simili casi, risulta ancora giuridicamente libera e perciò è nella possibilità di essere portata 'ad acta' con il conferimento di un ufficio da parte del Vescovo, il presbitero non può essere privato del suo diritto.

 

Come ultima annotazione, si può rilevare che, in base alla norma del Codice, diventa teoricamente possibile che un presbitero faccia parte di più presbitèri elettivi e anche di più Consigli presbiterali. Infatti, egli diventa membro del presbiterio elettivo di tutte le diocesi nelle quali esercita un ufficio, in collegamento con il Vescovo diocesano della stessa.

 

 

3. La rappresentanza

 

Il Consiglio presbiterale ha diretto riferimento sia al Vescovo diocesano sia a tutti i presbiteri della diocesi. Esso diventa organo rappresentativo del presbiterio diocesano.

 

Il concetto di rappresentanza è entrato nella norma con qualche difficoltà, perché ritenuto ambiguo, in quanto potrebbe richiamare atteggiamenti di contrasto, o comunque di contrapposizione, tra i presbiteri e il Vescovo. E' fuori di dubbio che l'applicazione del contenuto della rappresentanza al Consiglio presbiterale ha bisogno di qualche precisazione per essere correttamente intesa.

 

La dottrina civilistica conosce almeno quattro tipologie di rappresentanza: quella volontaria, quella legale, quella organica e quella politica.

 

Sono certamente da escludersi, per il nostro caso, le prime tre, poiché esse dicono riferimento rispettivamente a una persona fisica, a una persona giuridica e ad un organo che rappresenta un ente giuridico.

 

Resta quindi la rappresentanza politica che è propriamente quella di coloro che hanno titolo per esercitare un potere in forza di un mandato, ottenuto per elezione da parte del soggetto che detiene la base del potere stesso. La rappresentanza politica è una delega, nel senso che coloro che la ricevono non hanno in sé la potestà vera e propria, ma viene loro demandato l'esercizio puro e semplice di una potestà che si trova in modo nativo e completo in un altro soggetto, il popolo. Per alcuni autori tale rappresentanza non creerebbe alcun vincolo giuridico tra rappresentato e rappresentante; per altri, invece, avrebbe anche una certa rilevanza giuridica.

 

Anche se alcuni elementi della rappresentanza politica si possono intravvedere nel Consiglio presbiterale, tuttavia vi sono ragioni che rendono alquanto limitato il rapporto tra la medesima rappresentanza e quella dei membri del Consiglio.

 

Infatti, occorre tener presente la realtà teologica della Chiesa. Il soggetto della piena sovranità, nella Chiesa, non è il popolo (come realtà sociologica di base), ma Gesù Cristo stesso; inoltre il metodo di trasmissione dei cosiddetti poteri non è la elezione fatta dai componenti della comunità, ma la via sacramentale, specificata dalla missio canonica.

 

E' vero che qualche analogia con la rappresentanza politica esiste. Tutti i presbiteri sono costituiti, in forza dell'Ordine sacro e della missione, "necessari collaboratori e consiglieri (dei Vescovi) nel popolo di Dio" (PO, 7), per cui essi divengono soggetti portatori di un certo diritto di partecipare, in qualche modo e sotto l'autorità del Vescovo, al governo della diocesi. Nulla vieta, e le circostanze talvolta possono anche consigliarlo, che il depositario di questa facoltà giuridica la conceda ad un altro che diviene così suo 'rappresentante politico'. In tal caso potremmo dire che vi è una trasmissione di esercizio dei diritti: i singoli sacerdoti, nelle forme stabilite dall'autorità della Chiesa, concedono un certo uso concreto della loro facoltà ad altri, per garantirne l'efficacia o perché non vi è concretamente altra possibilità per il suo esercizio.

 

Ma questa qualità di 'rappresentanza politica' avrebbe una applicabilità al Consiglio presbiterale se i suoi membri fossero tutti eletti direttamente dal presbiterio (come realtà sociologica di base). Invece, sappiamo che tale Consiglio è un gruppo di presbiteri, dei quali solo una parte sono eletti direttamente. Eppure è tutto il Consiglio che deve rappresentare il presbiterio diocesano.

 

Pertanto la rappresentanza del Consiglio presbiterale è "sui generis": esso è costituito, dalla legge della Chiesa, oggettivamente come rappresentante del presbiterio. Ciò significa che tutti i membri, sia quelli eletti, sia quelli di diritto o nominati dal Vescovo sono chiamati ad esprimere in atti di rilevanza giuridica (consultazioni, pareri, elezioni, ecc.) la partecipazione dei presbiteri della diocesi al governo della stessa. La qualifica assunta dai membri nominati o di diritto è sempre quella di rappresentate del presbiterio (non del Vescovo), perché restano sempre presbiteri senza nessun'altra facoltà specifica in ordine al Consiglio e al presbiterio.

 

E' fuori discussione il legame giuridico di base (iniziale) tra i presbiteri e i futuri membri eletti del Consiglio: la deputazione è un atto necessario, secondo le norme vigenti. Ma, oltre l'atto di deputazione (che stabilisce il collegamento con la rappresentanza politica), in linea di principio, non sorge altro vincolo giuridico tra gli stessi presbiteri e i loro eletti. Infatti, ciò che i singoli sacerdoti concedono ai membri del Consiglio presbiterale è la possibilità concreta ed efficiente di partecipare direttamente, anche a nome loro, al governo della diocesi. Essi, pertanto, non conferiscono un mandato per dire sì o no a determinate scelte concrete, in rapporto a quello che vuole la "base" elettorale, ma un mandato generale. Così, quando i consiglieri sono chiamati a dare un parere, impegnano direttamente la propria responsabilità, per il bene comune e non settoriale. Il presbiterio diocesano, nell'atto di formazione del Consiglio presbiterale, è chiamato a scegliere delle persone, non dei programmi politici.

 

Da queste affermazioni di principio deriva che la rappresentanza del Consiglio Presbiterale, in rapporto ai vari ministeri, alle regioni o zone pastorali, alle varie età o generazioni dei sacerdoti, dal punto di vista dottrinale, ha un collegamento solo in ordine al momento 'formativo' del Consiglio, non a quello della sua 'attività', una volta costituito.

 

Le cosiddette zone pastorali hanno solo carattere di funzionalità, che va tenuto presente, ma che non intacca il principio secondo il quale i rappresentanti eletti in una zona non sono costituiti solo per gli interessi di questa, ma per il bene dell'intera diocesi. Per il fatto che i membri del Consiglio presbiterale collaborano al governo della diocesi, la loro funzione nello stesso Consiglio non può essere collegata ad una rappresentatività territoriale, quasi che questa sia determinante.

 

 

4. Partecipazione al governo

 

Il Consiglio presbiterale è stato istituito al fine di aiutare efficacemente il Vescovo nel "governo della diocesi". Non è pertanto una "camera di deputati o di senatori". Esso non è un organo legislativo, ma entra nella sfera dell'esecutività o del 'consiglio', secondo quanto è stabilito nell'ordinamento canonico.

 

Due sono i punti da focalizzare: il contenuto dell'attività di governo, cioè che cosa rientra nel concetto di governo, e chi è il soggetto avente potestà di governo nella diocesi, con il riflesso che questo comporta in ordine alla potestà del Consiglio presbiterale.

 

E attività di governo, in senso generale, tutto ciò che serve all'attuazione del bene comune in senso tecnico, cioè la organizzazione della vita comunitaria. Tale bene comune, nel suo aspetto statico, è la stessa organizzazione della vita sociale, quale risulta dalle norme che reggono l'attività dei fedeli e dalle istituzioni che tutelano il bene comune; nel suo aspetto dinamico, invece, è Ail complesso dele condizioni pubbliche che rendono possibile la vita sociale, l'attività comune in ordine all'attuazione dei beni umani comuni@.

 

Applicando questi concetti al governo della diocesi, la quale ha pure un bene comune in senso tecnico, si può dire che costituisce attività di governo diocesano tutto ciò che serve (norme, istituti, azioni) a creare quelle condizioni che rendono possibile, o facilitano, a tutti i fedeli cristiani l'attuazione dei beni soprannaturali comuni, beni che, nel presente ordine di salvezza, si attuano nella sfera della visibilità.

 

Può essere superflua una elencazione minuta di quali siano le azioni del Vescovo che possono essere incluse nella categoria del governo, anche per il fatto che è impossibile fissare una volta per sempre tali azioni; anche il bene comune in senso tecnico di una diocesi è soggetto a migliore comprensione e a mutamenti, in relazione a determinate circostanze storiche e ai luoghi. Ha una sua rilevanza, invece, un breve accenno alla questione teorica di quali azioni possono richiamare l'aiuto del Consiglio presbiterale nel governo diocesano.

 

E evidente che l'ultima parola spetta al diritto positivo; sarà questo, universale o particolare, a fissare in modo specifico, ambiti precisi di intervento. In linea di principio, però, si deve rimarcare che il Consiglio presbiterale può essere chiamato ad agire nell'esercizio di tutto ciò che rientra nella potestà pastorale del Vescovo. Motivi di opportunità possono anche suggerire di riservare qualche campo al Vescovo personalmente o di demandarlo ad altri uffici o persone; tuttavia, per sé, nulla sarebbe tale da essere escluso dalla competenza del Consiglio.

 

Per quanto riguarda la potestà, in senso proprio, va affermato con chiarezza che il soggetto a cui è attribuito l'esercizio pieno della potestà pastorale (nelle sue articolazioni: legislativa, giudiziaria, esecutiva) nella diocesi è solo il Vescovo, il quale nella sua azione deve tener conto del bene di tutta la diocesi. Il diritto positivo può anche regolamentare (in senso distributivo) la potestà giudiziaria e quella esecutiva e può anche determinare alcuni vincoli specifici per l'agire del Vescovo (cf., ad esempio, i cann.515, ' 2 e 1222, ' 2), ma resta fuori discussione che al Consiglio presbiterale è concesso, in linea di principio, solo un "potere di natura consultiva".

Poiché il Consiglio è strettamente congiunto al Vescovo nel governo diocesano, la sua potestà si presenta, in relazione agli altri organismi della curia diocesana, che sono puramente esecutivi, con una natura dispositiva, mentre, in relazione al Presbiterio diocesano, essa deve considerarsi non esclusiva, in quanto il medesimo Consiglio non è tutto il Presbiterio, ma solo il rappresentante di esso e, in particolari casi, deve essere sempre possibile, per il Vescovo diocesano. il ricorso alla consultazione di tutti i presbiteri della diocesi, anche dopo un parere, già espresso, del Consiglio.

 

Prima di concludere queste considerazioni sul governo, è opportuno tener presente che un'azione governativa non nasce dal nulla, ma ha una sua storia particolare, si realizza in una situazione concreta. Pertanto, si partecipa al governo non solo quando si è chiamati a dare un voto deliberativo su questo o su quel problema, ma anche quando si è chiamati al semplice consiglio, quando si provocano determinati problemi o si prospettano possibili soluzioni.

 

L'attuale Codice di Diritto Canonico ha così concretizzato l'ambito dell'esercizio della potestà del Consiglio Presbiterale:

 

- i membri hanno diritto di designare due di essi per la partecipazione al concilio provinciale (can.443, ' 5);

- deve essere sentito per l'indizione del sinodo diocesano (can.461, ' 1);

- i membri hanno il diritto di essere convocati al sinodo diocesano (can.463, ' 1, n.4);

- deve essere sentito negli affari di maggiore importanza (can.500, ' 2);

- deve essere sentito quando si tratta di erigere, sopprimere, modificare notevolmente le parrocchie (can.515, ' 2);

- deve essere sentito per stabilire norme sulla destinazione delle offerte di cui al can.531;

- deve essere sentito per rendere obbligatoria la costituzione dei consigli pastorali parrocchiali (can.536, ' 1);

- deve essere sentito per l'erezione di chiese nuove (can.1215, ' 2);

- deve essere sentito per la riduzione ad usi profani di una chiesa (can.1222, ' 2);

- deve essere sentito per imporre tributi straordinari alle persone fisiche e a quelle giuridiche (can.1263);

- deve essere sentito per la costituzione del gruppo dei parroci, dal quale vengono scelti i due parroci che valutano con il Vescovo i casi di rimozione dei parroci (can.1742).

 

 

5. Titolo del mandato dei membri e sua cessazione

 

Alcuni aspetti riguardanti i membri del Consiglio presbiterale sono già stati evidenziati, quando si è parlato del presbiterio elettivo. Vi sono, però, altre questioni da focalizzare.

 

Tenendo presenti i diversi elementi intercorrenti, sembra che si possa costruire questo schema, in ordine al titolo per la presenza di un presbitero nel Consiglio presbiterale della diocesi.

 

a) Il titolo remoto che rende atto un sacerdote ad essere candidato al Consiglio è l'appartenenza al Presbiterio diocesano. Questo titolo (risultante da due elementi: l'Ordine sacro e la missione canonica) è comune a tutti i sacerdoti e preesiste a qualsiasi attività procedurale tendente alla formazione del Consiglio.

 

b) In un secondo tempo avviene, sulla linea di opportune norme, la designazione dei membri. Con questa operazione si generano in alcuni sacerdoti dei nuovi titoli che possono essere riassunti in: - titolo di diritto (nel quale è inglobato anche quello di ufficio); - titolo di nomina vescovile; - titolo di elezione (cf. can.497).

 

Il titolo di elezione presenta alcune caratteristiche particolari che è bene mettere in risalto.

 

Tra le modalità previste per la "provvista" di un ufficio il can.147 menziona esplicitamente: "...per conferma o ammissione fatta (dall'autorità ecclesiastica) dopo una elezione o una postulazione; infine per semplice elezione e accettazione da parte dell'eletto, se l'elezione non abbia bisogno di conferma".

 

La elezione a membro di un Consiglio presbiterale di un sacerdote secolare ha bisogno di conferma o no?

 

Anche se nessun autore ne parla in modo esplicito, sembra ovvio che si debba ritenere che, una volta eletto, il presbitero ha un vero e proprio diritto in ordine al Consiglio. Si tratta, però, di un diritto 'sui generis', in quanto, prima di entrare in atto deve attendere la 'proclamatio' delle persone e la 'institutio', da parte dell'autorità ecclesiastica, del coetus entro il quale l'ufficio ecclesiastico si deve esercitare. Poiché l'esercizio effettivo dell'ufficio del Consiglio presbiterale dipende da quanto è stabilito nella legge comune e in quella particolare, alla prima non contraria, anche il Consiglio ha bisogno della missione canonica (la 'costituzione') per l'esercizio efficace delle sue funzioni. Dopo la 'designazione', non abbiamo ancora la 'costituzione formale'; i presbiteri designati non sono ancora membri effettivi fino a quando non esiste il decreto vescovile che dichiari costituito il Consiglio a tutti gli effetti. Il 'titolo' di efficacia è proprio questo mandato del Vescovo. Pertanto, la elezione di un membro del Consiglio Presbiterale è uno dei casi in cui è necessaria la conferma.

 

Avvenuta la elezione (con gli atti formali successivi della 'intimazione' e della 'accettazione'), si stabilisce nel presbitero eletto un diritto personale che può essere avversato solo richiamandosi al can.149, ' 1: "Perché una persona sia nominata ad un ufficio ecclesiastico, dev'essere nella comunione della Chiesa; dev'essere inoltre idoneo, ossia fornito delle qualità richieste per quell'ufficio, per diritto universale o particolare oppure per legge di fondazione".

 

Una volta inserito nel Consiglio presbiterale, un membro, ha il diritto di parteciparvi fino alla sua naturale scadenza, salvo che intervenga una delle altre modalità previste dalla legislazione canonica per la cessazione di un ufficio ecclesiastico.

 

Il can.184, ' 1, prevede sei modi di cessazione dall'ufficio: "...cessazione del tempo stabilito, compimento dell'età fissata, rinuncia, trasferimento, rimozione, privazione".

 

Se si applicano queste modalità a un membro del Consiglio Presbiterale si ha che un membro cessa dal suo ufficio, oltre che alla scadenza naturale del mandato, anche:

- quando vi rinuncia

- quando ne è privato da un precetto penale

- quando vi è una scomunica o altro di simile che rende inabili all'ufficio (cf. can.171, ' 1).

 

Gli altri modi di cessazione non sono, ovviamente, applicabili al caso.

 

Il Codice non prevede una figura giuridica che possa far cessare dall'ufficio di membro del Consiglio presbiterale per passaggio da una zona all'altra o per cambio di categoria presbiterale o per cambiamento di ufficio.

 

Tuttavia non va dimenticato che, tenendo conto degli Statuti specifici, ai quali rimanda il can.496, possono anche essere configurati modi di cessazione dall'ufficio non previsti dalla legge comune.

 

L'analisi dottrinale fa ritenere molto più comune la convinzione che non possa esistere cessazione per cambiamento di zona o di ufficio relativamente ai membri eletti direttamente dal clero, perché essi sono visti più come rappresentanti di persone (presbiteri) che di categorie o di zone.

 

Le esperienze pratiche, però, hanno evidenziato che, negli statuti, talvolta sono state previste particolari forme di decadenza dall'ufficio e anche di 'sostituzione' dei membri ('ipso iure', 'ipso facto', cambiamento d'ufficio...). Resta giuridicamente determinante il fatto che queste modalità nuove di cessazione e di sostituzione, durante munere, quando sono applicate, sono espressamente previste nello Statuto. Quando la nuova modalità è chiaramente affermata, essa non può essere considerata 'contra legem'. Ma se nessuna modalità nuova è specificamente richiamata dalle norme particolari, le uniche che possono essere applicate sono quelle contenute nella legislazione comune.

 

 

6. Rapporto tra Consiglio Presbiterale e Consiglio Pastorale

 

Il rapporto tra Consiglio Pastorale e Consiglio Presbiterale e stato, forse, l'aspetto più discusso e meno compreso dei due nuovi organismi della Chiesa particolare.

 

Mi pare che la difficoltà non sia tanto da porre dal punto di vista dottrinale, quanto da quello pratico. Una certa facilità di costituzione del Consiglio presbiterale e la sua precisa prescrizione, hanno portato diverse chiese locali a dare ad esso una prevalenza: lo si è formato con prontezza e con una abbondanza di membri. La sua non chiara posizione, sempre sul piano pratico, nell'ambito giurisdizionale (forse anche per un certo vago timore, in ordine al suo ruolo, da parte dei vescovi) ha fatto si che, molto spesso, il Consiglio presbiterale si sia trasformato anche in Consiglio pastorale, naturalmente composto da soli sacerdoti.

 

Questa percezione la si è avuta in diverse diocesi ed è stata tale da far pensare seriamente all'inutilità dell'uno o dell'altro Consiglio.

 

Sul piano dottrinale, mi pare, non esistano dubbi sulla finalità specifica dei due Consigli.

 

Il Consiglio presbiterale ha il compito di aiutare efficacemente, con il suo consiglio, il vescovo, nel governo della diocesi.

Il Consiglio pastorale ha il compito specifico di scoprire, studiare, valutare i problemi generali della pastorale diocesana, farne un piano organico, scoprire ciò che è predominante come importanza, suggerire strumenti e mezzi per arrivare a conclusioni pratiche.

 

Il compito dei due consigli, secondo i documenti che li prescrivono o li descrivono, presenta, con chiarezza, identità di contenuto generale. La loro differenza deve essere posta in un diverso rapporto nei confronti di esso: il Consiglio presbiterale considera le opere pastorali in relazione a una decisione, il Consiglio pastorale le considera nella fase di studio e di proposta.

 

Tutto ciò è ben espresso nella lettera circolare sui Consigli pastorali "Omnes christifideles", della Sacra Congregazione dei Clero. Vi si legge: "Circa le questioni pastorali concernenti l'esercizio della giurisdizione o della potestà di governo, il vescovo ha già un proprio senato che lo aiuta con i suoi consigli, cioè il Consiglio presbiterale. Nulla però impedisce che il Consiglio pastorale esamini questioni e dia al vescovo suggerimenti per la cui messa in esecuzione si richieda un atto di giurisdizione: in questo caso il vescovo considererà la cosa e prenderà una decisione dopo aver ascoltato, se sarà opportuno, il Consiglio presbiterale".

 

Da qui, come da altri riferimenti, si specifica la giusta collocazione dei Consigli in ordine al vescovo.

 

Schematizzando possiamo esprimerci in questo modo.

 

Il soggetto a cui e attribuito l'esercizio pieno della potestà di governo (potestà pastorale nelle sue diverse articolazioni) nella diocesi è il vescovo (Cf. L.G., n. 27).

 

Un esercizio corretto di questo servizio pastorale esige, da parte del vescovo, una conoscenza vera dei problemi della Chiesa particolare che gli è affidata e dei doni che lo Spirito Santo liberamente vi elargisce. Prima di disporre, deve conoscere. In questo lavoro di conoscenza dei problemi e dei doni si colloca il Consiglio Pastorale.

Realizzata la conoscenza, al vescovo si presentano due modalità, in ordine alla decisione: può assumersi la responsabilità di una decisione autonoma; oppure, può (e gli si consiglia) assumerla in unione ai rappresentanti di coloro che gli sono diventati, per il sacramento dell'Ordine, i suoi necessari collaboratori.

 

Ambedue i Consigli sono, per sé, di carattere consultivo. Nulla vieta che in determinati casi, stabiliti dal diritto universale o particolare, il parere del Consiglio pastorale su certi problemi, e quello del presbiterale su altri, possa diventare determinante. Certo, in nessun caso, l'uno o l'altro dei Consigli potrà dare un parere vincolante, se non è la legge universale o il Vescovo a ritenerlo tale; ma, anche in questo caso, il vincolo non nasce dalla natura dei Consigli, ma da chi è il soggetto investito della autorità pastorale.

 

La comprensione della finalità specifica dei Consigli pastorale e presbiterale comporta conseguenze rilevanti, sul piano pratico.

 

Per il Consiglio pastorale si giustifica una certa abbondanza di membri (da non esagerare per non costruire una struttura mastodontica); per il presbiterale, invece, il numero dei membri è meglio che sia ristretto, pur se deve essere significativo.

 

Per il Consiglio pastorale il lavoro prevalente si realizza nelle commissioni permanenti di lavoro e le assemblee plenarie possono essere relativamente poche e in momenti importanti (formazione del piano pastorale - sua verifica - situazioni di particolare gravità); per il presbiterale il lavoro normale è come Consiglio, deve risultare facile la sua convocazione e, quindi, anche frequente.

 

Se si tiene presente che una commissione e un organo di studio e di proposta, si può comprendere che la struttura in commissioni permanenti non ha significato nel Consiglio presbiterale. Forse, una sola potrebbe avere il carattere di permanenza: la commissione di controllo sull'effettiva esecuzione delle deliberazioni consigliari approvate dal vescovo.

 

L'attenzione a far risaltare, sul piano operativo, la finalità specifica dei due Consigli, aiuterebbe certamente a rendere più agile e meno burocratico il governo pastorale della diocesi; porterebbe ad evitare sovrapposizioni o doppioni (attuali o futuri) sia nelle strutture che nel lavoro, con un migliore utilizzo delle persone e con un più efficace uso del tempo.

 

 

7. Conclusione

 

Sembra utile concludere con quanto la S. Congregazione per il Clero scriveva nel proemio della lettera circolare Presbyteri Sacra:

 

AI sacerdoti, in virtù dell'ordinazione sacra e della missione che ricevono dai Vescovi, sono promossi al servizio di Cristo maestro, sacerdote e re, partecipando al suo ministero, per il quale la Chiesa qui in terra è incessantemente edificata in popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo. Pertanto, poiché il ministero sacerdotale non può essere realizzato se non nella comunione gerarchica di tutta la Chiesa, nessun sacerdote può adempiere in pieno la sua missione se agisce da solo e per proprio conto, ma solo se unisce le proprie forze a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa.

 

AI Vescovi, infatti, ricevuta la missione canonica, reggono le chiese particolari loro affidate, come vicari e legati di Cristo per poter rettamente svolgere il loro compito di pascere la porzione del popolo di Dio, assumono come loro necessari collaboratori i sacerdoti, i quali da essi dipendono nell'esercizio del loro ministero e con essi sono congiunti per l'onore sacerdotale.

 

AI sacerdoti chiamati a servire il popolo di Dio costituiscono con il loro Vescovo un presbiterio unico, sebbene destinato a diversi uffici. Pertanto in ogni diocesi tra il Vescovo e tutti i sacerdoti esiste una comunione gerarchica che li unisce strettamente e li rende membri di un'unica famiglia, nella quale il Vescovo è padre (n.1).

 

 

 

Bibliografia essenziale

 

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