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COMMENTARIUM

«FEDELTÀ NELLA VERITÀ»*

 

La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, presenta il suo contenuto in uno stile così limpido e immediato che, di per sé, non ha bisogno di una particolare illustrazione. Strutturata in 10 numeri, la Lettera si articola in tre momenti. Il primo è dato da una breve introduzione, che colloca lo specifico problema affrontato nel contesto della sollecitudine pastorale della Chiesa per il matrimonio e la famiglia (nn. 1-2). Il secondo momento – il più ampio (nn. 3-9) – vede la parte principale della Lettera: di fronte ad alcune soluzioni pastorali «tolleranti e benevoli» (n. 3), la Lettera riafferma e giustifica la posizione dottrinale e disciplinare della Chiesa circa la recezione della Comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati (nn. 4-5); è una posizione che deve ispirare e guidare il ministero dei pastori e confessori (n. 6), in riferimento al giudizio della coscienza personale di una situazione matrimoniale che possiede un’essenziale dimensione ecclesiale (nn. 7-9). La Lettera ha come suo ultimo momento una conclusione, che sollecita tutti ad un’azione pastorale fondata nella verità e insieme nell’amore (n. 10).

 

Chiamati a far sentire la carità di Cristo

La Chiesa, da sempre pastoralmente sollecita per il matrimonio e la famiglia, trova nell’Anno Internazionale della Famiglia un occasione particolarmente importante «per riproporre le inestimabili ricchezze del matrimonio cristiano che della famiglia costituisce il fondamento» (n. 1). Proprio queste «ricchezze» rendono più acuto e urgente il problema delle difficoltà e delle sofferenze di quei fedeli che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari. Il problema coinvolge anche i pastori, che sono «chiamati a far sentire la carità di Cristo e la materna vicinanza della Chiesa » (n. 2).

Con tali brevi parole, insieme umili e alte, viene indicato il principio sorgivo e il criterio originale e decisivo dell’azione pastorale della Chiesa: è la carità di Cristo, più precisamente quella carità che il Signore Gesù con l’effusione dello Spirito dona alla Chiesa, costituendola e confermandola come sua Sposa e Madre dei cristiani. L’Esortazione Familiaris consortio, invitando ad affrontare questi problemi «sulla misura del Cuore di Cristo» (n. 65), richiamava già con semplicità evangelica e, proprio per questo, con una chiarezza e precisione inequivocabili l’unico vero criterio della pastoralità: in Gesù Cristo, e pertanto nella sua Chiesa, la carità non è mai disgiunta dalla verità, perché la verità si pone come sorgente e forza, contenuto e frutto della carità stessa. Come dice l’Apostolo, la carità «non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità» (1 Cor 13, 6), è in questa prospettiva, peraltro proposta da Paolo VI con l’Enciclica Humanae vitae e da Giovanni Paolo II con l’Esortazione Reconciliatio et paenitentia e con l’Enciclica Veritatis splendor, che la Lettera ribadisce ancora una volta che «l’autentica comprensione e la genuina misericordia non sono mai disgiunte dalla verità» (n. 3).

Ne deriva, immediatamente, il preciso dovere dei pastori di richiamare ai fedeli che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari «la dottrina della Chiesa riguardante la celebrazione dei sacramenti e in particolare la recezione dell’Eucaristia». Quale sia, invece, la prassi pastorale che «negli ultimi anni in varie regioni» viene seguita è a tutti nota: se si esclude un’ammissione generale dei divorziati risposati alla Comunione eucaristica, se ne ammette però l’accesso «in determinati casi, quando secondo il giudizio della loro coscienza si ritenessero a ciò autorizzati» (n. 3).

Quali sono questi casi? La Lettera non intende affatto farne una recensione completa. Si limita ad alcuni esempi, che peraltro sono i più diffusi e i più invocati, Sono i casi: 1) del coniuge ingiustamente abbandonato, nonostante il suo sincero sforzo di salvare il matrimonio; 2) di chi è convinto della nullità del precedente matrimonio, anche se non la può dimostrare in foro esterno; 3) di quanti hanno già fatto «un lungo cammino di riflessione e di penitenza»; 4) di chi non può soddisfare l’obbligo della separazione per motivi moralmente validi. La «soluzione pastorale» che da alcune parti è stata proposta come «tollerante e benevola» fa leva fondamentalmente sul giudizio di coscienza degli stessi divorziati risposati, che però hanno esaminato la loro situazione effettiva mediante «un colloquio con un sacerdote prudente ed esperto»: in particolare, quest’ultimo «sarebbe tenuto a rispettare la loro eventuale decisione di coscienza ad accedere all’Eucaristia, senza che ciò implichi una autorizzazione ufficiale» (n. 3).

 

LA DOTTRINA E LA DISCIPLINA DELLA CHIESA

Di fronte a queste « nuove proposte pastorali » la Congregazione ritiene suo dovere richiamare la dottrina e la disciplina della Chiesa in materia, sul presupposto che «spetta al Magistero universale della Chiesa, in fedeltà alla Sacra Scrittura e alla Tradizione, insegnare ed interpretare autenticamente il ‘depositum fidei’» (n. 4). Nella citazione ora riferita è da rilevarsi il termine «fedeltà», che ritorna subito dopo: «fedele alla parola di Gesù Cristo, la Chiesa afferma...». E termine quanto mai eloquente e con una valenza teologica di particolare densità. Il riferimento, implicito ma chiaro, è alla Chiesa in quanto «sposa» di Cristo e proprio per questo da lui arricchita della grazia e del comandamento della fedeltà. Ora la prima fedeltà sta nell’ascolto della parola di Cristo – della Parola che è Cristo stesso –, nell’accoglienza del Vangelo: la Chiesa è discepola della Verità e, nella misura in cui lo è, essa diviene Maestra. Anzi la Chiesa è «sposa vergine», dove la verginità dice la fedeltà alla dottrina di Cristo accolta nella sua integrità, nella sua purezza. Alle radici sta l’amore obbediente della Chiesa a Cristo suo Sposo e Signore.

Ora è nella fedeltà alla parola di Gesù Cristo che la Chiesa «afferma di non poter riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione» (n. 4). La dottrina riguarda, dunque, 1) l’indissolubilità del matrimonio (cf. Mc 10, 11-12), 2) l’oggettivo contrasto tra la situazione dei divorziati risposati e la legge di Dio, 3) l’impossibilità di questi di accedere all’Eucaristia.

L’ultima affermazione si configura come una norma: una norma che deriva dalla verità e che esprime le esigenze di vita che la verità contiene; una norma che vincola la libertà alla verità da farsi. Nel nostro caso, la norma nasce dalla duplice verità dei sacramenti e della situazione di vita dei divorziati risposati. I sacramenti di Gesù Cristo hanno una loro verità, ossia un loro significato o logos, e chiedono pertanto di essere celebrati in coerenza con tale logos. La verità esistenziale dei divorziati risposati è quella di una condizione di vita che comporta sia il divorzio sia il nuovo matrimonio civile: in quanto divorziati hanno spezzato (hanno «tentato» di spezzare) il vincolo coniugale indissolubile, in quanto risposati hanno ricostruito (hanno «tentato» di ricostruire) un nuovo vincolo coniugale. Ora dal confronto di queste due verità risulta immediatamente la loro contraddizione, la loro incompatibilità. Infatti, il significato dei sacramenti, ossia la piena comunione con Cristo e con la Chiesa, viene contraddetto dal significato presente nella vita dei divorziati risposati, che per la «rottura» del vincolo coniugale e la «istituzionalizzazione» di tale rottura con la nuova unione non sono nella piena comunione con Cristo e con la Chiesa. Dare i sacramenti ai divorziati risposati che tali rimangono significa porre in atto un «linguaggio sacramentale» che viene smentito dal «linguaggio esistenziale», sicché i segni sacramentali finiscono per dire il «contrario», del loro «vero» contenuto e quindi si configurano come segni «falsi e falsificanti».

In tal senso la norma ricordata non è estrinseca né si impone con «un carattere punitivo o comunque discriminatorio verso i divorziati risposati», ma è intrinseca, in quanto scaturisce dalla natura stessa dei sacramenti e dal loro significato. Come scrive Giovanni Paolo II nell’Esortazione Familiaris consortio, sono i divorziati risposati a non poter essere ammessi alla Comunione eucaristica «dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia» (n. 84).

Come si può facilmente vedere, è in questione ancora la fedeltà della Chiesa sposa, che si attua nell’ambito non solo della dottrina ma anche della prassi. La Chiesa è fedele a Cristo che si fa presente nella Parola e nel Sacramento, ed è obbediente al suo insegnamento e al suo comandamento. Unica e identica è la fedeltà della Chiesa: alla verità e alle sue implicazioni di vita. In particolare, proprio nella celebrazione dei sacramenti trova il suo compimento la fedeltà magisteriale della Chiesa, come rileva la Familiaris consortio: «Se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio» (n. 84).

 

Il ministero dei pastori e dei confessori

La fedeltà della Chiesa a Cristo, alla sua dottrina e al suo comandamento, si rivela e si attua nella fedeltà di cui dev’essere segnato il ministero dei pastori e dei confessori. Di tale ministero la Lettera ricorda, anzitutto, l’aspetto dottrinale che ha un duplice destinatario: l’uno generale e comune, l’altro particolare e specifico. Si tratta, infatti, di «ricordare questa dottrina nell’insegnamento a tutti i fedeli loro affidati» (n. 6). Si tratta, inoltre di richiamare questa dottrina ai divorziati risposati che secondo la loro coscienza ritengono di poter accedere alla Comunione eucaristica: «tale giudizio di coscienza è in aperto contrasto con la dottrina della Chiesa» (n. 6). In questo caso è in questione, precisa la Lettera, un «grave dovere» di ammonizione: la gravità del dovere dipende ed è misurata dalla gravità dei contenuti dottrinali e pratici implicati, come sono, l’indissolubilità del matrimonio e le condizioni morali per l’accesso ai sacramenti. Conseguentemente, la gravità del dovere dipende ed è misurata dal bene che intende salvaguardare e promuovere: il bene spirituale della persona e il bene comune della Chiesa.

Il secondo aspetto del ministero dei pastori e confessori è più esplicitamente pastorale: si tratta di invitare e accompagnare i divorziati risposati «a partecipare alla vita ecclesiale nella misura in cui ciò è compatibile con le disposizioni del diritto divino» (n. 6). In realtà, questi fedeli «non sono affatto esclusi dalla comunione ecclesiale». Se ciò è ovvio per i cultori di teologia e per gli operatori di pastorale, non lo è invece per l’opinione o la convinzione di tanti fedeli che ritengono erroneamente che i divorziati risposati siano «scomunicati» dalla Chiesa e quindi da essa allontanati e rifiutati. Ma in quanto battezzati, sono inseriti nella comunità cristiana. E per sempre: nessun disordine di vita – neppure il divorzio e il secondo «matrimonio» – è tale da cancellare il carattere e il vincolo battesimale. Non pochi divorziati risposati, inoltre, conservano la fede cristiana, anche se, almeno sul piano coniugale, non la vivono coerentemente. E con la fede, posseggono una vita religiosa che ha le sue espressioni.

La recezione dell’Eucaristia è certamente un aspetto fondamentale della partecipazione alla vita ecclesiale. Ma se tale recezione non è possibile ai divorziati risposati, altre forme di partecipazione sono invece, non solo possibili, ma anche doverose. In tal senso, ai fedeli devono essere aiutati ad approfondire la loro comprensione del valore della partecipazione al sacrificio di Cristo nella Messa, della comunione spirituale, della preghiera, della meditazione della Parola di Dio, delle opere di carità e di giustizia» (n. 6). È questo un aspetto non sempre facile dell’azione pastorale, non poche volte schiava di una «riduzione sacramentalista», come se la partecipazione alla vita della Chiesa si risolva tutta e sola nella recezione dell’Eucaristia.

 

Coscienza, situazione matrimoniale e Chiesa

I numeri 7-9 della Lettera sono di particolare importanza dottrinale e pastorale perché sviluppano un’accurata analisi della coscienza morale personale, da cui può derivare – e di fatto deriva – «l’errata convinzione di poter accedere alla Comunione eucaristica da parte di un divorziato risposato» (n. 7). Vengono denunciate due gravi storture cui può andare soggetta la coscienza morale nel suo intervento a riguardo della situazione matrimoniale.

La prima stortura sta nell’enfatizzare a tal punto il compito decisionale della coscienza da interpretarla esclusivamente come potere di decisione sulla base della propria convinzione. Ma, come rileva l’Enciclica Veritatis splendor, con una simile impostazione «si trova messa in questione l’identità stessa della coscienza morale di fronte alla libertà dell’uomo e alla legge di Dio» (n. 56). In realtà, il carattere proprio della coscienza è quello di «essere un giudizio morale sull’uomo e sui suoi atti: è un giudizio di assoluzione o di condanna secondo che gli atti umani sono conformi o difformi dalla legge di Dio scritta nel cuore» (n. 59).

La seconda stortura sta nell’enfatizzazione dell’individualismo della coscienza, nel senso che si attribuisce all’individuo la decisione su di una realtà – l’esistenza o meno del precedente matrimonio e il valore della nuova unione – che coinvolge sì l’individuo, ma che possiede un’essenziale dimensione pubblica. È la dimensione che emerge, immediatamente ad una considerazione sia teologica che antropologica del matrimonio, che si configura come «immagine dell’unione sponsale tra Cristo e la sua Chiesa, e nucleo di base e fattore importante nella vita della società civile» (n. 7). La Lettera insiste giustamente su tale punto, rilevando la natura specifica del consenso matrimoniale: «non è una semplice decisione privata, poiché crea per ciascuno dei coniugi e per la coppia una situazione specificamente ecclesiale e sociale» (n. 8). La conseguenza è evidente: «Pertanto il giudizio della coscienza sulla propria situazione matrimoniale non riguarda solo un rapporto immediato tra l’uomo e Dio, come se si potesse fare a meno di quella mediazione ecclesiale, che include anche le leggi canoniche obbliganti in coscienza» (n. 8).

Ora per quanto attiene la disciplina della Chiesa, la Lettera rimanda i divorziati risposati «che sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido», all’esame della validità del matrimonio attraverso la via di foro esterno che tra l’altro attribuisce particolare rilevanza alle dichiarazioni delle parti (cf. cann. 1536, 2 e 1679). La giustificazione di ciò è ancora una volta ecclesiologica e tocca il suo vertice proprio nella recezione dell’Eucaristia: «La Chiesa è il Corpo di Cristo e vivere nella comunione ecclesiale è vivere nel Corpo di Cristo e nutrirsi del Corpo di Cristo. Ricevendo il sacramento dell’Eucaristia, la comunione con Cristo Capo non può mai essere separata dalla comunione con i suoi membri, cioè con la sua Chiesa... Ricevere la Comunione eucaristica in contrasto con le norme della comunione ecclesiale è quindi una cosa in sé contraddittoria» (n. 9).

 

Il SIGNIFICATO ECCLESIALE DELLA LETTERA

Al termine della presentazione della Lettera possono essere utili alcune veloci riflessioni sul suo significato.

Anzitutto è da rilevarsi il «soggetto» della Lettera, ossia la Congregazione per la Dottrina della Fede: i suoi compiti di custodia e promozione della fede – «far risplendere la verità di Gesù Cristo nella vita e nella prassi della Chiesa» (n. 10) – dicono già l’importanza del documento, che peraltro ha ricevuto l’approvazione del Santo Padre. In particolare la Lettera costituisce una chiara e dettagliata riaffermazione della dottrina e della disciplina della Chiesa quali sono state presentate nella Familiaris consortio. E di questa Esortazione la Lettera è un autorevole interprete, soprattutto circa la validità universale della non ammissione dei divorziati risposati che rimangono tali alla Comunione eucaristica: «La struttura dell’Esortazione e il tenore delle sue parole fanno capire chiaramente che tale prassi, presentata come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni» (n. 5).

L’«oggetto» della Lettera è puntuale e specifico: l’accesso alla Comunione eucaristica. È indubbiamente un punto fondamentale nella pastorale dei divorziati risposati, per il significato oggettivo che l’Eucaristia ha nella vita della Chiesa e del cristiano. Dell’Eucaristia infatti, deve predicarsi quanto il Concilio dice della liturgia: «è il culmine verso cui tende Fazione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (Sacrosanctum Concilium, 10). La Lettera dunque non intende affrontare l’intero campo della pastorale dei divorziati risposati, anche se per accenni – alcune volte diretti e altre volte indiretti – non manca di molteplici spunti di particolare interesse.

I «destinatari» della Lettera sono i Vescovi della Chiesa Cattolica: sono essi in comunione con il Papa e tra loro i primi responsabili della dottrina e disciplina della Chiesa. E lo sono in rapporto al popolo di Dio, che pertanto costituisce il destinatario ultimo della Lettera. Emerge così la necessità di sviluppare, con l’aiuto della riflessione teologica e pastorale, un’opera vasta e costante di catechesi e di formazione della coscienza morale che porti i fedeli a conoscere la posizione della Chiesa secondo verità e secondo le ragioni che la giustificano. Si tratta di comunicare, con la parola e la testimonianza della vita, il messaggio evangelico del matrimonio nel contesto sociale e culturale d’oggi, nel quale gli stessi cristiani sono tentati o colpiti da «sclerokardia» (cf. Mt 19, 8). Con coraggio e fiducia. E con grande bontà: «Sarà necessario che i pastori e la comunità dei fedeli soffrano e amino insieme con le persone interessate, perché possano riconoscere anche nel loro carico il giogo dolce e il carico leggero di Gesù» (n. 10).

 

+ Dionigi Tettamanzi

 

* Notitiae 30 (1994) 554-562.

 

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