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Criteri teologici per una riforma della Chiesa e della Curia romana

Gerhard Müller

 

Alla Chiesa stanno a cuore il Vangelo, la verità, la salvezza. La storia ci ha insegnato che ogni volta che la Chiesa si è liberata dalla mentalità mondana e da modelli terreni di esercizio del potere, si è aperta la strada per il suo rinnovamento spirituale in Gesù Cristo, suo capo e fonte della vita. Il punto di riferimento dell’insegnamento, della vita e della costituzione della Chiesa non è il dominium dei re, ma il ministerium degli apostoli: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Corinzi, 1, 24).

Questo emerge in tutti i tentativi di riforma, in capite et in membris, come ad esempio nel rinnovamento gregoriano del secolo XI, nella riforma tridentina del XVI secolo, o nella nuova primavera della Chiesa con il concilio Vaticano II, in cui sono confluiti i movimenti di rinnovamento biblico, patristico, liturgico ed ecclesiologico dei secoli XIX e XX. Il potere temporale del Papa e dei vescovi principi si è talvolta sovrapposto alla missione spirituale della Chiesa. Nella liaison tra potere politico e servizio spirituale non di rado è emerso l’influsso corruttore di criteri improntati al potere e al prestigio. Ancora più devastanti furono i sistemi in epoca moderna delle Chiese di Stato, presenti ad esempio nel gallicanesimo, nel febronianesimo e nel giuseppinismo, nonché la sottomissione della Chiesa alla ragione di Stato attraverso il patronato reale negli imperi spagnolo e portoghese. La Chiesa però riceve il suo vero significato non da un consenso sociale, dalla funzione del cristianesimo come religione civile o da contatti con i rappresentanti del potere politico, ma dalla stessa Parola di salvezza rivolta agli uomini, specialmente ai poveri nelle periferie della vita.

Il Signore ha istituito la Chiesa come sacramento universale di salvezza per il mondo, affinché “tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità” (1 Timoteo 2, 4). La Chiesa non potrà capire se stessa e non potrà giustificarsi davanti al mondo secondo standard di potere, di ricchezza e di prestigio: la riflessione sulla natura e sulla missione della Chiesa di Dio è, quindi, la base e il presupposto di ogni vera riforma.

Di fronte alla fragilità degli uomini c’è sempre la tentazione di spiritualizzare la Chiesa, cioè di relegarla in un ambito di meri ideali e sogni – al di là dell’abisso della tentazione, del peccato, della morte e del diavolo, come se noi, per giungere alla gloria della risurrezione, non dovessimo attraversare la valle della sofferenza e del dolore. Secondo una certa analogia che è possibile stabilire con l’incarnazione del Verbo di Dio, la Chiesa forma un’unità interiore di comunità spirituale e assemblea visibile servendo così allo Spirito di Dio come segno e strumento di salvezza, allo scopo di continuare l’opera di Cristo tra gli uomini. La Chiesa, pertanto, è santa e santificante perché santificata da Dio; per quanto riguarda gli uomini nel loro pellegrinaggio di fede, essa, “sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento” (Lumen gentium, 8).

In questo senso, Benedetto XVI ha parlato della necessità di una Ent-Weltlichung della Chiesa, cioè di una sua liberazione da forme di mondanità. Papa Francesco ha decisamente continuato questo pensiero parlando della Chiesa povera e per i poveri: la Chiesa non deve mai cedere alla tentazione di una auto-secolarizzazione, adattandosi alla società secolare e a una vita senza Dio.

Nel discorso alla Curia per gli auguri di Natale del 2014 il Santo Padre ha sottolineato l’assoluta prevalenza della finalità spirituale della Chiesa su ogni mezzo terreno, che non deve mai diventare fine a se stesso. Questo discorso rappresenta un’esortazione spirituale e un esame di coscienza per tutta la Chiesa. Non sono la grandezza dei beni della Chiesa o il numero di dipendenti nelle nostre strutture amministrative la bussola di orientamento del rinnovamento della Chiesa; lo è, invece, lo spirito di amore nella cui forza la Chiesa serve gli uomini attraverso la predicazione, i sacramenti e la carità. La riforma della Curia romana, già discussa nelle congregazioni precedenti il conclave del 2013, deve essere esemplare per il rinnovamento spirituale di tutta la Chiesa.

La Curia non è una mera struttura amministrativa, ma essenzialmente un’istituzione spirituale radicata nella missione specifica della Chiesa di Roma, santificata dal martirio degli apostoli Pietro e Paolo: “Nell’esercizio della sua suprema, piena e immediata potestà sopra tutta la Chiesa, il Romano Pontefice si avvale dei dicasteri della Curia romana, che perciò compiono il loro lavoro nel suo nome e nella sua autorità, a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori” (Christus dominus, 9). Partendo da questa descrizione teologica, il concilio Vaticano II stesso ha stimolato una riorganizzazione della Curia conforme al tempo odierno.

La struttura organizzativa e il funzionamento della Curia dipendono dalla missione specifica del vescovo di Roma. Successore di Pietro, egli è il “perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli” (Lumen gentium, 23), istituito da Cristo per la sua Chiesa. Poiché soltanto alla luce della fede rivelata siamo in grado di distinguere la Chiesa da una qualsiasi comunità religiosa di indole meramente umana, così solo nella fede riusciamo a capire che il Papa e i vescovi godono di una potestà sacramentale e mediatrice della salvezza che ci collega con Dio. È proprio questa la qualità che distingue i pastori della Chiesa dalle altre forme di autorità che ogni comunità religiosa si dà per motivi sociologici e organizzativi.

Nella Chiesa locale, il vescovo, costituito dallo Spirito santo, non è un delegato o un rappresentante del Papa, ma è vicario e legato di Cristo, principio e fondamento di unità nella Chiesa a lui affidata. La dottrina del primato del Papa e della collegialità dei vescovi è da intendersi come espressione della comune sollecitudine per tutta la Chiesa, intesa nella sua qualità di communio ecclesiarum. Pertanto, il rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari non si può paragonare a quello che intercorre tra organizzazioni profane. La Chiesa universale non nasce come somma delle Chiese particolari, né le Chiese particolari sono mere succursali della Chiesa universale: esiste invece una mutua interiorità tra Chiesa universale e Chiese particolari. La Chiesa è il corpo di Cristo, è guidata e rappresentata dal collegio dei vescovi cum et sub Petro.

Il Papa, rendendo visibile l’unità e l’indivisibilità dell’episcopato e della Chiesa intera, presiede nel contempo alla Chiesa locale di Roma. A motivo dell’operato di Pietro come vescovo di Roma e, soprattutto, grazie al suo martirio, il primato è legato per sempre alla Chiesa di Roma. Come “il vescovo è nella Chiesa e la Chiesa nel vescovo” (Cipriano, Epistulae, 66, 8), così anche il vescovo di Roma non è mai pastore della Chiesa universale senza il suo legame con la Chiesa di Roma. Come il capo non può essere separato dal corpo, così il legame del vescovo di Roma con la Chiesa di Roma è indissolubile. Perciò, la Tradizione parla del primato “della Chiesa di Roma”. Il Papa non esercita il primato se non insieme alla Chiesa romana.

Capo visibile della Chiesa di Roma, il Papa è, nello stesso tempo, capo visibile di tutta la Chiesa. Per la speciale autorità (propter potentiorem principalitatem, Ireneo, Adversus haereses, III, 3, 3, 2) della fondazione da parte di Pietro e Paolo, ogni Chiesa deve concordare con quella di Roma nella fede apostolica. Così, le note essenziali della Chiesa: una, santa, cattolica e apostolica, a fortiori si trovano realizzate nella Chiesa romana. Sin dai tempi antichi, essa si chiama “santa romana Chiesa” – non tanto per la santità soggettiva del suo capo e delle sue membra, ma per la santità della sua missione specifica, che consiste nel preservare fedelmente e nel trasmettere integralmente la tradizione apostolica, il depositum fidei. Il primato della Chiesa di Roma non ha nulla a che fare con un qualsiasi dominio sulle altre Chiese; la sua natura interiore è, invece, quella di “presiedere nella carità” (Ignazio di Antiochia, Lettera ai romani, prologo), un servizio all’unità della fede e alla comunione di tutte le Chiese, per il bene dell’umanità intera.

Il ministero pastorale universale viene esercitato personalmente e direttamente, poiché il Papa nella sua persona è il successore di Pietro, sul quale il Signore ha voluto edificare la sua Chiesa. Il Papa, però, attua questo suo ministero con l’assistenza che la Chiesa romana gli presta. Nel corso della storia, a partire dai vescovi delle diocesi suburbicarie e dai presbiteri e diaconi più importanti della Chiesa di Roma, si è sviluppato il collegio cardinalizio. Così come il presbiterio, rappresentato dal consiglio presbiterale, aiuta il vescovo diocesano, il collegio cardinalizio è similmente il consilium presbiterale del Papa nel suo servizio pastorale universale. Secondo una disposizione di Giovanni XXIII, i cardinali, compresi i responsabili della Curia, devono ricevere la consacrazione episcopale; così essi fanno parte del collegio dei vescovi – fatto che è di non poca rilevanza, ad esempio, per le visite ad limina.

Pur con tutti i cambiamenti storici, è rimasta salda l’idea che la Chiesa romana collabora all’universale compito pastorale e dottrinale del Papa tramite il collegio cardinalizio. Gruppi consistenti di cardinali e vescovi nominati dal Pontefice formano gli organismi della Curia romana, ai quali viene assegnato un proprio ambito di competenza. Non si tratta di un’istanza intermediaria tra il Papa e i vescovi, in quanto la relazione tra Pontefice e vescovi, basata sulla collegialità episcopale, è immediata. I cardinali e i vescovi della Curia romana, infatti, sostengono il Papa nel suo servizio per l’unità cattolica, e mettono a sua disposizione tutti i mezzi adeguati, necessari per l’esercizio del suo ufficio pastorale e dottrinale. Il Sommo Pontefice, d’altra parte, non è limitato in nessun modo dall’azione della Curia, anzi viene da essa sostenuto nell’esercizio del primato affidato a lui come successore di Pietro in favore della Chiesa universale.

La modalità del lavoro nella Curia romana è collegiale – in analogia alla collegialità del presbiterio sotto la direzione del vescovo diocesano. Ogni responsabile degli organismi curiali è solo colui che presiede e rappresenta il suo dicastero, mentre tutti i padri delle riunioni ordinarie del dicastero stesso si assumono uguale responsabilità per il bene della Chiesa universale. È fondamentale, per la riforma della Curia, che essa sia intesa come una famiglia spirituale: tale carattere e il suo necessario orientamento pastorale sono garantiti dalla mutua cooperazione e dalla carità, dalla preghiera e dall’eucaristia, da ritiri e da impegni di pastorale e di predicazione.

In questo contesto, è importante che la Curia romana venga distinta dalle istituzioni civili dello Stato vaticano, le cui strutture sono soggette piuttosto alle leggi della pubblica amministrazione e garantiscono l’indipendenza politica della Chiesa. Anche il Sinodo dei vescovi non appartiene in senso stretto alla Curia romana: esso è l’espressione della collegialità dei vescovi in comunione con il Papa e sotto la sua direzione. La Curia romana invece aiuta il Papa nell’esercizio del suo primato per tutte le Chiese. Pertanto, la Curia e il Sinodo si distinguono già formalmente in quanto la Curia romana sostiene il Papa nel suo servizio per l’unità, mentre il Sinodo dei vescovi è espressione della cattolicità della Chiesa. Tutti i vescovi, infatti, partecipano della cura di tutte le Chiese. In concreto queste due missioni sono connesse l’una con l’altra.

Il Sinodo dei vescovi, le conferenze episcopali e le varie aggregazioni di Chiese particolari appartengono a una categoria teologica diversa dalla Curia romana. Solo chi pensa secondo schemi di potere, di influsso e di prestigio interpreta il rapporto organico di primato e episcopato come una lotta di competenze. Lo Spirito santo, invece, verso cui noi non dobbiamo mai chiudere le nostre menti, crea armonia tra i poli dell’unità e della molteplicità, tra la Chiesa universale e le Chiese particolari, come pure all’interno delle singole Chiese particolari. Lo spirito del mondo, tuttavia, semina conflitti e sfiducia. Favorire una giusta decentralizzazione non significa che alle conferenze episcopali viene attribuito più potere, ma solo che esse esercitano la genuina responsabilità loro spettante in base alla potestà episcopale di magistero e di governo dei loro membri, sempre naturalmente in unione con il primato del Papa e della Chiesa romana.

Una vera riforma della Curia romana e della Chiesa ha l’obiettivo di render più luminosa la missione del Papa e della Chiesa nel mondo di oggi e di domani. La Chiesa si vede sfidata dal secolarismo globale, che, con un radicalismo finora sconosciuto, tende a definire l’uomo senza Dio, chiudendo la porta alla trascendenza e distruggendo i fondamenti comuni dell’umano. Nella “dittatura del relativismo” e nella “globalizzazione dell’indifferenza”, per riprendere le espressioni di Benedetto XVI e di Francesco, i confini tra verità e menzogna, tra bene e male, si confondono. La sfida per la gerarchia e per tutti i membri della Chiesa consiste nel resistere a queste infezioni mondane e nella cura delle malattie spirituali del nostro tempo. Papa Francesco sta perseguendo una spirituale purificazione del tempio, nello stesso tempo dolorosa e liberatrice, allo scopo di far risplendere nella Chiesa la gloria di Dio, luce di tutti gli uomini. Ricordando, come i discepoli del Signore, la parola della Scrittura “ lo zelo per la tua casa mi divora” (Giovanni, 2, 17) comprenderemo l’obiettivo della riforma della Curia e della Chiesa.

    

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