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COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE

LA MORALE CRISTIANA E LE SUE NORME

(1974)

 

A) LE « NOVE TESI » DI HANS URS VON BALTHASAR approvate « in forma generica » dalla Commissione Teologica Internazionale

B) LE « QUATTRO TESI » DI HEINZ SCHÜRMANN approvate « in forma generica » dalla Commissione Teologica Internazionale

 


A) LE « NOVE TESI » DI HANS URS VON BALTHASAR
approvate « in forma generica » dalla Commissione Teologica Internazionale

Nota preliminare

Il cristiano che vive della fede, ha il diritto di fondare la condotta morale sulla propria fede. E dal momento che il contenuto di questa, Gesù Cristo, rivelatore dell’amore divino trinitario, ha preso la figura del primo Adamo, ne ha assunta la colpa, le ansietà, le perplessità, le decisioni dell’esistenza, il cristiano è sicuro di ritrovare, nel secondo Adamo, il primo uomo con tutta la problematica morale che gli è propria. Gesù stesso ha dovuto scegliere fra il Padre e la famiglia: « Figlio, perché ci hai fatto così » (Lc 2, 48). Perciò è dal punto di vista del Cristo, cioè della fede che il cristiano fisserà le opzioni fondamentali della vita. Un’etica che procede dalla luce della rivelazione nella sua pienezza e a partire da essa ripercorre le tappe precedenti, non può propriamente essere qualificata come « discendente », in opposizione a un’etica « ascendente » che parte dal dato antropologico considerato fondamento primo.

Non è neppure possibile tacciarla di « astoricità » per il fatto di collocare il vangelo prima della legge dell’antico Testamento. Solo la meta determina e illumina il cammino, anche e in modo speciale il cammino della storia della salvezza con il suo carattere singolare che è allo stesso tempo superamento (secondo l’aspetto sottolineato da Paolo) e compimento (nell’ottica di Matteo e Giacomo). Certo, dal punto di vista storico-cronologico, le tesi 5 e 6 avrebbero dovuto precedere le tesi cristologiche e, ancora prima di quelle, le tesi 7-9. Ma, di fatto, il cristiano vive in un tempo specificamente escatologico e deve sforzarsi continuamente di superare ciò che in lui appartiene alle tappe preliminari per passare a quanto appartiene al termine definitivo.

In questo il cristiano si ricollega al Cristo, che ha vissuto la sua obbedienza al Padre non solo nel modo profetico e immediato, ma anche nella fedeltà alla legge e attraverso la « fede » nella promessa.

Le nostre tesi sono enunciate in modo estremamente sommario e omettono molte cose essenziali. Così il problema ecclesiale è solo accennato. Non si tratta né dei sacramenti, né del rapporto autorità-gerarchia. Come pure non entrano nella casistica delle grandi opzioni con le quali la chiesa d’oggi si trova a confronto nel quadro di decisioni di portata mondiale. Si è voluto principalmente cogliere la morale cristiana nella sua origine, cioè nel mistero di Cristo, centro della storia della salvezza e della storia umana.

I. Il completamento della morale in Gesù Cristo

1. Il Cristo come norma concreta

Un’etica cristiana dev’essere elaborata prendendo come fondamento Gesù Cristo. Come Figlio del Padre, egli ha compiuto nel mondo tutta la volontà di Dio (tutto ciò che a Dio è dovuto), e lo ha fatto « per noi ».

In questo modo noi da lui, che è la norma concreta e assoluta di ogni attività morale, riceviamo la libertà di compiere la volontà di Dio e di vivere il nostro destino di liberi figli del Padre.

1. Cristo è l’imperativo categorico concreto. Di fatti, egli non è solo una norma formale universale dell’azione morale, tale da poter essere applicata a tutti, ma una norma concreta personale. In virtù della sua passione sofferente per noi e del dono eucaristico che ci ha fatto della sua vita, sotto forma di comunione con lui (per ipsum et in ipso). Cristo in quanto norma concreta, ci rende interiormente idonei a compiere con lui (cum ipso) la volontà del Padre. L’imperativo è fondato sull’indicativo oggetto: amare i suoi figli in se stesso e con lui (1 Gv 5, 1 s.); adorare in spirito e verità (Gv 4, 23). La vita di Cristo è contemporaneamente azione e culto. Per i cristiani, questa unità costituisce la norma assoluta. Non possiamo cooperarvi che con un atteggiamento di infinito rispetto (Fil 2, 12) nei confronti dell’opera salvifica di Dio, il cui amore assoluto ci supera all’infinito e con la massima differenza (in maiori dissimilitudine). La liturgia è inseparabile dall’agire morale.

2. L’imperativo cristiano ci situa al di là della problematica dell’autonomia e dell’eteronomia:

a) Infatti, il Figlio di Dio, generato dal Padre, è sì « un altro » (héteros); ma non « qualche cosa d’altro » (héteron) in rapporto a lui, che, come Dio, risponde a suo Padre in maniera autonoma (la sua persona coincide con la sua processione e quindi con la sua missione). D’altra parte, in quanto uomo, ha come presupposto dell’esistenza (Eb 10, 5 s.; Fil 2, 5 s.) e come sorgente intima dell’attività personale (Gv 4, 34, ecc.) il valore divino e il suo consenso a questo, anche quando vuole provare dolorosamente tutte le resistenze dei peccatori nei confronti di Dio [1].

b) In quanto creature noi restiamo « héteron », ma diventiamo pure capaci di mostrare la nostra libera attività personale mediante la forza divina (la « bevanda » diviene in noi la « sorgente ») (Gv 4, 13 s.; 7, 38). Essa ci viene dall’eucaristia del Figlio, per mezzo della nascita di grazia con lui, dal seno del Padre e dalla comunicazione del loro Spirito. Nella sua opera di grazia, Dio agisce gratuitamente (« per nulla »); a noi pure viene richiesto di agire gratuitamente per amore (e non « per qualche cosa », (Mt 10, 8; Lc 14, 12-14); la « grande ricompensa » del cielo (Lc 6, 23) non può dunque essere nient’altro che l’Amore stesso.

Nel piano eterno di Dio (Ef 1, 10), la meta finale coincide con la mozione iniziale della nostra libertà (interior intimo meo; Rm 8, 15 s. 26 s.).

3. In virtù della realtà della nostra filiazione divina, tutta l’attività cristiana è esercizio di libertà e non contrasto. Per il Cristo tutto il peso del dovere (« dei ») che lo sovrasta nella storia della salvezza e lo conduce fino alla croce, è legato al potere, del quale fa uso con libertà piena, di rivelare la volontà salvifica del Padre. Per noi peccatori, la libertà dei figli di Dio assume molto spesso una forma crocifiggente, sia nelle decisioni personali, come nel contesto della comunità ecclesiale. Se le direttive di questa hanno, come valore intrinseco, quello di liberare il credente dall’alienazione del peccato per condurlo alla sua identità e alla vera libertà, è possibile e sovente necessario che esse presentino all’uomo imperfetto un’apparenza di durezza e di obbligo legale, proprio come fu la volontà del Padre per il Cristo in croce.

2. L’universalità della norma concreta

La norma, che è l’esistenza concreta del Cristo, è personale e nello stesso tempo universale, perché in lui l’amore del Padre per il mondo si attua in modo totale, insuperabile e completo. Si estende a tutta la varietà delle persone e delle loro situazioni morali allo stesso modo come riunisce nella persona di Cristo tutti gli uomini nella loro unicità e libertà. Nella libertà dello Spirito santo, essa regna su tutti per introdurli nel regno del Padre.

1. L’esistenza concreta di Cristo — vita, sofferenze, morte e definitiva risurrezione corporale — assume in sé tutti i sistemi di norme morali. In ultima analisi, l’agire morale dei cristiani non è responsabile che nei confronti di questa norma che ci presenta il protòtipo della perfetta obbedienza a Dio Padre. L’esistenza del Cristo ha abolito la differenza che separa coloro che sono « sottomessi alla legge » (i giudei) da coloro che sono « fuori della legge » (i pagani) (1 Cor 9, 20 s.), lo schiavo dal padrone, l’uomo dalla donna (Gal 3, 28), ecc.

In Cristo tutti hanno ricevuto la stessa libertà di figli di Dio e tendono verso la stessa meta. Il comandamento « nuovo» del Signore (Gv 13, 34) che, nella sua realizzazione cristologica, supera il primordiale comandamento dell’antica alleanza (Deut 6, 4 s.), è più della somma di tutti i comandamenti particolari del decalogo e di tutte le loro applicazioni. La sintesi di ogni volere del Padre, realizzata nella persona di Cristo è escatologica e insuperabile. Essa è dunque a priori normativa per tutti.

2. Il Cristo, Verbo incarnato e Figlio di Dio Padre, abolisce in se stesso la dualità e la distanza che erano la caratteristica dell’alleanza veterotestamentaria. Al di là del concetto di « mediatore » (colui che interviene tra le parti), egli è l’incontro personificato e, in questo, è « unico »: « Non si dà mediatore per una sola persona e Dio è uno solo » (Gal 3, 20). La chiesa non è altro che la pienezza di questo Unico. Essa è il « corpo » che egli anima (Ef 1, 22 s.); è la sua « sposa » in quanto con essa egli forma « una sola carne » (Ef 5, 29), o « un solo spirito » (2 Cor 6, 17). In quanto « popolo di Dio » essa non è molteplicità, ma « tutti voi siete uno in Gesù Cristo » (Gal 3, 28). Poiché l’opera di Cristo è stata compiuta « per tutti », la vita nella sua comunità è insieme personalizzante e socializzante.

3. Il fatto che anticipatamente, nell’atto della croce, egli abbia provveduto a noi (« al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti... perché quelli che vivono non vivano più per se stessi », 2 Cor 5, 14 s.), il fatto che noi siamo trasferiti « nel Cristo », non costituisce per noi un’alienazione. Siamo stati, infatti, « trapiantati » dall’« oscurità » del nostro essere peccatore e alienato nella verità e libertà della filiazione divina (Col 1, 13), per la quale siamo stati creati (Ef 1, 4 s.). In virtù della croce, possediamo il dono dello Spirito santo di Cristo e di Dio (Rm 8, 9, 11). Nello Spirito la persona e l’opera di Cristo sono rese presenti in tutti i tempi e sono attuali in noi, allo stesso modo in cui per suo mezzo siamo resi incessantemente presenti nel Cristo.

Questa reciproca inclusione comporta per il credente una dimensione esplicitamente ecclesiale. La reciprocità nell’amore, lo scopo del comandamento nuovo impartito da Gesù, è precedentemente inserito in una realtà a priori ancora più profonda nel cuore dei credenti, per mezzo dell’effusione dello Spirito santo, del Padre e del Figlio, come del « Noi » divino (Rm 5, 5). L’appartenenza come membri di « un solo corpo » comporta, a livello di chiesa (in cui esistiamo a titolo personale, in un modo che trascende le rappresentazioni organiche), il dono della coscienza del « noi » che è costituito dai membri.

L’agire morale dei cristiani consiste appunto nella sua realizzazione vitale. La chiesa è aperta al mondo come Cristo è aperto al Padre e costituisce il suo regno universale (1 Cor 15, 24); entrambi non esercitano una « mediazione », se non per entrare in quell’immediato che stabilisce fin dall’inizio le disposizioni e l’attività ecclesiali in tutti i loro dettagli.

3. Il senso cristiano della « regola d’oro »

Sulle labbra di Cristo e nel contesto del discorso della montagna, la « regola d’oro » (Mt 7, 12; Lc 6, 31) non può essere considerata come un riepilogo della legge e dei profeti, se non in quanto fonda sul dono di Dio (che è il Cristo) ciò che i membri di Cristo possono sperare gli uni dagli altri e possono garantirsi reciprocamente. Essa supera, quindi, la semplice fraternità umana e comprende lo scambio interpersonale della vita divina.

1. La «regola d’oro » si trova in Matteo e ancora più direttamente in Luca, nel contesto delle beatitudini, della rinuncia a una stretta giustizia distributiva, dell’amore ai nemici, delle esigenze che derivano dall’essere « perfetti » e « misericordiosi » come il Padre celeste. Perciò il dono ricevuto da lui va considerato come comprensivo di ciò che un membro di Cristo può aspettarsi dagli altri e di ciò che lui, a sua volta, deve garantire ad essi. E con ciò rimane confermato, una volta di più, che la « legge », come la « fraternità umana » generale, hanno il loro « fine » (Rm 10, 4) in Cristo.

2. Già la « legge » non era una semplice espressione della fraternità umana, ma esprimeva la fedeltà di Dio salvatore che voleva concludere un’alleanza con il suo popolo (cf. tesi 6). Tuttavia, i « profeti » hanno predetto un completamento della legge, che è stato possibile unicamente quando Dio abolì ogni eteronomia e scrisse la sua legge, mediante lo Spirito, nel cuore degli uomini (Ger 31, 33; Ez 36, 26 s.).

3. Dal punto di vista cristiano, nessuna etica, né personale né sociale, può fare astrazione dalla parola di Dio che agisce e comunica i suoi doni. Per essere moralmente valido, il dialogo tra gli uomini presuppone, come esigenza della sua possibilità, il « dialogo » tra Dio e l’umanità, (che l’uomo ne sia cosciente o meno). Di contraccolpo, la relazione con Dio postula apertamente un dialogo approfondito tra il giudeo e il pagano, padrone e schiavo, uomo e donna, genitori e figli, ricchi e poveri, ecc.

Perciò ogni etica cristiana è a forma di croce: verticale e orizzontale. Tale « forma » possiede anche un suo contenuto concreto da cui non si può mai astrarre: il Crocifisso che congiunge Dio e gli uomini. Egli si trova presente, come la norma unica, in ogni relazione particolare, in ogni situazione. « Tutto mi è permesso » (1 Cor 6, 12; cf. Rm 14-15), purché tenga presente che la mia libertà deriva dalla mia appartenenza a Cristo (1 Cor 6, 19; cf. 3, 21-23).

4. Il peccato

Là dove l’amore di Dio è « arrivato fino alla fine », l’errore umano si presenta come peccato. Le disposizioni di cui è espressione derivano da uno spirito contrario a Dio.

1. Il carattere unico e concreto della regola morale personale comporta come conseguenza che ogni colpa morale, che lo si voglia o no, si riferisce a Cristo, rende responsabili nei suoi confronti e deve essere portata da lui sulla croce. La vicinanza del cristiano, nel suo agire morale, al principio della santità divina che lo vivifica come membro di Cristo, ha per effetto che la mancanza commessa contro una semplice « legge » (secondo la concezione ebraica), contro una pura « idea » (secondo il pensiero greco), diventa peccato.

La santità dello Spirito santo nella chiesa di Cristo convince il mondo del suo peccato (Gv 16, 8-11). A questo mondo apparteniamo anche noi (« Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di Dio un bugiardo », 1 Gv 1, 10).

2. La presenza dell’amore assoluto di Dio nel mondo dà al « no » colpevole dell’uomo l’ulteriore dimensione di un « no » demoniaco, più negativo di quanto l’uomo non possa comprendere e che lo trascina nel baratro dell’anticristiano (cf. le bestie dell’Apocalisse e ciò che afferma Paolo delle potenze del cosmo; 1 Gv, ecc.).

Ogni cristiano deve opporvisi con «le armi di Dio» (Ef 6, 11), condividendo il combattimento di tutta la chiesa di Cristo.

L’elemento demoniaco si manifesta soprattutto in una gnosi presuntuosa e senza amore, che si gonfia di se stessa ed è coestesa quanto l’agape sottoposta a Dio (Gn 3, 5). Essa « gonfia », invece di edificare come l’amore (1 Cor 8, 1; 13, 4). Poiché questa gnosi si rifiuta di tener conto della norma concreta e personale, attribuisce al peccato l’aspetto di una semplice mancanza contro una legge o un’idea e si sforza di togliere sempre più la colpevolezza, facendo ricorso alla psicologia, alla sociologia, ecc.

3. La caratteristica di opposizione a Cristo che vi è in ogni peccato, aggredisce direttamente il centro stesso della norma personale: trafigge il cuore del Crocifisso che concretizza nel mondo l’amore trinitario che si offre a noi. Il fatto che il Crocifisso abbia assunto il peccato rimane un puro mistero delle fede e nessuna filosofia ne potrebbe dimostrare la « necessità » o l’« impossibilità ».

È per questo che il giudizio sul peccato è riservato al Figlio dell’uomo trafitto, al quale « ogni giudizio è stato rimesso » (Gv 5, 22) e verso il quale si fissa ogni sguardo (Gv 19, 37; Ap 1, 7). « Non giudicate » (Mt 7, 1).

II. Gli elementi veterotestamentari della sintesi futura

5. La promessa (Abramo)

Il soggetto morale è stabilito dalla chiamata di Dio e dall’obbedienza a questa chiamata (Eb 11, 8).

1. Dopo questo atto di obbedienza, il senso della chiamata si rivela come una promessa illimitata e universale (« tutti i popoli »), ma ricapitolata al singolare « semini tuo » (Gal 3, 16). Il nome dato a colui che obbedisce è il nome della sua missione (Gn 17, 1-8). Poiché la promessa e il suo adempimento derivano da Dio, Abramo si sente dotato di una fecondità soprannaturale.

2. L’obbedienza è fede in Dio e quindi risposta valida (Gn 15, 6), che non riguarda unicamente lo spirito, ma anche la carne (Gn 17, 13). Abramo deve dunque arrivare fino alla restituzione del frutto concesso per grazia (Gn 22).

3. Abramo si pone in uno stato di obbedienza che, alzando lo sguardo verso le stelle inaccessibili, rimane in attesa di una promessa.

Ad 1. Ogni etica biblica è fondata sulla chiamata personale di Dio e sulla risposta di fede che l’uomo vi dà. Dio si manifesta come colui che è fedele, verace, giusto, misericordioso (e ancora sotto altre descrizioni del suo nome). A partire da questo nome viene stabilito il nome dell’uomo che risponde: e cioè viene stabilita una volta per sempre la sua personalità. La chiamata isola il soggetto in vista dell’incontro. Abramo deve abbandonare la sua tribù, il suo paese, mettendosi a disposizione della chiamata (« eccomi », Gn 22, 1); riceve la sua missione, che diviene per lui norma imperativa. Nella situazione che lo mette solo in dialogo con Dio, Abramo diventa, in forza della sua missione, fondatore di comunità. Secondo il pensiero biblico, le leggi che regolano i rapporti di questa comunità dipendono tutte dall’azione costitutiva del fondatore o mediatore nei confronti di Dio, o dall’azione di Dio stesso (Es 22, 20; 23, 9; Dt 5, 14 s.; 15, 12-18; 16, 11 s.; 24, 17 s.).

L’azione costitutiva di Dio è la grazia donata senza misura, sulla quale l’uomo non ha alcun diritto, e che dirige tutta l’attività umana (parabola del servitore infedele, Mt 18, 21 s.).

Nell’AT, l’apertura quantitativa della benedizione di Abramo è sempre più chiaramente compresa come orientata verso il compimento messianico: così l’apertura verso le «nazioni» (Gl 3, 14) avviene nella riunione attorno a Cristo Gesù e il dono dello Spirito dato a colui che crede.

Ad 2. Il soggetto morale si trova afferrato in tutte le sue dimensioni dall’« Alleanza » fondata sulla chiamata e sulla risposta della fede (Gn 15, 18, ecc.), nel rischio della fede fiduciosa, ma anche nella carne e nelle sue potenzialità (« la mia alleanza sarà nella vostra carne una alleanza eterna », Gn 17, 13). Isacco, nato da un intervento della potenza divina, deve essere sottratto ad ogni tentazione, che suo padre potrebbe avere, di disporre di lui. Perciò Dio ne reclama la restituzione.

Se la fede dell’uomo sterile era già una fede in Dio « che dona la vita ai morti e che chiama all’esistenza ciò che non esiste » (Rm 4, 17), la fede del padre che restituisce il figlio della promessa è una fede potenziale nella risurrezione: « Pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti » (Eb 11, 19).

Ad 3. L’esistenza di Abramo (come quella di tutto l’AT, ivi compreso il periodo della legge) non può essere che un’adesione a Dio nella fede, con l’esclusione della possibilità di trasformare le promesse di Dio in realtà. Il popolo dell’antica Alleanza non può che «attendere» (Eb 11, 10), vivere nella ricerca (ibid.). Essa non poteva consistere in niente di più che nel « vedere e salutare da lontano », riconoscersi come « stranieri e pellegrini sopra la terra » (ibid., 13-14). Questo atteggiamento di perseveranza nell’impossibilità di raggiungere lo scopo, meritò ai padri « la buona testimonianza» di Dio (martyrethentes, Eb 11, 39). E ciò è importante per quanto segue.

6. La legge

Il dono della legge presso il Sinai supera le promesse fatte ad Abramo perché svela esplicitamente — anche se a titolo provvisorio, dall’esterno e dall’alto — l’intima disposizione di Dio ad approfondire la risposta all’Alleanza: « Io sono santo e quindi bisogna che anche voi siate santi ». Questo « bisogna » trova il suo fondamento nell’essere stesso di Dio ed è rivolto alla disposizione interiore dell’uomo.

La possibilità di rispondere a questa esigenza dipende dall’assoluta veracità di Dio che propone la sua Alleanza (Rm 7, 12). Tuttavia, alla veracità di Dio, da parte dell’uomo, non corrisponde ancora una veracità ugualmente assoluta; essa non si trova che nella promessa fatta ad Abramo, promessa che di nuovo e più esplicitamente si articola nelle promesse profetiche.

1. La legge viene in un secondo tempo e non abolisce l’insieme delle promesse (Rm 7; Gal 3); e perciò non (può essere compresa che come una determinazione più dettagliata dell’atteggiamento di attesa della fede. Essa illumina, da alcuni punti di vista, la condotta dell’« uomo giusto » davanti a Dio. Tale condotta risponde senza dubbio alle strutture fondamentali dell’essere umano (« diritto naturale »), per il fatto che il Dio che dona la grazia è anche il creatore; tuttavia il motivo della condotta retta non sta nell’uomo, ma nella rivelazione più profonda della santità di Dio fedele alla sua Alleanza. Così non si tratta affatto di una « iniziazione » di Dio, nel senso in cui l’intendevano i greci, ma di una risposta al comportamento di Dio nei « grandi fatti » che compie in favore di Israele. Mentre la risposta adeguata rimane sempre l’oggetto della promessa, la legge conserva un carattere dialettico nel senso descritto da Paolo. Benché buona in se stessa, essa induce però alla trasgressione e, in questo senso, gioca un ruolo positivo e negativo di « pedagogo » che conduce a Cristo.

2. Dal punto di vista di Dio, l’elemento prescrittivo della legge è un’offerta che invita a vivere in conformità alla prossimità accordata dall’Alleanza. Tuttavia, questa offerta gratuita non è che il primo atto di un’operazione salvifica che sarà completata soltanto con il Cristo. Intanto, questa operazione rivela la prescrizione (positiva) della risposta, e nel medesimo tempo anche l’incapacità (negativa) a dare una risposta. Dopo, come prima del dono della Legge, la risposta rimane oggetto della promessa.

La breccia così aperta, che avrebbe dovuto essere semplicemente accettata nella pazienza di una fede colma di speranza, è sofferta invece dall’uomo come insopportabile, e nel corso della storia ha cercato di evitare questa situazione in due maniere:

a) Innanzi tutto, ha posto la Legge a livello di un assoluto astratto, usurpando il posto del Dio vivente. Sforzandosi di osservare letteralmente la lettera astratta, il fariseo pensa di poter realizzare questa impossibile risposta. Da questa costruzione di un dovere astratto e formale deriveranno numerosi sistemi etici: per esempio, il sistema neokantiano che stabilisce una specie di « listino » o di « valori assoluti », l’etica strutturalista e fenomenologica (Scheler).

Tutti questi sistemi, in ultima analisi, tendono a fare dell’uomo il legislatore di se stesso, poiché è il soggetto idealmente autonomo che si autolimita per potersi realizzare.

Gli elementi di questi sistemi si trovano già nel formalismo etico di Kant.

b) Viceversa, si ha talmente diluito la Legge da ridurla a un corpo estraneo nel movimento della promessa e della speranza. Essendo la legge un qualcosa di imposto dall’esterno che dichiara la colpevolezza nell’intimo dell’uomo (Kafka), non può essere la emanazione di un Dio fedele e misericordioso, ma unicamente di un demiurgo tiranno (da qui l’alleanza di Ernst Bloch con la gnosi; cf. il super-ego di Freud). Perciò sembra che sia necessario superare la legge, concepita in questo modo come un’illusione del passato, in virtù di una speranza orientata verso il futuro che l’uomo attinge dalla sua propria autonomia.

c) Le due scappatoie confluiscono nel « materialismo dialettico », che identifica la legge con il movimento dialettico della storia e crede di poterla così diluire. Marx sa che l’attesa riconciliazione non può essere raggiunta mediante la soppressione negativa della legge (« comunismo »), ma unicamente mediante l’umanesimo positivo che permette di identificare la legge con quella spontaneità della libertà che potrebbe corrispondere al modello ateo di Ger 31 e Ez 36.

Visto il carattere provvisorio dell’etica veterotestamentaria nei confronti dell’etica cristiana del « tempo della fine », la riconciliazione « trascendente » permane in essa (come anche nelle forme di alienazione che assume nell’epoca moderna), specialmente come una « liberazione » immanente e politica. Il suo soggetto è in primo luogo il popolo (o la collettività umana), non la persona, il cui carattere insostituibile non verrà messo in luce che nel Cristo.

3. Là dove sparisce la fede cristiana nel compimento della promessa in Cristo, la storia è dominata, non tanto da etiche frammentarie estranee alla Bibbia, ma dalle etiche dell’antico Testamento che sono più vicine al cristianesimo. La ragione sta nel fatto che il compimento cristiano è presente alla coscienza dell’umanità nelle deformazioni assolutizzate, sia che si tratti della Legge, sia della profezia.

III. Frammenti di etica extra-biblica

7. La coscienza

1. L’uomo, considerato fuori dello spazio biblico, si sveglia alla coscienza teoretico-pratica di se stesso grazie a un appello libero e amoroso del suo prossimo. Rispondendovi, egli raggiunge, nel cogito-sum, due fatti inseparabili. L’essere in se stesso, nel suo aspetto di verità e di bontà, si rivela a lui e gli permette un accesso libero verso le sue profondità. Egli scopre anche il carattere di comunione interumana da cui è segnata la sua libertà [2].

2. L’uomo è caratterizzato da un orientamento (synderesis, coscienza primordiale) incondizionato (« necessitate naturalis inclinationis », De Veritate, 22, 5) verso il bene trascendentale. Anche nelle parti sensibili del suo essere, che sono tutte dominate e penetrate dallo spirito, esistono delle inclinazioni verso questo bene.

Né il fatto che l’illuminazione primordiale si oscuri, né l’attrazione dei beni che sollecitano l’uomo immediatamente, né infine l’offuscamento, a causa del peccato, della gratuità del Bene, non possono impedire l’orientamento segreto dell’uomo verso la sua luce. Pertanto S. Paolo può dire che anche i pagani sono giudicati « da Gesù Cristo, secondo il mio vangelo » (Rm 2, 16).

3. Le formulazioni astratte in termini di « legge naturale » orientando l’uomo verso il bene — per es. la formulazione della comunione interumana come « imperativo categorico » — sono di ordine derivato e hanno il carattere di semplice richiamo.

Ad 1. Interpellato da un altro uomo, l’uomo si sveglia al « cogito-sum » e all’identità tra, una parte, l’emergere davanti a se stesso e, dall’altra, la realtà totale. Tuttavia, questa identità, in quanto risvegliata, è esperimentata come non assoluta, perché è ricevuta. Nell’apertura trascendentale, vengono scoperte tre cose:

a) l’« essere donato » dell’assoluta identità tra Spirito e Essere, per cui il possesso assoluto di se stesso comunica una partecipazione ad essa (e questo assoluto « noi lo chiamiamo Dio, qui interius docet, in quantum huiusmodi lumen animae, infundit », S. Tommaso, De Anima, 5, ad 6);

b) nel risveglio di questa realtà che si dona, la differenza tra libertà assoluta e libertà ricevuta, come l’esigenza attirante di rispondere liberamente al dono assoluto;

c) nell’indifferenziazione trascendentale che, all’inizio, collegava l’appello dell’assoluto con quello del prossimo, s’introduce una differenziazione, in seguito all’esperienza a posteriori che anche il prossimo è un essere che è stato svegliato. Tale differenza lascia, tuttavia, sussistere come infrangibile l’unità trascendentale primordiale delle due inclinazioni.

Ad 2. Come nell’identità originale tra l’Essere e la sua luce interiore (come vero assoluto, e dunque buono, e dunque « fascinosum »: bello), la libertà come facoltà di disporre di se stesso e la grazia come partecipazione donata (diffusivum sui) non sono separate, così nell’identità risvegliata e derivata, libertà e inclinazione verso il bene fondamentale sono inseparabili. L’attrazione attiva del bene incondizionato conferisce all’atto della libertà che risponde, un momento di « passività » che non pregiudica il suo carattere di spontaneità (S. Tommaso, S. Th., 1, 80, 2; 105, 4; De Veritate, 25, 1; 22, 13, 4).

Questa inclinazione che apre lo spirito al potere persuasivo del bene « simpliciter » penetra l’uomo tutto intero, compresa anche la sua sensibilità, che è informata dallo spirito. La sensibilità, tuttavia, poiché astrae dalla totalità umana, non è più raggiunta dalla manifestazione del bene come tale e si ferma ai beni particolari. L’opera tipicamente morale che dev’essere attuata dall’uomo è la moralizzazione integrale di tutto il suo essere spirituale-corporale (ethizesthai); il risultato si chiama virtù. Ciò è tanto vero in quanto l’appello del prossimo impone a ciascun uomo di vedere la propria libertà intaccata da talune determinazioni che appartengono ad altre libertà non meno incarnate della sua, e di limitarle a sua volta. Ogni volta la luce interiore attraversa la mediazione materiale e gli comunica, in ultima istanza, l’irradiazione del Bene.

L’apertura primordiale del Bene assoluto alla base del « cogito-sum » (o la trasparenza dell’« imago Dei » in riferimento al suo archetipo) non si mantiene in maniera attuale. Persiste, tuttavia, nella memoria « tamquam nota artificis operi suo impressa » (Descartes, Médit. III, Adam-Tannery, VII, 51). Se si ammette che abbia concorso a determinare la prima apparizione dello spirito a se stesso, essa non può essere completamente cancellata dalla dimenticanza, anche nel caso che si abbandoni il bene per seguire degli obiettivi particolari di godimento o di interesse.

Inoltre questa apertura originale costituisce almeno una preconoscenza trascendentale di quello che è una rivelazione e fornisce il luogo cui la rivelazione « positiva » dell’antico e nuovo Testamento si rivolge dall’inizio dell’umanità intera. Ma quando questa rivelazione si presenterà nell’a posteriori della storia, non si dovrà dimenticare anche che l’appello del prossimo (trascendentale-dialogico) possiede un carattere primordiale proprio come l’appello del Bene come tale.

Quali saranno il grado e l’area di chiarezza che una rivelazione « positiva » di questo genere presenterà effettivamente al di fuori dello spazio biblico, è cosa che dipende unicamente dal Maestro interiore; ma questi, secondo S. Paolo, dirige anche il cuore dei pagani verso la norma, divenuta abbastanza esplicita, del dono che Dio fa di se stesso in Gesù Cristo.

Ad 3. Durante il tempo in cui si trova oscurata l’illuminazione originale del Bene, manifestato come grazia e amore allo scopo di ricevere la libera risposta del soggetto, riconoscente per il dono del suo essere, interviene il ruolo ammonitore della norma direttiva che, come tale, non intende né sostituire né rappresentare il Bene stesso, ma ne richiama solamente il ricordo. Per le situazioni più importanti di uno spirito incarnato e sociale, questo ricordo si manifesta come « legge naturale ». Questa non va divinizzata, ma si deve lasciarle la sua caratteristica essenzialmente relativa affinché non si irrigidisca, ma possa far vedere il carattere vivente del Bene e del dono che fa di se stesso.

Questa osservazione vale anche per l’imperativo categorico di Kant il quale, a causa del suo formalismo, è costretto a opporre il « dovere » astratto alle inclinazioni sensibili, mentre si tratta di far vedere la preponderanza dell’« inclinazione » totale della persona verso il Bene assoluto sulle inclinazioni particolari contrapposte.

Ciò che l’uomo si appropria in presenza della norma assoluta (con parola stoica: oikeiosis) coincide con l’abbandono di sé in favore del Bene divino e della comunione interumana.

8. Ordine prebiblico della natura

Quando manca un’autorivelazione del Dio libero e personale, l’uomo cerca il suo orientamento, in vista dell’ordinamento morale della sua vita, nell’ordine del cosmo che lo circonda.

Poiché deve la sua esistenza a un insieme di leggi cosmiche, si comprende facilmente come per lui il dominio dell’origine o del divino si confonde con quello della natura. Una simile etica teo-cosmologica si disgrega dal momento che il fatto biblico prende una risonanza storica.

1. Un’etica prebiblica, che domanda il suo orientamento alla « physis », può essere in cerca di un bene adatto alla natura umana (honestum), secondo un’analogia con il bene degli esseri naturali. Questo bene umano sarà inscritto nel quadro di un ordine mondiale globale. In quanto manifesta un valore assoluto, questo ordine cosmico apre un certo campo a un’azione morale ordinata, ma, per il suo aspetto terrestre e finito, non permette alla libertà di decisione di espandersi pienamente. Le motivazioni dell’azione sono in parte politici nella misura in cui si pongono all’interno di una piccola o grande città e in parte individualistici ed intellettualistici, in quanto la teoria e la conoscenza delle leggi che reggono il ritmo dell’universo appaiono come i valori più desiderabili.

2. Con l’avvento del fatto biblico, l’uomo è dotato dal Dio libero — che si distingue radicalmente dalla natura creata — di una libertà che non può più prendere i suoi modelli d’azione nella natura infraumana. Se questa libertà non vuole riconoscersi debitrice del Dio della grazia, essa cercherà necessariamente il suo fondamento in se stessa e concepirà l’azione morale come una autolegislazione. Essa potrà farlo, in un primo tempo, in una ricapitolazione del mondo preso come esemplare (cf. Spinoza, Goethe, Hegel), per lasciare poi cadere questo grado preliminare (cf. Feuerbach, Nietzsche).

3. Questa evoluzione è irreversibile. Sebbene sussista la tendenza (cf. supra 6, 3) di ricondurre l’etica cristiana alle sue forme preparatorie nella Bibbia, è possibile, d’altra parte, scoprire una irradiazione della luce cristiana nelle religioni e nelle etiche non bibliche (cf. per esempio, l’insistenza sulle componenti sociali in India: Tagore, Gandhi).

La distinzione tra conoscenza esistenziale e conoscenza dogmatica esplicita rimanda ancora una volta all’avvertimento: « Non giudicate ».

9. Etica antropologica post-cristiana

Un’etica post-cristiana, ma non cristiana, non può cercare fondamento se non nella relazione dialogica delle libertà umane (Io-Tu, Io-Noi). In questo caso l’azione di grazie indirizzata a Dio, in cui ci riconosciamo debitori del nostro essere, non è più l’opzione fondamentale e permanente della persona libera. Il reciproco riconoscimento tra le differenti persone non è più, quindi, che secondario, un atto di valore relativo. I limiti che reciprocamente si impongono i soggetti dotati di una libertà illimitata appariranno come una costrizione imposta dall’esterno. La sintesi tra la realizzazione dell’individuo e quello della società resta impossibile.

1. Ciò che rimane come « natura » o « struttura » post-cristiana dell’esistenza umana è la reciprocità delle libertà, ognuna delle quali stupisce solamente di se stessa e della dimensione della sua risposta e misura la sua risposta sulla chiamata che gli è rivolta dall’altro. Sembrerebbe di ritrovare e raggiungere così la « regola d’oro » menzionata nel Vangelo. Ma la libertà interpellata non può riconoscersi solamente debitrice di se stessa ad un’altra, umana essa pure, sotto pena di essere, in ultima analisi, eteronoma. Si esclude la chiamata di Dio che fonda le due libertà in questione. Perciò, lo scambio e l’abbandono reciproco restano limitati e calcolati. Oppure i soggetti restano di fronte l’uno all’altro, impenetrabili, alla maniera delle monadi.

2. Le cosiddette scienze « umane » possono apportare delle conoscenze particolari utili, che toccano il fenomeno dell’esistenza umana, ma non risolveranno l’aporia fondamentale della fraternità umana.

3. L’aporia antropologica trova il suo culmine nella morte dell’individuo, che rende definitivamente impossibile la sintesi tra il suo completamento personale e la sua integrazione sociale.

Le parti di significato che sono rilevabili restano senza legame tra loro.

Questo rende impossibile lo sviluppo di un’etica intramondana che abbia in se stessa la sua evidenza. Di fronte al non senso che caratterizza la morte e perciò anche la vita che scorre verso la morte, l’uomo può rifiutare ogni adesione a delle leggi etiche.

I valori della realizzazione personale e della integrazione sociale si ricongiungono solamente nella risurrezione di Cristo, pegno del completamento dell’individuo e della comunità ecclesiale, e per mezzo di questa, del mondo.

Così, senza annientare il mondo, Dio può essere « tutto in ogni cosa ».



B) LE « QUATTRO TESI » DI HEINZ SCHÜRMANN
approvate « in forma generica » dalla Commissione Teologica Internazionale

I. Il problema

1. Il Vaticano II ha offerto « ai fedeli con maggior chiarezza la mensa della parola di Dio » ed « ha aperto loro più largamente i tesori biblici» (SC 51; DV 22). Di conseguenza, il concilio ha voluto che nelle omelie, i « sacerdoti spieghino, a partire dal testo sacro, i misteri della fede e le norme della vita cristiana » (SC 52; DV 24). Una difficoltà emerge, tuttavia: non si riscontrano qua e là nell’antico testamento (cf. DV 15) e perfino nel nuovo, giudizi morali condizionati e determinati dall’epoca in cui questi libri furono composti? Ci autorizza questo ad affermare, in generale, come spesso si sente dire oggi, che occorra rimettere in questione il carattere obbligatorio di tutti i giudizi di valore e di tutte le direttive della Scrittura, perché sono tutti condizionati dal tempo? O per lo meno, si dovrebbe forse ammettere che gli insegnamenti morali riguardanti questioni particolari non possano presentarsi come un valore permanente, appunto a causa della loro dipendenza da una determinata epoca? La ragione umana sarebbe pertanto l’ultimo criterio di valutazione dei giudizi di valore e delle direttive bibliche? I giudizi di valore e le direttive della Sacra Scrittura non potrebbero pretendere di avere, in se stessi, alcun valore permanente, in ogni caso alcun valore normativo? Obbligherebbero i cristiani di un’altra epoca unicamente a modo di paradigma o di « modelli di condotta »?

2. Benché i « libri dell’antico testamento, in quanto testi ispirati, conservino un valore perenne » (DV 14; cf. Rm 15, 4), e benché Dio, nella sua sapienza, abbia voluto che « la nuova alleanza fosse nascosta nell’antica e che l’antica fosse spiegata dalla nuova » (Aug. Quaest. in Hept, 2, 73; PL 34, 623), da parte nostra, nelle pagine che seguono, limiteremo la considerazione agli scritti del Nuovo Testamento. Infatti, « i libri dell’Antico Testamento, ripresi integralmente nel messaggio evangelico, raggiungono e rivelano il loro completo significato nel Nuovo Testamento » (DV 16). Di conseguenza, il problema del carattere obbligatorio dei giudizi di valore e delle direttive bibliche si pone soprattutto a riguardo degli scritti del Nuovo Testamento.

La questione di sapere qual è la natura dell’obbligo legato ai giudizi di valore e dalle prescrizioni neotestamentarie dipende dall’ermeneutica in teologia morale. Essa include tuttavia un problema esegetico circa il tipo ed il grado di obbligo che queste indicazioni e queste direttive neotestamentarie rivendicano a se stesse. Da parte nostra, ci applicheremo in modo del tutto speciale a studiare questo problema nei confronti dei giudizi di valore e delle direttive paoline, dal momento che questa problematica della morale si riflette particolarmente nel Corpus paulinum. Del resto, nonostante una diversità sorprendente (ad esempio in Paolo, Giovanni, Matteo, Giacomo, ecc.), gli scritti neotestamentari presentano una singolare convergenza nel campo della morale.

3. Per quanto riguarda i giudizi di valore e le direttive in fatto di morale, gli scritti neotestamentari possono rivendicare un valore particolare, dal momento che in essi si è cristallizzato il giudizio morale della chiesa delle origini. In quanto « chiesa nascente » essa è, infatti, ancora presente alle fonti della rivelazione ed è segnata in modo eccezionale dallo Spirito del Signore glorificato. Di conseguenza, il comportamento e la parola di Gesù, in quanto criterio ultimo dell’obbligo morale, potevano manifestarsi in modo particolarmente valido nei giudizi di valore e nelle direttive formulate nello Spirito e con autorità da parte dell’apostolo e da parte degli altri « spirituali » della chiesa delle origini, e nella paradossi e nella parathéke delle prime comunità cristiane, quali criteri immediati di azione.

La natura e il modo del carattere obbligatorio — indubbiamente analogico — di questi due criteri sui quali si fondano le prescrizioni morali del Nuovo Testamento (si raffrontino 1 Cor 7, 10.25 e 7, 12.40) come pure i vari giudizi di valore e le varie direttive fondate su questi due criteri (cioè le diverse prescrizioni morali e le parenesi), saranno brevemente formulate in tesi concise nelle proposizioni che seguono. Occorre tuttavia osservare che le prove neotestamentarie non possono essere date qui se non in modo allusivo e succinto, e che un certo schematismo nella classificazione è inevitabile.

II. La condotta e la parola di Gesù come criterio ultimo di giudizio in campo morale

4. Per gli autori del Nuovo Testamento, la condotta e la parola di Gesù valgono come criterio normativo di giudizio e come norma morale suprema, in quanto « legge del Cristo » (ennomos) (Gal 6, 2; cf. 1 Cor 9, 21) « iscritta » nei cuori dei fedeli » (cf. He 10, 16). Inoltre, per gli scrittori neotestamentari, le direttive di Gesù date durante il periodo prepasquale hanno un valore e un’esigenza decisive in un contesto di imitazione dell’esempio offerto dal Gesù terrestre e ancor più dal Figlio di Dio preesistente.

Tesi I: La condotta di Gesù è l’esempio e il criterio di un amore che serve e si dona

5. Già nei sinottici, la « venuta » di Gesù, la sua vita e la sua azione sono intese come un servizio (Lc 22, 27 ss.), che raggiunge il suo ultimo compimento nella morte (Mc 10, 25). Allo stadio pre-paolino e paolino, questo amore è designato in termini di kenosi come un amore che si compie nell’incarnazione e nella morte in croce del Figlio (Fil 2, 6 ss.; 2 Cor 8, 9). Secondo le prospettive giovannee, questo amore raggiunge il suo « compimento » (Gv 19, 28-30) nella « discesa » del Figlio dell’uomo mediante l’incarnazione e la morte (Gv 6, 41 ss. 48-51, ecc.), nel dono di sé purificatore sulla croce (Gv 13, 1-11); esso rappresenta così l’« opera » per eccellenza di Gesù (Gv 17, 4; cf. 4, 34). La condotta di Gesù è caratterizzata dunque, alla fine, come l’amore che serve e si offre « per noi » e che rende visibile l’amore di Dio (Rm 5, 8; 8, 31 ss.; Gv 3, 16; 1 Gv 4, 9). L’insieme del comportamento morale dei fedeli si riassume fondamentalmente nell’accettazione e nell’imitazione di questo amore divino: è quindi vita col Cristo e nel Cristo.

a) Negli scritti neotestamentari — specialmente in Paolo e Giovanni — l’esigenza di amore trae la propria motivazione e al tempo stesso il proprio carattere originale, il radicalismo che la spinge sempre a superarsi, e forse anche uno speciale contenuto, dalla condotta per la quale il Figlio si spoglia di se stesso (Paolo), in altri termini « discende » (Giovanni). Questo amore che si dona all’esistenza umana e alla morte rappresenta e mette in luce l’amore di Dio. Un simile tratto è caratteristico della morale neotestamentaria ancor più di quanto non lo sia il suo orientamento escatologico.

b) La « sequela Jesu » e la sua imitazione, l’« associazione » al Figlio incarnato e crocifisso e la vita del battezzato nel Cristo, determinano inoltre in modo specifico l’atteggiamento morale concreto del credente nei confronti del mondo.

Tesi II: La parola di Gesù è norma morale ultima

6. Le parole del Signore esplicitano l’atteggiamento d’amore di Gesù, colui che è venuto e che è stato crocifisso. Esse devono essere interpretate a partire dalla sua persona. Così, viste nella luce del mistero pasquale e « ricordate » nello Spirito (Gv 14, 26), queste parole costituiscono la norma ultima della condotta morale dei credenti (cf. 1 Cor 7, 10-25).

a) Certe parole di Gesù, secondo lo stesso loro genere letterario, non si presentano, a parlar propriamente, come leggi; esse devono essere intese come modelli di condotta e devono essere considerate come paradigmi.

b) Per Paolo, le parole del Signore hanno una forza obbligatoria definitiva e permanente. Tuttavia, nei due passi dove cita espressamente delle direttive di Gesù (cf. Lc 17, 7b e par.; Mc 10, 11 e par.), egli può consigliare di osservarle secondo la loro intenzione profonda e avvicinandosene quanto lo permettono delle situazioni fattesi diverse o più difficili (1 Cor 9, 14; 7, 12-16). Egli si stacca così da un’interpretazione legalistica simile a quella del giudaismo tardivo.

III: I giudizi e le direttive degli Apostoli e del cristianesimo primitivo sono dotati di una forza obbligatoria

7. Il carattere obbligatorio di queste direttive contenute nel Nuovo Testamento ha diverse fondazioni: gli atteggiamenti e le parole di Gesù, la condotta e l’insegnamento degli apostoli e degli altri « spirituali » delle origini cristiane, il modo di vivere e la tradizione delle comunità primitive nella misura in cui la chiesa nascente era ancora segnata in modo particolare dallo Spirito del Signore risorto. In questo contesto, non bisogna dimenticare che lo Spirito di verità, specialmente per quanto riguarda la conoscenza morale, « introdurrà i discepoli nella verità totale » (Gv 16, 13 ss.).

8. Si osserverà pure che, a proposito dei diversi giudizi di valore e delle diverse direttive del cristianesimo primitivo, considerate sia nella loro forma che nel loro contenuto, la rivendicazione di un’autorità obbligatoria era assai differente secondo i casi, e che tali direttive, in campi abbastanza vasti, erano caratterizzati da una finalità pratico-pastorale.

Tesi III: Alcuni giudizi di valore e alcune direttive sono permanenti a motivo dei loro fondamenti teologici ed escatologici

9. Negli scritti neotestamentari, l’interesse parenetico principale e, di conseguenza, l’importanza relativa all’intensità e alla frequenza delle affermazioni, riguarda i giudizi di valore e le direttive (essenzialmente formali) che esigono, come risposta all’amore di Dio nel Cristo, l’abbandono d’amore totale al Cristo, e così al Padre, e una condotta conforme alla realtà dell’ora escatologica, cioè all’azione salvifica del Cristo come pure alla condizione di battezzato.

10. A questi giudizi di valore e a queste direttive così definite, nella misura in cui sono incondizionatamente fondate sulla realtà escatologica della salvezza e motivate a partire dal Vangelo, si dovrà attribuire un carattere d’obbligo permanente.

a) L’esigenza centrale degli scritti neotestamentari, la quale — in quanto precetto « che va sino alla fine » — rivendica una forma obbligatoria assoluta, è costituita dalla chiamata al dono totale di sé nel Cristo al Padre.

b) Un valore obbligatorio incondizionato è pure rivendicato da numerosi richiami ed imperativi escatologici degli scritti neotestamentari, che per la maggior parte rimangono sul piano della morale formale. Questi chiamano, da un lato, a comportarsi nella fede e nell’amore, in conformità con la realtà e con la situazione orientata all’avvento della salvezza escatologica, a porsi attivamente nell’opera redentrice del Cristo, cioè nella condizione propria del battezzato. D’altro canto, essi avvertono che occorre lasciarsi condizionare nella speranza dalla prossimità del regno, cioè dalla parusia, in una vigilanza e una prontezza continue.

Tesi IV: I giudizi di valore e le direttive particolari implicano obblighi diversificati

11. Accanto ai giudizi di valore e alle direttive già ricordate, gli scritti neotestamentari enunciano ugualmente giudizi di valore e direttive che si riferiscono ai settori particolari dell’esistenza, ossia a condotte determinate, e che, sebbene in modo diverso, hanno pure una forza obbligatoria permanente.

a) Si riscontrano di frequente ed in maniera particolarmente accentuata, negli scritti neotestamentari, delle direttive e dei doveri riguardanti l’amore fraterno e l’amore del prossimo, che spesso sono riferiti alla condotta del Figlio di Dio (es. Fil 2, 6 ss.; 2 Cor 8, 2-9) o che fanno allusione a delle parole del Signore. Tali esigenze — nella misura in cui rimangono generali — assumono un valore incondizionato come « legge del Cristo » (Gal 6, 2) e come « comandamento nuovo » (Gv 13, 34; 15, 12; 1 Gv 2, 7 ss.). In esse « si compie » la legge dell’antico testamento (Gal 5, 14; cf. Rm 13, 8 ss. e anche Mt 7, 12; 22, 40); in altri termini esse sono concentrate nel comandamento dell’amore e finalizzate in esso. Tuttavia, là dove il comandamento dell’amore si « incarna » in direttive concrete particolari, occorrerà verificare se e in quale modo giudizi condizionati dall’epoca o circostanze storiche particolari diano colore all’esigenza fondamentale al punto che, in circostanze diverse, se ne potrebbe esigere soltanto un’applicazione analogica, ravvicinata, adattata o intenzionale.

b) Accanto al comandamento dell’amore — ma assai spesso nel contesto dell’esigenza dell’amore — gli scritti neotestamentari presentano altri giudizi di valore e altre direttive morali che riguardano settori particolari dell’esistenza. Il « compimento » della legge mediante l’amore (Gal 5, 14; cf. Rm 13, 8 ss.) si colloca soprattutto al livello dell’intenzionalità; ma l’amore non toglie né alle altre virtù, né ai comportamenti la loro consistenza propria. Si esprime attraverso vari modi di agire e attraverso virtù che non si identificano pienamente con esso. Si vedranno, ad esempio, 1 Cor 13, 4-7; Rm 12, 9 ss., gli insegnamenti morali delle lettere pastorali e dell’epistola di Giacomo, specialmente i cataloghi di virtù e di vizi e le tavole domestiche degli scritti neotestamentari.

aa) Non bisogna dimenticare che una gran parte di tali giudizi di valore particolari e di tali direttive speciali presentano un carattere « spirituale » molto accentuato e come tali determinano, sotto questo profilo, la vita della comunità. Le esortazioni alla gioia (Fil 3, 1; Rom 12, 15), alla preghiera senza tregua (cf. 1 Ts 5, 16; Col 3, 17), alla « follia davanti a Dio » in opposizione alla sapienza di questo mondo (1 Cor 3, 18 ss.), all’indifferenza (2 Cor 7, 29 ss.), sono certamente precetti cristiani permanenti che vanno sino alla fine, in altri termini « frutti dello spirito » (cf. Gal 5, 22). Altri sono dei « consigli » (1 Cor 7, 17-27 ss.). Molte di queste direttive spirituali sono formulate in termini assai concreti e non possono essere attuate oggi tali e quali in seno alle relazioni comunitarie contemporanee (si veda solo 1 Cor 11, 5-14; Col 3, 16; Ef 5, 19). Esse conservano però qualche cosa della loro autorità normativa originaria e richiedono un « compimento » adattato o analogo.

bb) Per quanto riguarda i giudizi di valore e le norme di condotta morale particolari — nel senso speciale di concreto — si stabilirà il loro carattere obbligatorio, considerando in quale modo essi sono motivati dalle esigenze fondamentali teologico-escatologiche o di portata morale universalmente obbligatoria, o quale « Sitz im Leben » essi hanno nelle comunità. Ciò vale, ad esempio, per le parenesi battesimali (cf. Ef 4, 17-21) in cui i catecumeni sono messi di fronte ai vizi principali dei pagani, quali l’impurità (1 Ts 4, 3 ss.) e la disonestà (2 Ts 4, 6). Simili esigenze, come la messa in guardia contro l’idolatria (Gal 5, 20 ss.), sono messe fortemente in evidenza dalla loro stessa natura.

Non si può, tuttavia, ignorare il fatto che, nel caso di numerosi giudizi di valore morale concreti che si riferiscono a settori particolari di vita, dei giudizi di valore e dei giudizi reali condizionati dall’epoca possono condizionare o relativizzare le prospettive morali. Se per esempio, gli scritti del Nuovo Testamento considerano la donna nella sua subordinazione all’uomo (cf. 1 Cor 11, 2-16; 14, 33-36 ss.) — il che è comprensibile per l’epoca —, ci sembra tuttavia che, su questo problema, lo Spirito Santo ha condotto la cristianità contemporanea, unitamente al mondo moderno, ad una intelligenza migliore delle esigenze morali del mondo delle persone. Anche se non si potesse indicare che questo unico esempio negli scritti del Nuovo Testamento, ciò basterebbe a dimostrare che, per quanto concerne i giudizi di valore e le direttive in materia di precetto particolare del Nuovo Testamento, il problema d’interpretazione ermeneutica non può essere evitato.

CONCLUSIONE

12. La maggior parte dei giudizi di valore e delle direttive neotestamentarie chiamano ad un comportamento concreto verso il Padre che si rivela nel Cristo, e sfociano così su un orizzonte teologico-escatologico. Ciò vale particolarmente per le esigenze del Cristo (II), ma anche per la maggior parte delle direttive apostoliche (III, tesi 3): esigenze ed ammonimenti di questo genere intendono legare senza condizione e trascendono le diversità storiche. Anche i giudizi di valore e le direttive che riguardano settori particolari di vita partecipano in gran parte a questa prospettiva, per lo meno là dove postulano in forma più generale l’amore del prossimo percepito nella sua unione con l’amore di Dio e del Cristo (III, tesi 4a). Inoltre, il vasto campo delle parenesi « spirituali » del nuovo Testamento (III, tesi 4, b, aa) è impregnato di questo orizzonte teologico-escatologico e da esso determinato. È soltanto nel campo — relativamente ristretto — delle direttive concrete e particolari e delle norme operative (III, tesi 4, b, bb) che i giudizi morali e le parenesi del Nuovo Testamento devono poter essere ripensate.

Il nostro studio non incoraggia dunque per nulla l’opinione secondo la quale tutti i giudizi di valore e tutte le direttive del Nuovo Testamento sarebbero condizionate dal tempo. Questa « relativizzazione » non vale neppure in generale per i giudizi particolari, i quali, nella loro grande maggioranza, non possono in alcun modo esser compresi ermeneuticamente come puri « modelli » o « paradigmi » di comportamento. Solo una piccola parte di essi può esser considerata come sottomessa alle condizioni del tempo e dell’ambiente. Una parte esiste, tuttavia, ugualmente. Ciò significa che, di fronte a questi giudizi di valore e a queste direttive, l’esperienza umana, il giudizio della ragione e anche l’ermeneutica teologico-morale hanno un compito da svolgere.

Se questa ermeneutica considera seriamente la portata morale della Scrittura, essa non può procedere né in modo semplicemente « biblistico », né secondo una prospettiva puramente razionalistica, nella ricerca dei criteri di una teologia morale, per esempio nello stabilire i caratteri morali degli atti. Essa otterrà risultati positivi unicamente in uno spirito di « incontro », vale a dire nel confronto sempre rinnovato delle conoscenze critiche odierne con i dati morali della Scrittura. È solo ponendosi in ascolto della parola di Dio — Verbum Dei Audiens (cf. DV 1) — che si potrà senza pericolo interpretare i segni dei tempi. Questo lavoro di discernimento dovrà esser compiuto in seno alla comunità del popolo di Dio, nell’unità del sensus fidelium e del magistero, con l’aiuto della teologia.


[1] A coloro che non riconoscono la divinità di Cristo, egli apparirà necessariamente come un modello umano e l’etica cristiana torna ad essere nuovamente eteronoma nella misura in cui la norma di Cristo si fa semplicemente obbligatoria per la mia azione. Questa etica è autonoma solo quando l’azione di Cristo è compresa come il modo perfetto di realizzare l’autodeterminazione del soggetto morale umano.

[2] Vedere su questo Hansjurgen Verweyen, Ontologische Voraussetzung des Glausbensaktes, Patmos Verlag 1969.

 

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