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CONFERENZA di S.E.R. Mons. DARIO CASTRILLON HOYOS

Pro-Prefetto della Congregazione per il Clero

 

ai Sacerdoti del Molise in occasione dell'Incontro

presso la Casa di Spiritualità "Villa S. Michele"

 

Matrice, martedì 10 giugno 1997

 

 

Eccellenza(e) e Sacerdoti carissimi,

 

rendo grazie a Dio per trovarmi qui insieme a tanti suoi "cristi", in un clima di cenacolo, congregati insieme, nel calore della fraternità sacerdotale, in una Casa dove tutto parla dell'"Amore Misericordioso" (essa è curata dalle Comunità dei Figli e delle Ancelle dell'Amore Misericordioso), certamente sotto lo sguardo materno di Colei che, Immacolata e piena di grazia, di quell'Amore è icona palpitante, in una Villa denominata "S. Michele" che, Principe delle milizie celesti, ci invita a quel "serviam!" che costituisce il nodo fondamentale del profluire della redenzione salvifica per tutto il genere umano. "Serviam!" è il nostro programma di vita perché è la radice stessa del nostro essere sacerdotale. Noi viviamo il sacerdozio del Sommo ed Eterno Sacerdote che, venendo in questo mondo, ha dichiarato di esserci venuto per fare la volontà del Padre. Essa è volontà salvifica che, quale sorgente benedetta, intende passare attraverso quei canali che siamo noi.

Tutto dunque ci invita e ci aiuta a vivere insieme un tempo di "ricarica" per essere più pienamente noi stessi e perché il nostro "agere" sia davvero consequenziale al nostro "esse". Sta qui l'anima di ogni apostolato, sta qui la verità di noi stessi.

Noi dobbiamo diventare ogni giorno quello che già ontologicamente siamo!

 

Di cosa ha bisogno l'uomo d'oggi? Della riflessione. Il profeta Geremia individuò la causa delle disgrazie dell'uomo sulla terra nella mancanza di riflessione ed ecco come esprime la lagnanza di Dio: "Numerosi pastori hanno devastato la mia vigna, hanno calpestato il mio campo. Hanno fatto del mio campo prediletto un deserto desolato...E' devastato tutto il paese e nessuno se ne dà pensiero...Essi hanno seminato grano e mietuto spine, si sono stancati senza alcun vantaggio; restano confusi per il loro raccolto" (Ger. 12, 10-13).

Perché? Perché nessuno se ne dà pensiero. La mancanza di riflessione è il motivo per cui è "devastato tutto il paese".

Questo quadro, dipinto da Geremia duemilaseicento anni fa, non è forse anche l'immagine del mondo di oggi, desolato spiritualmente e materialmente, pieno di tensioni e di ansie?

Io credo che una delle più notevoli malattie dell'età moderna - ed ogni epoca ha le sue specifiche infermità - sia la mancanza di riflessione. L'uomo, tutto preso dalle cose esteriori, in preda ad una iperemotività per le cose che passano, che si usano e gettano, per il sensazionale, non esamina il suo interno e non pensa a Dio, il quale è invece il nostro principio e il nostro fine. Spesso accade che gli uomini siano assorbiti esclusivamente dalle cose da fare, con gli occhi tesi alla televisione e ai titoli, al massimo anche ai sottotitoli, della carta stampata, non trovano tempo per guardare dentro a se stessi e per dare ascolto alla voce dello Spirito Santo, che parla dentro di loro. Lo schermo della coscienza, sul quale l'uomo intravede se stesso, non può essere sostituito dallo schermo televisivo. La voce di Dio, portata sulle onde dell'anima umana immortale, non può essere sostituita dalle onde elettromagnetiche. Ecco perché la malattia dell'uomo moderno sta nella mancanza di riflessione, ed essa è fonte di molti mali.

 

Anche i miscredenti, a loro modo, risentono di questo male. Quando, decenni fa, l'uomo pose per la prima volta piede sulla superficie lunare, uno dei più celebri filosofi contemporanei, Bertrand Russel, dichiarò: "Il male esiste, perché siamo divorati dalla febbre di agire; l'umanità ha però bisogno innanzitutto di silenzio, della riflessione e della meditazione".

Il male provocato dalla mancanza di riflessione e di clima di orazione nel quale dovremmo essere continuamente immersi, minaccia anche noi sacerdoti e vescovi. Ognuno di noi è esposto, si può dire, al pericolo della dispersione e del "rumore", al pericolo di smarrirsi nell'esteriorità trascurando la propria interiorità. Eppure lo sappiamo bene - dobbiamo tuttavia ripetercelo sempre - l'efficacia delle nostre azioni esterne, dei nostri progetti e di ogni creatività pastorale deriva soltanto dall'essere ripieni di Dio. In un certo senso - e voi siete in grado di comprendermi bene, senza alcun fraintendimento - più abbiamo la testa fra le nuvole e più abbiamo i piedi per terra, più siamo chiusi nel tabernacolo, con intelligenza, affetti, volontà e più siamo lanciati per le strade di questo mondo!

Nell'Apocalisse troviamo un insistente ammonimento, del tutto attuale: "All'Angelo della Chiesa di Sardi scrivi...Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto; perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti...(Ap 3,1-3).

Ricorda, ripensa, medita, rumina quanto hai udito e ricevuto da Dio.

A tutti è necessaria la riflessione. Perciò abbiamo bisogno di giornate come questa. I ritiri spirituali ci distolgono dall'attenzione preponderante al mondo esterno e ci costringono salutarmente al lavoro interiore dello spirito.

 

Più noi conosciamo il nostro tempo - ed abbiamo il dovere di farlo, non già perché si debba correre dietro alle mode per uno stolto prurito di novità, ma perché siamo sacerdoti per la salvezza, per essere canali dell'amore misericordioso di Dio sui sentieri della storia sui quali si incontrano gli uomini sempre bisognosi di conversione - e più ci accorgiamo dell'esigenza di essere immersi nella preghiera, fino ad essere noi stessi una lode, fino ad essere noi stessi preghiera, intercessione, sostituzione vicaria. "Sacerdos et Hostia"!

Il sacerdote deve poter essere considerato segno vivente e portatore della misericordia, che però non offre come propria, bensì come dono di Dio. E' anzi servitore dell'amore di Dio per gli uomini, ministro della misericordia. La volontà di servizio si inserisce nell'esercizio del ministero sacerdotale come elemento essenziale, che a sua volta esige anche la rispettiva disposizione morale nel soggetto. Il presbitero fa presente agli uomini Gesù, che è il pastore venuto "non per essere servito, ma per servire" (Mt 20,28). "Sacerdos ad serviendum". E il sacerdote serve in primo luogo Cristo, ma in un modo che passa necessariamente attraverso il servizio generoso alla Chiesa e alla missione di evangelizzazione per la quale la Chiesa esiste sulla terra e detiene così strabiliante autorità.

 

Per esercitare tanto ministero, tanto servizio così assolutamente essenziale per ogni uomo, ogni sacerdote ha il dovere di conoscere i tempi nei quali è stato chiamato a vivere. Non si tratta di curiosità, non si tratta di mondanità, non si tratta di "hobbistica" culturale; si tratta, piuttosto, di un dovere per poter servire e tale dovere è, pertanto, discendente dalla nostra stessa ontologia.

In relazione a tale dovere, vediamo allora di riflettere insieme, pur brevemente, sul clima epocale nel quale esercitiamo il nostro sacro ministero.

 

Si parla di crisi epocale, di fine della modernità, di passaggio alla postmodernità, alla società postindustriale, che rischia pure di diventare postcristiana. Quali sono i segni di questa crisi della modernità? In cosa consiste la postmodernità? Dobbiamo farcene un giudizio negativo o c'è qualcosa di positivo dal punto di vista del Vangelo?

Intanto sappiamo che le linee fondamentali sulle quali scorre la modernità sono l'antropocentrismo, il razionalismo (ragione non metafisica e, quindi, non trascendente), l'affermazione della libertà assoluta dell'uomo (quindi autonomia della ragione, della coscienza morale e religiosa; indipendenza della natura tramite la scienza e la tecnica), l'immanenza e l'affermazione del "progresso" costante e senza limite alcuno.

 

Con l'esaurimento dei grandi "miti" della modernità, subentra il disincanto e la crisi, i cui segni sono, fra altri:

 

- crisi di fondamento teoretico ed etico;

- crisi d'integrazione o mancanza di una visione globale dell'individuo, della società e del mondo che dia senso all'esistenza;

- crisi del miraggio di autonomia e di individualità: si parla di "alienazione", di "feticismo della merce"(Marx), di "cosificazione" (Lukacs), di "società manipolata e della fine dell'individuo" (Horkheimer e Adorno), di "anomia" (Durkheim), di "stress" e di "società consumistica", ecc.;

- crisi di universalismo: la modernità non riesce a dar ragione di tutte le culture.

 

Ma affinché questi accenni che ho fatto in modo davvero ermetico, siano colti nella loro realtà, nell'incidenza che quotidianamente hanno sul tessuto societario dove noi conduciamo il nostro ministero pastorale, porto ora qualche esempio di alcune strade che, nella modernità, conducono verso un vicolo cieco:

 

Nonostante il progresso moderno nell'ordine materiale, l'uomo vive un grande malessere e subentra una controcultura che si riflette in quasi tutti i campi del vivere umano:

 

- nella letteratura, nel teatro dell'assurdo, nelle regie e nelle scenografie altrettanto assurde, nella musica dell'assurdo pentagrammatico, dello squilibrio o del parossismo dei suoni;

- nella pittura, dall'arte figurativa come "splendor formae" all'astratto e di qui alla dissoluzione dello stesso concetto di arte;

- nella filosofia con il "pensiero debole". Senza metafisica né trascendenza , senza verità oggettiva, senza progetti, senza sintesi né visioni globali dell'uomo, del mondo e di Dio. Non resta che il frammento, il soggetto, l'effimero, il nominalismo (l'affermazione del nominalismo, in realtà, è la morte della ragione umana e non del pensiero cristiano);

- nella teologia. La teologia "della morte di Dio";

- nella scienza: la minaccia rappresentata dalle armi nucleari, dalla contaminazione ambientale, dalla manipolazione genetica sull'uomo, ecc., sta ad indicare i limiti della scienza quando non è guidata dall'etica, che la garantisce come elemento di autentico progresso, ovvero di tessera del mirabile mosaico della promozione integrale dell'uomo.

 

Ma arriviamo alla postmodernità il cui termine forse è stato usato per la prima volta dallo storiografo Toynbee nello "Studio sulla storia" (1934-1955).

Anche se i germi erano rinvenibili già nell'esaurimento della modernità. L'uomo contemporaneo ne ha poi preso consapevolezza da taluni avvenimenti fra i quali si potrebbero ricordare:

 

- la seconda guerra mondiale con la sua brutalità e le micidiali armi nucleari che minacciano la sopravvivenza dell'umanità;

- il processo di "scolonizzazione", soprattutto a far data dagli anni '50, che sembrerebbe quasi corrispondere ad un processo di frantumazione della "civiltà occidentale" e l'irruzione di nuove nazioni e culture diverse;

- gli effetti negativi della industrializzazione, soprattutto a partire dagli anni '80 e la preoccupazione ecologica;

- il neofemminismo, come si deduce dalla dichiarazione dell'ONU sulla donna negli anni '60. Importanza dei valori femminili e il loro contributo alla società e alla storia;

- il fenomeno giovanile del "sessantottismo" contro la società moderna globalmente considerata: ideologie, scienza-tecnica, consumo, autorità, ricerca di senso e della qualità della vita;

- trauma degli intellettuali e dei politici dopo il crollo delle ideologie, soprattutto del marxismo e dei sistemi politici che ad esso si ispiravano (il 1989 rimane come la pietra miliare). Fine della guerra fredda, della politica dei due blocchi contrapposti, sfida di una nuova Europa e di un nuovo ordine mondiale.

 

Direi che più di una teoria, la cosiddetta "postmodernità" è un atteggiamento disincantato, di rassegnazione e di scetticismo. L'istinto spontaneo prevale sulla ragione, l'io vuole imporsi a tutti i livelli in una sorta di olocausto dell'oggettività. Quasi non c'è differenza tra soggetto ed oggetto in fenomeni come la TV, il computer, la moda, il consumo, le ideologie, i partiti politici, ecc. Il prammatismo ha la meglio, l'uomo "light" è segnato dalla tetralogia nihilista: edonismo, consumismo, permissività, relativismo. Si verifica una esaltazione del presente scisso dalle radici della cultura precedente e un grande timore per qualsiasi impegno che sia definitivo ed irreversibile. L'uomo "mass-mediatico" sostituisce il pensare con l'opinare, il giudicare con l'essere informato, il riflettere con il percepire la realtà. Inoltre il soggetto cambia con grande facilità, la società si frammenta in microgruppi e culture, fino all'affermazione pratica del "campanilismo". Nell'etica la preoccupazione investe più la casistica che i principi fondanti.

Non preoccupa l'etica in sé, bensì la "microetica" individuale e prammatica.

Infine, in campo specificamente religioso l'uomo postmoderno non nega Dio, non nega la trascendenza ma ne prescinde. L'atteggiamento è pregno di ecclettismo, del tipo "new age".

 

Da tutto ciò non è difficile dedurne le conseguenze che devono essere tratte per l'efficacia del nostro ministero pastorale. I mali, infatti, devono essere individuati non già per alimentare nostre lamentazioni ma per curarne le conseguenze e per prevenirne altri.

Ne consegue, dunque:

 

- la dissoluzione del soggetto come persona razionale, libera, spirituale, aperta alla trascendenza. Oblìo dell'intenzionalità dell'intelletto verso la verità e della volontà verso il bene, mancanza di senso profondo. Rimane la nausea della vita;

- la dissoluzione del pensiero: senza metafisica, senza riflessione, senza verità oggettiva, senza volontà di interpretazione globale della realtà, dell'uomo, della storia, del mondo, di Dio, subentra la morte della filosofia, del mistero, dei valori, della trascendenza, dell'estetica, dell'ermeneutica, della storia, della teologia;

- la dissoluzione della verità, secondo gli strutturalisti. Della verità epistemologica: la verità si dissolve nel testo e nel processo delle interpretazioni. Della verità antropologica: dissoluzione del conscio nell'inconscio e della persona nelle sue maschere;

- la logica del consumo: nella pubblicità i segni diventano pseudosignificanti di pseudosignificati;

- la dissoluzione della coscienza morale: se non ci sono valori universali rimane soltanto l'etica debole, soggettiva, relativista. Avviene una dissociazione fra progresso scientifico- tecnico e progresso umano-etico;

- l'indifferentismo religioso: senza metafisica, senza apertura alla verità e al bene, senza norme morali universali, chiuso nell'orizzonte dell'immanentismo, l'uomo organizza la sua vita come se Dio non esistesse. Se ce ne fosse bisogno, una ragione vale l'altra.

 

E noi quale atteggiamento dobbiamo tenere innanzi a tutto ciò?

Anzitutto credo si debbano riconoscere i valori della modernità: la ragione come uno dei segni distintivi della realtà dell'uomo, immagine di Dio. San Tommaso non dice forse che la ragione è "scintilla quaedam luminis divini"? Riconosciamo pienamente il valore della dignità della persona che, nel metodo scientifico e nello sviluppo della scienza applicata mediante la tecnica, ritrova l'adempimento della missione biblica di dominare il cosmo. Non possiamo non sostenere la legittima autonomia delle realtà temporali e la lotta contro le false immagini di Dio.

Riconosciamo tutto questo e mentre facciamo quest'opera di doveroso riconoscimento ci accorgiamo che tutto questo è già patrimonio di Chiesa e lo è ben prima che la modernità se ne avvedesse. Poi ci sono i chiari-scuri della storia nei quali giocano la carenze degli uomini, ma il patrimonio rimane quello che è.

Nel riconoscere i valori suelencati la Chiesa ricorda il primato della persona umana sullo Stato e sul "progresso", la sua apertura vitale alla trascendenza, la capacità della ragione di conoscere la verità oggettiva-ontologica delle cose, i suoi limiti innanzi alla morale, i limiti della scienza, della tecnica e del "progresso".

Siamo chiamati a richiamare il fondamentale riconoscimento della divinità di Gesù Cristo, base dell'antropologia cristiana, il cui centro è l'uomo nella sua dignità e trascendenza.

 

La Chiesa, in ogni circostanza, non ha mancato di far costruttivamente conoscere il proprio giudizio critico sul razionalismo, sul positivismo, sullo storicismo, sul scientismo, sul liberalismo, sul marxismo (che prometteva traguardi terreni di uguaglianza, di felicità senza "alienazioni", calpestando la dignità della persona umana) e sull'esistenzialismo ateo.

La Chiesa si è opposta ai totalitarismi che portarono alla seconda guerra mondiale, all'olocausto di Auschwitz e di Hiroshima.

Questa Chiesa, Lumen gentium, oggi accoglie il compito di evangelizzare la postmodernità mediante la giusta inculturazione del Vangelo. Così noi dobbiamo conoscere il nuovo linguaggio della cultura, i suoi simboli, i suoi segni e le sue espressioni, non già per accoglierli acriticamente, ma per poter far penetrare il Vangelo nel cuore della cultura postmoderna e nel cuore e nell'intelligenza degli uomini che ne dirigono gli esiti. Dobbiamo diventare operai di una nuova evangelizzazione per creare una nuova cultura cristiana.

Abbiamo il vantaggio dei beni dei quali siamo portatori, di verità, di bellezza, di bontà, per riempire il vuoto del cuore "postmoderno", della mente "postmoderna". Siamo portatori di gioia nel disagio storico contemporaneo, luce di risurrezione nelle ombre di morte del pensiero neonichilista.

 

Ma davanti a tutte queste sfide, nell'incalzare del dovere di evangelizzare un mondo, una società per il bene della quale noi, potremmo dire, siamo stati fatti, potremmo razionalmente sentirci sopraffatti, sgomenti, quasi terrorizzati.

Sarebbe ovvio se tutto dipendesse dalle nostre capacità, dalle nostre forze, dalla nostra creatività, dalla nostra intelligenza. Per grazia di Dio non è così!

Noi dobbiamo agire, quanto a zelo missionario e a passione, come se tutto dipendesse da noi ma con la pace interiore di chi ben sa che tutto dipende da Dio e che al di sopra di tutto e di tutti sta il suo Amore misericordioso, che per questo Amore ci ha posti all'interno della esaltante realtà della "communio sanctorum". Cristo "Caput", Capo della Chiesa, elargisce al sacerdote la grazia proporzionata con il "munus" della "capitalità".

In forza di tutto ciò, il primato sta nel dialogo con Cristo, nell'orazione, nello "stare con Lui". L'anima di ogni apostolato è la contemplazione, la pienezza di Lui, diversamente correremmo invano.

"Stat Crux dum volvitur mundum", si trova scritto in non poche Certose, sotto alle antiche meridiane. "Stat": noi dobbiamo imparare a "stare" mentre tutto corre, ma questo "stare" è quanto mai dinamico e precede ed accompagna il nostro quotidiano "andare". E' lo spirito del "contemplata aliis tradere". Poiché noi non diamo del "nostro", anzi dobbiamo farci piccoli per lasciare che Cristo cresca, più stiamo con Lui e più diventiamo "funzionali", più siamo coerenti con la nostra identità e più fruttifichiamo apostolicamente, più preghiamo e più agiamo.

 

"Il sacerdote è stato, per così dire, concepito in quella lunga preghiera durante la quale il Signore Gesù ha parlato al Padre dei suoi Apostoli e, certamente, di tutti coloro che nel corso dei secoli sarebbero stati fatti partecipi della sua stessa missione (cf Lc 6,12; Gv 17,15-20). La stessa orazione di Gesù nel Getsmemani (cf Mt 26,36-44), tutta protesa verso il sacrificio sacerdotale del Golgota, manifesta in modo paradigmatico come il nostro sacerdozio debba essere profondamente vincolato alla preghiera: radicato nella preghiera" (cf Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, n.38). Le diverse attività non possono stornarci dal dovere della "indistrupta oratio" perché l'efficacia delle attività dipende da essa. Abbiamo necessità di entrare in particolarissima e profondissima sintonia con il Buon Pastore, il quale, solo, resta il protagonista di ogni opera pastorale.

Non si può essere testimoni di Cristo senza la preghiera. Noi dobbiamo essere, facendo risplendere la nostra identità, icone di Cristo Salvatore e la vita di Cristo in terra fu tutta vita di preghiera. Egli stava in preghiera quando il Padre proclamò la sua missione con le parole : "Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto" (Lc 3,22).

Prima di chiamare a sé gli Apostoli, trascorse la notte in orazione (Lc 6,12). Prima della moltiplicazione dei pani, alla presenza della folla, "alzati gli occhi al cielo pronunciò la benedizione (Mt 14,19), rese grazie" (Mt 15, 36) e li distribuì ai discepoli e alla moltitudine, come confermano tutti gli Evangelisti.

Si trasfigurò innanzi agli occhi di Pietro, Giacomo e Giovanni, quando "salì sul monte per pregare e mentre pregava" (Lc 9, 28-29).

Guarì l'uomo cieco e muto "guardando verso il cielo" (Mc 7, 34).

Dopo aver risuscitato Lazzaro, sollevò gli occhi in alto e disse: "Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato" (Gv 11,41).

Pietro confessò che Gesù è il Cristo di Dio, un giorno mentre "Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui" (Lc 9,18-20).

"Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito" insegnò ai suoi discepoli a pregare: "Padre nostro, sia santificato il tuo nome..."(Lc 11,1-4).

Quando poi i settantadue ritornarono, pieni di gioia, dal lavoro missionario "in quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra" (Lc 10,21).

"Allora gli furono portati dei bambini, perché imponesse loro le mani e pregasse...E dopo aver imposto loro le mani, se ne partì" (Mt 19, 13-14).

Gesù ha pregato per Pietro, perché "non venga meno la sua fede" (Lc 22,31).

"La sua fama si diffondeva ancor più, folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro infermità. Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare" (Lc 5, 15-16).

 

La preghiera animava il mistero messianico di Cristo. La preghiera animava pure il suo esodo pasquale, come leggiamo nella Institutio generalis de Liturgia horarum (n 4). Prima della sua passione, la domenica delle Palme, pregava: "Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire...Padre, glorifica il tuo nome" (Gv 12,27-28). Pregò durante l'ultima Cena con le parole della magnifica preghiera sacerdotale (cf Gv 17, 1-26). Dopo questa preghiera si recò nell'orto degli Ulivi, dove "in preda all'angoscia, pregava più intensamente" (Lc 22,44).

Pregò sulla croce: "Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34). Con le parole della preghiera: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito...spirò" (Lc 23,46).

Senza dubbio Cristo portò sulla terra l'inno che in cielo è incessantemente cantato a gloria di Dio. Ma Cristo volle che questo inno fosse cantato anche da noi. Lui ci unisce a sé e ci associa a Lui nell'elevare questo divino canto di lode (cf Concilio Vat. II, S.C.,n.83).

Noi preghiamo Gesù Cristo come nostro Dio. Gesù Cristo prega per noi, perché è uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini (Cf 1 Tm 2,5); è l'unico sacerdote.

Ma ciò non basta. Gesù Cristo prega in noi! Lui è il Capo del Corpo Mistico, noi ne siamo le membra. Quando ci rivolgiamo a Dio, è il nostro Capo, Cristo, che parla a Dio in noi. Riconosciamo, come dice Sant'Agostino, la nostra voce in Cristo e la voce di Cristo in noi.

E' una visione davvero mirabile che si dischiude alla nostra considerazione e deve essere vissuta da noi specialmente quando prendiamo fra le mani il nostro breviario per celebrare la Liturgia delle Ore. La nostra bocca che celebra le Ore è la bocca di Cristo ed è anche la bocca della sposa che parla allo sposo (cf Concilio Vat. II, S.C., n.84).

Pregando così il nostro cuore si dilata e palpita cattolicamente, raccoglie ogni anelito, ogni sofferenza, ogni travaglio, ogni gioia, ogni aspirazione. E' scuola di formazione sacerdotale permanente. E' preghiera dell'intelligenza e dell'esistenza; è preghiera del cuore; è vicina a tutti ed è aperta fecondamente alla trascendenza. Il nostro cuore si dilata come il cuore di Cristo per compiere tutta la volontà di Dio, che è volontà salvifica per ogni fratello.

 

Uscire dalla solitudine, uscire dal vuoto verso la pienezza di Dio, uscire dal cerchio angusto della piccola ragione moderna e del suo pensiero debole, per aprirsi alla sfera magnifica del trascendente, per ricevere e dare quella luce che la modernità ha rubato alla ragione. Questa è la preghiera "postmoderna". "In manus tuas..." è uscire dal nulla per andare verso il Regno, è uscire dall'io povero per correre verso la ricchezza di Dio.

 

Allora ogni qualvolta prendiamo nelle mani il nostro breviario o, comunque, ci raccogliamo in preghiera, e lo facciamo con cuore davvero sacerdotale, noi prendiamo nelle mani la nostra diocesi, la nostra parrocchia, i nostri giovani, la nostra gente e travalicando ogni confine, prendiamo nelle mani l'Asia, l'Africa, le Americhe, l'Oceania ... due miliardi circa di uomini che ancora non conoscono Cristo; prendiamo nelle mani il fardello delle Chiese di tutto il mondo.

 

Cari amici, ecco il motore di tutto, ecco l'acqua nella quale, come pesci, dovremmo nuotare e vivere, ecco il segreto della pace interiore, dell'armonia fra santificazione personale e sacro ministero, ecco la chiave di volta della nuova evangelizzazione per questa epoca detta della "postmodernità".

Siamo noi stessi e ogni giorno diventiamo quello che siamo e sperimenteremo i quotidiani miracoli dell'Amore misericordioso del nostro Dio!

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