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SACRA CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI E GLI ISTITUTI SECOLARI

SACRA CONGREGAZIONE PER I VESCOVI

CRITERI DIRETTIVI SUI RAPPORTI
TRA I VESCOVI E I RELIGIOSI
NELLA CHIESA

INTRODUZIONE

I vicendevoli rapporti tra i vari membri del popolo di Dio hanno oggi suscitato una particolare attenzione. La dottrina conciliare, infatti, sul mistero della chiesa e i progressivi mutamenti culturali hanno sospinto a tal punto di maturazione le attuali condizioni da far emergere problemi del tutto nuovi, dei quali non pochi sono indubbiamente risultati positivi, anche se delicati e complessi. Or appunto nel quadro di questi problemi vanno poste le relazioni scambievoli tra i vescovi e i religiosi, le quali destano speciali sollecitudini. Non v'è dubbio, infatti, che si rimanga colti da suggestivo stupore, se solo si pensa al fatto - la cui portata merita davvero particolare approfondimento - che le religiose in tutto il mondo sono più di un milione, ossia una suora per ogni 250 donne cattoliche, e i religiosi circa 270.000, tra i quali i sacerdoti costituiscono complessivamente il 35,6 per cento di tutti i sacerdoti della chiesa e in alcune regioni arrivano ad essere più della metà del loro insieme, come, ad esempio, nelle terre africane e in alcune parti dell'America latina.

Le due sacre congregazioni, per i vescovi e per i religiosi e gl'istituti secolari, nel decimo anno della promulgazione dei decreti Christus Dominus e Perfectae caritatis (28 ottobre 1965) hanno celebrato un'assemblea plenaria mista (16-18 ottobre 1975) con la consultazione e collaborazione delle conferenze nazionali dei vescovi, delle unioni nazionali dei religiosi, nonché delle unioni internazionali dei superiori e delle superiore generali. In tale assemblea plenaria furono affrontate, come temi principali, le seguenti questioni: a) che cosa i vescovi si aspettano dai religiosi; b) che cosa i religiosi dai vescovi; c) con quali mezzi si possa praticamente ottenere un'ordinata e feconda azione tra i vescovi e i religiosi sia sul piano diocesano sia sul piano nazionale e internazionale.

Inoltre, fissati i criteri generali ed effettuate varie aggiunte al testo delle proposte presentato ai padri, l'assemblea plenaria deliberò che si elaborasse un documento, nel quale venissero indicati degli orientamenti pastorali.

Pubblichiamo ora questo documento, redatto anche con il contributo delle sacre congregazioni per le chiese orientali e per l'evangelizzazione dei popoli.

L'argomento trattato è circoscritto in limiti ben determinati: in esso infatti si discute sul tema riguardante i rapporti tra i vescovi e i religiosi di qualsiasi rito e territorio, con l'intento soprattutto di contribuire ad agevolarne l'espletamento pratico. Oggetto di diretta discussione sono quelle relazioni, che opportunamente devono sussistere fra gli ordinari locali, gli istituti religiosi e le società di vita comune; non si fa pertanto riferimento diretto agli istituti secolari, se non per quanto concerne i principi generali della vita consacrata (cf. PC 11) e il loro inserimento nelle chiese particolari (cf. CD 33).

Il testo comprende due parti: una dottrinale, l'altra normativa; e l'intento è quello di tracciare una linea direttiva, per una migliore e sempre più efficiente applicazione dei principi rinnovatori indicati dal concilio ecumenico Vaticano II.

Parte prima

ALCUNI ELEMENTI DOTTRINALI

Prima di precisare delle norme pastorali circa alcuni problemi sorti nelle relazioni, che intercorrono tra i vescovi e i religiosi, pare evidente che si debba presentare una breve sintesi dottrinale, che valga a individuare i principi, su cui tali rapporti si fondano. Per altro l'esposizione, pur compendiosa, di tali principi presuppone l'ampio sviluppo dottrinale dei documenti conciliari.

Capitolo I

LA CHIESA IN QUANTO E' UN POPOLO "NUOVO"

Non secondo la carne, ma nello Spirito (LG 9)

1. Il concilio ha messo in evidenza la singolare natura costitutiva della chiesa, presentandola come mistero (cf. LG 1). Dal giorno di pentecoste (cf. LG 4), infatti, esiste nel mondo un popolo nuovo, che vivificato dallo Spirito santo, si raduna in Cristo per accedere al Padre (cf. Ef 2, 18). I membri di questo popolo sono convocati da tutte le nazioni e si fondono tra loro in così intima unità (cf. LG 9) da non potersi semplicemente spiegare con qualsivoglia modulo sociologico: giacché è insita in essa una vera novità, che trascende l'ordine umano. Pertanto solo in questa trascendente prospettiva si possono rettamente interpretare i mutui rapporti tra i vari membri della chiesa. L'elemento dunque, sul quale si fonda l'originalità di questa natura, è la stessa presenza dello Spirito santo. Egli infatti è vita e forza del popolo di Dio e coesione della sua comunione, è vigore della sua missione, sorgente dei suoi molteplici doni, vincolo della sua mirabile unità, luce e bellezza del suo potere creativo, fiamma del suo amore (cf. LG 4, 7, 8, 9, 12, 18, 21). Il risveglio spirituale e pastorale, infatti, di questi ultimi anni rivela, in virtù della presenza dello Spirito santo - alla quale alcuni serpeggianti abusi, pur inquietanti, non risulta che abbiano recato la minima ombra -, un particolare momento di privilegio (cf. EN 75) per una fiorente giovinezza nuziale della chiesa, protesa verso il giorno del suo Signore (cf. Ap 22, 17).

"Un solo corpo", in cui "gli uni sono membri degli altri" (Rm 12,5; cf. 1Cor 12,13)

2. Nel mistero della chiesa l'unità in Cristo comporta una mutua comunione di vita tra i membri. Infatti "Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza legame tra loro, ma volle costituirli in popolo" (LG 9). La stessa presenza vivificante dello Spirito Santo (cf. LG 7) costruisce in Cristo l'organica coesione: egli "unifica la chiesa nella comunione e nel ministero, la coordina e la dirige con diversi doni gerarchici e carismatici e l'abbellisce dei suoi frutti" (LG 4; cf. Ef 4, 11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22).

Gli elementi, quindi, che differenziano i vari membri tra loro, i doni, cioè, gli uffici e i vari compiti, costituiscono in sostanza una specie di complemento reciproco e in effetti sono ordinati all'unica comunione e missione del medesimo corpo (cf. LG 7; AA 3). Il fatto pertanto che nella chiesa si possa essere pastori, laici o religiosi, non comporta disuguaglianza quanto alla dignità comune dei membri (cf. LG 32), ma esprime piuttosto l'articolazione delle giunture e delle funzioni di un organismo vivo.

Convocati a costituire un "sacramento visibile" (LG9)

3. La novità del popolo di Dio, nel suo duplice aspetto, di organismo sociale visibile e di presenza divina invisibile in intima connessione tra loro, è paragonabile allo stesso mistero del Cristo: infatti, "come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, in modo non dissimile l'organismo sociale della chiesa serve allo Spirito di Cristo, che la vivifica, per la crescita del corpo" (LG 8; cf. Ef 4, 16). Pertanto l'intima scambievole connessione dei due elementi conferisce alla chiesa quella sua speciale natura sacramentale, in virtù della quale essa del tutto trascende i limiti di qualsivoglia prospettiva semplicemente sociologica. Infatti il concilio ha potuto affermare che il popolo di Dio è nel mondo come "sacramento visibile di unità salvifica" (LG 9; cf. LG 1, 8,48; GS 42; AG 1, 5) per tutti gli uomini.

Le attuali evoluzioni sociali e i mutamenti culturali a cui noi stessi assistiamo, anche se suscitano, nella chiesa, l'esigenza di rinnovare non pochi, forse, dei suoi aspetti umani, non valgono tuttavia a scalfire, neppur minimamente, questa sua peculiare struttura di sacramento universale di salvezza; anzi quegli stessi mutamenti che sono da promuovere, serviranno nello stesso tempo a mettere maggiormente in luce questa sua natura.

Destinati a testimoniare e ad annunziare il vangelo

4. Tutti i membri, pastori, laici e religiosi, partecipano, nel modo ch'è proprio di ciascuno, alla natura sacramentale della chiesa; parimenti ognuno, secondo il proprio ruolo, deve essere segno e strumento sia dell'unione con Dio sia della salvezza del mondo. Per tutti, infatti, duplice è l'aspetto della vocazione: a) vocazione alla santità: "tutti nella chiesa, sia che appartengano alla gerarchia sia che da essa siano diretti, sono chiamati alla santità" (LG 39); b) vocazione all'apostolato: la chiesa intera "è spinta dallo Spirito santo a cooperare, perché venga eseguito il piano di Dio" (LG 17; cf. AA 2; AG 1,2,3,4,5).

Pertanto, prima di considerare la diversità dei doni, degli uffici e dei compiti, è necessario ammettere come fondamentale la vocazione comune all'unione con Dio per la salute del mondo. Ora questa vocazione richiede in tutti, come criterio di partecipazione alla comunione ecclesiale, il primato della vita nello Spirito, in base a cui si hanno in privilegio l'ascolto della Parola, la preghiera interiore, la coscienza di vivere come membro di tutto il corpo e la sollecitudine dell'unità, il fedele adempimento della propria missione, il dono di sè nel servizio e l'umiltà del pentimento. Da questa comune vocazione battesimale alla vita nello Spirito scaturiscono chiarificanti esigenze ed efficaci influssi sui rapporti, che devono intercorrere tra i vescovi e i religiosi.

Capitolo II

IL MINISTERO DEI VESCOVI
NELL'ORGANICA COMUNIONE ECCLESIALE

La comunione propria del popolo di Dio e la sua eccellenza

5. La comunione organica tra i membri della chiesa è in tal modo frutto dello stesso Spirito santo, che necessariamente presuppone l'iniziativa storica di Gesù Cristo e il suo esodo pasquale. Lo Spirito santo, infatti, è lo Spirito del Signore: Gesù Cristo, "innalzato alla destra di Dio" (At 2,33), "ha effuso sui suoi discepoli lo Spirito promesso dal Padre" LG 5). Ora se lo Spirito è come l'anima del corpo (cf. LG 7), Cristo ne è senza alcun dubbio il capo (cf. LG 7); da entrambi dunque procede la coesione organica dei membri (cf. 1 Cor 12-13; Col 2, 19). In questi pertanto non può sussistere una vera docilità verso lo Spirito senza fedeltà verso il Signore, che lo invia; da Cristo infatti "tutto il corpo, rifornito e compaginato mediante le articolazioni e i legamenti, cresce secondo quello sviluppo che è da Dio" (Col 2, 19).

Perciò la comunione organica della chiesa non è esclusivamente spirituale, cioè nata, comunque sia, dallo Spirito santo e di per sè anteriore alle funzioni ecclesiali e creatrice di esse, ma è simultaneamente gerarchica, in quanto derivata, per impulso vitale, da Cristo-capo. Gli stessi doni, immessi dallo Spirito, sono precisamente voluti da Cristo e per loro natura diretti alla compagine del corpo, per vivificarne le funzioni e le attività. Cristo "è il capo del corpo, il principio, il primogenito dai morti, affinché in tutto abbia lui il primato" (cf. LG 7; Col 1, 15-18). Così la comunione organica della chiesa, sia quanto all'aspetto spirituale sia quanto alla sua natura gerarchica, trae origine e vigore simultaneamente da Cristo e dal suo Spirito. Giustamente dunque e a proposito l'apostolo Paolo ha più volte enunziato in intima e vitale convergenza le formule "in Cristo e nello Spirito" (cf. Ef 2, 21-22; e passim nelle epistole).

Cristo-capo è presente nel ministero episcopale

6. Il Signore stesso "ha istituto nella sua chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo" (LG 18). Tra questi ministeri quello episcopale è fondamento di tutti gli altri. I vescovi, poi, in comunione gerarchica con il romano pontefice, costituiscono il collegio episcopale, così che esprimono nel loro insieme ed effettuano, nella chiesa-sacramento, la funzione di Cristo-capo: "nella persona dei vescovi", infatti, "con i sacerdoti accanto a loro, è presente in mezzo ai credenti il signore Gesù Cristo, pontefice sommo... (I vescovi) sostengono le parti dello stesso Cristo, maestro, pastore e pontefice, e nella persona di lui agiscono" (LG 21; cf 27 28 PO 1; CD 2; PO 2). Nessun altro, all'infuori del vescovo, svolge nella chiesa una funzione organica di fecondità (cf. LG 18, 19), di unità (cf. LG 23) e di spirituale potestà (cf. LG 22) così fondamentale, che influisca su tutta l'attività ecclesiale. Sebbene infatti nel popolo di Dio venga variamente ripartita la esplicazione di molteplici altri compiti e iniziative, tuttavia al romano pontefice e ai vescovi compete il ministero di discernere e di armonizzare (cf. LG 21), che comporta l'abbondanza di speciali doni dello Spirito e il peculiare carisma dell'ordinamento dei vari ruoli in intima docilità d'animo verso l'unico Spirito vivificante (cf. LG 12,24, ecc.).

Indivisibilità del ministero dei vescovi

7. II vescovo, con la collaborazione dei presbiteri, svolge un triplice servizio verso la comunità dei fedeli, quello cioè di insegnare, di santificare, di governare (cf. LG 25-27; CD 12-20; PO 4-6). Non si tratta, per altro, di tre ministeri; ma, poiché Cristo nella nuova legge ha fuso in radice tra di loro le tre funzioni di maestro, di liturgo e di pastore, si tratta di un ministero unico nella sua origine. Pertanto il ministero episcopale va esercitato in forma indivisibile nelle diverse sue funzioni. Se poi le circostanze a volte richiedono che si ponga maggiormente in luce uno di questi tre aspetti, non si dovranno, tuttavia, mai separare nè trascurare gli altri due, affinché non ne venga in alcun modo infirmata l'intima integrità di tutto il ministero. II vescovo, dunque, non solo governa, nè solo santifica, nè solo insegna, ma, con l'assistenza dei presbiteri, pasce il suo gregge insegnando, santificando, governando con azione unica e indivisibile. Il vescovo, quindi, in virtù del suo stesso ministero, è responsabile in modo particolare dell'accrescimento nella santità di tutti i suoi fedeli, in quanto egli è "principale dispensatore dei misteri di Dio e perfezionatore del suo gregge" secondo la vocazione propria di ciascuno (cf. CD 15); dunque anche, e soprattutto, secondo la vocazione dei religiosi.

Il compito della sacra gerarchia circa la vita religiosa

8. Un'attenta riflessione sulle funzioni e sui doveri del romano pontefice e dei vescovi circa la vita pratica dei religiosi conduce a scoprire con particolare concretezza e chiarezza la sua dimensione ecclesiale, cioè l'indubbio legame della vita religiosa con la vita e la santità della chiesa (cf. LG 44). Dio, infatti, attraverso l'azione della sacra gerarchia, consacra i religiosi ad un suo più alto servizio nel popolo di Dio (cf. LG 44); parimenti la chiesa, attraverso il ministero dei suoi pastori, "non solo erige con la sua sanzione la professione religiosa alla dignità dello stato canonico, ma con la sua azione liturgica la presenta pure come stato consacrato a Dio" (LG 45; cf. SC 80, 2). Inoltre i vescovi, come membri del collegio episcopale, in armonia con la volontà del sommo pontefice sono solidali in questo: cioè nel regolare sapientemente la pratica dei consigli evangelici (cf. LG 45); nell'approvare autenticamente le regole proposte (cf. LG 45), in modo che sia riconosciuta e conferita agli istituti una missione tipicamente propria, venga in loro promosso l'impegno per la fondazione di nuove chiese (AG 18,27) e siano loro affidati, secondo le circostanze, compiti e mandati specifici; nel garantire con la loro sollecitudine che gl'istituti "abbiano a crescere e fiorire secondo lo spirito dei fondatori, sostenuti dalla loro autorità vigile e protettrice" (LG 45); nel determinare l'esenzione di non pochi istituti "dalla giurisdizione degli ordinari del luogo, in vista della comune utilità" (LG 45) della chiesa universale "e per meglio provvedere all'incremento e al perfezionamento della vita religiosa" (CD 35,3).

Alcune conseguenze

9. Le brevi considerazioni fin qui condotte circa la comunione gerarchica nella chiesa non poca luce recano sui rapporti da coltivare tra i vescovi e i religiosi:

a) Capo del corpo ecclesiale è Cristo, pastore eterno, che ha proposto Pietro e gli apostoli e i loro successori, cioè il romano pontefice e i vescovi, costituendoli sacramentalmente come suoi vicari( cf. LG 18, 22, 27) e colmandoli di appropriati carismi; e nessun altro ha il potere di esercitare alcuna funzione sia di magistero sia di santificazione sia di governo, se non in partecipazione e in comunione con essi.

b) Anima del corpo ecclesiale è detto lo Spirito santo: nessun membro del popolo di Dio, qualunque sia il ministero a cui dedica l'opera sua, riassume personalmente in sè, nella loro totalità, doni, uffici e compiti, ma deve entrare in comunione con gli altri. Le differenze nel popolo di Dio, sia di doni che di funzioni, convergono insieme tra loro e si completano a vicenda per l'unica comunione e missione.

c) I vescovi, in unione col romano pontefice, ricevono da Cristo-capo il compito (cf. LC 21) di discernere i doni e le competenze, di coordinare le molteplici energie e di guidare tutto il popolo a vivere nel mondo come segno e strumento di salvezza. Ad essi quindi è pure affidato l'ufficio di prendersi cura dei carismi religiosi, tanto più perché la stessa indivisibilità del ministero pastorale li fa perfezionatori di tutto il gregge. In tal modo, promuovendo la vita religiosa e proteggendola in conformità delle sue proprie definite caratteristiche, i vescovi adempiono un genuino dovere pastorale.

d) I pastori tutti, non dimentichi del monito apostolico di non essere "come padroni tra i fedeli loro affidati, ma come divenuti sincero modello del gregge" (1 Pt 5,3), saranno giustamente consapevoli del primato della vita nello Spirito, che esige che siano insieme guide e membri; veramente padri, ma anche fratelli; maestri della fede, ma principalmente condiscepoli davanti al Cristo; perfezionatori, sì, dei fratelli, ma anche veri testimoni della loro personale santificazione.

Capitolo III

LA VITA RELIGIOSA NELLA COMUNIONE ECCLESIALE

La natura "ecclesiale" degli istituti religiosi

10. Lo stato religioso "non è intermedio tra la condizione clericale e laicale", ma proviene dall'una e dall'altra quasi come "dono speciale" per tutta la chiesa (cf. LG 43).

Esso consiste nella sequela di Cristo, professando pubblicamente i consigli evangelici di castità, di povertà e di obbedienza, e assumendo l'impegno di rimuovere tutti quegli ostacoli, che potrebbero distogliere dal fervore della carità e dalla perfezione del culto divino. Il religioso, infatti, "si dona totalmente a Dio sommamente amato, così da essere con nuovo e speciale titolo destinato al servizio e all'onore di Dio"; ciò "lo congiunge in modo speciale alla chiesa e al suo mistero" e lo sospinge ad operare con indivisa didizione per il bene di tutto il corpo (cf. LG 44).

Di qui chiaramente appare che la vita religiosa è un modo particolare di partecipare alla natura sacramentale del popolo di Dio. La consacrazione, infatti, di coloro che professano i voti religiosi, a questo soprattutto è ordinata, che essi cioè offrano al mondo una visibile testimonianza dell'insondabile mistero del Cristo, in quanto in se stessi realmente lo rappresentino "o contemplante sul monte o annunziante il regno di Dio alle turbe o mentre risana i malati e i feriti e converte i peccatori al bene operare, oppure mentre benedice i fanciulli e fa del bene a tutti, ma sempre in obbedienza alla volontà del Padre, che lo ha mandato" (LG 46).

Dell'indole propria di ogni istituto

11. Molti sono nella chiesa gl'istituti religiosi e diversi l'uno dall'altro, secondo l'indole propria di ciascuno (cf. PC 7, 8, 9, 10); ma ognuno apporta la sua propria vocazione qual dono suscitato dallo Spirito, mediante l'opera di "uomini e donne insigni" (cf. LC 45; PC 1, 2), e autenticamente approvato dalla sacra gerarchia.

Lo stesso "carisma dei fondatori" (ET 11) si rivela come un'esperienza dello Spirito trasmessa ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il corpo di Cristo in perenne crescita. Per questo "la chiesa difende e sostiene l'indole propria dei vari istituti religiosi" (LG 44; cf. CD 33, 35, 1, 35,2, ecc.). Tale indole propria, poi, comporta anche uno stile particolare di santificazione e di apostolato, che stabilisce una sua determinata tradizione in modo tale, che se ne possano convenientemente cogliere gli elementi oggettivi.

Pertanto, in quest'epoca di evoluzione culturale e di rinnovamento ecclesiale, è necessario che l'identità di ogni istituto sia conservata con tale sicurezza, che si possa evitare il pericolo di una situazione non sufficientemente definita, per cui i religiosi, senza la dovuta considerazione del particolare stile di azione proprio della loro indole, vengano inseriti nella vita della chiesa in modo vago e ambiguo.

Alcuni connotati di un genuino "carisma"

12. Ogni carisma autentico porta con sè una certa carica di genuina novità nella vita spirituale della chiesa e di particolare operosa intraprendenza, che nell'ambiente può forse apparire incomoda e può anche sollevare delle difficoltà, poiché non sempre e subito è facile riconoscerne la provenienza dallo Spirito.

La nota carismatica propria di qualsivoglia istituto esige, sia nel fondatore che nei suoi discepoli, una continua verifica della fedeltà verso il Signore, della docilità verso il suo Spirito, dell'attenzione intelligente alle circostanze e della visione cautamente rivolta ai segni dei tempi, della volontà d'inserimento nella chiesa, della coscienza di subordinazione alla sacra gerarchia, dell'ardimento nelle iniziative, della costanza del donarsi, dell'umiltà nel sopportare i contrattempi: il giusto rapporto fra carisma genuino, prospettiva di novità e sofferenza interiore comporta una costante storica di connessione tra carisma e croce, la quale, al di sopra di ogni motivo giustificante le incomprensioni, è sommamente utile a far discernere l'autenticità di una vocazione.

Anche ai singoli religiosi certamente non mancano i doni personali, i quali indubbiamente sogliono provenire dallo Spirito, al fine di arricchire, sviluppare e ringiovanire la vita dell'istituto nella coesione della comunità e nel dare testimonianza di rinnovamento. Il discernimento, però, di tali doni e il retto loro esercizio saranno misurati secondo la congruenza che essi dimostreranno sia con il progetto comunitario dell'istituto sia con le necessità della chiesa a giudizio della legittima autorità.

Il servizio proprio dell'autorità religiosa

13. I superiori svolgono il loro compito di servizio e di guida all'interno dell'istituto religioso in conformità dell'indole propria di esso. La loro autorità procede dallo Spirito del Signore in connessione con la sacra gerarchia, che ha canonicamente eretto l'istituto e autenticamente approvato la sua specifica missione.

Orbene, considerato il fatto che la condizione profetica, sacerdotale e regale è comune a tutto il popolo di Dio (cf. LG 9, 10, 34, 35, 36), pare utile delineare la competenza dell'autorità religiosa, accostandola, per analogia, alla triplice funzione del ministero pastorale, cioè d'insegnare, santificare e governare, senza per altro confondere o equiparare l'una e l'altra autorità.

a) Quanto all'ufficio d'insegnare, i superiori religiosi hanno la competenza e l'autorità di maestri di spirito in relazione al progetto evangelico del proprio istituto; in tale ambito, quindi, devono esplicare una vera direzione spirituale dell'intera congregazione e delle singole comunità della medesima, e l'attueranno in sincera concordia con l'autentico magistero della gerarchia, sapendo di dover eseguire un mandato di grave responsabilità nell'area del piano evangelico, voluto dal fondatore.

b) Quanto all'ufficio di santificare, è pure spettanza dei superiori una speciale competenza e responsabilità di perfezionare, sia pure con differenziati compiti, in ciò che riguarda l'incremento della vita di carità secondo il progetto dell'istituto, sia circa la formazione, tanto iniziale che continua, dei confratelli, sia circa la fedeltà comunitaria e personale nella pratica dei consigli evangelici secondo la regola. Tale compito, se rettamente adempiuto, verrà considerato dal romano pontefice e dai vescovi qual prezioso sussidio nell'espletamento del loro fondamentale ministero di santificazione.

c) Quanto all'ufficio di governare, i superiori devono compiere il servizio di ordinare la vita propria della comunità, di organizzare i membri dell'istituto, di curare e sviluppare la peculiare sua missione e provvedere che venga efficientemente inserito nell'attività ecclesiale sotto la guida dei vescovi.

Esiste dunque un ordine interno degli istituti (cf. CD 35, 3), che ha un suo proprio campo di competenza, a cui spetta una genuina autonomia, anche se questa non può mai, nella chiesa, ridursi a indipendenza (cf. CD 35, 3 e 4). Il giusto grado di tale autonomia e la sua concreta determinazione di competenza sono contenuti nel diritto comune e nelle regole, o costituzioni, di ogni istituto.

Alcune conclusioni orientative

14. Dalle riflessioni fatte sulla vita religiosa possiamo desumere alcuni dati esplicativi:

a) I religiosi e le loro comunità sono chiamati a dare nella chiesa una palese testimonianza di totale dedizione a Dio, quale opzione fondamentale della loro esistenza cristiana e primario impegno da assolvere nella forma di vita loro propria. Essi, infatti, qualunque sia l'indole propria del loro istituto, sono consacrati per dimostrare pubblicamente nella chiesa-sacramento "che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini" (LG 31).

b) Ogni istituto è nato per la chiesa ed è tenuto ad arricchirla con le proprie caratteristiche secondo un particolare spirito e una missione specifica. I religiosi, quindi, coltiveranno una rinnovata coscienza ecclesiale, prestando l'opera loro per l'edificazione del corpo di Cristo, perseverando nella fedeltà alla regola e obbedendo ai propri superiori (cf. PC 14; CD 35,2).

c) I superiori dei religiosi hanno il grave compito, assunto come prioritaria responsabilità, di curare con ogni sollecitudine la fedeltà dei confratelli verso il carisma del fondatore, promovendo il rinnovamento che il concilio prescrive e i tempi richiedono. Si adopereranno quindi con zelo, affinché i confratelli siano validamente orientati e incessantemente animati a perseguire tale intento. Perciò riterranno come impegno di privilegio quello di attuare una conveniente e aggiornata formazione (PC 2d, 14, 18).

Consapevoli infine che la vita religiosa per sua stessa natura comporta una speciale partecipazione dei confratelli, i superiori ne cureranno l'animazione, giacché "un efficace rinnovamento e un equo aggiornamento non possono aver luogo senza la collaborazione di tutti i membri dell'istituto" (PC 4).

Capitolo IV

I VESCOVI E I RELIGIOSI INTENTI ALL'UNICA MISSIONE
DEL POPOLO DI DIO

La missione ecclesiale profluisce dalla "fonte dell'amore" (AG 2)

15. Unica è la missione del popolo di Dio, la quale in certo modo costituisce il cuore di tutto il mistero ecclesiale. Il Padre, infatti, "ha santificato" il Figlio "e lo ha mandato nel mondo" (Gv 10,36), mediatore tra Dio e gli uomini (cf. AG 3); e nel giorno della pentecoste "Cristo inviò da parte del Padre lo Spirito santo, perché compisse dal di dentro la sua opera di salvezza e stimolasse la chiesa alla sua crescita" (AG 4). Così la chiesa, in tutto il decorso della sua storia, "è per sua natura missionaria" (AG 2; cf. LG 17) in Cristo e in virtù dello Spirito. Tutti, e pastori e laici e religiosi, ciascuno secondo la propria vocazione, sono chiamati ad un impegno apostolico (cf. n. 4b), che sgorga dalla carità del Padre; lo Spirito santo poi lo alimenta, "vivificando, come loro anima, le istituzioni ecclesiastiche ed infondendo nel cuore dei fedeli quel medesimo ardore di missione, da cui era stato spinto Gesù stesso" (AG 4). La missione dunque del popolo di Dio non può mai consistere solo in un'attività di vita esteriore, poiché l'impegno apostolico non si può ridurre in assoluto alla semplice, anche se valida, promozione umana, dal momento che ogni iniziativa pastorale e missionaria è radicalmente fondata nella partecipazione del mistero della chiesa. La missione infatti della chiesa per sua natura altro non è se non la missione dello stesso Cristo continuata nella storia del mondo; essa pertanto consiste principalmente nella compartecipazione all'obbedienza di colui (cf. Ebr 5, 8), che offrì se stesso al Padre per la vita del mondo.

L'assoluta necessita' dell'unione con Dio

16. La missione, che trae la sua origine dal Padre, esige, da tutti coloro che sono inviati, di esercitare la coscienza della carità nel dialogo della preghiera. Perciò, in questi tempi di apostolico rinnovamento, come sempre in qualsiasi impegno missionario, il posto di privilegio va dato alla contemplazione di Dio, alla meditazione del suo piano di salvezza e alla riflessione sui segni dei tempi alla luce del vangelo, affinché la preghiera possa alimentarsi e crescere in qualità e frequenza.

Per tutti è indubbiamente urgente la necessità di apprezzare la preghiera e di ricorrere ad essa. I vescovi e i loro presbiteri collaboratori (cf. LG 25, 27, 28, 41), ""perseveranti nella preghiera e nel ministero della parola" (At 6,4), "dispensatori dei misteri di Dio" (1 Cor 4, 1), pongano ogni loro impegno, affinché tutti quelli che sono affidati alle loro cure siano concordi nella preghiera e, ricevendo i sacramenti, crescano nella grazia e siano fedeli testimoni del Signore" (CD 15). I religiosi poi, in quanto chiamati ad essere quasi degli "specialisti della preghiera" (Paolo VI, 28-X-1966), "Dio... prima di tutto cerchino ed amino, e in tutte le circostanze s'impegnino ad alimentare la vita nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3), donde scaturisce e riceve impulso l'amore del prossimo"( PC 6).

Per disposizione della divina Provvidenza, non pochi tra i fedeli oggi sono portati, per intimo impulso, a raccogliersi in gruppo, ad ascoltare il vangelo, a meditare in profondità e ad innalzare la loro contemplazione. Di conseguenza, per l'efficacia stessa della missione, è indispensabile procurare che tutti, soprattutto i pastori, attendano alla preghiera, e parimenti che gl'istituti religiosi conservino intatta la loro forma di dedizione a Dio, sia promovendo il ruolo eminente, che in questo campo detengono le comunità di vita contemplativa (cf. PC 7 e AG 18), sia provvedendo che i religiosi dediti all'azione apostolica alimentino la loro intima unione con Cristo e ne diano palese testimonianza (cf. PC 8).

Diversità di forme nell'impegno apostolico

17. Diverse sono le situazioni culturali, nelle quali deve essere esplicata l'attività apostolica; per cui nell'unità di missione si avvertono delle "differenze, che... non provengono dall'intrinseca natura della stessa missione, ma solo dalle circostanze, nelle quali tale missione si esplica. Queste condizioni dipendono sia dalla chiesa, sia dai popoli, dai gruppi o dagli uomini, a cui la missione è indirizzata" (AG 6). Ora queste differenze, reali certo, anche se contingenti, incidono sensibilmente non solo sull'esercizio del ministero pastorale dei vescovi e dei presbiteri, ma anche sullo stile particolare di vita e sui compiti dei religiosi, esigendo non facili adattamenti, soprattutto da parte di quegli istituti dediti all'azione apostolica, che operano a raggio internazionale.

Riguardo pertanto alle relazioni tra i vescovi e i religiosi, oltre le diversità di funzioni (cf. AA 2) e di carismi (cf. LG 2), vanno considerate accuratamente anche le concrete differenze sussistenti nell'ambito delle nazioni.

Reciproco influsso tra i valori di universalità e di particolarità

18. Dall'esigenza d'inserimento del mistero della chiesa nell'ambiente proprio di ciascuna regione sorge il problema del reciproco influsso tra i valori di universalità e quelli di particolarità nel popolo di Dio.

Il concilio Vaticano II ha trattato non solo della chiesa universale, ma anche delle chiese particolari e locali, che ha presentato come uno degli aspetti rinnovatori della vita ecclesiale (cf. LG 13,23,26; CD 3, 11, 15; AC 22; PC 20). Può avere così il suo significato positivo un certo processo di decentramento, che porta sicuramente delle conseguenze anche sui rapporti scambievoli tra i vescovi e i religiosi (cf. EN 61-64).

Ogni chiesa particolare si arricchisce di validi elementi umani, che sono propri del genio e della natura di ciascuna nazione. Tuttavia, siffatti elementi non vanno considerati come indizi di divisione, di particolarismo e di nazionalismo, ma come espressione di varietà nella medesima unità e di pienezza di quell'incarnazione, che arricchisce l'intero corpo di Cristo (cf. UR 14-17). Infatti la chiesa universale non è una somma di chiese particolari nè una federazione di esse (cf. EN 62), ma è la presenza totale e cresciuta dell'unico sacramento universale di salvezza (cf. EN 54). Ma questa multiforme unità comporta varie concrete esigenze nell'adempimento dei doveri da parte dei vescovi e dei religiosi:

a) I vescovi e i loro collaboratori presbiteri sono i primi a dover rispondere sia del retto discernimento dei valori culturali del luogo nella vita della loro chiesa, sia della chiara prospettiva di universalità loro derivante dal ruolo missionario di successori degli apostoli, che furono inviati al mondo intero (cf. CD 6; LG 20, 23, 24; AG 5,38).

b) I religiosi, poi, anche se appartengono ad un istituto di diritto pontificio, devono sentirsi veramente partecipi della "famiglia diocesana" (cf. CD 34) e assumersi l'impegno del necessario adattamento; e opportunamente favoriscano anche le vocazioni locali sia per il clero diocesano sia per la vita consacrata; inoltre quanto ai candidati delle loro congregazioni, li formino in modo che realmente vivano secondo la genuina cultura locale, ma nello stesso tempo siano attentamente vigili, affinché nessuno mai aberri sia dall'impulso missionario inerente alla stessa vocazione religiosa sia dall'unità e dall'indole propria di ciascun istituto.

Dovere missionario e spirito d'iniziativa

19. Emerge, dunque, soprattutto nei riguardi dei vescovi e dei religiosi, un chiaro dovere missionario, connaturato nel loro stesso ministero e nel loro carisma. Tale dovere diviene ogni giorno più impegnativo, mentre le odierne condizioni culturali vanno evolvendosi nel contrassegno di due principali note, ossia del materialismo, che invade le masse popolari anche in regioni cristiane per tradizione, e dell'incremento delle comunicazioni internazionali, per cui tutti i popoli, anche non cristiani, possono facilmente collegarsi gli uni con gli altri. Inoltre, i profondi rivolgimenti delle situazioni, la crescita dei valori umani e le molteplici necessità del mondo contemporaneo (cf. GS 43-44) con sempre maggiore istanza premono, affinché da una parte si abbiano a rinnovare molte attività pastorali di tradizione, dall'altra si cerchino anche nuovi moduli di presenza apostolica. In tale situazione urge la necessità di una certa solerzia apostolica nell'escogitare nuove ingegnose e coraggiose esperienze ecclesiali, sotto l'impulso dello Spirito santo, che è, per sua stessa natura, creatore. E in modo speciale con la natura carismatica della vita religiosa egregiamente si accorda una feconda alacrità d'inventiva e d'intraprendenza (cf. n. 12). Infatti lo stesso sommo pontefice Paolo VI questo ha giustamente affermato: "grazie alla loro stessa consacrazione religiosa, essi [i religiosi] sono soprattutto liberi e possono spontaneamente lasciar tutto e recarsi ad annunziare il vangelo sino ai confini del mondo. Essi sono alacri nell'operare; e il loro apostolato spesso eccelle per la genialità dei progetti e delle iniziative, che destano ammirazione in chiunque li osservi" (EN 69).

Coordinamento nell'attività pastorale

20. La chiesa non è stata istituita al fine di essere una "organizzazione di attività", ma piuttosto quale "corpo vivo di Cristo per dar testimonianza". Essa, tuttavia, necessariamente svolge un lavoro concreto di progettazione e di coordinamento dei molteplici uffici e servizi, affinché insieme convergano in un'azione pastorale unitaria, nella quale si stabiliscono quali siano le scelte da seguire e quali gl'impegni apostolici da preporre agli altri (cf. CD 11, 30, 35,5; AC 22,29). Oggi infatti bisogna con insistenza provvedere ad avviare, ai vari livelli della vita ecclesiale, un conveniente sistema di ricerca e di realizzazione, affinché si possa esplicare la missione evangelizzatrice nel modo più consentaneo alle diverse situazioni.

Per tale auspicabile coordinazione tre sono i centri operativi principali: la santa sede, la diocesi (cf. CD 11) e, nell'ambito suo proprio, la conferenza episcopale (cf. CD 38). Accanto poi a questi centri si costituiscono anche altri organi di collaborazione in conformità delle esigenze ecclesiali e regionali.

Mutua collaborazione tra religiosi

21. Nell'ambito della vita religiosa vengono istituiti dalla santa sede, sia a livello locale che a livello universale, i consigli dei superiori maggiori e generali (cf. PC 23; REU 73,5); i quali ovviamente differiscono per natura e autorità dalle conferenze episcopali. Intatti, il loro scopo primario è la promozione della vita religiosa inserita nella compagine della missione ecclesiale; e la loro attività consiste nell'offrire servizi comuni, iniziative di fraternità, proposte di collaborazione, rispettando naturalmente l'indole propria di ciascun istituto. Ciò senza dubbio contribuirà ad offrire validi aiuti al coordinamento pastorale, specialmente se in determinati periodi si farà anche una conveniente revisione degli statuti operativi e se innanzi tutto si cureranno le mutue relazioni tra le conferenze episcopali e i consigli dei superiori maggiori secondo le direttive, che verranno date dalla santa sede.

Il significato pastorale dell'esenzione

22. Il sommo pontefice, in vista dell'utilità della stessa chiesa (cf. LG 45; CD 35, 3), a non poche famiglie religiose concede l'esenzione, affinché gl'istituti possano più adeguatamente esprimere la propria identità e dedicarsi al bene comune con particolare generosità e a raggio più vasto (cf. n. 8).

L'esenzione, in verità, non adduce per sè alcun ostacolo nè al coordinamento pastorale nè agli scambievoli e buoni rapporti tra i membri del popolo di Dio. Essa infatti "riguarda principalmente l'ordine interno degli istituti, perché in essi tutte le cose siano meglio tra loro unite; ordinate e concorrano all'incremento e al perfezionamento della vita religiosa; e possa, inoltre, disporre di essi il sommo pontefice per il bene della chiesa universale, ed altra competente autorità per il bene delle chiese della propria giurisdizione" (CD 35, 3; cf. CD 35,4; ES 1, 25-40; EN 69).

Pertanto gl'istituti religiosi esenti, fedeli alla "particolare loro fisionomia e alla propria loro funzione" (PC 2b), devono innanzi tutto coltivare una speciale adesione al romano pontefice ai vescovi, rendendo effettivamente e con animo volenteroso, disponibile la propria libertà e alacrità apostolica in conformità dell'obbedienza religiosa; similmente con piena coscienza e zelo s'impegneranno a incarnare e manifestare nella famiglia diocesana anche la specifica testimonianza e la genuina missione del loro istituto; infine stimoleranno sempre quella sensibilità e intraprendenza di apostolato, che sono caratteristiche della loro consacrazione.

I vescovi sapranno certamente riconoscere e apprezzeranno grandemente il contributo specifico, col quale verranno in aiuto delle chiese particolari quei religiosi, nella cui esenzione essi trovano in certo modo anche un'espressione di quella pastorale sollecitudine, che strettamente li unisce al romano pontefice per l'universale solerte cura verso tutti i popoli (cf. n. 8).

Questa rinnovata coscienza dell'esenzione, se davvero è condivisa in accordo con i vari collaboratori dell'impegno pastorale, potrà non poco giovare all'incremento dell'inventiva apostolica e dello zelo missionario in ogni chiesa particolare.

Alcuni criteri per un equo ordinamento dell'attività pastorale

23. Quanto sopra è stato considerato circa la missione ecclesiale suggerisce le seguenti opportune note direttive:

a) innanzi tutto la stessa natura dell'azione apostolica esige che i vescovi conferiscano il posto di privilegio al raccoglimento interiore e alla vita di preghiera (cf. LG 26,27,41); inoltre richiede che i religiosi, conformemente all'indole propria, si rinnovino in profondità e attendano assiduamente alla preghiera.

b) Con speciale cura sono da promuovere "le varie iniziative atte a stabilire la vita contemplativa" (AG 18), giacché questa detiene un posto assai distinto nella missione della chiesa, "per quanto sia urgente la necessità dell'apostolato attivo" (PC 7). La vocazione di tutti, infatti, alla perfezione della carità (cf. LG 40) in modo radicale è resa luminosa, particolarmente oggi mentre si va aggravando il pericolo del materialismo, dagli istituti totalmente rivolti alla contemplazione, nei quali più apertamente appare che, come dice s. Bernardo, "il motivo di amare Dio è Dio; la misura è di amarlo senza misura" (De diligendo Deo, c. 1: PL 182, 584).

c) L'attività del popolo di Dio nel mondo è per sua natura universale e missionaria sia per l'indole stessa della chiesa (cf. LG 17), sia per il mandato di Cristo, che conferì all'apostolato "una universalità senza frontiere" (EN 49). Sarà perciò necessario che i vescovi e i superiori curino questa dimensione della coscienza apostolica e promuovano concrete iniziative per avvivarla.

d) La chiesa particolare costituisce lo spazio storico, nel quale una vocazione si esprime nella realtà ed effettua il suo impegno apostolico; lì infatti, dentro i confini di una determinata cultura, si annunzia e viene accolto il vangelo (cf. EN 19, 20, 29, 32, 35. 40, 62, 63). E' necessario, pertanto, che nel lavoro di formazione si abbia debitamente presente anche questa realtà di grande importanza nel rinnovamento pastorale.

e) L'influsso reciproco tra i due poli, cioè tra la viva compartecipazione di una cultura particolare e la prospettiva di universalità, deve trovare il suo fondamento in un'inalterabile stima e perseverante custodia di quei valori di unità, ai quali in nessun modo è dato di rinunziare, sia che si tratti dell'unità della chiesa cattolica - per tutti i fedeli -, sia che si tratti della unità di ciascun istituto religioso - per tutti i suoi membri -. Quella comunità locale, che si distacchi da questa unità, incorrerà in un duplice pericolo: "da una parte il pericolo proprio della segregazione, che inaridisce...;, dall'altra il pericolo di perdere la propria libertà, quando, staccata dal capo..., isolata, diviene soggetta in molti modi alle forze di coloro, che tentano di asservirla e di sfruttarla" (EN 64).

f) In questi nostri tempi in modo particolare si esige dai religiosi quella stessa genuinità carismatica, vivace e ingegnosa nelle sue inventive, che spiccatamente eccelle nei fondatori, affinché meglio e con zelo s'impegnino nel lavoro apostolico della chiesa tra coloro, che oggi costituiscono di fatto la maggioranza dell'umanità e sono i prediletti del Signore: i piccoli e i poveri (cf. Mt 18, 1-6; Lc 6,20).

Parte seconda

DIRETTIVE E NORME

L'esperienza di questi recenti anni, alla luce dei principi fin qui esposti, ha indotto a formulare alcune direttive e norme rivolte soprattutto alla pratica. Da ciò indubbiamente conseguirà che i mutui rapporti tra i vescovi e i religiosi possano ulteriormente perfezionarsi a vantaggio della stessa edificazione del corpo di Cristo. Esporremo le varie direttive in tre distinti momenti, che si completano vicendevolmente, cioè: a) secondo l'aspetto formativo; b) secondo l'aspetto operativo; c) secondo l'aspetto organizzativo.

Il testo suppone le prescrizioni giuridiche già in atto e a volte ad esse fa riferimento; non deroga, quindi, a nessuna disposizione di precedenti documenti della santa sede vigenti in materia.

Capitolo V

ALCUNE ISTANZE ATTINENTI ALL'ASPETTO FORMATIVO

Il romano pontefice e i vescovi svolgono nella chiesa il ruolo supremo di maestri autentici e di santificatori di tutto il gregge (cf. Parte I, nn. 5-9). A loro volta i superiori religiosi rivestono speciale autorità per la guida del proprio istituto, e portano il peso non lieve della specifica formazione dei confratelli (cf. PC 14, 18; e Parte I, nn. 10-14). I vescovi e i superiori, pertanto, gli uni e gli altri secondo il proprio ruolo, ma in armonia tra loro e in concorde impegno, diano una vera precedenza alle responsabilità di formazione.

24. I vescovi, d'accordo anche con i superiori religiosi, promuovano, specialmente tra i presbiteri diocesani, tra i laici zelanti e tra i religiosi e le religiose locali, una viva coscienza ed esperienza del mistero e della struttura della chiesa, della vivificante inabitazione dello Spirito santo, organizzando in comune speciali circoli e incontri di spiritualità. Inoltre incessantemente insistano, affinché sia valorizzata e intensificata la preghiera, sia personale che pubblica, anche con appropriate iniziative diligentemente preparate.

25. Le comunità religiose, da parte loro, soprattutto quelle contemplative, pur conservando, ovviamente, la fedeltà al proprio spirito (cf. PC 7; AG 40), offrano agli uomini del nostro tempo opportuni aiuti per la preghiera e per la vita spirituale, in modo che esse possano rispondere alla pressante necessità, oggi più attentamente sentita, di meditazione e di approfondimento della fede. Diano anche l'occasione e la comodità di poter partecipare convenientemente alle loro stesse azioni liturgiche, salve restando le debite esigenze della clausura e le norme stabilite al riguardo.

26. I superiori religiosi con ogni attenzione procurino che i loro confratelli e le loro consorelle rimangano fedeli alla propria vocazione. Promuovano anche gli opportuni adattamenti alle condizioni culturali, sociali ed economiche, secondo le esigenze dei tempi, vigilando tuttavia, affinché in nessun modo tali adattamenti sconfinino verso abitudini contrarie alla vita religiosa. Gli aggiornamenti culturali e gli studi di specializzazioni dei confratelli vertano su materie propriamente attinenti alla specifica vocazione dell'istituto; tali studi, poi, siano programmati non quasi fossero una male intesa realizzazione di sè, per raggiungere finalità individuali, ma affinché valgano a rispondere alle esigenze di progetti apostolici della stessa famiglia religiosa in armonia con le necessità della chiesa.

27. Nel promuovere la formazione continua dei religiosi, occorre insistere sul rinnovamento della testimonianza di povertà e di servizio verso i più bisognosi, e procurare, inoltre, che in una rinnovata obbedienza e castità le comunità divengano segno di amore fraterno e di unità.

Negli istituti di vita attiva, per i quali l'apostolato costituisce l'elemento essenziale della loro vita religiosa (cf. CD 12, 15, 35,2; LG 25, 45), nello stesso evolversi della formazione, sia iniziale che continua, si ponga il medesimo apostolato in debito risalto.

28. Spetta ai vescovi, quali maestri autentici e guide di perfezione per tutti i membri della diocesi (cf. CD 12, 15, 35,2; LG 25,45), di essere i custodi anche della fedeltà alla vocazione religiosa nello spirito di ciascun istituto. E nell'esercizio di questo dovere pastorale i vescovi avranno cura di promuovere i rapporti con i superiori religiosi, a cui tutti i confratelli sono soggetti "in spirito di fede" (cf. PC 14), in aperta comunione di dottrina e di intenti col sommo pontefice e i dicasteri della santa sede e con gli altri vescovi e ordinari locali.

I vescovi, unitamente al proprio clero, siano convinti assertori della vita consacrata, difensori delle comunità religiose, educatori di vocazioni, validi tutori dell'indole propria di ciascuna famiglia religiosa sia in campo spirituale che in quello apostolico.

29. I vescovi e i superiori religiosi, gli uni e gli altri secondo le proprie competenze, promuovano con zelo la conoscenza della dottrina del concilio e dei documenti pontifici sull'episcopato, sulla vita religiosa e sulla chiesa particolare, nonché sui rapporti intercorrenti tra loro. A tal fine sono auspicabili le seguenti iniziative: a) incontri di vescovi e superiori religiosi per approfondire insieme tali argomenti; b) corsi speciali per presbiteri diocesani, per religiosi e per laici impegnati nelle attività apostoliche, al fine di consentire nuovi e più appropriati adeguamenti; c) studi ed esperimenti particolarmente appropriati per la formazione dei religiosi coadiutori e delle religiose; d) l'elaborazione di opportuni documenti pastorali, nella diocesi, nella regione o nazione, che presentino fruttuosamente questi argomenti alla riflessione dei fedeli.

Bisogna però badare che questa formazione di aggiornamento non rimanga limitata solo a pochi, ma provvedere che a tutti si dia la possibilità di usufruirne e divenga un impegno comune di tutti i confratelli.

Pare inoltre opportuno che a questo approfondimento dottrinale si dia anche una sufficiente diffusione mediante la stampa, i mezzi di comunicazione sociale, conferenze, esortazioni, ecc.

30. Fin dalle fasi iniziali della formazione, sia ecclesiastica che religiosa, venga programmato lo studio sistematico del mistero di Cristo, della natura sacramentale della chiesa, del ministero episcopale e della vita religiosa nella chiesa. Perciò: a) i religiosi e le religiose fin dal noviziato si formino ad avere una più piena consapevolezza e sollecitudine per la chiesa particolare, aumentando insieme la fedeltà alla loro specifica vocazione; b) i vescovi procurino che il clero diocesano comprenda intimamente gli attuali problemi concernenti la vita religiosa e l'urgente necessità missionaria, e che alcuni scelti presbiteri si preparino, affinché possano validamente prestare l'opera loro ed aiutare i religiosi e le religiose nel loro progresso spirituale (cf. OT 10; AG 39), sebbene il più delle volte convenga affidare questo compito a presbiteri religiosi prudentemente scelti (cf. n. 36).

31. Una maturazione più completa della vocazione sacerdotale e religiosa dipende anche, e in grado decisivo, dalla formazione dottrinale, che di solito viene impartita o in centri di studio a livello universitario o in scuole superiori oppure in istituti particolarmente adatti.

I vescovi e i superiori dei religiosi, interessati a tale compito, prestino efficacemente la loro collaborazione per la sussistenza di questi centri di studio e per sostenere il giusto funzionamento, soprattutto quando tali centri siano a servizio di una o più diocesi e congregazioni religiose e meglio garantiscano sia l'eccellenza dell'insegnamento sia la presenza di docenti e di tutti gli altri, che debitamente preparati sono in grado di rispondere alle esigenze della formazione, e assicurino inoltre l'impiego più razionale del personale stesso e dei mezzi.

Nel preparare, riformare e attuare gli statuti di questi centri di studio risultino chiaramente definiti i diritti e i doveri dei singoli partecipanti, i compiti che in forza dello stesso ministero spettano al vescovo o ai vescovi, le modalità d'azione e la dimensione di responsabilità dei superiori religiosi cointeressati, cosicché si possa promuovere una presentazione oggettiva e completa della dottrina, strutturata in armonia col magistero della chiesa. In base quindi ai criteri generali di competenza e di responsabilità e secondo le disposizioni statutarie si provveda a seguire con diligente cura l'attività e le iniziative di questi centri. Ma in tutta questa disciplina, certamente delicata e importante, si osservino sempre le norme e le disposizioni della santa sede.

32. Un adeguato rinnovamento della prassi pastorale nelle diocesi richiede una conoscenza più approfondita di tutte quelle realtà, che riguardano in concreto la vita umana e religiosa locale, in modo che da tale base possa scaturire una riflessione teologica oggettiva e appropriata, si possano stabilire delle priorità operative, elaborare un piano d'azione pastorale, esaminare, infine, periodicamente quanto sia stato realizzato. Questo lavoro può richiedere da parte dei vescovi, con la collaborazione di persone competenti, scelte anche tra i religiosi, di costituire e sostenere delle commissioni di studio e dei centri di ricerca. Invero tali iniziative appaiono sempre più necessarie non solo per conseguire una formazione più aggiornata delle persone, ma anche per dare una struttura razionale alla prassi pastorale.

33. Peculiare e delicato dovere dei religiosi è di avere la mente attenta e l'animo docile al magistero della gerarchia e di rendere facile ai vescovi l'esercizio del ministero di "dottori autentici" e di "testimoni della divina e cattolica verità" (cf. LG 25) nell'impegno di responsabilità circa l'insegnamento dottrinale della fede, sia nei centri, dove se ne coltiva lo studio, sia nell'impiego dei mezzi per trasmetterla.

a) Riguardo alle pubblicazioni di libri e documenti, curate presso organizzazioni librarie di religiosi e religiose o di istituzioni cattoliche o di case editrici da loro gestite, si osservino le norme impartite dalla Congregazione per la dottrina della fede (19.III.1975) circa la competente autorità per l'approvazione dei testi della sacra scrittura e relative versioni, dei libri di liturgia, di preghiere e di catechismo, o di opere di qualunque altro genere, che contengano qualche argomento in modo speciale attinente alla religione e all'onestà dei costumi. L'omissione di queste norme, speciosamente talvolta o astutamente escogitata, può recare ai fedeli un gran danno, a cui è necessario resistere con tutte le forze e con lealtà soprattutto da parte dei religiosi.

b) Anche quando si tratta di documenti e di iniziative editoriali da parte di istituzioni religiose, locali o nazionali, che pur non essendo di pubblica destinazione, possono tuttavia esercitare un certo peso in fatto di pastorale, come, ad esempio, i nuovi e gravi problemi sulla questione sociale, economica e politica, in qualunque modo connessi con la fede e la vita religiosa, venga sempre salvaguardata la necessaria intesa con gli ordinari competenti.

c) I vescovi poi, considerata attentamente la missione speciale di alcuni istituti, esortino e sostengano i religiosi e le religiose, che sono impegnati nell'importante settore apostolico dell'attività editoriale e delle comunicazioni sociali; promuovano al riguardo una più estesa collaborazione apostolica, soprattutto a livello nazionale; parimenti siano solleciti della formazione del personale specializzato in questa attività non solo quanto alla competenza tecnica, ma anche, e soprattutto, quanto alla loro responsabilità ecclesiale.

34. Grave errore sarebbe rendere indipendenti - e assai più grave quello di opporle tra loro - la vita religiosa e le strutture ecclesiali, quasi potessero sussistere come due realtà distinte, l'una carismatica, l'altra istituzionale; mentre ambedue gli elementi, cioè i doni spirituali e le strutture ecclesiali, formano un'unica, anche se complessa, realtà (cf. LG 8).

Pertanto i religiosi e le religiose, mentre dimostrano particolare intraprendenza e prospettiva per il tempo futuro (cf. nn. 10-14), siano strenuamente fedeli all'intenzione e allo spirito dell'istituto in piena obbedienza e adesione all'autorità della gerarchia (cf. PC 2; LG 12).

35. Il vescovo, quale pastore della diocesi, e i superiori religiosi, in quanto responsabili del proprio istituto, promuovano la partecipazione dei religiosi e delle religiose alla vita della chiesa particolare e la loro cognizione circa le norme direttive e le disposizioni ecclesiastiche; parimenti incrementino, soprattutto i superiori, l'unità supernazionale nel proprio istituto e la docilità verso i suoi superiori generali (cf. Parte I, nn. 15-23).

Capitolo VI

IMPEGNI E RESPONSABILITA' NEL CAMPO OPERATIVO

La chiesa vive nello Spirito e sta sul fondamento di Pietro e degli apostoli e dei loro successori, così che il ministero episcopale risulta realmente quale principio direttivo del dinamismo pastorale di tutto il popolo di Dio. La chiesa dunque opera in armonia sia con lo Spirito santo, che ne è l'anima, sia col capo operante nel corpo (cf. nn. 5-9). Ciò evidentemente comporta per i vescovi e i religiosi, nello svolgimento delle loro iniziative e attività, delle conseguenze ben determinate, quantunque essi godano di una loro propria competenza, gli uni e gli altri secondo il proprio ruolo.

Le direttive pratiche, che qui vengono esposte, si riferiscono a due generi di esigenze nel campo operativo: quelle cioè pastorali e quelle religiose.

Esigenze della missione pastorale

36. Il concilio afferma che i religiosi e le religiose "appartengono anch'essi sotto un particolare aspetto alla famiglia diocesana, recano un grande aiuto alla sacra gerarchia, e, nelle accresciute necessità dell'apostolato, possono e debbono recarne ogni giorno sempre più" (CD 34).

Nei territori, dove sono vigenti più riti, i religiosi, svolgendo attività rivolte ai fedeli di rito diverso dal loro, si atterranno a quelle norme, che sono state previste nei rapporti da avere con vescovi di altro rito (cf. ES 1, 23).

E' urgente la necessità che vengano applicati di fatto tali criteri, non solo in fase conclusiva, ma anche nel determinare ed elaborare il programma di azione, fermo restando, tuttavia, il ruolo nel decidere proprio del vescovo.

I religiosi presbiteri, a motivo della stessa unità del presbiterio( cf. LG 28; CD 28, 11) e in quanto partecipano alla cura delle anime, "sono da considerarsi di appartenere, per un certo reale aspetto, al clero della diocesi" (CD 34); essi possono, perciò, e debbono servire a meglio unire reciprocamente e coordinare in campo operativo i religiosi e le religiose con il clero e i vescovi locali.

37. Si cerchi di suscitare tra il clero diocesano e le comunità dei religiosi rinnovati vincoli di fraternità e di collaborazione (cf. CD 35, 5). Si dia perciò grande importanza a tutti quei mezzi, anche se semplici nè propriamente formali, che giovino ad accrescere la mutua fiducia, la solidarietà apostolica e la "fraterna concordia" (cf. ES I, 28). Ciò servirà davvero non solo a irrobustire una genuina coscienza della chiesa particolare, bensì anche a stimolare ognuno a rendere e a chiedere servizi con animo lieto, ad alimentare il desiderio di cooperare, nonché ad amare la comunità umana ed ecclesiale, nella cui vita si trova inserito, quasi come patria della propria vocazione.

38. I superiori maggiori s'impegneranno con grande sollecitudine per conoscere non solo le doti e le possibilità dei loro confratelli, ma anche le necessità apostoliche delle diocesi, nelle quali il proprio istituto è chiamato ad operare. E' auspicabile, pertanto, che si realizzi un dialogo concreto e globale tra il vescovo e i superiori dei vari istituti presenti nella diocesi, così che, soprattutto in considerazione anche di certe precarie situazioni e della persistente crisi di vocazioni, il personale religioso possa essere distribuito in modo più equo e più proficuo.

39. Campo privilegiato di collaborazione tra i vescovi e i religiosi deve essere considerato l'impegno pastorale per seguire le vocazioni (cf. PO 11; PC 24; OT 2). Tale impegno pastorale consiste in un'azione concorde della comunità cristiana per tutte le vocazioni, così che la chiesa venga edificata secondo la pienezza di Cristo e secondo la varietà dei carismi del suo Spirito.

In fatto di vocazione questo al di sopra di ogni altra cosa deve essere ben considerato, che cioè lo Spirito santo, il quale "spira dove vuole" Gv 3,8), chiama i fedeli ai diversi uffici e ai diversi stati per il maggior bene della chiesa. A tale azione divina è chiaro che nessun ostacolo dev'essere posto; ma, al contrario, si deve provvedere che ognuno risponda con la massima libertà alla propria vocazione. La storia stessa, del resto, può abbondantemente testimoniare che le diversità delle vocazioni, e soprattutto la coesistenza e la collaborazione dell'uno e dell'altro clero, diocesano e religioso, non vanno a detrimento delle diocesi, anzi piuttosto le arricchiscono di nuovi tesori spirituali e ne accrescono notevolmente la vitalità apostolica.

Pertanto sarà opportuno che le molteplici iniziative siano sapientemente coordinate sotto la guida dei vescovi: cioè secondo i compiti che spettano ai parenti e agli educatori, ai religiosi e alle religiose, ai presbiteri e a tutti gli altri, che operano nel campo pastorale. Perciò quest'impegno dovrà essere assolto in comune e concordemente e con piena dedizione di ognuno; e il vescovo stesso guidi gli sforzi di tutti nella loro convergenza verso il medesimo intento, sempre memore che tali sforzi sono in radice originati dall'impulso dello Spirito. In considerazione di ciò, quindi, urge anche la necessità di promuovere con frequenza iniziative di preghiera.

40. Nel rinnovamento della prassi pastorale e dell'aggiornamento delle opere di apostolato sono da prendersi in seria considerazione i profondi rivolgimenti prodottisi nel mondo contemporaneo (cf. GS 43,44); per cui è necessario talora affrontare delle situazioni non poco difficili, soprattutto "per ovviare ai bisogni delle anime e alla penuria del clero" (ES I, 36).

I vescovi, in dialogo con i superiori religiosi e con tutti coloro che operano nel campo pastorale della diocesi, cerchino di discernere che cosa esige lo Spirito e studino i modi di apprestare nuove presenze apostoliche, così da poter affrontare le difficoltà germogliate nell'ambito stesso della diocesi. La ricerca, però, di un rinnovamento della presenza apostolica non deve minimamente indurre a non tenere in debito conto la validità ancora attuale di altre forme di apostolato, che sono proprie della tradizione, come quella della scuola (cf. S. Congr. per l'ed. cat., La scuola cattolica, 19.3.1977: OR 6.7.1977; EV V, 2239-2333), delle missioni, dell'operosa presenza negli ospedali, dei servizi sociali ecc.; tutte queste forme di tradizione, per altro, è necessario che senza ulteriori indugi e secondo le norme orientative del concilio e le necessità dei tempi vengano diligentemente e opportunamente aggiornate.

41. Le innovazioni apostoliche, a cui successivamente si dia inizio, siano progettate con attento studio. E' dovere dei vescovi da una parte, "non di estinguere lo Spirito, ma di sottoporre ogni cosa ad esame e ritenere ciò che è buono" (cf. 1 Tess 5, 12 e 19-21; LG 12), "in modo però che lo zelo spontaneo di coloro che hanno parte nell'opera sia salvaguardato e incoraggiato" (AG 30); da parte loro i superiori religiosi cooperino vitalmente e in dialogo con i vescovi nel ricercare soluzioni, nel disporre le programmazioni sulle scelte operate, nell'avviare esperienze, anche del tutto nuove, sempre tuttavia agendo sia in ragione delle più urgenti necessità della chiesa sia in conformità alle norme e agli orientamenti del magistero e secondo l'indole del proprio istituto.

42. Non si trascuri mai l'impegno del reciproco scambio di aiuti tra i vescovi e i superiori nel valutare obiettivamente e nel giudicare con equità le nuove esperienze già iniziate, al fine di evitare non solo evasioni e frustrazioni, ma anche i pericoli di crisi e deviazioni. Di queste iniziative, quindi, si faccia in determinati periodi la revisione; e se il tentativo non ha raggiunto un buon esito( cf. EN 58), si usi umiltà, ma insieme anche la necessaria fermezza, per correggere o sospendere od orientare più adeguatamente l'esperimento esaminato.

43. Sarà non poco a danno dei fedeli il fatto che troppo a lungo si usi tolleranza di fronte a certe iniziative aberranti o riguardo all'ambiguità di alcuni fatti compiuti. Pertanto i vescovi e i superiori, nutrendo sentimenti di reciproca fiducia e secondo l'adempimento dei compiti a ciascuno spettanti e l'esercizio della responsabilità di ognuno, provvederanno con ogni sollecitudine, affinché con manifesta decisione e chiare disposizioni, sempre nella carità, ma anche con la dovuta fermezza, siano prevenuti e corretti siffatti errori.

Soprattutto nel campo liturgico urge la necessità di porre rimedio a non pochi abusi, introdotti sotto opposta insegna. I vescovi, in quanto autentici liturghi della chiesa locale (cf. SC 22,41; LG 26; CD 15: cf. nn. 5-9), e i superiori religiosi, per quanto concerne i loro confratelli, siano vigilanti, affinché si faccia un adeguato rinnovamento del culto, e intervengano tempestivamente per correggere o rimuovere qualunque deviazione e abuso in questo settore tanto significativo e centrale (cf. SC 10). I religiosi, poi, ricordino anch'essi che è loro dovere attenersi alle leggi e alle direttive della santa sede, nonché ai decreti del vescovo locale circa l'esercizio del pubblico culto (cf. ES I, 26, 37, 38).

Esigenze della vita religiosa

44. Riguardo alla prassi pastorale dei religiosi il concilio espressamente dichiara: "Tutti i religiosi, esenti e non esenti, sono soggetti all'autorità degli ordinari locali in ciò che si riferisce al pubblico esercizio del culto divino, salva restando la diversità dei riti, alla cura delle anime, alla sacra predicazione destinata al popolo, all'educazione religiosa e morale, all'istruzione catechistica e formazione liturgica dei fedeli, specialmente dei fanciulli, e al decoro dello stato clericale, nonché alle varie opere nei settori che riguardano l'esercizio del sacro apostolato. Anche le scuole cattoliche dei religiosi sono soggette agli ordinari locali per quanto riguarda il loro ordinamento generale e la vigilanza, fermo tuttavia restando il diritto dei religiosi circa la direzione di esse. Parimenti i religiosi sono tenuti ad osservare tutte quelle disposizioni, che i concili o le conferenze dei vescovi abbiano legittimamente stabilito doversi osservare da tutti" (CD 35,4; cf. 35,5; ES I, 39).

45. Le relazioni tra i vescovi e i superiori, affinché diano frutti di giorno in giorno più ubertosi, dovranno svolgersi sempre nel benevolo rispetto delle persone e degli istituti, nella convinzione che i religiosi devono dar testimonianza di docilità verso il magistero e di obbedienza ai superiori, e nella reciproca volontà di far sì che gli uni non varchino i limiti della competenza degli altri.

46. Quanto ai religiosi, che svolgono attività apostoliche al di fuori delle opere del proprio istituto, è necessario che sia tutelata la sostanziale partecipazione alla vita di comunità e la loro fedeltà alle proprie regole o costituzioni: "sul quale obbligo gli stessi vescovi non manchino di insistere" (CD 35, 2). Nessun impegno apostolico deve essere occasione di deflettere dalla propria vocazione.

Per quanto poi concerne la situazione di certi religiosi, i quali vorrebbero sottrarsi all'autorità del proprio superiore e ricorrere all'autorità del vescovo, siano studiati obiettivamente i singoli casi; ma è necessario che, dopo un conveniente scambio di pareri e una sincera ricerca di soluzioni, il vescovo appoggi il provvedimento che prenderà il superiore competente, a meno che non gli risulti che vi sia qualche ingiustizia.

47. I vescovi e i loro immediati collaboratori procurino non solo di avere una conoscenza esatta circa l'indole propria dei singoli istituti, ma d'informarsi anche sul loro stato attuale e sui loro criteri di rinnovamento. A loro volta i superiori religiosi, oltre una più aggiornata visione dottrinale della chiesa particolare, cerchino anche di tenersi pur essi concretamente informati sullo stato attuale dell'azione pastorale e sul programma apostolico stabilito dalla diocesi, nella quale debbano prestare l'opera loro.

Nel caso in cui un istituto venga a trovarsi nella situazione di non poter più sostenere la gestione di un'opera, i superiori di esso manifestino tempestivamente e con fiducia gl'impedimenti a proseguire l'opera stessa, almeno nella forma attuale, soprattutto se ciò fosse per insufficenza di personale; l'ordinario del luogo, da parte sua, consideri benignamente la richiesta di sopprimere tale opera (cf. ES I, 34,3) e di comune accordo con i superiori cerchi la soluzione conveniente.

48. Una necessità profondamente sentita e ricca di buone speranze anche per la vita operosa e il dinamismo apostolico della chiesa locale, è quella di promuovere con sollecito impegno scambi vicendevoli d'informazioni e più sostanziali intese fra i vari istituti religiosi operanti nella diocesi. I superiori pertanto pongano l'opera loro, affinché questo dialogo si realizzi in modi e ritmi convenienti. Ciò indubbiamente servirà ad accrescere la fiducia, la stima, il reciproco scambio di aiuti, l'approfondimento dei problemi e la mutua comunicazione delle esperienze, onde possa esprimersi con maggiore evidenza la comune professione dei consigli evangelici.

49. Nel vasto campo pastorale della chiesa è istituito un posto nuovo e assai rilevante da assegnarsi alle donne. Già solerti ausiliarie degli apostoli (cf. At 18, 26; Rm 16, 1 ss.), le donne dovranno inserire oggi la loro attività apostolica nella comunità ecclesiale, attuando fedelmente il mistero della loro creata e rivelata identità (cf. Gen 2; Ef 5; 1 Tm 3; ecc.) e volgendo attentamente l'animo alla crescente loro presenza nella civile società.

Le religiose, quindi, nella fedeltà verso la loro vocazione e in armonia con la loro specifica indole propria della donna, in risposta anche alle concrete esigenze della chiesa e del mondo, cercheranno e proporranno nuove forme apostoliche di servizio.

Sull'esempio di Maria, che nella chiesa occupa, tra i credenti, il vertice della carità, e animate da quello spirito, "incomparabilmente umano, di sensibilità e sollecitudine", che costituisce la loro nota caratteristica (cf. Paolo VI, Discorso al Congresso nazionale del Centro italiano femminile: OR 6-7.12. 1976), alla luce di una lunga storia, che offre insigni testimonianze delle loro iniziative nell'evolversi dell'attività apostolica, le religiose potranno sempre più ed essere ed apparire qual segno luminoso della chiesa fedele, solerte e feconda nell'annunzio del regno (cf. Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione Inter insigniores, 15 ottobre 1976).

50. I vescovi, unitamente ai loro collaboratori in campo pastorale, nonché i superiori e le superiore facciano in modo che sia meglio conosciuto, approfondito e incrementato il servizio apostolico delle religiose. Essi pertanto, considerando non solo il numero delle religiose (cf. Introduzione), ma soprattutto la loro importanza nella vita della chiesa, si adoperino con impegno, affinché abbia sollecita attuazione il principio di una maggiore loro promozione ecclesiale, perché il popolo di Dio non rimanga privo di quell'assistenza speciale, che soltanto esse possono offrire. Sempre però si badi, che le religiose siano tenute in grande stima e giustamente e meritatamente valorizzate per la testimonianza da esse data in quanto donne consacrate, più che per i servizi utili e generosamente prestati.

51. Si nota in alcune regioni una certa alacrità d'iniziative per fondare nuovi istituti religiosi. Coloro che hanno la responsabilità di discernere l'autenticità di ciascuna fondazione, debbono ponderare, con umiltà, certo, ma anche obiettivamente e costantemente e cercando d'intuire a fondo le prospettive di futuro, ogni indizio relativo ad una credibile presenza dello Spirito santo sia "per accoglierne i carismi... con gratitudine e consolazione" (LG 12) sia anche per evitare "che incautamente sorgano istituti inutili o sprovvisti di sufficiente vigore" (PC 19). Quando, infatti, il giudizio sulla nascita di un istituto viene formulato solo in vista della sua utilità e convenienza operativa o semplicemente in base al modo di agire di qualche persona, che sperimenta fenomeni devozionali per se stessi ambigui, allora davvero si dimostra che viene in certo modo distorto il genuino concetto di vita religiosa nella chiesa (cf. parte I, nn. 10-14).

Per dare invece un giudizio sulla genuinità di un carisma, si presuppongono le seguenti caratteristiche: a) una singolare sua provenienza dallo Spirito, distinta, anche se non separata, dalle peculiari doti personali, che si manifestano nel campo operativo e organizzativo; b) un profondo ardore dell'animo di configurarsi a Cristo per testimoniare qualche aspetto del suo mistero; c) un amore costruttivo verso la chiesa, che assolutamente rifugge dal provocare in essa qualsiasi discordia.

Inoltre la genuina figura dei fondatori comporta che si tratti di uomini e donne, la cui provata virtù (cf. LG 45) dimostra una sincera docilità sia verso la sacra gerarchia sia nel seguire quell'ispirazione, che in essi sussiste come dono dello Spirito.

Quando dunque si tratta di nuove fondazioni, si richiede necessariamente che tutti coloro, i quali debbono svolgere un qualche ruolo nel giudicare, esprimano il loro parere con chiara prudenza, paziente valutazione e giusta esigenza. Di ciò si sentano soprattutto responsabili i vescovi, successori degli apostoli, "alla cui autorità lo stesso Spirito sottomette anche i carismatici" (LG 7), e a cui compete, in comunione col romano pontefice, "interpretare i consigli evangelici, regolarne la pratica e costruire anche, in base ad essi, forme stabili di vita" (LG 43).

Capitolo VII

IMPORTANZA DI UN'OPPORTUNA COORDINAZIONE

La varia e feconda vitalità delle chiese richiede un vero e proprio impegno di coordinazione per rinnovare, creare e perfezionare i molteplici strumenti pastorali di servizio e di stimolo. Su alcuni di questi volgeremo la nostra considerazione secondo il loro differente livello: diocesano, nazionale, universale.

A livello diocesano

52. In ogni diocesi il vescovo cerchi di intendere ciò che lo Spirito, anche attraverso il suo gregge e in modo particolare attraverso le persone e le famiglie religiose presenti nella diocesi, vuol manifestare. Perciò è necessario chi egli coltivi rapporti sinceri e familiari con i superiori e le superiore, per compiere meglio il suo ministero di pastore verso i religiosi e le religiose (cf. CD 15, 16). E' infatti suo specifico ufficio difendere la vita consacrata, promuovere e animare la fedeltà e l'autenticità dei religiosi e aiutarli ad inserirsi, secondo la loro propria indole, nella comunione e nell'azione evangelizzatrice della sua chiesa. Tutto ciò naturalmente il vescovo dovrà compiere in solidale collaborazione con la conferenza episcopale e in sintonia con la voce del capo del collegio apostolico.

A loro volta i religiosi considerino il vescovo non solo come pastore di tutta la comunità diocesana, ma anche come garante della loro fedeltà alla propria vocazione nell'adempimento del loro servizio a vantaggio della chiesa locale. Essi invero "assecondino prontamente e fedelmente le richieste e i desideri del vescovo, perché assumano più ampi incarichi nel ministero dell'umana salvezza, salva l'indole dell'istituto e secondo le costituzioni" (CD 35, 1).

53. Si abbiano sempre presenti le seguenti disposizioni del motu-proprio Ecclesiae sanctae.

a) "Tutti i religiosi, anche esenti, son tenuti alle leggi, ai decreti e alle disposizioni dell'ordinario del luogo circa le diverse opere in quegli aspetti che si riferiscono all'esercizio dell'apostolato, nonché all'azione pastorale e sociale prescritta o raccomandata dall'ordinario del luogo".

b) "Parimenti son tenuti alle leggi, decisioni e disposizioni, emanate dall'ordinario del luogo o dalla conferenza episcopale" - o, secondo i luoghi, dal sinodo patriarcale (cf. CD 35,5) -; leggi, che riguardano vari elementi ivi riferiti (ES I, 15, 1-2, a, b, c, d).

54. E' conveniente che nella diocesi venga costituito l'incarico di vicario episcopale per i religiosi e le religiose, destinato a prestare un servizio di collaborazione, in questo campo, allo stesso ministero pastorale del vescovo (cf. nn. 5-9); incarico, per altro, che non assume alcun ruolo proprio dell'autorità dei superiori. E' spettanza di ciascun vescovo residenziale determinare chiaramente le mansioni specifiche di tale incarico e, dopo attento esame, affidarlo a persona competente, che conosca a fondo la vita religiosa, la sappia apprezzare e desideri incrementarla.

Quanto, poi, all'espletamento di tale ufficio si raccomanda vivamente che vi intervengano in modo opportuno (ad esempio, come consultori o sotto altro titolo del genere), anche le varie categorie di religiosi: cioè sacerdoti, confratelli laici e religiose provvisti delle necessarie qualità.

Il mandato, dunque, del vicario episcopale per le congregazioni dei religiosi e delle religiose è quello di prestare aiuto ad assolvere un compito per sè proprio ed esclusivo del vescovo, ossia di curare la vita religiosa nella diocesi e di inserirla nel complesso dell'attività pastorale. Per questo appare anche auspicabile che il vescovo prudentemente consulti i religiosi e le religiose sulla scelta del candidato.

55. Nell'intento di ottenere che il presbiterio della diocesi possa esprimere la debita unità e siano meglio promossi i diversi ministeri, il vescovo con ogni sollecitudine esorterà i presbiteri diocesani a voler riconoscere con animo grato l'apporto fruttuoso dei religiosi e delle religiose alla loro chiesa e ad approvare di buon grado la designazione di essi a svolgere compiti di più ampia responsabilità, che siano in consonanza con la loro vocazione e competenza.

56. Si provveda che i religiosi sacerdoti facciano parte, in congrua presenza, dei consigli presbiterali; così pure i religiosi, tanto presbiteri che laici, e le religiose siano equamente rappresentati nei consigli pastorali (cf. PO 7; CD 27; ES I, 15 e 16). Per definire equamente la convenienza i la proporzione circa il numero delle presenze, l'ordinario del luogo stabilisca opportunamente i criteri e i modi necessari.

57. Per favorire una certa stabilità della cooperazione pastorale,

a) si tenga presente la differenza, che intercorre tra opere proprie di un istituto e opere affidate ad un istituto dall'ordinario del luogo. Le prime, infatti, dipendono dai superiori religiosi a norma delle loro costituzioni, anche se sono soggette in fatto di pastorale alla giurisdizione dell'ordinario del luogo a norma del diritto (cf. ES I, 29).

b) "Per ogni opera di apostolato che sarà affidata dall'ordinario del luogo a un istituto, salvo restando le altre norme del diritto, si faccia una convenzione scritta tra lo stesso ordinario e il competente superiore dell'istituto, nella quale, tra le altre cose, sia chiaramente definito ciò che riguarda l'opera da svolgere, i membri da impegnare e gli elementi di natura economica" (ES I, 30,1).

c) "Per queste opere, poi, i religiosi veramente idonei saranno scelti dal proprio superiore, dopo uno scambio di vedute con l'ordinario del luogo; e se si tratta di conferire un incarico ecclesiastico a un religioso, questi deve essere nominato dall'ordinario del luogo, su presentazione o almeno con l'assenso del suo superiore, per un tempo determinato di comune accordo" (ES I, 30,2).

58. Salva sempre restando la facoltà di disporre le situazioni diversamente o di mutarle in modo più consono alle urgenti esigenze di rinnovamento degli istituti, appare opportuno determinare in precedenza con esattezza quali siano le opere e soprattutto gl'incarichi da affidare ai religiosi singoli, per i quali si ritenga necessaria una convenzione scritta, come, ad esempio, per i parroci (cf. ES I, 33), i decani, i vicari episcopali, gli assistenti di azione cattolica, i segretari di azione pastorale, i direttori diocesani, i docenti di università cattolica, i catechisti professionali, i direttori di collegi cattolici, ecc., anche in vista sia della stabilità dei titolari sia della devoluzione dei beni in caso di soppressione di un'opera.

Se un religioso dovesse essere rimosso dall'incarico a lui affidato, si rammenti la seguente disposizione: "Per grave motivo ogni religioso dall'incarico a lui affidato può essere rimosso sia a piacimento dell'autorità committente, dopo aver avvertito il superiore religioso, sia a piacimento del superiore, dopo aver avvertito l'autorità committente, con pari diritto, senza dover richiedere il consenso dell'altra parte; nè l'una è tenuta a comunicare all'altra parte il motivo della sua decisione e tanto meno a provarlo, salvo restando il ricorso in devoluzione alla santa sede" (ES I, 32).

59. Le associazioni di religiosi e di religiose a livello diocesano si dimostrano assai utili; quindi, tenendo per altro sempre conto della loro indole e delle specifiche loro finalità, vanno incoraggiate: a) sia come organismi di mutuo collegamento e di promozione e rinnovazione della vita religiosa nella fedeltà alle direttive del magistero ecclesiastico e nel rispetto dell'indole propria di ciascun istituto; b) sia come organismi per discutere i problemi misti tra vescovi e superiori, nonché per coordinare le attività delle famiglie religiose con l'azione pastorale della diocesi sotto la guida del vescovo, senza alcun pregiudizio riguardo alle relazioni e trattative, che verranno direttamente condotte dallo stesso vescovo con i singoli istituti.

A livello di nazione, regione e rito

60. Nelle conferenze episcopali di una nazione o di un territorio (cf. CD 37) gli stessi vescovi "esercitano congiuntamente il loro ministero pastorale per far maggiormente progredire il bene che la chiesa offre agli uomini" (CD 38). Nello stesso modo esercitano il loro ministero, per il proprio rito, i sinodi patriarcali (cf. OE 9), e per i rapporti tra i diversi riti, nell'ambito della loro particolare composizione, le assemblee interrituali degli ordinari (cf. CD 38).

61. In molte nazioni o territori, per cura della Congregazione per i religiosi e gl'istituti secolari - e nei territori dipendenti dalle congregazioni per l'evangelizzazione dei popoli e per le chiese orientali col consenso del rispettivo sacro dicastero - la santa sede ha istituito i consigli o conferenze dei superiori maggiori (sia di religiosi che di religiose o misti). Tali consigli devono essere attentamente sensibili alle diversità degli istituti, incrementare la comune consacrazione e convogliare le forze di tutti, impegnate nel lavoro apostolico, verso la coordinazione pastorale dei vescovi (cf. n. 21).

Pertanto, affinché i consigli dei superiori maggiori possano con la dovuta efficienza esplicare il loro compito, si dimostra sommamente utile che in determinati periodi si faccia un'opportuna revisione della loro attività e in modo più adeguato si organizzi, in concordanza con la diversa missione degli istituti, una congrua ripartizione di distinti commissioni o di altri consimili organismi, debitamente collegati con gli stessi consigli dei superiori maggiori.

62. Le relazioni tra i consigli dei superiori maggiori e i sinodi patriarcali, e similmente le relazioni fra i medesimi consigli dei superiori maggiori e le conferenze episcopali nonché le assemblee interrituali, siano regolate secondo i criteri, che determinano i rapporti tra i singoli istituti e l'ordinario del luogo (cf. ES I, 23-25, 40); quindi si stabiliscano anche le norme aggiuntive secondo le diverse esigenze regionali.

63. Poiché è di somma importanza che i consigli dei superiori maggiori collaborino fiduciosamente e diligentemente con le conferenze episcopali cf. CD 35,5; AG 33), "è auspicabile che le questioni concernenti l'una e l'altra parte siano trattate in commissioni miste, costituite di vescovi e di superiori o superiore maggiori" (Es I, 43), o in altre forme da adattarsi alle situazioni dei continenti, delle nazioni o delle regioni.

Una commissione mista di tal genere dovrà essere strutturata in modo che possa conseguire efficientemente le sue finalità, quale organismo di reciproco consiglio, di collegamento, di mutua comunicazione, di studio e di riflessione, anche se il diritto di decidere in definitiva sia da lasciarsi sempre ai consigli o conferenze, secondo le rispettive competenze.

Spetta dunque ai sacri pastori promuovere il coordinamento di tutte le opere e attività apostoliche le loro singole diocesi; così pure ai sinodi patriarcali e alle conferenze episcopali nel proprio territorio( cf. CD 36,5).

Per le questioni riguardanti i religiosi e le religiose, i vescovi, se la necessità o l'utilità lo richieda - come di fatto in più luoghi è avvenuto -, istituiranno un'apposita commissione in seno alla conferenza episcopale. Tuttavia la presenza di tale commissione non solo non ostacola la funzionalità della commissione mista, ma piuttosto la richiede.

64. La partecipazione dei superiori maggiori, o, secondo gli statuti, dei loro delegati, anche in altre varie commissioni delle conferenze episcopali e delle assemblee interrituali degli ordinari locali (come, ad esempio, nella commissione per l'educazione, per la salute, per la giustizia e pace, per le comunicazioni sociali, ecc.), può risultare di grande opportunità ai fini dell'azione pastorale.

65. La reciproca presenza per mezzo di delegati sia delle conferenze dei vescovi sia delle conferenze o consigli dei superiori maggiori nelle singole unioni o assemblee degli uni e degli altri, è raccomandabile, prestabilendo evidentemente opportune norme quanto alla necessità, per cui ciascuna conferenza possa trattare da sola argomenti di sua competenza.

A livello soprannazionale e universale

66. Per quanto concerne l'ambito internazionale, continentale o subcontinentale, tra le varie nazioni conglobate si possono costituire, con l'approvazione della santa sede, delle forme di coordinamento tanto per i vescovi quanto per i superiori maggiori. Un idoneo collegamento, a questo livello, dei singoli centri di servizio conferisce non poco giovamento al fine di conseguire un'ordinata e concorde azione da parte dei vescovi e dei religiosi. In quelle zone, in cui tali forme di organizzazione ad ambito continentale siano già in atto, potranno assolvere proficuamente siffatto compito di cooperazione i loro stessi comitati o consigli permanenti.

67. A livello universale il successore di Pietro esercita un ministero suo proprio per tutta la chiesa; ma "nell'esercizio della sua suprema, piena ed immediata potestà su tutta la chiesa, il romano pontefice si avvale dei dicasteri della curia romana" (CD 9).

Lo stesso sommo pontefice ha promosso alcune forme di cooperazione dei religiosi con la santa sede, approvando il consiglio dell'unione sia dei superiori che delle superiore generali presso la Congregazione per i religiosi e gl'istituti secolari (cf. ES II, 42) e disponendo di introdurre i rappresentanti dei religiosi presso la Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli (cf. ES III, 16).

CONCLUSIONE

Il dialogo e la collaborazione sono già in atto ai vari livelli; ma non v'è dubbio chi debbano ulteriormente svilupparsi, perché rechino frutti più abbondanti. Si rende evidente, pertanto, la necessità di ricordare che nell'opera di collaborazione allora si avrà la vera spinta efficace, quando coloro che nell'operare sono protagonisti abbiano la certezza che tale spinta scaturisce prima di tutto dalla stessa loro persuasione e formazione. Tutto infatti progredirà in meglio, se essi saranno profondamente convinti della necessità e della natura e importanza di tale cooperazione, della reciproca fiducia, del rispetto del ruolo di ciascuno, delle mutue consultazioni nel determinare e organizzare le iniziative ad ogni livello. Allora i vicendevoli rapporti tra i vescovi e i religiosi, condotti con sincera e alacre volontà, non poco varranno ad esplicare nel modo più conveniente e adeguato la dinamica vitalità della chiesa-sacramento nella sua ammirabile missione di salvezza.

L'apostolo Paolo, prigioniero nel Signore, da Roma scrivendo agli efesini, così li ammoniva: "Vi esorto a camminare in maniera degna della vocazione con cui foste chiamati, con ogni umiltà e mansuetudine, con longanimità, sopportandovi a vicenda nella carità, solleciti di conservare l'unità dello Spirito nel vincolo della pace" (Ef 4,1-3).

Le presenti direttive sono state sottoposte all'esame dal sante padre, il quale, in data 23 aprile 1978, le ha benevolmente approvate e ne ha deliberato la pubblicazione.

Roma, S. Congregazione per i Religiosi e gli Istituti secolari, 14 maggio 1978, Solennità della Pentecoste.

Card. Sebastiano Baggio
Prefetto della S. Congregazione dei vescovi.

Card. Eduardo Pironio
Prefetto della S.Congregazione per i religiosi e gli istituti secolari.

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