Card. Victor Manuel Fernández Prefetto del
Dicastero per la Dottrina della Fede
Alcuni spunti di riflessione per pensare la Creazione
come Mistero cristologico-trinitario
Ponenza del Prefetto nel Seminario ecumenico
“La festa della Creazione e il mistero della Creazione”
Assisi, 16 Marzo 2024
I cristiani hanno sempre affermato che l’essere umano è il centro della
Creazione, che l’essere umano è signore dell’universo, chiamato a dominarlo.
Questa concezione antropocentrica, portata alle estreme conseguenze, arriva a
canonizzare il dominio dei più forti. Di fronte a un antropocentrismo
trionfalista e razionalista, la marcia del mondo ci invita a una maggiore umiltà
e a pensare all’essere umano nel contesto della Creazione, dove ogni creatura ha
il suo significato proprio. Nell’enciclica
Laudato si’, papa Francesco
parla di antropocentrismo “dispotico” e “deviato”, intendendo con esso una
visione del mondo che, pur mettendo al centro l’essere umano, lo considera
insensibile nei confronti delle altre creature, ignorando la propria bontà e
perfezione che loro hanno.
Ogni essere vale
Infatti, per interpretare fedelmente l’Enciclica
Laudato si’, la prima
chiave d’accesso è partire da un dato incontrovertibile: riconoscere che ogni
essere in questo universo ha un senso proprio, un significato singolare,
un’utilità particolare, un messaggio specifico da comunicarci. Lo dimostrano
queste parole di Gesù, che l’enciclica ci ricorda, attraverso le quali viene
sottolineata la cura che Dio ha nei confronti delle creature: «“Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi
è dimenticato davanti a Dio” (Lc 12,6). “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei
granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre (Mt 6,26)”». (LS 96).
Nel contesto di questa visione antropocentrica, la centralità data agli esseri
umani nell’universo ha portato a credere che le altre creature siano
sacrificabili. Per questo papa Francesco spiega che quando si insiste «nel dire
che l’essere umano è immagine di Dio non dovrebbe farci dimenticare che ogni
creatura ha una funzione e nessuna è superflua. Tutto l’universo materiale è un
linguaggio dell’amore di Dio» (LS 84). Allora non si tratta solo di considerare
le diverse specie come qualcosa da conservare per fini utilitaristici, come mere
risorse per il futuro, «dimenticando che hanno un valore in sé stesse» (LS 33),
che «gli altri esseri viventi hanno un valore proprio di fronte a Dio» (LS 69).
Tutti gli esseri creati hanno in sé un messaggio proprio da comunicare, per cui
«le varie creature, volute nel loro proprio essere, riflettono, ognuna a suo modo,
un raggio dell’infinita sapienza e bontà di Dio» (LS 69).
Per questo, oggi non possiamo dire «che le altre creature sono completamente
subordinate al bene dell’essere umano, come se [...]noi potessimo disporne a
piacimento» (LS 69). Inoltre, «la contemplazione del creato ci permette di
scoprire attraverso ogni cosa qualche insegnamento che Dio ci vuole comunicare»
(LS 85). Questo diventa un invito a sostare davanti ad ogni creatura, ad ascoltarne il
messaggio, come ha fatto Gesù, che ha saputo «invitare gli altri ad essere attenti alla bellezza che c’è nel mondo, perché
Egli stesso era in contatto continuo con la natura e le prestava un’attenzione
piena di affetto e di stupore» (LS 97).
L’enciclica
Laudato si’, dedicando il primo capitolo alla lettura dei
segni dei tempi, invita a guardare con sincerità la realtà per cogliere le
conseguenze di quel deterioramento della casa comune di cui l’essere umano è
responsabile. Parlando della perdita di biodiversità, registra con eloquente
dolore la costante estinzione di specie vegetali e animali «che i nostri figli
non potranno più vedere, perdute per sempre», per cui, a causa dei cambiamenti
dell’ecosistema provocati dall’essere umano, «migliaia di specie non daranno
gloria a Dio con la loro esistenza, né potranno comunicarci il proprio
messaggio» (LS 33).
La gloria di Dio
Se da una parte, dunque, vi è un messaggio che non si ascolterà più, dall’altra,
quelle creature “non daranno più gloria a Dio”. Ecco, quindi, un punto
importante per pensare la celebrazione del mistero della Creazione. Il problema
della perdita di biodiversità acquista sempre più un’enorme importanza
teologica, poiché ogni creatura è in se stessa una lode e la natura è una
manifestazione del divino. Lo dicevano i Vescovi del Giappone: «Percepire ogni creatura che canta l’inno della sua esistenza è vivere con gioia
nell’amore di Dio e nella speranza».[1]
Inoltre, san Giovanni della Croce insegnava che se qualcuno ammira la grandezza
di una montagna, non può separare questa da Dio e percepisce che tale
ammirazione interiore che egli vive deve depositarsi nel Signore: «Le montagne
hanno delle cime, sono alte, imponenti, belle, graziose, fiorite e odorose. Come
quelle montagne è l’Amato per me».[2]
La Preghiera eucaristica III del Messale Romano ci fa pregare: “Padre
veramente Santo, a te la lode da ogni creatura”. Ci facciamo voce di ogni
creatura per esprimere la lode della Creazione verso il Creatore. Ma la stessa
Liturgia non soltanto ci invita a lodare Dio “per” le creature, ma ci esorta ad
esprimere l’inno di ringraziamento anche “nelle” creature, così come lo stesso
Prefazio della Creazione esprime quando prega: “nelle tue opere glorifichi te”.
La nostra lode non può essere separata dalla lode che Dio stesso ha voluto
ricevere da tutte le creature e da noi insieme con loro, di cui è simbolo il
“cantico delle creature” di san Francesco, nel quale la Creazione intera diventa
uno strumento grandioso di lode al Creatore.
Un’altra antropologia teologica
Ma questa armonia cosmica nella lode è stata infranta da un antropocentrismo
sgangherato. Questo dramma ha portato Papa Francesco a proporre una nuova
prospettiva, ovvero un “antropocentrismo situato”:
«La visione giudaico-cristiana del mondo sostiene il valore peculiare e centrale
dell’essere umano in mezzo al meraviglioso concerto di tutti gli esseri, ma oggi
siamo costretti a riconoscere che è possibile sostenere solo un
“antropocentrismo situato”. Vale a dire, riconoscere che la vita umana è
incomprensibile e insostenibile senza le altre creature. Infatti, noi tutti
esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di
famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge ad un rispetto sacro,
amorevole e umile» (LD 67).
Questo nuovo paradigma diventa un invito a guardarsi in intima connessione con
la natura, poiché «essendo stati creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri
dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia
universale, una comunione sublime che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole
e umile» (LS 89). Quindi non possiamo «considerare la natura come qualcosa di
separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in
essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati» (LS 139).
Quando parla di conversione ecologica, la
Laudato si’ dice che essa
«implica pure l’amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre
creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda
comunione universale. Per il credente, il mondo non si contempla dal di fuori ma
dal di dentro, riconoscendo i legami con i quali il Padre ci ha unito a tutti
gli esseri» (LS 220). E ricorda, inoltre, che «Dio ci ha unito tanto
strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come
una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come
fosse una mutilazione» (LS 89, citando EG 215).
La Creazione come mistero
Basterebbe quanto detto finora per poter affermare che la Creazione è un
Mistero, una realtà teologica, che fa parte della vita teologale. La Creazione
fa parte dell’Alleanza. Infatti, Dio disse a Noè: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri
discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli,
bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca,
con tutti gli animali della terra […] ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere vivente» (Gen 9, 9-10.15).
San Francesco d’Assisi, con la sua vita, ha ispirato san Bonaventura nella sua
teologia del mistero della Creazione. San Bonaventura narrava che san Francesco
chiamava le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello o sorella. Ma è andato anche oltre e ha affermato che Francesco «ha gustato negli esseri
creati, come se fossero fiumi, la stessa Bontà della sorgente che li produce» (Legenda
Maior 9, 1). Dio è “gustato” nelle sue creature.
Ispirandosi a questo modello, san Bonaventura insegnava che l’ideale della
crescita spirituale non è passare dall’esteriorità all’interiorità per scoprire
l’azione di Dio nell’anima, ma riuscire a trovare Dio anche nelle creature
esterne:
«La contemplazione è eminente non solo quando l’essere umano sperimenta
maggiormente in sé l’effetto della grazia divina, ma quando può meglio scoprire
Dio nelle creature esterne» (II Sent., 23, 2, 3).
Il mistero trinitario
C’è da porsi un interrogativo: fino a che punto possiamo pensare che questo sia
un mistero trinitario?
In un bel paragrafo, l’Enciclica
Laudato si’ mostra il fondamento ultimo
di questa convinzione nel mistero della Trinità, indicandone al tempo stesso la
principale conseguenza morale e spirituale:
«Il Padre è la fonte ultima di tutto, fondamento amoroso e comunicativo di
quanto esiste. Il Figlio, che lo riflette, e per mezzo del quale tutto è stato
creato, si unì a questa terra quando prese forma nel seno di Maria. Lo Spirito,
vincolo infinito d’amore, è intimamente presente nel cuore dell’universo
animando e suscitando nuovi cammini. Il mondo è stato creato dalle tre Persone
come unico principio divino, ma ognuna di loro realizza questa opera comune
secondo la propria identità personale» (LS 238).
Come ha pensato questo tema la teologia? La domanda ci porta al vecchio problema
delle “appropriazioni trinitarie”, originate da una metafisica aristotelica che
condizionava la riflessione teologica. In breve, per secoli si è sostenuto che
la natura è il principio di operazione, la natura rende possibile una certa
attività. Allora, poiché in Dio la natura è una, l’origine della sua azione non
sono le Persone, ma l’unica natura. Di conseguenza, non c’è modo di dire che
qualcosa appartenga a una Persona e non a un’altra. Tutto è comune e non ci
sarebbe modo di affermare qualcosa che coinvolga in modo particolare ciascuna
delle Persone nel loro rapporto con il mondo. L’unica cosa che possiamo fare è
“appropriare” qualcosa ad una Persona con la nostra mente, ma sapendo che è
completamente comune a tutte e tre le Persone.
In sostanza, ci sono cose che si dicono di una Persona in modo esclusivo. La
potenza creatrice, per esempio, ci fa pensare al “principio” degli esseri, e
quindi conviene dirlo in modo peculiare del Padre, che è il principio ultimo di
ogni cosa, la fonte ultima, l’origine ultima, l’unico principio senza principio,
poiché il Figlio e lo Spirito, pur non essendo creati, procedono da lui.
Nell’insieme delle Persone divine egli è il Principio, un nome che gli
appartiene propriamente.
È vero che il Figlio e lo Spirito sono da considerarsi anche come Creatore, ma
non come Principio iniziale; il Figlio è Figlio in quanto generato, e lo Spirito
in quanto spirato è il primo Dono.
È innegabile che “in ogni operazione ad extra tutto è comune” e che l’essere
degli effetti creati ha come principio l’Essere divino, assolutamente comune
alle tre Persone. Ma è anche vero che l’Essere divino non è una quarta realtà
realmente distinta dalle Persone, né è anteriore alle Persone, cosicché mentre
le tre Persone lavorano insieme inseparabilmente, ciascuna Persona divina agisce
secondo la sua proprietà personale.
Un’appropriazione esclusiva
Possiamo appropriare qualcosa al Padre, come la prodigalità della Fonte.
Potremmo dire che per quanto riguarda le creature le tre Persone sono la Fonte
prodiga, ma non è così se consideriamo la relazione interiore tra le tre
Persone, dove una Persona è il principio delle altre due. Questa “appropriazione
esclusiva” implica un fondamento nella Persona a cui si applica, che non è
presente nelle altre Persone. Dire che solo il Padre è “il principio ultimo di
ogni creatura”, o attribuirgli in modo esclusivo la “prodigalità della fonte”,
non solo è lecito, ma è giusto.
Cosa dire del Figlio? Com’è stato recepito nel pensiero cattolico classico il
“per mezzo di Lui” di Nicea? Possiamo dire di Gesù Cristo che “tutte le cose
sono state create per mezzo di lui”, e questo non è appropriato al Figlio dalla
nostra mente, ma è proprio del Figlio, che nella Trinità è “causa intermedia”.
Il “per mezzo di Lui” in diversi modi è appropriato solo all’una o all’altra
delle Persone, ma in un senso, quando si mette in gioco la relazione interiore
tra le Persone, si dice esclusivamente del Figlio, perché egli è “principio da
principio” e nella Trinità è intermedio.[3]
In questo senso, tutto è “per Cristo”.
Quanto detto finora ci permette di sostenere che la Creazione è opera della
Trinità, dove le tre Persone agiscono simultaneamente con la comune potenza
divina, ma ciascuna Persona lo fa secondo la propria identità personale.
Il contributo trinitario francescano
Emerge ancora una nuova domanda: nelle cose create c’è qualche riflesso della
Trinità? Una teologia basata su una metafisica classica ci porterebbe a dire di
no, perché la causa efficiente è l’essenza divina comune alle tre Persone, e
quindi nelle creature troviamo riflessi dell’unica essenza divina ma non della
Trinità. È il pensiero francescano che supera questa logica, in particolare la
teologia trinitaria di san Bonaventura.
Lo spessore teologico di san Bonaventura ha portato a dare alla spiritualità
francescana un contenuto fortemente trinitario, che si esprime soprattutto in un
testo rivoluzionario nella storia della teologia, citato da Papa Francesco nella
Laudato si’:
«Per i cristiani, credere in un Dio unico che è comunione trinitaria porta a
pensare che tutta la realtà contiene in sé un’impronta propriamente trinitaria.
San Bonaventura arrivò ad affermare che l’essere umano, prima del peccato,
poteva scoprire come ogni creatura “testimonia che Dio è trino”. Il riflesso
della Trinità si poteva riconoscere nella natura “quando né quel libro era
oscuro per l’essere umano, né l’occhio dell’essere umano si era intorbidato”. Il
santo francescano ci insegna che ogni creatura porta in sé una struttura
propriamente trinitaria, così reale che potrebbe essere spontaneamente
contemplata se lo sguardo dell’essere umano non fosse limitato, oscuro e
fragile. In questo modo ci indica la sfida di provare a leggere la realtà in
chiave trinitaria» (LS 239).[4]
Se, dunque, la teologia tomistica insiste sul fatto che l’universo è opera della
comune essenza divina, cosicché se menzionassimo le Persone divine sarebbe solo
un’appropriazione della nostra mente, san Bonaventura afferma che non lo è,
perché la Trinità stessa è il modello di tutta la Creazione, per cui c’è
realmente una traccia trinitaria nelle creature. Non dobbiamo inventarla, ma
solo scoprirla. Se non la scopriamo, è a causa dell’oscurità della nostra mente.
San Bonaventura ne era così convinto che aveva una specie di santa ossessione di
scoprire la Trinità in ogni cosa, come a dire: cercherò di vincere le tenebre
della mia mente con l’aiuto del Signore e cercherò di riconoscere ciò che la mia
mente ottenebrata non può vedere. Ciò è possibile constatarlo in una sua opera,
nelle Collationes in Hexaemeron, dove egli cerca di riconoscere la
Trinità assolutamente in tutto, fino allo sfinimento.
Una riflessione di questo tipo portò san Giovanni Paolo II ad affermare che
«quando contempliamo con ammirazione l’universo nella sua grandezza e bellezza,
dobbiamo lodare tutta la Trinità».[5]
L’Incarnazione
Questo discorso si arricchisce se si passa dalla Trinità immanente alla Trinità
che si manifesta nella storia, luogo dove vi è l’incarnazione del Figlio. È un
tema questo che si trova sia nella
Laudato si’ sia nella
Laudate Deum:
«Per l’esperienza cristiana, tutte le creature dell’universo materiale trovano
il loro vero senso nel Verbo incarnato, perché il Figlio di Dio ha incorporato
nella sua persona parte dell’universo materiale, dove ha introdotto un germe di
trasformazione definitiva: “Il Cristianesimo non rifiuta la materia, la
corporeità; al contrario, la valorizza pienamente nell’atto liturgico, nel quale
il corpo umano mostra la propria natura intima di tempio dello Spirito e arriva
a unirsi al Signore Gesù, anche Lui fatto corpo per la salvezza del mondo”» (LS
235).
«Allo stesso tempo, “le creature di questo mondo non ci si presentano più come
una realtà meramente naturale, perché il Risorto le avvolge misteriosamente e le
orienta a un destino di pienezza. Gli stessi fiori del campo e gli uccelli che
Egli contemplò ammirato con i suoi occhi umani, ora sono pieni della sua
presenza luminosa”. Se “l’universo si sviluppa in Dio, che lo riempie tutto,
quindi c’è un mistero da contemplare in una foglia, in un sentiero, nella
rugiada, nel volto di un povero”. Il mondo canta un Amore infinito, come non averne cura?» (LD 65).
Creazione e Redenzione, dunque, sono inseparabili, come lo esprime pure la
Preghiera eucaristica III: «Per mezzo di Gesù Cristo tuo Figlio, nella potenza
dello Spirito Santo, fai vivere e santifichi l’universo».
Il mistero di una connessione universale
Ma andiamo un po’ oltre. L’impronta trinitaria sulla Creazione produce come
primo effetto la consapevolezza che “tutto è connesso”, che nulla esiste
isolatamente, ma sempre in relazione. Questo è meraviglioso! Ricordiamo quanto
ha detto Papa Francesco:
«Le Persone divine sono relazioni sussistenti, e il mondo, creato secondo il
modello divino, è una trama di relazioni. Le creature tendono verso Dio, e a sua
volta è proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra cosa, in modo tale
che in seno all’universo possiamo incontrare innumerevoli relazioni costanti che
si intrecciano segretamente. Questo non solo ci invita ad ammirare i molteplici
legami che esistono tra le creature, ma ci porta anche a scoprire una chiave
della nostra propria realizzazione. Infatti la persona umana tanto più cresce,
matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da sé stessa
per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature. Così
assume nella propria esistenza quel dinamismo trinitario che Dio ha impresso in
lei fin dalla sua creazione. Tutto è collegato, e questo ci invita a maturare
una spiritualità della solidarietà globale che sgorga dal mistero della Trinità»
(LS 240).
Tutto è connesso proprio perché scaturisce dalle relazioni trinitarie. Pertanto,
non possiamo comprendere noi stessi senza la Creazione, che diventa un Mistero
che ci circonda.
Mistero di vita spirituale
Non si tratta di una realtà meramente “mondana”, esterna alla vita spirituale,
perché siamo compenetrati con il creato anche nella vita di grazia. Il creato è
il luogo della nostra amicizia con Dio che si svolge sempre in uno spazio che
conosciamo bene e che ci ricorda il nostro rapporto con il Signore. Quel luogo,
che è un segno sensibile, riceve dall’azione provvidente di Dio una certa
efficacia soprannaturale. Ciò è così vero e reale nell’esperienza spirituale da
poter dire: “lì fui toccato dalla grazia”. Una teologa sostiene che noi
conserviamo dentro noi stessi «la memoria dei luoghi che sono nella nostra vita
quelle pietre miliari che continuano a segnare il cammino, anche se sono state
cancellate dalla neve; o come quel paesaggio che, all’improvviso, ci diventa
familiare e ci permette di tornare a casa quando ci eravamo smarriti».[6]
Anche per Gesù, nella sua umanità, è stato così. Ricordiamo quei luoghi dove
egli ha vissuto ed esercitato la sua missione: una casa a Nazaret, un terreno
libero alla periferia di Betlemme, un pozzo a Sichem, la riva occidentale del
lago di Tiberiade, un albero alla periferia di Gerico, la dimora di Betania, il
piano superiore di una casa a Gerusalemme.
La Liturgia e il Cosmo
Tutta questa ricchezza che scaturisce dalla riflessione teologica si riflette
nella preghiera liturgica, come ha efficacemente espresso san Giovanni Paolo II
nella Lettera apostolica
Orientale Lumen:
«Il Verbo, che si è fatto carne, penetra la materia con una potenzialità
salvifica che si manifesta pienamente nei Sacramenti […] Nell’azione sacra anche
la corporeità è chiamata alla lode, e la bellezza, che in Oriente è uno dei nomi
più apprezzati per esprimere l’armonia divina e il modello dell’umanità
trasfigurata, si manifesta ovunque: nelle forme del tempio, nei suoni, nei
colori, nelle luci e nei profumi... Nella liturgia le cose rivelano la loro
natura di dono che il Creatore fa all’umanità...» (OL 11).
Nella riflessione dell’Oriente cristiano, infatti, tutte le cose dell’universo
materiale trovano il loro vero significato nel Verbo incarnato, perché il Figlio
di Dio è penetrato dall’interno, come parte di esso, per trasformarlo ed
elevarlo.
Inoltre, la concezione patristica dei segni sacramentali come estensioni del
corpo di Cristo, attraverso il quale Egli riversa la sua potenza, è una
ricchezza che sembra un po’ offuscata dalle successive disquisizioni teologiche.
Proviamo a considerare alcuni esempi, a partire da Tertulliano:
«La carne è lavata affinché l’anima possa essere purificata; la carne è unta
in modo che l’anima sia consacrata; la carne è segnata in modo che l’anima sia
fortificata; la carne è sotto l’ombra dell’imposizione delle mani affinché
l’anima sia illuminata dallo Spirito...».[7]
Passando poi da sant’Ilario di Poitiers:
«Proprio come le frange pendono su tutti i lembi della veste, la potenza
dello Spirito Santo sporge da nostro Signore Gesù Cristo, la stessa potenza che
Egli ha conferito agli Apostoli, che a loro volta, come se sporgessero dallo
stesso corpo, forniscono la salvezza a tutti coloro che la toccano».[8]
E da Cirillo di Gerusalemme:
«Questo santo profumo con l’epiclesi non è più semplice o comune, ma un dono
di Cristo, reso segno efficace della sua divinità dalla venuta del suo Santo
Spirito».[9]
Giungendo a Milano, da sant’Ambrogio:
«La carne di Cristo, che coprì i peccati di tutti, è una veste buona. La
carne di Gesù è il tempio di Dio, poiché leggiamo che Egli è stato sempre pieno
di Spirito Santo, come egli stesso testimonia quando dice: “Sento che mi è
uscita una forza” (Lc 4,1), una forza che guarisce le ferite dolorose di tutti».[10]
Ascoltiamo, infine, il mistico Teilhard de Chardin, che esprime con passione
il rapporto tra l’Eucaristia e l’intero cosmo che Dio vuole trasformare:
«Poiché oggi io, vostro sacerdote, non ho né pane, né vino, né altare,
stenderò le mie mani su tutto l’universo e prenderò la sua immensità come
materia del mio sacrificio. Il cerchio infinito delle cose non è forse l’Ostia
definitiva che volete trasformare? Che la parola divina sia ripetuta oggi e
domani, e sempre, fino a quando la trasformazione non sarà pienamente compiuta:
“Questo è il mio corpo”».[11]
Non è panteismo. È Dio che compie la sua volontà eterna di trasformare questo
mondo secondo l’immagine di Cristo. Mentre aspettiamo quella piena
trasformazione, tutte le creature gemono insieme a noi sotto il misterioso
soffio dello Spirito che pervade tutto.
Víctor Manuel Fernández
[1] Conferenza dei Vescovi Cattolici del Giappone, Reverence for Life. A Message for the Twenty-First Century (1 gennaio 2001), 89, citato in LS 85.
[2] S. Giovanni della Croce,
Cantico spirituale, XIV, 5-7, in LS 234.
[3] Tommaso d’Aquino,
STh 1, 39, 8: «Per quandoque non est appropriatum sed propium
Philii – omnia per ipsum factac sunt –, non quia Filius sit
instrumentum, sed quia ipse est principium de principio».
[4] Bonaventura, Quaest. disp. de Myst. Trinitatis, 1, 2, concl. 214.
[5] Giovanni Paolo II,
Catechesi (2 agosto 2000), 4: Insegnamenti 23/2 (2000),
112.
[6] D. Aleixandre,
Cerchi nell’acqua, Santander 1993, 45-46.
[7] Tertulliano,
Resurr. 8, 3.
[8] Ilario di Poitiers,
In Matthaeum 14, 19.
[9] Cirillo di Gerusalemme,
Nebbia III, 3.
[10] Ambrogio, De patriarchis 4, 24;
Explanatio Salmi 47, 17.
[11] Teilhard de Chardin,
Il prete, 1918.
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