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La natura teologica delle Commissioni Dottrinali e
il compito dei Vescovi come maestri della fede

Relazione del Card. Gerhard L. Müller

 (Esztergom, 13 gennaio 2015)

 

Carissimi confratelli nell’episcopato!

Sono lieto di incontrarvi in questa terra così ricca di storia e di vita! Come non pensare al bel fiume Danubio che l’attraversa dividendola idealmente in due parti. Proprio nel mezzo troviamo la capitale, Budapest, a sua volta frazionata in due dal Danubio: da una parte vi è Pest, la città bassa, commerciale, frenetica di attività; dall’altra Buda, la città alta, residenziale, elegante ed affascinante, nella quale la presenza della Cattedrale di Santo Stefano ci richiama l’anima cattolica di questa terra.

Sempre sulle rive del Danubio troviamo Esztergom, il cuore storico dell’Ungheria, città nella quale oggi ci troviamo, adagiata sulle colline che spalleggiano il fiume, e nella quale risalta subito l’imponenza della Co-cattedrale, dedicata a Nostra Signora e Sant’Adalberto. Entrambe queste belle Chiese cattedrali costituiscono un ideale e permanente slancio verso l’alto di questi territori, che la presenza del Danubio ricollega a tanta parte della nostra Europa.

In fondo, questi luoghi sono la metafora della vita di noi tutti, una vita spesso divisa in due parti, l’una sbilanciata verso la terra e l’altra proiettata verso il cielo. Noi vorremmo che questa parte, quella che ci sospinge verso l’alto, sia l’orizzonte e la direzione di tutto ciò che succede nella nostra esistenza più legata alla terra. È un po’ quello che accade anche a noi Vescovi, spesso indaffarati in mezzo a mille incombenze e questioni pratiche, eppure chiamati a sospingere tutto ciò che facciamo verso l’alto e, così facendo, a trascinare verso l’alto anche tutto il popolo di Dio affidato alle nostre povere forze. Considero perciò provvidenziale l’esserci ritrovati proprio qui per incontrare le Commissioni Dottrinali delle Conferenze Episcopali Europee. Vorrei sin d’ora ringraziare il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest e Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), per la sua generosa ospitalità.

La dottrina della fede, lungi dall’essere un sistema astratto e cristallizzato di idee e di norme, è anzitutto al servizio della vita, della vita buona che viene da Dio, della vita pienamente umana, al servizio della vita della Chiesa e di una vita più degna per l’uomo. Essa ci è data per sospingere tutto ciò che è legato alla terra verso l’alto.

Vogliamo così ritrovarci per lasciare che di nuovo, e con più slancio, siamo innalzati verso quelle altezze che la dottrina ci indica con certezza, e che ritroviamo vive e fresche nell’esistenza quotidiana del Popolo di Dio, chiamato ad essere nello stesso tempo fedele a Dio ed a questa terra che ha ricevuto in dono, per costruire la città di Dio nella città dell’uomo. È questo il grande compito affidato al nostro munus episcopale e di cui le Commissioni Dottrinali si rendono interpreti con un servizio del tutto particolare.

Per cominciare il nostro incontro, vorremmo in primo luogo fare memoria del cammino già percorso fino ad oggi con l’istituzione delle Commissioni Dottrinali in seno alle varie Conferenze Episcopali. Con l’Istruzione del 23 febbraio 1967 la Congregazione per la Dottrina della Fede chiedeva alle Conferenze Episcopali di costituire al loro interno una Commissione Dottrinale che “vigilerà sugli scritti che vengono editi, favorirà l’autentica scienza religiosa [e] darà la sua collaborazione ai Vescovi nel giudicare i libri”. Successivamente, con la lettera circolare del 10 luglio 1968 proponeva alcune ulteriori indicazioni per una migliore attività delle stesse Commissioni Dottrinali. Infine, nella sua lettera del 23 novembre 1990 ai Presidenti delle Conferenze Episcopali, la Congregazione è tornata sull’argomento per richiamare e precisare alcuni aspetti al riguardo. Sulla scia di questi documenti ufficiali, vi propongo ora alcune considerazioni circa la natura teologica delle Commissioni Dottrinali e il compito dei Vescovi come maestri della fede. Per rispondere alla problematica contenuta in questa tematica, cercherò di riflettere in primo luogo sul senso teologico del Magistero in relazione alla verità e alla salvezza (I), al compito dei Vescovi circa il munus docendi (II) e, infine, alla natura specifica delle Commissioni Dottrinali (III).

I. Il senso teologico della funzione dottrinale nella Chiesa

A fondamento del Magistero sta un servizio, che è riflesso e partecipazione specifica al ministero salvifico di Gesù Cristo, Servitore e Redentore (cf. Lc 22, 27). Nel quarto Vangelo Gesù riassume la sua missione con queste parole: “Io sono nato per questo e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18, 37). Tale testimonianza è inscindibilmente una attestazione irrefragabile della verità rivelata come Parola veramente divina (cf. 1 Ts 2, 13; Eb 1, 1-2) e l’evento salvifico definitivo. Il nesso intimo fra verità e salvezza è affermato dall’apostolo Paolo quando scrive che Dio “vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2, 4). Altrove l’Apostolo rende grazie a Dio per i credenti, perché Dio li “ha scelti fin da principio per la salvezza nella santificazione dello Spirito e nella fede della verità” (2 Ts 2, 13). Nel contempo, l’Autore sacro non esita a parlare nel versetto precedente della condanna di “tutti quelli che non hanno creduto alla verità” (2 Ts 2, 12). Possiamo dire in tal senso che la rivelazione della verità divina in Gesù Cristo sollecita da parte dell’uomo una opzione spirituale decisiva, dalla quale dipende la sua sorte eterna.

Dopo aver evidenziato, almeno schematicamente, il nesso fra la salvezza e la conoscenza della verità rivelata, nonché l’adesione personale ad essa, appare più chiaramente la necessaria funzione del Magistero. Proprio perché Dio vuole che gli uomini siano salvati mediante l’adesione intima alla verità rivelata, e quindi al Figlio di Dio stesso (cf. Gv 14, 6), il Signore Gesù ha dotato la sua Chiesa di un organo specifico in grado di garantire la sua permanenza nella fede salvifica trasmessa dagli Apostoli e destinata a tutti i popoli di tutti i tempi. Per questo, Cristo, che è la Verità, ha voluto rendere la sua Chiesa partecipe della propria infallibilità. L’infallibilità partecipata della Chiesa in materia di fede e di costumi consegue dal fatto che il suo capo invisibile è Cristo stesso, unico Maestro di tutti (cf. Mt 23, 8). Bisogna ribadire qui che la teologia, poiché vive della fede, non deve considerare “il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco, un limite alla sua libertà, ma, al contrario, come uno dei suoi momenti interni, costitutivi, in quanto il Magistero assicura il contatto con la fonte originaria, e offre dunque la certezza di attingere alla Parola di Cristo nella sua integrità”[1].

In questo contesto pare evidente la dimensione eminentemente pastorale della custodia della retta fede. Una cura pastorale che vuole veramente essere al servizio della salvezza eterna delle persone suppone una vigilanza costante circa la purezza della fede. Altrimenti, non sarebbe più un’autentica cura animarum, ma una pastorale del “wellness” o del comfort, con qualche supplemento in termini di “senso” o di “valori”, ma senza un reale impegno cristiano. Se i fedeli hanno diritto di ricevere un kerigma ortodosso da parte dei loro pastori, è perché da questo dipende la loro salvezza. Un Vangelo adulterato non salva nessuno. Al riguardo, è interessante osservare che, parlando del suo insegnamento a Corinto, San Paolo dice ai Corinzi che ricevono la salvezza dal Vangelo solo “se lo ritenete nei termini con cui ve l’ho annunziato; altrimenti avreste creduto invano” (1 Cor 15, 2).

II. La funzione dottrinale dei Vescovi

L’infallibilità partecipata della Chiesa si traduce concretamente nell’esistenza di una funzione specifica in essa, ovvero quella del Magistero, che la rende capace di attingere con certezza alle divine Scritture e alla Sacra Tradizione, le quali formano insieme la “regola suprema della propria fede”[2]. Il Catechismo della Chiesa cattolica insegna al riguardo: “La missione del Magistero è legata al carattere definitivo dell’Alleanza che Dio in Cristo ha stretto con il suo popolo; deve salvaguardarlo dalle deviazioni e dai cedimenti, e garantirgli la possibilità oggettiva di professare senza errore l’autentica fede. Il compito pastorale del Magistero è quindi ordinato a vigilare affinché il popolo di Dio rimanga nella verità che libera. Per compiere questo servizio, Cristo ha dotato i Pastori del carisma dell’infallibilità in materia di fede e di costumi”[3]. L’esercizio di questo carisma tuttavia è diversificato per quanto riguarda sia le modalità, sia le persone che lo esercitano.

A livello della Chiesa universale, occorre menzionare innanzitutto la missione specifica del Successore di Pietro di confermare i suoi fratelli nella fede (cf. Lc 22, 32). Non è qui il luogo di trattare della dottrina dell’infallibilità pontificia, ma di sottolineare la responsabilità peculiare e suprema del Romano Pontefice circa la custodia della sana dottrina. Nelle sue “Considerazioni” del 1998 sul primato del Successore di Pietro, la Congregazione per la Dottrina della Fede afferma che “il Romano Pontefice è — come tutti i fedeli — sottomesso alla Parola di Dio, alla fede cattolica ed è garante dell'obbedienza della Chiesa e, in questo senso, servus servorum. Egli non decide secondo il proprio arbitrio, ma dà voce alla volontà del Signore, che parla all'uomo nella Scrittura vissuta ed interpretata dalla Tradizione; in altri termini, la episkopè del Primato ha i limiti che procedono dalla legge divina e dall'inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione.  Il Successore di Pietro è la roccia che, contro l’arbitrarietà e il conformismo, garantisce una rigorosa fedeltà alla Parola di Dio: ne segue anche il carattere martirologico del suo Primato”[4]. Con queste parole viene espressa nuovamente la dimensione ministeriale del Magistero. Esso, si legge nella Dei Verbum, “non è superiore alla Parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio”[5].

Per tali motivi, se da una parte è vero che “per il carattere supremo della potestà del Primato, non v'è alcuna istanza cui il Romano Pontefice debba rispondere giuridicamente dell'esercizio del dono ricevuto: «prima sedes a nemine iudicatur»”, dall’altra,  tuttavia, ciò non significa che il Papa abbia un potere assoluto[6]. In tal senso è corretto parlare del Magistero come di un’ancilla Verbi Dei, un servizio parimenti reso alla verità della divina Rivelazione, cioè il deposito della fede, che il Magistero ha per compito di custodire gelosamente e di esporre fedelmente[7], con vigile opera e mediante mezzi convenienti[8]. In effetti, “non abbiamo alcun potere contro la verità, ma per la verità”, come afferma lo stesso apostolo Paolo (2 Cor 13, 8).

Il Dicastero che ho l’onore e l’onere di dirigere fornisce un aiuto speciale alla missione petrina per ciò che riguarda la dottrina sulla fede e sulla morale. “Ne consegue che i documenti di questa Congregazione approvati espressamente dal Papa partecipano al magistero ordinario del successore di Pietro”[9]. Ma il compito della Congregazione, sancito istituzionalmente, non è soltanto di assistere il Vescovo di Roma nel suo compito di Supremo Pastore della Chiesa universale. La Congregazione, si legge nella Costituzione apostolica Pastor bonus, “è di aiuto ai Vescovi, sia singoli che riuniti nei loro organismi, nell’esercizio del compito per cui sono costituiti come autentici maestri e dottori della fede e per cui sono tenuti a custodire e a promuovere l’integrità della medesima fede”[10]. In realtà, né il ministero petrino né il ruolo specifico svolto dalla Congregazione per la Dottrina della fede devono essere isolati dal munus docendi affidato sia a ogni singolo Vescovo, sia al Collegio episcopale nel suo insieme. “Tutti i Vescovi, infatti, devono promuovere e difendere l’unità della fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa […], e promuovere ogni attività comune a tutta la Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti gli uomini la luce della piena verità”, così la Costituzione dogmatica Lumen gentium[11]. Il motivo di fondo è che “la cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della terra appartiene al corpo dei pastori, ai quali tutti, in comune, Cristo diede il mandato, imponendo un comune dovere”[12]. Nessuno come l’apostolo Paolo ha parlato e vissuto con intensità tale “preoccupazione per tutte le Chiese”, che deve animare ogni successore degli apostoli (cf. 2 Cor 11, 28).

Se è vero che “tutti i Vescovi sono partecipi, in gerarchica comunione, della sollecitudine della Chiesa universale”[13], tale affermazione vale in particolare nell’ambito dell’insegnamento, il primo compito affidato ai Pastori. Si potrebbero citare numerosi testi circa la responsabilità dei Vescovi in materia dottrinale[14]. La vigilanza per la fede e la morale dei fedeli è una fondamentale preoccupazione pastorale ed essa concerne tutti i Pastori della Chiesa. In effetti, “nelle Chiese particolari spetta al vescovo custodire ed interpretare la Parola di Dio e giudicare con autorità ciò che le è conforme o meno. L’insegnamento di ogni vescovo, preso singolarmente, si esercita in comunione con quello del Pontefice Romano, Pastore della Chiesa universale, e con gli altri vescovi dispersi per il mondo o riuniti in Concilio ecumenico. Questa comunione è condizione della sua autenticità”[15]. Nelle sue lettere, sant’Ignazio di Antiochia offre a tal proposito un magnifico esempio della episkopè del buon Pastore che sa anche mettere in guardia il suo gregge davanti alle piante velenose, cioè le eresie, che egli chiama anche “l’erba del diavolo”[16]. Sembra ovvio del resto che parlare di un diritto del Popolo di Dio a ricevere il messaggio del Vangelo nella sua purezza e nella sua integralità ha senso soltanto se esiste un corrispondente dovere da parte dei Pastori. Al riguardo, afferma Papa Francesco, è tramite il dono della successione apostolica che “risulta garantita la continuità della memoria della Chiesa ed è possibile attingere con certezza alla fonte pura da cui la fede sorge. La garanzia della connessione con l’origine è data dunque da persone vive, e ciò corrisponde alla fede viva che la Chiesa trasmette. Essa poggia sulla fedeltà dei testimoni che sono stati scelti dal Signore per tale compito. Per questo il Magistero parla sempre in obbedienza alla Parola originaria su cui si basa la fede ed è affidabile perché si affida alla Parola che ascolta, custodisce ed espone”[17].

III. La natura specifica delle Commissioni Dottrinali

Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto l’opportunità e la fecondità di raggruppamenti, organicamente congiunti, fra i Vescovi di una stessa nazione o regione[18]. Nel 1966, Papa Paolo VI, con il Motu proprio Ecclesiae Sanctae, impose successivamente la costituzione delle Conferenze Episcopali laddove non esistevano ancora. Essendo le Commissioni Dottrinali delle commissioni appartenenti alle Conferenze dei Vescovi, bisogna partire da queste ultime per inquadrare correttamente le Commissioni Dottrinali dal punto di vista teologico ed ecclesiologico. La Costituzione Lumen gentium ha visto nelle Conferenze Episcopali una concreta applicazione dell’“affetto collegiale” (collegialis affectus) che deve segnare la collaborazione nel seno del Collegio Episcopale[19].

In questo contesto va tematizzato l’auspicio espresso dal Santo Padre nell’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, cioè che sia esplicitato maggiormente “uno statuto delle Conferenze Episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale”[20]. Per essere compreso correttamente, tale auspicio deve essere considerato e approfondito alla luce dell’ecclesiologia cattolica, ed in particolare dei documenti del Magistero nei quali la tematica delle Conferenze Episcopali è stata trattata in modo specifico. Fra questi, si pensa specialmente al Motu proprio Apostolos suos di Papa Giovanni Paolo II, al quale rinvia d’altronde lo stesso testo appena citato della Evangelii gaudium (cf. nota 37).

Nel Motu proprio Apostolos suos Papa Giovanni Paolo II ha voluto chiarire la natura teologica e giuridica delle Conferenze dei Vescovi. Questo testo distingue in particolare l’azione collegiale del corpo dei Vescovi nel suo insieme, quale espressione dell’unità dell’Episcopato e della sua sollecitudine per tutta la Chiesa, e l’azione a livello di singole Chiese particolari e dei loro raggruppamenti. Sebbene l’esercizio congiunto di certe funzioni pastorali a livello regionale, nazionale ed internazionale sia animato da uno spirito collegiale, “tuttavia esso non assume mai la natura collegiale caratteristica degli atti dell’ordine dei Vescovi in quanto soggetto della suprema potestà su tutta la Chiesa. È ben diverso, infatti, il rapporto dei singoli Vescovi rispetto al Collegio episcopale dal loro rapporto rispetto agli organismi formati per il suddetto esercizio congiunto di alcune funzioni pastorali”[21]. Tenendo conto del fatto che il Collegio esiste per volontà del Signore[22], mentre i raggruppamenti di Chiese particolari sono di istituzione ecclesiastica, soltanto la relazione di ogni Vescovo col Collegio episcopale è di diritto divino. Tutto questo implica che, mentre le Conferenze Episcopali e le commissioni che ne fanno parte possiedono una natura giuridica e organizzativa propria, la loro rilevanza teologica ed ecclesiologica, e quindi anche la loro autorità, provengono non da queste stesse strutture, ma dal fatto che sono costituite da Vescovi, membri dell’unico Collegio episcopale.

Tali precisazioni e distinzioni non impediscono di riconoscere l’utilità di un esercizio congiunto del ministero episcopale a livello delle Conferenze dei Vescovi, in particolare nell’ambito dottrinale. In effetti, “la voce concorde dei Vescovi di un determinato territorio, quando, in comunione col Romano Pontefice, proclamano congiuntamente la verità cattolica in materia di fede e di morale, può giungere al loro popolo con maggiore efficacia e rendere più agevole l’adesione dei loro fedeli col religioso ossequio dello spirito a tale magistero”[23].

Per raggiungere meglio questo scopo, a livello di raggruppamento di Chiese locali, occorrono strumenti adeguati. A quel punto si intravede senza difficoltà la natura delle Commissioni Dottrinali e la loro importanza. Esse “agiscono su incarico e per mandato delle Conferenze Episcopali, e costituiscono un organo consultivo istituzionalizzato di aiuto alle medesime Conferenze Episcopali ed ai singoli Vescovi, nella loro sollecitudine per la dottrina della fede”[24]. Il legame stretto delle Commissioni Dottrinali con il magistero ordinario dei Vescovi in quanto maestri della fede spiega perché la Congregazione per la Dottrina della Fede ha sempre chiesto, dal 1967 in poi, che i membri veri e propri delle Commissioni Dottrinali siano dei Vescovi. Nella lettera del 23 novembre 1990 si è precisato al proposito: “Sono membri della Commissione Dottrinale i Vescovi eletti dalla Conferenza Episcopale. Esperti possono essere consultati di volta in volta, ma il loro ruolo deve essere distinto da quello dei Vescovi, che sono i soli responsabili di eventuali pronunciamenti della Commissione, poiché si tratta di una Commissione Episcopale”[25].

L’articolazione fra il compito delle Commissioni Dottrinali e quello della Congregazione per la Dottrina della Fede è basato sul principio di una sana sussidiarietà. San Paolo paragona la Chiesa con il corpo umano nel quale ogni membro, invece di sostituirsi agli altri, agisce secondo la sua natura e collabora armoniosamente con le altre membra in vista del bene vicendevole (cf. 1 Cor 12, 12-30). È più consono alla natura comunionale della Chiesa che le questioni dottrinali sorte in qualche regione, ed in particolare il problema del dissenso, vengano affrontate – nella misura del possibile – a livello locale o regionale, ovviamente sempre in accordo con l’insegnamento magisteriale della Chiesa universale. A tale proposito le Commissioni Dottrinali possono offrire un prezioso aiuto agli Episcopati. Non sarebbe onesto rimproverare ai Dicasteri della Curia Romana un loro eccessivo centralismo e al contempo non intraprendere iniziative opportune a livello delle Conferenze Episcopali. Esiste qui l’opportunità per una giusta decentralizzazione, come auspicata dal Santo Padre[26]. Di fatto, “un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria” [27].

Non è indifferente che, per rafforzare la collaborazione fra la Congregazione per la Dottrina della Fede e le Commissioni Dottrinali, l’allora Cardinale Ratzinger abbia preso l’iniziativa di riunire regolarmente i Presidenti di dette Commissioni a livello continentale, ormai più di trent’anni fa. Il primo incontro si svolse a Bogotá nel 1984; seguirono gli incontri a Kinshasha (1987), a Vienna (1989), a Hong-Kong (1993), a Guadalajara (1996), a San Francisco (1999) e a Dar es Salaam (2009). Il Cardinale Ratzinger e poi il Cardinale Levada hanno presieduto personalmente tali incontri, offrendovi interventi lungimiranti sulle sfide contemporanee in campo dottrinale. Questi incontri manifestano la volontà da parte della Congregazione di sostenere gli Episcopati locali nel loro impegno per la diffusione e la tutela della sana dottrina. Una delle caratteristiche originali di questi incontri consiste nel fatto che sono i Superiori della Congregazione a spostarsi nei vari Continenti. Si vuol sottolineare in questo modo l’importanza delle istanze locali e regionali e la loro responsabilità nell’affrontare le questioni dottrinali.

Esiste innegabilmente una certa connaturalità fra la Congregazione per la Dottrina della Fede e le Commissioni Dottrinali, per quanto riguarda la loro finalità. Anche se operano in modo e su scale diversi, ambedue sono strumenti di cui la Chiesa si è dotata lungo i secoli per svolgere con maggiore efficacia la missione di annunciare il Vangelo a tutti. È vero tuttavia che l’autorità specifica di cui gode la Congregazione e la dimensione universale del suo magistero partecipato la distinguono essenzialmente dalle Commissioni Dottrinali. Queste ultime “non hanno l’autorità di porre atti di magistero autentico né a nome proprio né a nome della Conferenza neppure per incarico di questa”[28]. Inoltre, “la Commissione Dottrinale non può pronunciarsi pubblicamente a nome di tutta la Conferenza, se non ne ha avuto l’autorizzazione esplicita”[29]. In effetti, “la natura stessa della funzione dottrinale dei Vescovi richiede che, se la esercitano congiuntamente riuniti nella Conferenza Episcopale, ciò avvenga nella riunione plenaria”[30]. Infine, “perché le dichiarazioni dottrinali della Conferenza dei Vescovi […] costituiscano un magistero autentico e possano essere pubblicate a nome della Conferenza stessa, è necessario che siano approvate all’unanimità dai membri Vescovi oppure che, approvate nella riunione plenaria almeno dai due terzi dei Presuli che appartengono alla Conferenza con voto deliberativo, ottengano la revisione (recognitio) della Sede Apostolica”[31]. Detto questo, bisogna comunque sottolineare le similitudini che devono segnare il rapporto fra la Congregazione e le Commissioni Dottrinali. Ad esempio, una delle funzioni della Congregazione è quella di verificare i documenti pubblicati dagli altri Dicasteri della Curia Romana per quanto riguarda la fede e i costumi[32]. In modo analogo, “le Commissioni Dottrinali […] collaborano con le altre Commissioni delle Conferenze Episcopali, specialmente con quelle investite di responsabilità nel settore educativo (seminari, università e scuole), catechistico, liturgico ed ecumenico, esprimendo il proprio competente parere su tutto ciò che ha rilevanza dottrinale. Le altre Commissioni, di norma, non dovrebbero pubblicare documenti importanti senza aver ricevuto anche il parere della Commissione Dottrinale, per quanto è di sua competenza”[33].

Concludendo, vorrei richiamare due aspetti fondamentali per il nostro essere ecclesiale: il nostro essere “comunione” ed insieme “Popolo di Dio”. Nulla come la communio, che identifica la Chiesa fin nelle sue radici, aiuta a comprendere la natura di questo Popolo che tutti noi siamo. Anzi, il concetto di “comunione”, lungi dall’oscurare quello di Popolo di Dio, mostra il volto autentico di questo Popolo, che raccoglie in unità la legittima diversità. La parola “comunione” dice che la nostra unità non può fare a meno della ricchezza plurale, come ci richiama ormai da tempo Papa Francesco, a cui è cara la figura del “poliedro”, nel quale le tante facce si compongono in armoniosa unità. È per questo che un’azione ecclesiale fedele alla comunione, rispettosa della natura profonda del Popolo di Dio, non può che esprimersi in termini di “sinergia”. Sinergia significa forza di un’opera comune, un’opera che vive della ricchezza di tutti i doni che ciascuno apporta, una ricchezza convergente nell’unità. Questa mi sembra infatti l’icona che meglio descrive ogni rapporto nella Chiesa ed anche i rapporti fra la Congregazione per la Dottrina della Fede e le Commissioni di cui siete i Presidenti o i Rappresentanti. I compiti propositivi assegnati alle Commissioni Dottrinali aprono un vasto campo per molteplici iniziative, che, se messe in atto, gioveranno all’intera Chiesa. Si può pensare alla divulgazione e al commento dei documenti del Magistero, alla preparazione di testi di valore scientifico e dottrinalmente sicuri, alla compilazione di una lista di libri approvati per l’insegnamento, alla stimolazione del lavoro teologico scientifico, coltivando a questo scopo mutue relazioni con i teologi e gli insegnanti delle Università e dei Seminari, o all’aiuto offerto ai singoli Vescovi nel compito di seguire e discernere la produzione teologica del proprio territorio, indicando loro una lista di esperti per l’esame dei libri. Tutto ciò ha l’unico scopo di aiutare ciascun Vescovo ad esercitare, con maggiore efficacia, l’affascinante ed oneroso compito di essere maestro della fede. Lasciamoci condurre sempre da Colui che è il nostro vero Maestro, Gesù Cristo, il “Testimone fedele e verace” (Ap 3, 14), Colui che suscita continuamente la nostra fede e la porta a compimento (cf. Eb 12, 2), per il bene del gregge a noi affidato da Cristo, buon Pastore.


[1] Francesco, Lettera enciclica Lumen fidei (29 giugno 2013), n. 36.
[2] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 21.
[3]  Catechismo della Chiesa cattolica, n. 890.
[4] Congregazione per la Dottrina della Fede, Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa (31 ottobre 1998), n. 7.
[5] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 10.
[6] Congregazione per la Dottrina della Fede, Il Primato del Successore di Pietro nel mistero della Chiesa (31 ottobre 1998), n. 10.
[7] Cf. Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica Pastor aeternus, cap. 4: DH 3070.
[8] Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 25.
[9] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum veritatis (24 maggio 1990), n. 18.
[10] Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Pastor bonus (28 giugno 1988), Art. 50.
[11] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 23.
[12] Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 23.
[13] Concilio Vaticano II, Decreto Christus Dominus, n. 5.
[14] Cf. ad esempio Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 25; ibid., Decreto Christus Dominus, nn. 12-14; Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Pastores gregis ( 16 ottobre 2003), n. 29.
[15] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum veritatis, n. 19.
[16] Cf. Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini, 10, 3; Lettera ai Tralliani, 6, 1; 11, 1; Lettera ai Filadelfiesi, 3, 1.
[17] Francesco, Lettera enciclica Lumen fidei, n. 49.
[18] Cf. Concilio Vaticano II, Decreto Christus Dominus, n. 37.
[19] Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 23.
[20] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), n. 32.
[21] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos (21 maggio 1998), n. 12.
[22] Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 22.
[23] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, n. 21.
[24] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 3.
[25] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 5.
[26] Cf. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, n. 16.
[27] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, n. 32.
[28] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, n. 23.
[29] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 6; cf. Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, Norme complementari, Art. 3.
[30] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, n. 23; cf.  ibid., Norme complementari, Art. 2.
[31] Giovanni Paolo II, Motu proprio Apostolos suos, Norme complementari, Art. 1.
[32] Giovanni Paolo II, Costituzione Apostolica Pastor bonus, Art. 54.
[33] Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera sulle Commissioni Dottrinali (23 novembre 1990), n. 11.

    

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