Università di Padova
26 febbraio 2013
La Fede Lectio magistralis di
S. Ecc.za Mons. Gerhard Ludwig Müller Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
1. Solo una grande positività è in grado di attirare il nostro sguardo
Per uno straniero che apre la prima volta la pagina iniziale de I promessi sposi, le parole di Alessandro Manzoni che descrivono quei luoghi del lago di Como - parole che per voi italiani sono forse così note e scontate - rappresentano un autentico invito per la ragione, quasi un contagio. Aprendo al lettore, in modo così rapido eppure efficace, quel panorama di golfi, promontori, torrenti, valli, paesi e profili di montagne, Manzoni muove lo sguardo alla meraviglia. Il genio di questo scrittore milanese dell’ottocento, con poche ed incisive parole, riesce a far trasparire quella positività che - ai nostri occhi solo in certe giornate - la natura è capace di dischiudere. Solo una grande positività è in grado di attirare il nostro sguardo - gli orizzonti della nostra ragione, direbbe il Papa Benedetto XVI - e di ampliare le sue capacità conoscitive. Infatti, di fronte a certi spettacoli della natura, e a certi eventi, ci sentiamo colpiti e mossi fin nel profondo di noi stessi, al punto che tutta la nostra persona, tutta la nostra libertà si sente trasportata in essi ed interpellata. È questo un trasporto che ci trascina fin nel cuore della realtà che abbiamo davanti agli occhi e mai come in queste occasioni ci sentiamo una cosa sola con ciò che conosciamo. Simile esperienza accade anche nell’amore. E, infatti, la prima forma di amore, cioè di attaccamento, di cui è capace la nostra ragione, si sperimenta e si documenta proprio di fronte alla realtà, incontrando brani di realtà così positivi. A parte la mia personale ammirazione per il talento di Alessandro Manzoni, ho voluto iniziare facendo cenno a tali esperienze perché ciò che accade nell’uomo attraverso quel fenomeno che si chiama “fede” - almeno nella sua accezione cristiana e cattolica - possiede molte analogie con quanto ho sopra descritto. Nulla come la bellezza, il bene, la verità, l’amore, intravisti nella realtà, sono in grado di afferrare la nostra ragione e di lanciarla nell’avventura conoscitiva, coinvolgendo tutta la nostra persona, affettività compresa, e di donarci certezze fondamentali per l'esistenza. Già questa constatazione dovrebbe allora farci sorgere almeno qualche dubbio sulla scontata obiettività gnoseologica che, da qualche secolo ormai, viene attribuita a quella distanza critica che la scienza moderna rivendica come condizione e garanzia di solide certezze. Certamente non vi è chi non vede come le passioni ed i sentimenti possano giocare brutti scherzi, diminuendo in alcuni casi il senso della realtà in chi se ne lascia impadronire e dominare. Tuttavia, il sentimento gioca un ruolo assai importante a livello cognitivo e non ce ne si può sbarazzare così facilmente senza negative conseguenze per la ragione. Ciò è così vero che senza un sentimento di interesse autentico verso ciò che conosciamo, non possiamo attingere veramente alla realtà. Coloro che sono impegnati nel lavoro scientifico ed intellettuale se rendono conto facilmente. Ma se ne può rendere conto con facilità, ad esempio, anche un malato che ha di fronte un medico, il quale non è davvero interessato a lui. D’altronde, la realtà stessa, sia nel suo insieme che nei suoi particolari, è capace di provocare contemporaneamente sia la ragione che l’affettività umana. Infatti è proprio grazie ad un ripetuto contraccolpo, o affectus, che l’intelligenza conosce sempre più ciò che i suoi occhi puntano. Solo questa dinamica è in grado di educare la ragione umana ad una fondamentale umiltà davanti alle cose e alle persone, grazie ad un continuo e non presuntuoso approssimarsi all’oggetto della conoscenza. Solo assecondando questo dinamismo, insito nella nostra natura, possiamo dire di incamminarci realmente verso una conoscenza che non si accontenta di schemi e modelli - utili benché sempre approssimativi - ma vuole raggiungere certezze autentiche sulla realtà. Questo è vero sempre, anche se diviene specialmente evidente solo in certe occasioni della vita. E Manzoni ce lo ha dimostrato per sempre con la prima pagina del suo noto romanzo. Basta lasciarsi coinvolgere nella sua avventura conoscitiva e riconoscerlo. Basta avere la lealtà e l’onestà di seguirlo quando ci prende per mano e, attraverso quel lago e quei monti, ci fa vedere ben altro. Non temo di osare queste considerazioni e di usare questi argomenti, perché nulla come quanto abbiamo detto sopra ci porta sul terreno della “fede”. La fede infatti è un fenomeno che nasce nell’uomo che si trova nel mondo e vive, e conosce, e ama, e cerca, e perde, e trova… La fede dunque affiora e fiorisce, come evento che coinvolge sia ragione che affettività, dentro quell’avventurosa provocazione che è la realtà.
2. Il mondo come epifania di Dio
La realtà stessa del mondo, nella sua globalità e attraverso esperienze particolarmente significative, si offre all’intelligenza e alla volontà dell’uomo come luogo di rivelazione dei significati, dal più piccolo al più grande, e di provocazione alla ricerca di ciò che più lo attrae. Dio stesso ha creato la realtà del mondo come luogo di epifania, di suggerimento e di ricerca, perché gli uomini “andando come a tentoni” (At 17, 27) lo cercassero e si avventurassero a trovarlo. Dio stesso squaderna le cose davanti agli occhi dell’uomo, perché conoscendole, da quelle più semplici – trascendendole - arrivassero a quelle più profonde, salendo i gradini della realtà fino al mistero, radice da cui tutto proviene e che a tutto soggiace. Ecco perché le menti più acute dell’umanità hanno sempre percepito certe conoscenze come soglia e inizio di ben altra conoscenza: ad esempio, la conoscenza di ciò che è buono, bello e vero, come il suggerimento di ciò che lo è ancor di più, in un moto senza fine della ragione verso il suo traguardo ultimo. Perciò, Agostino d’Ippona, Padre e Dottore della Chiesa, avverte il mistero di Dio così positivamente iscritto nell’esistenza e nell’esperienza umana da sentirlo vibrare negli eventi più significativi della vita: “Dio padre della vita…padre della verità…padre del bene e del bello…padre della felicità…Dio vita vera e suprema, nel quale, dal quale e per il quale vivono tutte le cose che veramente e supremamente vivono…Dio verità, nel quale, dal quale e per il quale sono vere tutte le cose che sono vere…Dio bontà e bellezza, nel quale, dal quale e per il quale sono buone e belle tutte le cose che sono buone e belle…Dio felicità, nel quale, dal quale e per il quale sono felici tutti coloro che sono felici” (Soliloquia, I, 2-3). Questo movimento della ragione, dai frammenti di realtà che conosce verso un senso che inerisce ad essi ma nello stesso tempo li trascende, questo passaggio dalla superficie delle cose alla loro profondità, fino alla radice che le costituisce e da cui sgorgano, è inscritto nella conoscenza propria dell'atto di fede. La fede infatti riconosce la realtà del mondo come un segno, come un fenomeno che rinvia ad una profondità a cui esso è, in qualche modo, ancorato e da cui dipende in radice. Del resto, tutte volte che riconosciamo un significato oggettivo passiamo dalla dispersione e dalla superficie degli elementi alla loro connessione intrinseca e quindi, in un certo senso, cominciamo ad attingere alla loro realtà profonda ed al loro fondamento o noumeno. Ecco perché non è sostenibile in modo assoluto la recisione kantiana del percorso dal fenomeno al fondamento. Lo iato fra fenomeno e fondamento della realtà, così come l'inaccessibilità del noumeno, sono in verità affermabili solo relativamente, poiché già a livello conoscitivo la nostra ragione, attraverso il mondo dei significati, si trova proiettata in un itinerario che la muove verso il fondo della realtà, passando dai significati minori fino a quelli più grandi ed ultimi. Una lealtà gnoseologica ci consente di riconoscere che la ragione può percorrere buona parte di questo tragitto, anche se le sue sole forze non sono capaci di giungere fino ai suoi livelli estremi e conclusivi.
3. Intellectus quaerens fidem, fides quaerens intellectum
In ogni caso, quanto abbiamo sopra affermato ci aiuta a collocare il fenomeno "fede" nella sfera razionale dell'uomo, come evento riguardante il suo ambito conoscitivo. Già queste considerazioni elementari ci permettono di vedere come la fede non sia semplicisticamente relegabile nella cerchia dell'irrazionalità o fuori dai confini della conoscenza umana. Essa riguarda la ragione, è evento che attiene all'intelligenza dell'uomo nel suo rapporto con la realtà, e coinvolge con sé tutta la libertà umana, volontà e affettività comprese. E va ben oltre la semplice fiducia che vi può essere nei confronti di una persona o di un ipotetico principio ultimo e normativo della realtà. La fede si nutre della realtà, “non è aggiunta eterogenea al sapere umano” (G. L. Müller, Dogmatica cattolica, Cinisello Balsamo 1999, p. 46) ma, grazie alla luce che viene dal fondamento della realtà, è mossa dalle cose che l'intelligenza conosce, percorre la realtà risalendone gradualmente i livelli, fino a quello ultimo. Intellectus quaerens fidem, potremmo dire sulla scia dell’Enciclica Fides et ratio di Papa Giovanni Paolo II, richiamando questo movimento ascendente della ragione, che la spinge oltre i suoi invalicabili limiti conoscitivi verso Ciò che le consente di trascendersi e superarsi. Peraltro è lo stesso Gesù – qualificato dal Nuovo Testamento come colui che dà inizio (archegòn) alla fede e la porta a compimento (teleiotèn) (cf. Ebr 12, 2) – che ci invita a comprendere come essa sia inerente allo sguardo che portiamo sul mondo e sulla vita: "Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?" (Lc 12, 54-57). La fede comincia dunque addentrandoci nella comprensione del reale che vediamo con i nostri occhi, parte da ciò che accade in questo mondo. Comporta un discernere, giudicare e capire cosa c'è in gioco nella realtà che si vive, da quella più quotidiana, e apparentemente prosaica, fino a quella che interessa la storia e i destini conclusivi dell'uomo e del mondo, aprendosi varchi verso il fondamento ultimo. Essa è evento che esige l'intelligenza umana – fides quaerens intellectum, diceva il grande filosofo e teologo Anselmo d'Aosta – e la riguarda come invito ad allargare i suoi orizzonti conoscitivi, ad ampliare le sue prospettive, fino a cogliere i significati di quello che accade, da quelli immediati fino a quelli ultimi. Essa è un atto di profonda conoscenza della realtà, e parte da questa realtà che tutti conosciamo. Sono d'altronde i Vangeli – i quali ci offrono la Magna charta degli eventi che riguardano la fede cristiana – a presentarcela in questo modo. Nei Vangeli, alcuni uomini, incontrando Gesù di Nazareth, familiarizzando con Lui, in quell'uomo riconoscono a poco a poco – è dunque un avvenimento conoscitivo – che attraverso i suoi gesti, le sue parole, il suo volto si palesa loro ben altro. In quell'uomo riconoscono presente e vicino alla loro vita il Mistero che fa tutte le cose, Colui che la tradizione religiosa dell'umanità chiama "Dio". Frequentando quell'uomo, con l'aiuto della sua presenza, delle sue parole, dei suoi sguardi, la loro ragione compie quel passaggio che li porta a riconoscere in Lui, proprio in quell'uomo, Dio stesso. Essi, con Lui, sono condotti a compiere, quasi senza accorgersene, quel salto che la ragione umana spesso ritiene impossibile e paradossale: riconoscere che l'Universale si fa presente e viene a coincidere in un particolare storico ben identificato. Questo infatti accade, quando coloro che gli sono più vicini, cominciano a riconoscere già nell'uomo Gesù, colui che dopo la sua morte e resurrezione si rivelerà loro come "Signore" e "Dio" (cf. Gv 20, 28). Perciò, a ragione, Gesù Cristo è stato definito come l’«universale concreto» (cf. H. U. Von Balthasar). Dalla sorpresa di vedere colui che cambia l'acqua in vino a Cana di Galilea, alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, dalla passeggiata sulle acque del lago di Tiberiade fino al suo riapparire vivo dopo la morte cruenta sul palo ignominioso della croce, una certezza sorgeva dalla realtà che essi conoscevano e si faceva largo nella loro ragione, divenendo fede, convinzione profonda. Ma forse la traiettoria di questa certezza viene documentata ancor più dai grandi incontri con Gesù che narrano i Vangeli: dal paralitico al cieco nato, dall'adultera alla samaritana, fino al buon ladrone sulla croce. Qui, l'esperienza della tenerezza con cui Gesù avvicinava specialmente i derelitti, i deboli, chiunque fosse nel bisogno, e soprattutto la misericordia con cui egli accostava i peccatori, li perdonava e li invitava alla conversione, manifestano in Lui uno sguardo talmente umano, talmente a misura del cuore dell'uomo, da rivelarsi sovrumanamente capace di avvincerlo con totalità. Quell'uomo è Dio: in lui Antico e Nuovo Testamento si legano in alleanza, in Lui si uniscono cielo e terra e, grazie a Lui, il cielo – il fondamento della realtà, che altrimenti rimarrebbe, benché desiderato, inaccessibile all'uomo – diviene finalmente "aperto": questa è la certezza a cui conducono "gli occhi della fede". Conversatus est cum hominibus – non solo ha parlato in modo umano con gli uomini, ma ha dimorato da uomo in mezzo agli uomini – dice la versione latina della Bibbia (Bar 3, 38). "Il Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e vive tra essi per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé […] La profonda verità su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo di questa Rivelazione, risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione", fa eco alla Scrittura la Costituzione dogmatica Dei verbum (n. 2) del Concilio Vaticano II. Nel riconoscimento di Dio, che in Gesù di Nazareth si fa uomo in mezzo agli uomini, e nell’adesione a Lui, si trova il cuore della fede cristiana. Qui possiamo cogliere un secondo movimento - che in verità è possibile solo perché “primo” dal punto di vista ontologico - un movimento con-discendente del Mistero, il quale si porge alla conoscenza dell'uomo. Questo significano le parole iniziali della prima lettera di Giovanni: "Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita - poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi" (1Gv 1, 1-2). Udire, vedere, toccare, sono i verbi che descrivono l'accadere della fede nell'uomo che in Cristo riconosce Dio.
4. Logos e agape: i fondamenti del reale alla radice di fede, speranza e carità
In Gesù Cristo si rivela agli uomini il Verbo della vita, il Logos originario, il principio fondante di tutte le cose, la Ragione primigenia e ordinatrice del cosmo, il mysterion cui accenna Paolo nelle sue lettere (cf. Ef 3, 3). In quell'uomo, che ha donato la sua vita "sino alla fine" (Gv 13, 1) per amore degli uomini, si rivela la volontà salvifica universale di Dio verso tutti gli uomini (cf. pantas antropous, 1 Tm 2, 4) - proprio questo ci invita a professare il simbolo della fede cristiana, con l'espressione "pro nobis" - e si palesa che all'origine di tutte le cose vi è un nesso profondo fra razionalità e amore: perciò il cuore della realtà, nonostante le sue contraddizioni, grazie a Gesù Cristo, si rivela essere non il luogo del caos e del vuoto, ma lo spazio in cui sono indisgiungibilmente connessi Logos e Agape. Come ci insegna il teologo Joseph Ratzinger, ora Papa Benedetto XVI, in Gesù Cristo "il primato del Logos e il primato dell'amore si rivelano identici. Il Logos non appare più solo come ragione matematica alla base di tutte le cose ma come amore creatore fino al punto di diventare com-passione verso la creatura". In Lui allora "l'amore e la ragione coincidono in quanto veri e propri pilastri del reale: la ragione vera è l'amore e l'amore è la ragione vera. Nella loro unità essi sono il vero fondamento e il fine di tutto il reale" (Joseph Ratzinger, Fede, verità, tolleranza, pp. 191-192). Proprio perché in Gesù Cristo la ragione vera della realtà si rivela essere l'amore, e questo intreccio di logos e agape si palesa come il fondamento e il fine di tutto ciò che esiste, chi riconosce e accoglie questa verità – chi vive nella fede – anche davanti alle gravi contraddizioni che agitano il cuore dell'uomo o che sommuovono la vita e il mondo, può finalmente "sperare", può guardare al presente e al futuro con fiducia. Perché la positività che si rivela in Gesù viene scoperta come il segno che esprime e comunica efficacemente la positività ultima da cui tutto proviene e verso cui tutto va, oltre ogni apparenza contraria. La luce di verità e di bene, di razionalità e di amore che si manifestano in Gesù Cristo, si dilatano - come da un centro - verso ogni vita, verso la storia e il cosmo, rivelandone la positività di origine e di destinazione: "Cristo è...tutto in tutti, egli che tutto racchiude in sé secondo la potenza unica, infinita e sapientissima, della sua bontà - come un centro in cui convergono le linee - affinché le creature del Dio unico non restino estranee e nemiche le une con le altre ma abbiano un luogo comune dove manifestare la loro amicizia e la loro pace" (Massimo il Confessore, Mistagogia, I). La positività che l'uomo può incontrare in Gesù Cristo non solo dona un senso nuovo e una direzione decisiva alla sua vita (cf. Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, n. 26; Lett. enc. Deus caritas est, n. 1), ma grazie alla luce proveniente dalla sua resurrezione, diviene speranza anche di fronte al grande limite, al grande scoglio contro cui si infrange ogni aspettativa e impresa umana: la morte. Ecco perché la Tradizione della Chiesa, fin dagli inizi, ha inteso la fede stessa come una luce, come una luce che illumina di positività la vita degli uomini e del mondo intero: fides mundi lumen. Ed ecco perché, in modo ragionevole e non cieco, non sordo alle difficoltà, alle antinomie e ai pericoli di ogni tipo che caratterizzano l'esistenza umana, la fede in Gesù Cristo che proclama la Chiesa contiene già in sé una speranza. La fede infatti apre una luce positiva sul futuro proprio a partire dalla caparra di verità e di bene – una verità ed un bene più forti di ogni limite - che conosce e riceve da Dio nel presente. Questa caparra di verità e di bene, di logos e di agape, che diviene accessibile in Cristo, invita ad una ragionevole speranza, riempiendo il cuore dell'uomo di gratitudine per il dono ricevuto. E poiché non vi è nulla che spinga ad amare come il sentirsi grati per un grande amore ricevuto, questo dono muove a sua volta l'uomo dalla gratitudine all'amore (cf. Tommaso d’Aquino, De rationibus fidei, 5). Questo amore, prima ricevuto da Dio e poi donato, prende il nome di "carità". La carità è infatti la vita dell'uomo che diviene azione operosa grazie alla fede in Gesù Cristo e al sostegno del Suo Spirito. È gratitudine verso Dio che diviene dono, fino al sacrificio totale di sé, per amore dei fratelli. Vi è infatti una sorta di "strabismo" congenito alla fede cristiana. Quanto più – realmente, e non solo a parole o in un formalismo rituale – l'uomo guarda a Dio e si lascia guardare da lui, tanto più egli diviene capace di guardare con familiarità fino all'amore chi gli sta accanto, il quale da estraneo diviene "prossimo". Si tratta di un amore operoso e teso a condividere i bisogni del prossimo, incline ad accompagnare e a sovvenire, non indifferente alle sorti dei vicini come dei lontani. Un amore che tende a dilatare le dimensioni del cuore umano secondo le dimensioni del cuore di Dio. Familiarità, amore e condivisione danno sostanza operativa alla fede, la quale è chiamata attuarsi, nella speranza, attraverso la carità: fides quae per caritatem operatur, come ci richiama la lettera di Paolo ai cristiani di Galazia (Gal 5, 6). La fede è cioè "intimamente formata dall'amore e portata a compimento nel senso escatologico dalla speranza nella vita eterna" (G. L. Müller, Dogmatica cattolica, Cinisello Balsamo 1999, p. 980): fides, caritate et spe formata (cf. Rm 5, 1-5). Proprio questa "forma" della fede, che si attua pienamente nell'uomo, è ciò che, fin dagli inizi della Chiesa (cf. Tertulliano, Apologia, 39, 7), più ha introdotto e convinto gli uomini alle verità che essa proclama. Questa affascinante operosità si nutre di una circolarità ininterrotta fra verità e amore, la quale a sua volta rinvia alla originaria circolarità di logos e agape, circolarità su cui si fonda e di cui è impregnata la realtà tutta.
5. La vita in Cristo come vita nella fede ecclesiale: “io ma non più io”
A questo punto, vorrei offrire un cenno ulteriore riguardante la natura stessa della fede e le implicazioni che ne derivano per chi l’accoglie. La fede nella sua sostanza profonda è relazione dell’uomo con Dio “Padre nostro”, il quale concentra la sua Rivelazione in Gesù Cristo e la perpetua grazie al dono dello Spirito Santo. Mediante la fede siamo resi "figli di Dio" nel suo Figlio Unigenito (cf. Gal 3, 26). Essa introduce perciò l’uomo alla comunione con il Dio trinitario, collocandolo vitalmente all’interno di una circolarità di Logos e agape che rivelano ed inverano altresì l’umana natura, la quale è razionale e relazionale. La stessa natura razionale dell’uomo lo costituisce come essere in relazione in un modo del tutto peculiare nel cosmo, al punto da consentigli di entrare in rapporto libero e consapevole con il Logos originario, e ciò è possibile proprio perché “la sua ragione, è logos del Logos, pensiero del Pensiero fontale, dello Spirito creatore che permea tutto l'essere” (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, p. 29). Questa relazione libera e consapevole con il Logos “fontale”, che è inscritta nella creaturalità umana e che è all’origine del modo specifico con cui l’uomo può rapportarsi con tutti gli altri esseri, benché a causa delle conseguenze del peccato sia ferita e oscurata, grazie alla inclusione nella vita trinitaria dell’uomo che accoglie fino in fondo questo dono di Dio, riceve una valorizzazione, un approfondimento ed una connotazione del tutto inedite e particolari. In sintesi, possiamo dire che vi è un evento detonatore di questa intensificazione qualificante della relazione libera e consapevole dell’uomo con Dio: è l’avvenimento della Resurrezione di Gesù Cristo che, grazie alla sua diffusione operata dallo Spirito nella Pentecoste, si apre all’universale e diviene accessibile all’intera umanità. Tale avvenimento valorizza ed approfondisce la costitutiva e libera relazionalità, iscritta nella natura umana, connotandola come rapporto con Dio in Gesù Cristo, mediante il dono del Suo Spirito. Ciò comporta che la vita dell’uomo venga irrevocabilmente - anche se non sottraendola agli alti e bassi ed alle incognite della libertà umana - inclusa in un legame con Dio, un legame di intimità filiale che ad essa si offre come orizzonte totalizzante del suo libero conoscere e porsi nel mondo. Perciò, se la fede comincia e vive nella singola persona, essa non può attuarsi e realizzarsi in soggettività radicalmente autonome, bensì nella circolarità di un “noi” comunitario. “Pur vivendo nella carne, io vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha donato la sua vita per me” (Gal 2, 20), spiega san Paolo. Grazie a questa inclusione sono io a vivere - egli dice - ma nello stesso tempo “Cristo vive in me” (ibidem). “Io ma «non» più io”, commenta il Papa Benedetto XVI, spiegando questo passo paolino: "Paolo con queste parole non descrive una qualche esperienza mistica…no, questa frase è l'espressione di ciò che è avvenuto nel Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande. Allora il mio io c'è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l'inserimento nell'altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza". Prosegue il Papa: "La grande esplosione della risurrezione ci ha afferrati nel Battesimo per attrarci. Così siamo associati ad una nuova dimensione della vita nella quale, in mezzo alle tribolazioni del nostro tempo, siamo già in qualche modo introdotti. Vivere la propria vita come un continuo entrare in questo spazio aperto: è questo il significato dell'essere battezzato, dell'essere cristiano". E conclude: "Io, ma non più io: è questa la formula dell'esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo" (Veglia pasquale nella notte santa, 15 aprile 2006). Perciò la vita vissuta nella fede è strappata ad un solipsismo individualista e si concretizza nell'identità nuova di un "io" relazionato ad un "noi", il cui corpo consiste nella persona di Cristo Risorto e di coloro che hanno accettato di appartenergli nel sacramento del Battesimo: questa è la Chiesa. Per tale motivo la fede cristiana, se vuole essere fedele a ciò che Dio stesso ha realizzato in Gesù Cristo, non può che essere fede "ecclesiale". Questa è la sua autentica natura. Fede “ecclesiale” significa fede vissuta in questo nuovo soggetto che ci rende "uno" (eis) in Lui. “Uno”, vale a dire un solo soggetto nel quale vivo certamente io stesso, con il mio volto personale, ma la cui identità si definisce in rapporto a quella nuova soggettività, capiente all'infinito e destinata e ricapitolare in sé il mondo intero (anakefalaiosis), che è Cristo Risorto.
6. Uno sguardo e un’azione nuovi: ortodossia e ortoprassi
Tale nuova identità riguarda l'ontologia dell'uomo ed è così reale che tende a qualificarsi e ad esprimersi con uno sguardo e un cuore nuovi, in un movimento che plasma “tutta l’esistenza umana sulla radicale novità della risurrezione. Nella misura della sua libera disponibilità, i pensieri e gli affetti, la mentalità e il comportamento dell’uomo vengono lentamente purificati e trasformati” (Benedetto XVI, Lett. Ap. Porta fidei, 6). La “fede…diventa [così] un nuovo criterio di intelligenza e di azione che cambia tutta la vita dell’uomo” (ibidem) e lo rende sempre più fedele al suo essere immagine di Dio. Dunque, se credere significa aderire a Dio che si rivela e così, in qualche modo e incoativamente, iniziare a guardare il mondo "con gli occhi di Dio", tale sguardo si rende presente ed attuale in ogni tempo mediante lo sguardo del Corpo Risorto di Cristo nel mondo, cioè della Chiesa. Ecco allora a quale livello – non ideologico, né collettivista in un senso spersonalizzante ed alienante – si pone "l'obbedienza della fede" (Rm 16, 26), la quale - benché trovi spesso reticente la libertà umana - è in realtà immedesimazione con questo sguardo e con questi occhi nuovi che vivono nel Cristo Risorto e nel suo Corpo. È un vedere ed un pensare "secondo Cristo" e vedere e pensare "in Lui" tutte le cose. La fede implica allora un’obbedienza che, se è così intesa, non è mortificante per la libertà, né è supina o va subita, ma chiede di essere liberamente assunta, esige una sequela che provoca, coinvolge e valorizza tutta la libertà umana. La fede cristiana invita ad una immedesimazione con uno sguardo ed un cuore vivi, e in essa vi è tutto lo spazio per un dialogo drammatico, sia fra la libertà di Dio e quella dell’uomo, sia fra le rispettive libertà degli uomini. Proprio a tale livello si colloca la necessaria e inseparabile relazione di ortodossia e di ortoprassi che richiama la Chiesa. Proprio perché questa immedesimazione muove nello stesso tempo la ragione e tutta la libertà dell’uomo, l’adesione di fede, a cui sollecita la vita nuova in Cristo esige una coerenza che è insieme noetica ed etica. La fede, infatti, da una nuova mentalità (nous) genera un comportamento (praxis) nuovo. Alla sequela di questa novità fa riferimento san Paolo, quando descrive la vita nella fede come un’ "obbedienza di cuore" (Rm 6, 17), come un "essere consegnati ad una forma di insegnamento" (typon didakés) peculiare, a quella nuova "regola" di vita e di pensiero che sgorga dal Cristo Risorto e che vive oggi nel cuore della Chiesa. Non si tratta di un rigido allineamento o di una costrizione della libertà, riguardante alcune strategiche prese di posizione, ma di una comunione di vita, che certo ha una sua strutturazione gerarchica, ma la cui sostanza ed espressione è chiamata sempre ad assumere la forma esigente della verità e dell’amore. In questa comunione, gli uomini entrano in familiarità con Dio e perciò non possono rimanere estranei gli uni agli altri: lasciandosi prendere per mano da Dio, sono chiamati a prendersi per mano e ad accompagnarsi gli uni con gli altri. In modo poetico, così ha espresso questa familiarità e cammino comune lo scrittore Charles Péguy: “Non ci si salva da soli. Nessuno ritorna da solo alla casa del Padre. Ciascuno dona la sua mano all’altro. Il peccatore stringe la mano al santo e il santo stringe la mano di Gesù…”. La communio vitae che viene da Dio non lascia l’uomo fermo sulle sue posizioni, ma lo sollecita ad un continuo esodo da se stesso verso orizzonti di umanità sempre accresciuti “in un cammino mai compiutamente terminato in questa vita” (Benedetto XVI, Lett. Ap. Porta fidei, 6). È un cammino dello sguardo e del cuore che trascina con sé l’intera esistenza e tende a coinvolgere come compagni di strada, nella verità e nell’amore, tutti coloro che accettano di essere docili alle più nobili aspirazioni del loro animo. Così, in ogni tempo e generazione, si documenta e si perpetua un nuovo inizio del Regno di Dio, quella pienezza (pleroma) di vita nuova che sgorga dalla Resurrezione di Cristo e si diffonde grazie al Suo Spirito.
7. Cristo, “stella del mattino” e luce della fede
Comprendiamo ora in modo ben più profondo quanto dicevamo all'inizio, riguardo alla luce che viene dalla fede in Gesù Cristo. È una luce che promana dalla sua umanità risorta e getta una luce benefica, autenticamente umana, sulla nostra esistenza. In quel buio che, specialmente in certi frangenti storici, ci può sembrare il mondo, questa luce rappresenta un orientamento sicuro. Lo stesso libro dell'Apocalisse allude a Gesù parlando della "stella del mattino" (Ap 2, 28): questa stella annuncia la fine della notte e l'inizio dell'aurora, l'avvento di un nuovo giorno, di una nuova stagione del tempo. Aprendo i nostri occhi alla fede, lasciamo che questa luce invada di nuova speranza il cuore e riempia di nuove opere le nostre mani. Lasciamoci prendere per mano da Dio, dal suo figlio Gesù, prendiamoci per mano gli uni con gli altri e, ben consapevoli delle nostre povertà, lasciamoci condurre da questa luce buona verso il nuovo giorno che, da sempre, Dio non smette di apparecchiare per noi.
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