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Leggi ingiuste e libertà religiosa

Péter Card. Erdő
Arcivescovo di Esztergom-Budapest

Incontro delle Commissioni dottrinali europee
(Esztergom, 14 gennaio 2015)

  

1. La giustizia e la legge

Ai nostri giorni la giustizia e la legge sono delle nozioni che vengono definite in molti modi e spesso in modo assai diverso rispetto a quanto avviene nella tradizione cristiana. Quando si parla di leggi ingiuste, si tiene pertanto presente la realtà delle leggi provenienti da un legislatore umano.

La lunga tradizione che risale almeno all’antichità greco-romana considera come una proprietà importante o addirittura essenziale della legge il fatto che essa debba avere come scopo oggettivo – indipendentemente dalla volontà soggettiva del legislatore – il bene comune[1]. Il buon legislatore deve legiferare tenendo presente la giustizia perfetta[2]. Tale visione antica ha influenzato fortemente – attraverso per esempio le opere di Sant’Isidoro di Siviglia[3] – il pensiero medievale, soprattutto quello giuridico-canonico. L’approfondimento teologico dell’epoca d’oro della scolastica ha precisato ulteriormente il rapporto tra legge e bene comune. San Tommaso d’Acquino dimostra che la legge deve essere sempre dirett a al bene comune[4]. Secondo il Dottore Angelico la legge è una regola degli atti umani il cui fine ultimo è la beatitudine, anche quella comune, per cui la legge deve essere semprediretta al bene comune[5]. Se una norma non è diretta al bene comune, non può essere legge. Tale aspetto verrà ampiamente sviluppato dalla seconda scolastica. Già Tommaso da Vio, detto il Caietano, afferma che i precetti e tanto meno le leggi che non servono al bene comune, non hanno alcun vigore[6].

Già la teologia domenicana del tardo medioevo indica come criterio di esistenza o di validità delle leggi il loro tendere al bene comune, identificato con la giustizia delle leggi stesse. Silvestro Mazzolini nella sua Summa Summarum indica quattro cause che devono coesistere perché possa esserci una legge. Se una sola di queste cause manca o viene meno, la legge non esiste o non esiste più. La prima di queste cause è la finalità che, come già menzionato, dev’essere il bene comune. Questa finalità viene identificata con la giustizia della legge[7].

Nella letteratura giuridico-canonica e in quella teologica dell’inizio dell’epoca moderna viene pure sottolineato che la giustizia della legge e il suo essere diretta al bene comune coincidono. Il grande penalista spagnolo Alfonso de Castro dichiara che la legge che disprezza l’utilità comune deve essere ritenuta ingiusta e contraria alla ragione naturale[8]. La legge che non serve al bene comune è quindi ingiusta, come ribadisce Francisco Suárez aggiungendo che in tal caso la norma ingiusta non sarebbe una legge[9]. Sulla scia di questa corrente di pensiero, la grande maggioranza degli autori della seconda scolastica enfatizza che le leggi ingiuste o non dirette al bene comune non sono da considerarsi come leggi. Francisco Suárez offre una sintesi storica importante su questa questione[10]. Gli autori carmelitani di Salamanca ribadiscono poi il fatto che, qualora la giustizia ossia il tendere al bene comune di una legge viene meno in modo oggettivo e generale, non è necessario aspettare una sua modifica da parte del legislatore o la creazione di una consuetudine contraria perché i destinatari della legge siano liberati dall’obbligazione di osservarla. Basta per questo una probabilità forte ed oggettivamente fondata[11].

Tutta questa tradizione di pensiero presuppone però una visione antropologica largamente condivisa, cioè la certezza che si possa sapere che cosa è buono per l’essere umano, che cosa è il bene comune.

2. La separazione della questione della giustizia della legge dal bene comune

In seguito alla svolta gnoseologica della tarda modernità si cominciò però a mettere in dubbio l’esistenza di beni oggettivi, cominciando a ridurre la questione al problema dei desideri, degli interessi basati su delle scelte soggettive. Così si è arrivati a un concetto più relativo e formale di giustizia e alla separazione del bene comune (ritenuto forse inesistente o non riconoscibile) dalla giustizia. La maggior parte delle teorie moderne, infatti, ha un carattere politico e si stacca dall’aspetto tradizionale giuridico. Da non pochi viene condiviso il principio “della priorità del giusto sul bene”. Quest’ultimo sarebbe “soggettivo in quanto la società registra una pluralità di visioni del bene, mentre il giusto, inteso come l’insieme delle regole e delle istituzioni che rendono possibile una coesistenza rispettosa della libertà e dell’uguaglianza dei soggetti plurali”, sarebbe “oggettivo”[12]. Secondo autori come John Rawls la “pretesa dimostrabilità razionale di una metafisica o di una morale” come pure “quella delle religioni e delle fedi, è una questione che riguarda solo coloro che le sostengono e non può entrare a far parte della ragione pubblica”[13]. Tale visione però non può essere accettata da coloro che avanzano una pretesa di verità e pensano di “rivolgersi a tutti e non solo a coloro che già condividono le loro convinzioni”[14]. Inoltre, indipendentemente dalla visione teorica della giustizia che un legislatore condivide, nessuna legislazione può rinunciare all’identificazione di certi valori ossia di beni fondamentali che la società deve perseguire[15]. Anche se gli organi di potere di uno stato negano l’esistenza di beni oggettivi e riconoscibili, sono costretti ad adottare almeno tacitamente alcuni criteri di convivenza per poter regolamentare il comportamento sociale. Nelle società occidentali, infatti, persiste tuttora un certo strato di “onestà borghese” che malgrado le diversità ideologiche permette il funzionamento di varie istituzioni.

Diversa è la situazione nel mondo post-comunista, soprattutto in quello post-sovietico. In quelle regioni la borghesia è stata sempre debole e il comunismo ha distrutto sia le strutture economiche che quelle sociali. Si è voluto sostituire la religione e la moralità con l’ideologia marxista-leninista. Dopo il crollo del sistema, si è aperto un vuoto culturale e morale che minacciava di compromettere anche il funzionamento dello stato e del diritto con il pericolo di criminalizzazione della società. Si capisce che in alcuni paesi la classe dirigente si mostra meno affascinato dalle ideologie relativiste e cerca di ricostruire le basi culturali e religiose della società. Un consenso minimo su certi valori oggettivi è, infatti, il presupposto culturale di qualsiasi democrazia. Tali valori non possono essere puramente formali, ma devono verificarsi come elementi del bene comune. La democrazia occidentale, inoltre, sin dalle sue origini prevede che la gente possa riconoscere il bene comune e scegliere gli organi dello stato, che sono chiamati a garantirlo.

Come criteri morali per la legislazione ossia per la giustizia delle nuove leggi sono stati elencati nella dottrina sociale della Chiesa tradizionalmente i seguenti elementi: 1. La necessità di indicare, nel caso di riforme legislative, l’estensione e il motivo delle modifiche delle rispettive leggi, precisando quali sono gli svantaggi della conservazione della norma precedente o quali problemi nascono dalla mancanza di una legge su una determinata materia. 2. La necessità di ponderare i vantaggi e gli svantaggi del diritto precedente e di quello nuovo in preparazione, nonché gli effetti dei cambiamenti legali in altri settori del diritto. 3. Il bisogno di formulare le leggi in modo chiaro e vicino alla prassi. La crescente distanza tra il linguaggio delle leggi e il linguaggio comune ha per effetto l’alienazione del diritto dal popolo, dai destinatari e persino dai funzionari della pubblica amministrazione. Simili sono le conseguenze dello straripamento ininterrotto delle norme giuridiche[16]. Per risolvere questi problemi, i metodi attualmente adottati dell’informazione giuridica non risultano sufficienti[17].

Tali criteri riguardano però piuttosto l’aspetto tecnico e formale della legislazione e non tanto il contenuto delle norme giuridiche. La giustizia del contenuto delle leggi è un problema più complesso. Bisogna conoscere l’insieme organico delle forze e delle circostanze dell’economia e di una società, anzi, nel mondo globalizzato di oggi, è necessario prendere in considerazione l’intero contesto internazionale e ambientale come pure i risultati delle scienze naturali. L’estrema complicatezza delle questioni comporta il rischio di perdere la fiducia nei giudizi morali e di rinunciare ad una visione d’insieme che permetterebbe un giudizio di valore[18].

Anche se tutto ciò fosse possibile, resta il problema della scelta degli scopi della legislazione. Senza il riconoscimento di un bene comune oggettivamente fondato, ossia senza rispondere alla domanda della finalità dell’esistenza dell’essere umano e dell’umanità, sembra impossibile che sia i sistemi morali che il diritto possano funzionare. La regolamentazione del comportamento sociale affronterà la tentazione di rinunciare sia al diritto che alla morale e di affidarsi completamente a dei metodi mediatici, elettronici, finanziari di controllo e di influenzamento della gente. In tal caso però sorge la domanda su quale ruolo possa avere ancora la libertà umana a livello della società[19]. Si domanderà pure qual’è la legittimazione di quelli che gestiscono le “nuvole” di dati elettronici.

Le radici delle società però, come ha ribadito papa Francesco nel suo discorso pronunciato al Consiglio d’Europa, „si alimentano della verità, che costituisce il nutrimento, la linfa vitale di qualunque società che voglia essere davvero libera, umana e solidale. D’altra parte, la verità fa appello alla coscienza, che è irriducibile ai condizionamenti, ed è perciò capace di conoscere la propria dignità e di aprirsi all’assoluto, divenendo fonte delle scelte fondamentali guidate dalla ricerca del bene per gli altri e per sé e luogo di una libertà responsabile”[20].

„Occorre poi tenere presente – aggiunge il Pontefice – che senza questa ricerca della verità, ciascuno diventa misura di sé stesso e del proprio agire, aprendo la strada dell'affermazione soggettivistica dei diritti, così che al concetto di diritto umano, che ha di per sé valenza universale, si sostituisce l’idea di diritto individualista. Ciò porta ad essere sostanzialmente incuranti degli altri e a favorire quella globalizzazione dell’indifferenza che nasce dall’egoismo, frutto di una concezione dell’uomo incapace di accogliere la verità e di vivere un’autentica dimensione sociale”[21].

L’individualismo è quindi la conseguenza del relativismo ed ha per effetto la mancanza di responsabilità, la perdita della visione d’insieme, e così la paura dal futuro, il disinteresse verso il passato e l’isolamento delle generazioni, come pure la sfiducia verso le istituzioni della società come sono il matrimonio e la famiglia.

I partecipanti di questo congresso rappresentano le commissioni teologiche di tutte le conferenze episcopali d’Europa. La sfida maggiore che il nostro continente deve affrontare è quella espressa in forma di domanda da Papa Francesco: Europa, „dov’è il tuo spirito di intrapendenza curiosa? Dov’è la tua sete di verità, che hai finora comunicato al mondo con passione?”[22]

Le radici dell’Europa culturale ed istituzionale infatti si nutrono dalla verità. Per questo il Papa rivolgendosi alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo auspica che la “coscienza” dell’Europa “maturi sempre di più, non per un mero consenso tra le parti, ma come frutto della tensione verso quelle radici profonde, che costituiscono le fondamenta sulle quali hanno scelto di edificare i Padri fondatori dell’Europa contemporanea”[23]. Noi altri, vescovi europei – specialmente attraverso il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) – siamo chiamati a dare un contributo fondamentale anche ai lavori del Consiglio d’Europa nell’ambito “della riflessione etica sui diritti umani”[24], per tener conto sempre “della verità di tutto l’essere umano”[25]. Così dobbiamo continuare la missione di Cristo stesso, che è la vocazione di tutta la Chiesa: “servire e rendere testimonianza alla verità”[26].

3. Libertà religiosa e valori oggettivi

Il tema del collegamento della giustizia con la libertà si cristallizza per esempio in un trattato di Guglielmo, abate di Saint-Thierry[27], in cui l’autore afferma che “dove c’è costrizione, non c’è più libertà; e dove non c’è libertà, non c’è nemmeno giustizia”. In questo senso la libertà si colloca nel contesto di una giustizia oggettiva e di beni oggettivi e riconoscibili. La libertà di scelta quindi ha per scopo e giustificazione il fatto che esistono beni oggettivi, riconoscibili per tutti, che l’essere umano deve accogliere liberamente secondo la sua dignità.

Al Concilio Vaticano II, durante la preparazione della dichiarazione Dignitatis humanae, si arrivò alla precisazione della differenza tra l’obbligazione morale di ogni persona a cercare la verità e, una volta trovatala, ad aderirvi, e la libertà, sotto l’aspetto giuridico, di abbracciare una certa religione o meno. La base di questa libertà di fronte allo stato e alla società non è il pensiero secondo il quale ogni visione del mondo ed ogni religione siano dello stesso valore, ma il fatto che la persona umana possiede il diritto di liberamente accettare o meno una religione[28]. Eppure, nella prospettiva della Dignitatis humanae la libertà religiosa ha dei presupposti che oggi stanno diventando sempre più problematici. Nel numero 2 della dichiarazione conciliare si dice infatti: “Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Tale libertà consiste in questo, che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli, di gruppi sociali e qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità alla sua coscienza … Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce sia per mezzo della parola di Dio rivelata sia tramite la stessa ragione”.

Già la definizione dell’oggetto della libertà religiosa dimostra oggi notevoli difficoltà. Che cosa significa “in materia religiosa”? In vari paesi post-comunisti, pur volendo garantire la libertà religiosa, il legislatore ha rifiutato di definire che cosa significa la religione, lasciando così largo spazio per l’abuso di questa libertà per scopi lucrativi ed altri. Come si può garantire giuridicamente la libertà di qualcosa, se si rifiuta di definire l’oggetto di questa libertà? Se già la nozione di religione è una questione di credenze od opinioni soggettive, la garanzia giuridica rischia di perdere il suo valore.

Il Concilio dice inoltre che la persona deve essere libera di agire secondo la propria coscienza “entro debiti limiti”. – Ma quali sono questi limiti, chi li definisce? In base a quale visione del mondo? Se non ci sono verità e beni oggettivi, riconoscibili, la visione del mondo dei funzionari dello stato sarà la misura di tutte le libertà. La base della libertà religiosa è secondo il Concilio la dignità della persona umana, riconoscibile anche tramite la ragione. Ma ultimamente sembra che non ci sia consenso nel pensiero occidentale politico neppure circa il significato della dignità umana. Per non pochi essa significherebbe solo o soprattutto l’assenza del dolore fisico. In tal senso si parla per esempio di morte dignitosa. Siamo tornati quindi al problema antropologico.

Quando si dice che nessuno deve essere forzato ad agire contro la propria coscienza in materia religiosa, la dichiarazione conciliare presuppone che tale coscienza sia retta[29]. I limiti del diritto a non essere impediti ad agire secondo coscienza si riassumono nel concetto dell’ordine pubblico “inteso come la parte fondamentale del bene comune”, il quale ha tre elementi principali: “la difesa dei diritti fondamentali di tutti”, la “tutela dell’onesta pace pubblica” e “la custodia della pubblica moralità”[30]. Sembra evidente che l’identificazione di tutti questi elementi richiede un minimo di consenso circa aspetti fondamentali della visione del mondo. Il rifiuto della possibilità di un tale consenso basato alla realtà oggettiva può essere una delle cause dell’estrema preoccupazione per l’arrivo di gruppi d’immigranti con una forte identità, atteggiamento che si manifesta non di rado nel mondo occidentale.

La libertà religiosa, infatti, risulta centrale, perché “essa – come dice San Giovanni Paolo II – fonda la stessa ragione d’essere, intimamente radicata in ciascuna persona, di tutte le altre libertà”[31]. La libertà religiosa non si riferisce solo all’aspetto individuale della fede, ma anche a tutte le forme comunitarie della sua manifestazione, trasmissione e pratica. Dall’insegnamento dei papi degli ultimi decenni si vede chiaramente quanti campi e “quanti spazi sono necessari alla Chiesa per poter svolgere liberamente la sua missione di evangelizzazione e di promozione umana: la famiglia, la scuola, l’assistenza, la beneficienza, i luoghi di culto, l’uso dei mezzi di comunicazione sociale, gli spazi educativi, formativi, ricreativi ecc.”[32] Negli ultimi tempi però si osservano attacchi sempre crescenti a questa libertà – come vediamo anche dalle relazioni annuali dell’Osservatorio sulla discriminazione e l’intolleranza contro i cristiani in Europa[33] – da parte di gruppi intolleranti o di quanti “si servono dalle stesse leggi per restringere i giusti spazi di libertà non soltanto dei credenti, ma di ogni uomo”[34].

4. Conclusione

Al termine di questo breve percorso d’idee possiamo formulare a modo di riassunto alcune conclusioni.

1. Senza un diritto basato su criteri oggettivi della morale non si può regolare sufficientemente la vita della società. Ogni altro sistema di regolamentazione del comportamento sociale o diventa inefficace (come il tentativo di costruire un diritto concepito come metodo di armonizzare i diversi desideri soggettivi senza prendere un giudizio di valore su di essi) o prescinde dalla libertà umana (come i sistemi di manipolazione).

2. Una morale “oggettiva” deve valutare gli atti umani tenendo presente il fatto che la stessa esistenza dell’universo, la vita umana e quella della società fanno parte a un progetto, nel contesto del quale trovano il loro senso e il loro valore.

3. La libertà religiosa è un diritto umano che scaturisce dalla dignità naturale della persona umana. Il suo contenuto e i criteri della sua tutela e del suo esercizio si fondano sul presupposto che esiste la verità anche in campo religioso e per questo è un vero valore di poter cercarla e accettarla liberamente. La verità quindi non è limite, ma l’unica vera base e giustificazione della libertà religiosa.

4. L’esperienza giuridico-istituzionale dell’umanità è una delle fonti genuine della visione del mondo. Essa presuppone una ragionevolezza suprema e l’obbligo naturale di agire per il bene proprio e per quello comune, oggettivamente fondati e riconoscibili per l’essere umano. Non si può quindi organizzare la vita della società come un progetto se non consideriamo come progetto la vita umana stessa. In tal senso, quella fiducia che si esprime nel concetto di libertà religiosa proposto dal Concilio Vaticano II, costituisce la vera base di una giusta legislazione che promuove il bene comune.


[1] Cf. Platon, Hippias 284d; Id., De legibus 631b-c; Aristoteles, Eth. Nicom. 1094b; Cicero, De legibus, lib. III, cap. 1, n. 2.

[2] Platon, De legibus 630c.

[3] Isidorus, Etymologiarum libri XX, lib. II, cap. 10, n. 6 (= lib. V, cap. 21), ed.: San Isidoro de Sevilla, Etimologías, edición bilingüe, I, Libros I-X, texto latino, versión española y notas por J. Oroz Reta – M.-A. Marcos Casquero – M. C. Diaz y Diaz (Biblioteca de Autores Cristianos 433), Madrid 1982, 374 (e 516): „Erit autem lex honesta, iusta, possibilis, secundum naturam, secundum consuetudinem patriae, loco temporique conveniens, necessaria, utilis, manifesta quoque, ne aliquid per obscuritatem in captionem contineat, nullo privato commodo, sed pro communi civium utilitate conscripta”.

[4] Thomas Aquinas, STh I-II, q. 90, a. 2 “Utrum lex ordinetur semper ad bonum commune”.

[5] Ibid.

[6] Thomas a Vio Caietanus, Prima Secundae Partis Summae totius Theologiae D. Thomae Aquinatis, Doctoris Angelici, Reverendissimi Domini Thomae a Vio Caietani commentariis illustrata, q. 90, a. 2, ed. Augustae Taurinorum 1581, 381: “praecepta quae bono communi non subordinantur, praecepti vim non habent”.

[7] Silvestro Mazzolini (Sylvester Prierias), Summa Sylvestrina quae Summa Summarum merito nuncupatur, II, Venetiis 1593, fol. 102 ra con riferimento alla STh I-II, q. 96, a. 4 espone: „Quod leges dicuntur iustae vel iniustae secundum quadruplex genus causarum, quod sic intellige, quia requiritur ad iustitiam earum iustitia secundum omnes causas simul, ad iniustitiam vero sufficit iniustitia secundum unam, quia secundum Deum bonum ex totali et integra causa, malum ex singulis defectibus. Ex fine igitur dicitur lex iusta, quando ordinatur ad bonum commune, quod est finis eius; iniusta vero, quando est contraria bono communi”.

[8] Alfonso de Castro, De potestate legis poenalis libri duo, lib. I, cap. 1, ed; Salmanticae 1550, rist. Madrid 1961, fol. 6: “lex, quae spreta communi utilitate pro solo particulari aliquo commodo aliquid statueret, iniusta sit censenda et rationi naturali aperte contraria”.

[9] F. Suárez, De legibus, lib. I, cap. 7, n. 11, ed. crítica bilingue por L.Pereńa (Corpus Hispanorum de pace XI), Madrid 1971, 140.

[10] Suárez, De legibus, lib. I, cap. 7, n. 1-16: ed. cit. 124-157.

[11] Salmanticenses, Cursus Theologiae Moralis, III, Tract. XI, cap. 4, punctum 1, n. 4: ed. Venetiis 1734, 49: “An vero cesset lex ipso facto, vel expectanda sit declaratio legislatoris, vel abrogatio illius, vel conrtaria consuetudo? Affirmant Soto et Montesinos. Sed alii omnes merito id negant, asserentes, legem ipso facto cessare, hoc ipso, quod finis adaequatus illius ruat; quia hoc ipso redditur inutilis bono communi, et ideo a ratione legis cadit, nec requiritur, quod toti communitati cessatio causae innotescat… Et licet lex videatur esse in possessione, probabile est non esse, cum sit probabile, esse inutilem”.

[12] G. Del Vecchio - F. Viola, Giustizia, in Enciclopedia filosofica, Milano 2006, V, 4885.

[13] Del Vecchio – Viola 4885; cf. J. Rawls, A Theory of Justice, Cambridge (Mass.) 1971.

[14] Del Vecchio – Viola 4885.

[15] Ibid.

[16] M. Welan, Gesetzgebung, in Katholisches Soziallexikon, Hrsg. v. A. Klose – W. Mantl – V. Zsifkovits, Innsbruck-Wien-München-Graz-Köln 1980, 937-949, specialmente 948.

[17] Ibid.

[18] Sul problema della complicatezza vedi per es. P. Erdő, Erkölcs egy bonyolult világban. Háború, tudomány, kereszténység, in Magyar Sion. Új folyam 1/43 (2007) 35-43.

[19] Cf. P. Erdő, Il peccato e il delitto. La relazione tra due concetti fondamentali alla luce del diritto canonico (Pontificia Universitŕ della Santa Croce, Monografie Giuridiche 44), Milano 2014, 127.

[20] Papa Francesco, Discorso al Consiglio d’Europa, 25 novembre 2014; cf. Giovanni Paolo II, Discorso all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 8 ottobre 1988, 4.

[21] Papa Francesco, Ibid.

[22] Papa Francesco, Discorso al Consiglio d’Europa, 25 novembre 2014.

[23] Ibid.

[24] Ibid.

[25] Ibid.

[26] Ibid. Cf. Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 26 marzo 1967, 13.

[27] Guglielmo di Saint Thierry, La contemplazione di Dio, n. 9-11: SC 61, 90-96.

[28] Cf. L. Mistò, Libertà religiosa, in Dizionario di dottrina sociale della Chiesa, Scienze sociali e magistero, a cura del Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Milano 2004, 414-418, specialmente 415.

[29] Cf. Mistò, Libertà religiosa 416.

[30] Ibid.; cf. Concilio Vaticano II, Dichiarazione Dignitatis humanae 7.

[31] Giovanni Paolo II, Messaggio ai capi di Stato firmatari dell’atto di Helsinki, 1 settembre 1980, 5.

[32] Mistò 417.

[33] V. http://www.intoleranceagainstchristians.eu/

[34] Mistò 417.