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Card. Victor Manuel Fernández
Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede

 

Alcuni spunti di riflessione per pensare la Creazione
come Mistero cristologico-trinitario

Ponenza del Prefetto nel Seminario ecumenico
“La festa della Creazione e il mistero della Creazione”
Assisi, 16 Marzo 2024

 

I cristiani hanno sempre affermato che l’essere umano è il centro della Creazione, che l’essere umano è signore dell’universo, chiamato a dominarlo. Questa concezione antropocentrica, portata alle estreme conseguenze, arriva a canonizzare il dominio dei più forti. Di fronte a un antropocentrismo trionfalista e razionalista, la marcia del mondo ci invita a una maggiore umiltà e a pensare all’essere umano nel contesto della Creazione, dove ogni creatura ha il suo significato proprio. Nell’enciclica Laudato si’, papa Francesco parla di antropocentrismo “dispotico” e “deviato”, intendendo con esso una visione del mondo che, pur mettendo al centro l’essere umano, lo considera insensibile nei confronti delle altre creature, ignorando la propria bontà e perfezione che loro hanno.

Ogni essere vale

Infatti, per interpretare fedelmente l’Enciclica Laudato si’, la prima chiave d’accesso è partire da un dato incontrovertibile: riconoscere che ogni essere in questo universo ha un senso proprio, un significato singolare, un’utilità particolare, un messaggio specifico da comunicarci. Lo dimostrano queste parole di Gesù, che l’enciclica ci ricorda, attraverso le quali viene sottolineata la cura che Dio ha nei confronti delle creature: «“Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio” (Lc 12,6). “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre (Mt 6,26)”». (LS 96).

Nel contesto di questa visione antropocentrica, la centralità data agli esseri umani nell’universo ha portato a credere che le altre creature siano sacrificabili. Per questo papa Francesco spiega che quando si insiste «nel dire che l’essere umano è immagine di Dio non dovrebbe farci dimenticare che ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua. Tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio» (LS 84). Allora non si tratta solo di considerare le diverse specie come qualcosa da conservare per fini utilitaristici, come mere risorse per il futuro, «dimenticando che hanno un valore in sé stesse» (LS 33), che «gli altri esseri viventi hanno un valore proprio di fronte a Dio» (LS 69). Tutti gli esseri creati hanno in sé un messaggio proprio da comunicare, per cui «le varie creature, volute nel loro proprio essere, riflettono, ognuna a suo modo, un raggio dell’infinita sapienza e bontà di Dio» (LS 69).

Per questo, oggi non possiamo dire «che le altre creature sono completamente subordinate al bene dell’essere umano, come se [...]noi potessimo disporne a piacimento» (LS 69). Inoltre, «la contemplazione del creato ci permette di scoprire attraverso ogni cosa qualche insegnamento che Dio ci vuole comunicare» (LS 85). Questo diventa un invito a sostare davanti ad ogni creatura, ad ascoltarne il messaggio, come ha fatto Gesù, che ha saputo «invitare gli altri ad essere attenti alla bellezza che c’è nel mondo, perché Egli stesso era in contatto continuo con la natura e le prestava un’attenzione piena di affetto e di stupore» (LS 97).

L’enciclica Laudato si’, dedicando il primo capitolo alla lettura dei segni dei tempi, invita a guardare con sincerità la realtà per cogliere le conseguenze di quel deterioramento della casa comune di cui l’essere umano è responsabile. Parlando della perdita di biodiversità, registra con eloquente dolore la costante estinzione di specie vegetali e animali «che i nostri figli non potranno più vedere, perdute per sempre», per cui, a causa dei cambiamenti dell’ecosistema provocati dall’essere umano, «migliaia di specie non daranno gloria a Dio con la loro esistenza, né potranno comunicarci il proprio messaggio» (LS 33).

La gloria di Dio

Se da una parte, dunque, vi è un messaggio che non si ascolterà più, dall’altra, quelle creature “non daranno più gloria a Dio”. Ecco, quindi, un punto importante per pensare la celebrazione del mistero della Creazione. Il problema della perdita di biodiversità acquista sempre più un’enorme importanza teologica, poiché ogni creatura è in se stessa una lode e la natura è una manifestazione del divino. Lo dicevano i Vescovi del Giappone: «Percepire ogni creatura che canta l’inno della sua esistenza è vivere con gioia nell’amore di Dio e nella speranza».[1]

Inoltre, san Giovanni della Croce insegnava che se qualcuno ammira la grandezza di una montagna, non può separare questa da Dio e percepisce che tale ammirazione interiore che egli vive deve depositarsi nel Signore: «Le montagne hanno delle cime, sono alte, imponenti, belle, graziose, fiorite e odorose. Come quelle montagne è l’Amato per me».[2]

La Preghiera eucaristica III del Messale Romano ci fa pregare: “Padre veramente Santo, a te la lode da ogni creatura”. Ci facciamo voce di ogni creatura per esprimere la lode della Creazione verso il Creatore. Ma la stessa Liturgia non soltanto ci invita a lodare Dio “per” le creature, ma ci esorta ad esprimere l’inno di ringraziamento anche “nelle” creature, così come lo stesso Prefazio della Creazione esprime quando prega: “nelle tue opere glorifichi te”. La nostra lode non può essere separata dalla lode che Dio stesso ha voluto ricevere da tutte le creature e da noi insieme con loro, di cui è simbolo il “cantico delle creature” di san Francesco, nel quale la Creazione intera diventa uno strumento grandioso di lode al Creatore.

Un’altra antropologia teologica

Ma questa armonia cosmica nella lode è stata infranta da un antropocentrismo sgangherato. Questo dramma ha portato Papa Francesco a proporre una nuova prospettiva, ovvero un “antropocentrismo situato”: 

«La visione giudaico-cristiana del mondo sostiene il valore peculiare e centrale dell’essere umano in mezzo al meraviglioso concerto di tutti gli esseri, ma oggi siamo costretti a riconoscere che è possibile sostenere solo un “antropocentrismo situato”. Vale a dire, riconoscere che la vita umana è incomprensibile e insostenibile senza le altre creature. Infatti, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile» (LD 67).

Questo nuovo paradigma diventa un invito a guardarsi in intima connessione con la natura, poiché «essendo stati creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile» (LS 89). Quindi non possiamo «considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati» (LS 139).

Quando parla di conversione ecologica, la Laudato si’ dice che essa «implica pure l’amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda comunione universale. Per il credente, il mondo non si contempla dal di fuori ma dal di dentro, riconoscendo i legami con i quali il Padre ci ha unito a tutti gli esseri» (LS 220). E ricorda, inoltre, che «Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione» (LS 89, citando EG 215).

La Creazione come mistero

Basterebbe quanto detto finora per poter affermare che la Creazione è un Mistero, una realtà teologica, che fa parte della vita teologale. La Creazione fa parte dell’Alleanza. Infatti, Dio disse a Noè: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra […] ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere vivente» (Gen 9, 9-10.15).

San Francesco d’Assisi, con la sua vita, ha ispirato san Bonaventura nella sua teologia del mistero della Creazione. San Bonaventura narrava che san Francesco chiamava le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello o sorella. Ma è andato anche oltre e ha affermato che Francesco «ha gustato negli esseri creati, come se fossero fiumi, la stessa Bontà della sorgente che li produce» (Legenda Maior 9, 1). Dio è “gustato” nelle sue creature.

Ispirandosi a questo modello, san Bonaventura insegnava che l’ideale della crescita spirituale non è passare dall’esteriorità all’interiorità per scoprire l’azione di Dio nell’anima, ma riuscire a trovare Dio anche nelle creature esterne:

«La contemplazione è eminente non solo quando l’essere umano sperimenta maggiormente in sé l’effetto della grazia divina, ma quando può meglio scoprire Dio nelle creature esterne» (II Sent., 23, 2, 3).

Il mistero trinitario

C’è da porsi un interrogativo: fino a che punto possiamo pensare che questo sia un mistero trinitario?

In un bel paragrafo, l’Enciclica Laudato si’ mostra il fondamento ultimo di questa convinzione nel mistero della Trinità, indicandone al tempo stesso la principale conseguenza morale e spirituale:

«Il Padre è la fonte ultima di tutto, fondamento amoroso e comunicativo di quanto esiste. Il Figlio, che lo riflette, e per mezzo del quale tutto è stato creato, si unì a questa terra quando prese forma nel seno di Maria. Lo Spirito, vincolo infinito d’amore, è intimamente presente nel cuore dell’universo animando e suscitando nuovi cammini. Il mondo è stato creato dalle tre Persone come unico principio divino, ma ognuna di loro realizza questa opera comune secondo la propria identità personale» (LS 238).

Come ha pensato questo tema la teologia? La domanda ci porta al vecchio problema delle “appropriazioni trinitarie”, originate da una metafisica aristotelica che condizionava la riflessione teologica. In breve, per secoli si è sostenuto che la natura è il principio di operazione, la natura rende possibile una certa attività. Allora, poiché in Dio la natura è una, l’origine della sua azione non sono le Persone, ma l’unica natura. Di conseguenza, non c’è modo di dire che qualcosa appartenga a una Persona e non a un’altra. Tutto è comune e non ci sarebbe modo di affermare qualcosa che coinvolga in modo particolare ciascuna delle Persone nel loro rapporto con il mondo. L’unica cosa che possiamo fare è “appropriare” qualcosa ad una Persona con la nostra mente, ma sapendo che è completamente comune a tutte e tre le Persone.

In sostanza, ci sono cose che si dicono di una Persona in modo esclusivo. La potenza creatrice, per esempio, ci fa pensare al “principio” degli esseri, e quindi conviene dirlo in modo peculiare del Padre, che è il principio ultimo di ogni cosa, la fonte ultima, l’origine ultima, l’unico principio senza principio, poiché il Figlio e lo Spirito, pur non essendo creati, procedono da lui. Nell’insieme delle Persone divine egli è il Principio, un nome che gli appartiene propriamente.

È vero che il Figlio e lo Spirito sono da considerarsi anche come Creatore, ma non come Principio iniziale; il Figlio è Figlio in quanto generato, e lo Spirito in quanto spirato è il primo Dono.

È innegabile che “in ogni operazione ad extra tutto è comune” e che l’essere degli effetti creati ha come principio l’Essere divino, assolutamente comune alle tre Persone. Ma è anche vero che l’Essere divino non è una quarta realtà realmente distinta dalle Persone, né è anteriore alle Persone, cosicché mentre le tre Persone lavorano insieme inseparabilmente, ciascuna Persona divina agisce secondo la sua proprietà personale.

Un’appropriazione esclusiva

Possiamo appropriare qualcosa al Padre, come la prodigalità della Fonte. Potremmo dire che per quanto riguarda le creature le tre Persone sono la Fonte prodiga, ma non è così se consideriamo la relazione interiore tra le tre Persone, dove una Persona è il principio delle altre due. Questa “appropriazione esclusiva” implica un fondamento nella Persona a cui si applica, che non è presente nelle altre Persone. Dire che solo il Padre è “il principio ultimo di ogni creatura”, o attribuirgli in modo esclusivo la “prodigalità della fonte”, non solo è lecito, ma è giusto.

Cosa dire del Figlio? Com’è stato recepito nel pensiero cattolico classico il “per mezzo di Lui” di Nicea? Possiamo dire di Gesù Cristo che “tutte le cose sono state create per mezzo di lui”, e questo non è appropriato al Figlio dalla nostra mente, ma è proprio del Figlio, che nella Trinità è “causa intermedia”. Il “per mezzo di Lui” in diversi modi è appropriato solo all’una o all’altra delle Persone, ma in un senso, quando si mette in gioco la relazione interiore tra le Persone, si dice esclusivamente del Figlio, perché egli è “principio da principio” e nella Trinità è intermedio.[3] In questo senso, tutto è “per Cristo”.

Quanto detto finora ci permette di sostenere che la Creazione è opera della Trinità, dove le tre Persone agiscono simultaneamente con la comune potenza divina, ma ciascuna Persona lo fa secondo la propria identità personale.

Il contributo trinitario francescano

Emerge ancora una nuova domanda: nelle cose create c’è qualche riflesso della Trinità? Una teologia basata su una metafisica classica ci porterebbe a dire di no, perché la causa efficiente è l’essenza divina comune alle tre Persone, e quindi nelle creature troviamo riflessi dell’unica essenza divina ma non della Trinità. È il pensiero francescano che supera questa logica, in particolare la teologia trinitaria di san Bonaventura.

Lo spessore teologico di san Bonaventura ha portato a dare alla spiritualità francescana un contenuto fortemente trinitario, che si esprime soprattutto in un testo rivoluzionario nella storia della teologia, citato da Papa Francesco nella Laudato si’:

«Per i cristiani, credere in un Dio unico che è comunione trinitaria porta a pensare che tutta la realtà contiene in sé un’impronta propriamente trinitaria. San Bonaventura arrivò ad affermare che l’essere umano, prima del peccato, poteva scoprire come ogni creatura “testimonia che Dio è trino”. Il riflesso della Trinità si poteva riconoscere nella natura “quando né quel libro era oscuro per l’essere umano, né l’occhio dell’essere umano si era intorbidato”. Il santo francescano ci insegna che ogni creatura porta in sé una struttura propriamente trinitaria, così reale che potrebbe essere spontaneamente contemplata se lo sguardo dell’essere umano non fosse limitato, oscuro e fragile. In questo modo ci indica la sfida di provare a leggere la realtà in chiave trinitaria» (LS 239).[4]

Se, dunque, la teologia tomistica insiste sul fatto che l’universo è opera della comune essenza divina, cosicché se menzionassimo le Persone divine sarebbe solo un’appropriazione della nostra mente, san Bonaventura afferma che non lo è, perché la Trinità stessa è il modello di tutta la Creazione, per cui c’è realmente una traccia trinitaria nelle creature. Non dobbiamo inventarla, ma solo scoprirla. Se non la scopriamo, è a causa dell’oscurità della nostra mente.

San Bonaventura ne era così convinto che aveva una specie di santa ossessione di scoprire la Trinità in ogni cosa, come a dire: cercherò di vincere le tenebre della mia mente con l’aiuto del Signore e cercherò di riconoscere ciò che la mia mente ottenebrata non può vedere. Ciò è possibile constatarlo in una sua opera, nelle Collationes in Hexaemeron, dove egli cerca di riconoscere la Trinità assolutamente in tutto, fino allo sfinimento.

Una riflessione di questo tipo portò san Giovanni Paolo II ad affermare che «quando contempliamo con ammirazione l’universo nella sua grandezza e bellezza, dobbiamo lodare tutta la Trinità».[5]

L’Incarnazione

Questo discorso si arricchisce se si passa dalla Trinità immanente alla Trinità che si manifesta nella storia, luogo dove vi è l’incarnazione del Figlio. È un tema questo che si trova sia nella Laudato si’ sia nella Laudate Deum:

«Per l’esperienza cristiana, tutte le creature dell’universo materiale trovano il loro vero senso nel Verbo incarnato, perché il Figlio di Dio ha incorporato nella sua persona parte dell’universo materiale, dove ha introdotto un germe di trasformazione definitiva: “Il Cristianesimo non rifiuta la materia, la corporeità; al contrario, la valorizza pienamente nell’atto liturgico, nel quale il corpo umano mostra la propria natura intima di tempio dello Spirito e arriva a unirsi al Signore Gesù, anche Lui fatto corpo per la salvezza del mondo”» (LS 235).

«Allo stesso tempo, “le creature di questo mondo non ci si presentano più come una realtà meramente naturale, perché il Risorto le avvolge misteriosamente e le orienta a un destino di pienezza. Gli stessi fiori del campo e gli uccelli che Egli contemplò ammirato con i suoi occhi umani, ora sono pieni della sua presenza luminosa”. Se “l’universo si sviluppa in Dio, che lo riempie tutto, quindi c’è un mistero da contemplare in una foglia, in un sentiero, nella rugiada, nel volto di un povero”. Il mondo canta un Amore infinito, come non averne cura?» (LD 65).

Creazione e Redenzione, dunque, sono inseparabili, come lo esprime pure la Preghiera eucaristica III: «Per mezzo di Gesù Cristo tuo Figlio, nella potenza dello Spirito Santo, fai vivere e santifichi l’universo».

Il mistero di una connessione universale

Ma andiamo un po’ oltre. L’impronta trinitaria sulla Creazione produce come primo effetto la consapevolezza che “tutto è connesso”, che nulla esiste isolatamente, ma sempre in relazione. Questo è meraviglioso! Ricordiamo quanto ha detto Papa Francesco:

«Le Persone divine sono relazioni sussistenti, e il mondo, creato secondo il modello divino, è una trama di relazioni. Le creature tendono verso Dio, e a sua volta è proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra cosa, in modo tale che in seno all’universo possiamo incontrare innumerevoli relazioni costanti che si intrecciano segretamente. Questo non solo ci invita ad ammirare i molteplici legami che esistono tra le creature, ma ci porta anche a scoprire una chiave della nostra propria realizzazione. Infatti la persona umana tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da sé stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature. Così assume nella propria esistenza quel dinamismo trinitario che Dio ha impresso in lei fin dalla sua creazione. Tutto è collegato, e questo ci invita a maturare una spiritualità della solidarietà globale che sgorga dal mistero della Trinità» (LS 240).

Tutto è connesso proprio perché scaturisce dalle relazioni trinitarie. Pertanto, non possiamo comprendere noi stessi senza la Creazione, che diventa un Mistero che ci circonda.

Mistero di vita spirituale

Non si tratta di una realtà meramente “mondana”, esterna alla vita spirituale, perché siamo compenetrati con il creato anche nella vita di grazia. Il creato è il luogo della nostra amicizia con Dio che si svolge sempre in uno spazio che conosciamo bene e che ci ricorda il nostro rapporto con il Signore. Quel luogo, che è un segno sensibile, riceve dall’azione provvidente di Dio una certa efficacia soprannaturale. Ciò è così vero e reale nell’esperienza spirituale da poter dire: “lì fui toccato dalla grazia”. Una teologa sostiene che noi conserviamo dentro noi stessi «la memoria dei luoghi che sono nella nostra vita quelle pietre miliari che continuano a segnare il cammino, anche se sono state cancellate dalla neve; o come quel paesaggio che, all’improvviso, ci diventa familiare e ci permette di tornare a casa quando ci eravamo smarriti».[6]

Anche per Gesù, nella sua umanità, è stato così. Ricordiamo quei luoghi dove egli ha vissuto ed esercitato la sua missione: una casa a Nazaret, un terreno libero alla periferia di Betlemme, un pozzo a Sichem, la riva occidentale del lago di Tiberiade, un albero alla periferia di Gerico, la dimora di Betania, il piano superiore di una casa a Gerusalemme.

La Liturgia e il Cosmo

Tutta questa ricchezza che scaturisce dalla riflessione teologica si riflette nella preghiera liturgica, come ha efficacemente espresso san Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Orientale Lumen:

«Il Verbo, che si è fatto carne, penetra la materia con una potenzialità salvifica che si manifesta pienamente nei Sacramenti […] Nell’azione sacra anche la corporeità è chiamata alla lode, e la bellezza, che in Oriente è uno dei nomi più apprezzati per esprimere l’armonia divina e il modello dell’umanità trasfigurata, si manifesta ovunque: nelle forme del tempio, nei suoni, nei colori, nelle luci e nei profumi... Nella liturgia le cose rivelano la loro natura di dono che il Creatore fa all’umanità...» (OL 11).

Nella riflessione dell’Oriente cristiano, infatti, tutte le cose dell’universo materiale trovano il loro vero significato nel Verbo incarnato, perché il Figlio di Dio è penetrato dall’interno, come parte di esso, per trasformarlo ed elevarlo.

Inoltre, la concezione patristica dei segni sacramentali come estensioni del corpo di Cristo, attraverso il quale Egli riversa la sua potenza, è una ricchezza che sembra un po’ offuscata dalle successive disquisizioni teologiche. Proviamo a considerare alcuni esempi, a partire da Tertulliano: 

«La carne è lavata affinché l’anima possa essere purificata; la carne è unta in modo che l’anima sia consacrata; la carne è segnata in modo che l’anima sia fortificata; la carne è sotto l’ombra dell’imposizione delle mani affinché l’anima sia illuminata dallo Spirito...».[7]

 Passando poi da sant’Ilario di Poitiers:

«Proprio come le frange pendono su tutti i lembi della veste, la potenza dello Spirito Santo sporge da nostro Signore Gesù Cristo, la stessa potenza che Egli ha conferito agli Apostoli, che a loro volta, come se sporgessero dallo stesso corpo, forniscono la salvezza a tutti coloro che la toccano».[8]

E da Cirillo di Gerusalemme: 

«Questo santo profumo con l’epiclesi non è più semplice o comune, ma un dono di Cristo, reso segno efficace della sua divinità dalla venuta del suo Santo Spirito».[9]

 Giungendo a Milano, da sant’Ambrogio: 

«La carne di Cristo, che coprì i peccati di tutti, è una veste buona. La carne di Gesù è il tempio di Dio, poiché leggiamo che Egli è stato sempre pieno di Spirito Santo, come egli stesso testimonia quando dice: “Sento che mi è uscita una forza” (Lc 4,1), una forza che guarisce le ferite dolorose di tutti».[10]

Ascoltiamo, infine, il mistico Teilhard de Chardin, che esprime con passione il rapporto tra l’Eucaristia e l’intero cosmo che Dio vuole trasformare:

«Poiché oggi io, vostro sacerdote, non ho né pane, né vino, né altare, stenderò le mie mani su tutto l’universo e prenderò la sua immensità come materia del mio sacrificio. Il cerchio infinito delle cose non è forse l’Ostia definitiva che volete trasformare? Che la parola divina sia ripetuta oggi e domani, e sempre, fino a quando la trasformazione non sarà pienamente compiuta: “Questo è il mio corpo”».[11]

Non è panteismo. È Dio che compie la sua volontà eterna di trasformare questo mondo secondo l’immagine di Cristo. Mentre aspettiamo quella piena trasformazione, tutte le creature gemono insieme a noi sotto il misterioso soffio dello Spirito che pervade tutto.

Víctor Manuel Fernández


 
[1] Conferenza dei Vescovi Cattolici del Giappone, Reverence for Life. A Message for the Twenty-First Century (1 gennaio 2001), 89, citato in LS 85.

[2] S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, XIV, 5-7, in LS 234.

[3] Tommaso d’Aquino, STh 1, 39, 8: «Per quandoque non est appropriatum sed propium Philii – omnia per ipsum factac sunt –, non quia Filius sit instrumentum, sed quia ipse est principium de principio».

[4] Bonaventura, Quaest. disp. de Myst. Trinitatis, 1, 2, concl. 214.

[5] Giovanni Paolo II, Catechesi (2 agosto 2000), 4: Insegnamenti 23/2 (2000), 112.

[6] D. Aleixandre, Cerchi nell’acqua, Santander 1993, 45-46.

[7] Tertulliano, Resurr. 8, 3.

[8] Ilario di Poitiers, In Matthaeum 14, 19.

[9] Cirillo di Gerusalemme, Nebbia III, 3.

[10] Ambrogio, De patriarchis 4, 24; Explanatio Salmi 47, 17.

[11] Teilhard de Chardin, Il prete, 1918.