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CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI

SUA ECCELLENZA ANTONIO MARIA VEGLIÒ
SEGRETARIO DELLA CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI

 

STRUTTURE PASTORALI PER I MIGRANTI CATTOLICI
DELLE CHIESE ORIENTALI

L’Istruzione Erga migrantes caritas Christi del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti (3 maggio 2004) consacra alcuni paragrafi ai migranti cattolici di rito orientale (nn. 52-55). Anzitutto rinnova il dettato del Concilio Vaticano II sottolineando l’obbligo morale e giuridico dei migranti orientali cattolici di osservare dovunque il proprio rito, inteso come patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere e celebrare la fede che è proprio di ciascuna Chiesa orientale (cf. CCEO, can. 28, § 1) (n. 52).

Il Decreto conciliare Orientalium Ecclesiarum al n. 6, infatti, dichiara: “Sappiano e siano certi tutti gli orientali che sempre possono e devono conservare i loro legittimi riti liturgici e la loro disciplina, e che non si devono introdurre mutazioni, se non per ragione del proprio organico progresso. Pertanto tutte queste cose devono essere con somma fedeltà osservate dagli stessi orientali, i quali devono acquistarne una conoscenza sempre più profonda e un uso più perfetto, e qualora per circostanze di tempo o di persone fossero indebitamente venuti meno a esse, procurino di ritornare alle avite tradizioni”. Poi lo stesso Decreto, rivolgendosi a “quelli che per ragioni o dell’incarico o del ministero apostolico hanno frequente relazione con le Chiese orientali o con i loro fedeli, secondo l’importanza della carica che occupano - raccomanda - che siano accuratamente istruiti nella conoscenza e nella pratica dei riti, della disciplina, della dottrina, della storia e del carattere degli orientali”.

Inoltre, il Decreto Unitatis Redintegratio, al n. 17, aggiunge solennemente: “Questo sacro concilio, ringraziando Dio che molti orientali figli della Chiesa cattolica, i quali custodiscono questo patrimonio e desiderano viverlo con maggior purezza e pienezza, vivano già in piena comunione con i fratelli che seguono la tradizione occidentale, dichiara che tutto questo patrimonio spirituale e liturgico, disciplinare e teologico, nelle diverse sue tradizioni appartiene alla piena cattolicità e apostolicità della Chiesa”.

Come è noto, dall’inizio del sec. XX fino ad oggi, centinaia di migliaia di fedeli delle Chiese orientali cattoliche emigrarono e emigrano tuttora dal Vicino, Medio ed Estremo Oriente nonché dall’Europa centrale e orientale verso i paesi d’Occidente (USA, America Latina, Canada, Australia, Europa occidentale, ecc.). Le Chiese orientali, cattoliche ed ortodosse, tuttora versano in situazioni di diffusa difficoltà, come d’altronde il cristianesimo intero nel Vicino e Medio Oriente, specie in Terra Santa. I cristiani, e particolarmente i giovani, in molti Paesi dell’area (Libano, Siria, Iraq, Iran, Egitto, Libia, Israele, Palestina, ecc.) in questi ultimi decenni abbandonano la loro patria in massa. E’ una vera emorragia di cristiani nel Vicino e Medio Oriente. I tragici eventi di guerra e la situazione sociale, economica e politica in Oriente spingono, specie i cristiani, alla ricerca di un migliore destino per loro e i loro figli. Si verifica ogni giorno una progressiva diminuzione della presenza cristiana in tutti questi paesi; è tanto insicuro oggi l’avvenire dei cristiani nei paesi a maggioranza musulmana; i giovani cristiani non vedono più nessun avvenire e trasmigrano in Occidente per inserirsi in diversi contesti culturali e sociali in cerca di un futuro, con tutti i vantaggi e, purtroppo, gli svantaggi che ciò comporta.

Le migrazioni costituiscono un fenomeno davanti al quale si confronta seriamente ogni Paese. Si tratta di un vero “segno dei tempi”. Si assiste ad una reale mobilitazione universale dei popoli. Anche nel contesto europeo, dopo la svolta dell’89, si registrano fenomeni di rilevante mobilità: dalla Romania, ad esempio, è emigrato circa il 15% della popolazione, e anche in questo caso in maggioranza giovani. Sotto il regime comunista era impossibile emigrare, si rischiava la vita! Ciò vale anche per l’Ucraina e i Paesi dei Balcani. La Spagna, l’Italia, la Grecia in passato erano Paesi di emigrazione ora di immigrazione. Dieci anni fa la Spagna aveva mezzo milione di immigrati, ora ne ha oltre 4 milioni.

La Chiesa cattolica è preoccupata dei problemi sociali legati al fenomeno migratorio: illegalità, disoccupazione, invecchiamento della popolazione nei Paesi di partenza, traffico di persone, disgregazione delle famiglie, bambini che crescono senza genitori. L’attività caritativa dei cristiani è una risposta immediata a queste sfide. Ma decisivo è, ovviamente, un impegno politico a livello mondiale che affronti le cause ultime che portano alla migrazione forzata: la povertà, la violenza, l’ingiustizia, il sottosviluppo, la disoccupazione. Altrettanto decisivo è l’impegno culturale: la formazione alla centralità della persona, la critica alla xenofobia, spesso favorita dai media, il sostegno ad una integrazione vera che salvi l’identità delle persone.

Le Gerarchie cattoliche in diversi paesi dell’occidente europeo hanno realisticamente constatato che l’immigrazione è anche una denuncia della “malattia demografica” in corso nei propri Paesi. In particolare le Conferenze Episcopali affrontano le questioni pastorali poste dalla migrazione: l’assistenza pastorale ai diversi gruppi etnici presenti nel Paese, la valorizzazione del contributo portato da gruppi di altri Paesi alla vita della Chiesa locale, lo scambio di personale per la pastorale. La migrazione ha favorito l’incontro a livello ecumenico e interreligioso: una novità assoluta per alcuni Paesi. La Chiesa in questa opera ha la straordinaria chance della sua universalità (o cattolicità): essa può sostenere una rete unica di solidarietà e collaborazione pastorale tra Paesi di partenza e di arrivo. Questa è una possibilità da valorizzare seriamente.

La storia della Chiesa ha evidenziato, nella pastorale della mobilità, una sorta di “diaspora nella diaspora”, atteso che non sempre la pastorale specifica è stata ritenuta necessaria; il che ha provocato scontri all’interno della stessa Chiesa cattolica. “Negli Stati Uniti, ad esempio, la contrapposizione tra i diversi gruppi cattolici e la poca comprensione verso i nuovi immigrati genera nel 19° secolo un’aspra polemica tra l’episcopato americano e l’elemento cattolico tedesco. Nel 1907 si verifica la scissione della Chiesa nazionale polacca mentre si faranno sempre più forti le proteste e le rivendicazioni dei cattolici di rito ruteno che otterranno, in seguito, da Pio X un episcopato autonomo nelle Americhe” [1].

“Sotto il pontificato di Leone XIII emerge una delle note rivelatesi estremamente feconde per tutta la pastorale migratoria: la tutela e la valorizzazione dei gruppi minoritari anche all’interno della Chiesa. La diaspora di cattolici di rito armeno, greco-ruteno, caldeo, bizantino fa correre loro il rischio di essere assimilati ai cattolici di rito latino, soprattutto là dove la Chiesa locale si dimostra impreparata a gestire la diversità. [...] La costituzione apostolica Orientalium dignitas di Leone XIII del 1894 comminava la scomunica al sacerdote di rito latino che intendesse allontanare i fedeli orientali dal loro rito” [2].

Questa diaspora, dunque, di migranti cattolici orientali pone ovviamente, tra diversi altri problemi, anche la preoccupazione di una urgente, adeguata e specifica cura pastorale. Il problema non è solo giuridico, ma prevalentemente spirituale. L’emigrazione rischia non solo di impoverire le Chiese orientali, ma con il ritmo tragico con cui si evolve rischia di portarle all’estinzione. Sono perciò necessarie nuove strutture ecclesiali nei paesi occidentali per dare agli emigrati cattolici orientali la possibilità di vivere e testimoniare la loro fede nelle proprie tradizioni e nel proprio rito. Si impone come problema pastorale urgente di considerare le conseguenze ecclesiali e giuridiche della loro presenza sempre più consistente e dei contatti che si vanno realizzando a vari livelli ufficiali o privati, individuali o collettivi, tra una comunità o i suoi singoli membri ed altre comunità e i loro singoli membri, soprattutto con le diocesi cattoliche latine. La Sede Apostolica si è impegnata e non cesserà di impegnarsi affinché i cristiani restino sulle loro terre, ma ormai il movimento emigratorio appare irreversibile.

L’Istruzione Erga migrantes caritas Christi non si limita a far emergere il problema, ma enuncia una serie di principi e di provvedimenti giuridico-pastorali per venir incontro alle necessità spirituali degli emigrati cattolici orientali, i quali nella maggior parte dei casi si trovano sotto la giurisdizione dei Vescovi latini in loco. Nonostante la loro condizione di diaspora, non bisogna disattendere il fatto che i migranti orientali cattolici - come si è detto - hanno l’obbligo di osservare dovunque il proprio rito, inteso come patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, secondo la definizione data dal can. 28 § 1 del CCEO, e bisogna avere la possibilità effettiva di adempire quest’obbligo. Di conseguenza, da un punto di vista giuridico, “anche se affidati alla cura del Gerarca (Ordinario) o del parroco di un’altra Chiesa sui iuris, rimangono tuttavia ascritti alla propria Chiesa sui iuris” (CCEO, can. 38). L’obbligo morale e giuridico dei migranti cattolici orientali di osservare dovunque il proprio rito coinvolge anche i Pastori cattolici di rito latino che hanno parimenti l’obbligo morale e giuridico di accoglierli, sostenerli e vigilare sull’osservanza del loro rito. Sotto l’aspetto di appartenenza giuridica, i fedeli orientali anche se affidati ratione domicilii alla cura dell’Ordinario o del parroco della Chiesa latina, non passano alla Chiesa latina, ma rimangono sempre ascritti alla propria Chiesa orientale sui iuris (CCEO can. 38); anzi, l’usanza, pur a lungo protratta, di ricevere i sacramenti secondo il rito di un’altra Chiesa sui iuris, non comporta l’ascrizione alla medesima (CIC can. 112, § 2). Vi è, infatti, divieto di “cambiare rito” senza il consenso della Sede Apostolica (CCEO can. 32 e CIC can. 112, § 1). La Gerarchia latina locale ha l’obbligo di garantire l’osservanza del proprio rito dei migranti cattolici orientali e il contatto con la propria gerarchia orientale (Patriarchi e Vescovi). Anzi la Gerarchia latina deve curare che coloro i quali hanno relazioni frequenti con fedeli di altro rito lo conoscano e venerino (cf. CCEO can. 41) e deve vigilare affinché nessuno si senta limitato nella sua libertà a motivo della lingua o del rito (cf. CCEO can. 588).

Ambedue i Codici, latino e orientale, garantiscono a tutti i fedeli cristiani cattolici il diritto di esercitare debitamente il culto divino secondo le prescrizioni della propria Chiesa e di seguire una propria forma di vita spirituale, che sia però in accordo con la dottrina della Chiesa (cf. CCEO, can. 17; CIC, can. 214), come anche il diritto “di ricevere dai Pastori della Chiesa gli aiuti provenienti dai beni spirituali della Chiesa, specialmente dalla parola di Dio e dai sacramenti” (CCEO, can. 16; CIC, can. 213). Tuttavia, il diritto e il dovere di osservare in ogni luogo il proprio rito non esclude ai migranti cattolici orientali il diritto di partecipare attivamente nelle celebrazioni liturgiche di qualunque Chiesa cattolica sui iuris, anche della Chiesa latina, secondo le prescrizioni dei libri liturgici di ciascuna (CCEO, can. 403, § 1).

I Patriarchi e le Gerarchie orientali in genere seguono con particolare sollecitudine i loro fedeli emigrati. Sebbene la loro potestà si esercita validamente solo entro i confini del territorio delle proprie Chiese (cf. CCEO, cann. 78, § 1 e 147), tuttavia, a norma del CCEO, can. 148, hanno il diritto e il dovere di esercitare lo ius vigilantiae sui propri fedeli in tutto il mondo. Questo ius vigilantiae consiste nel cercare le opportune informazioni sullo stato di questi fedeli cristiani, e, dopo aver discusso della cosa nel Sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale, proporre alla Sede Apostolica i mezzi opportuni da adottare per provvedere adeguatamente alla loro cura pastorale. Il Patriarca, dunque, può proporre alla Sede Apostolica, per la tutela e l’incremento del bene spirituale di questi fedeli migranti la costituzione di centri di missioni, di parrocchie o anche di diocesi proprie in diaspora.

Da parte sua, la Sede Apostolica per mezzo della Congregazione per le Chiese Orientali “segue con premurosa diligenza le comunità dei fedeli orientali che si trovano nelle circoscrizioni territoriali della Chiesa latina, e provvede alle loro necessità spirituali per mezzo di visitatori, anzi, laddove il numero dei fedeli e le circostanze lo richiedano, possibilmente anche mediante una propria gerarchia, dopo aver consultato la Congregazione competente per la costituzione di Chiese particolari nel medesimo territorio” [3].

Il Vaticano II prevede l’erezione di strutture giuridiche per la cura pastorale dei fedeli migranti orientali di diversi riti. Il decreto conciliare Orientalium Ecclesiarum, n. 4, stabilisce: “Si provveda in tutto il mondo a tutelare e incrementare tutte le Chiese particolari e a questo scopo si erigano parrocchie e una propria gerarchia, dove lo richieda il bene spirituale dei fedeli”. Il Decreto conciliare sull’ufficio pastorale dei Vescovi Christus Dominus, n. 23, pur affermando la regola generale della territorialità della diocesi, aggiunge che “dove a giudizio della suprema autorità della Chiesa, sentite le Conferenze Episcopali interessate, l’utilità lo suggerisca, nello stesso territorio possono essere erette Chiese particolari distinte sulla base del rito dei fedeli o per altri simili motivi”. Inoltre, “dove si trovano i fedeli di diverso rito, il Vescovo deve provvedere alle loro necessità: sia per mezzo di sacerdoti o parrocchie dello stesso rito; sia per mezzo di un vicario episcopale, munito delle necessarie facoltà e, se opportuno, insignito anche del carattere episcopale; sia da se stesso, come ordinario di diversi riti”. Lo stesso Decreto conciliare, n. 27, aggiunge che, “il vescovo può costituire uno o più vicari episcopali che, in forza del diritto [...] nei riguardi dei fedeli di un determinato rito, godano dello stesso potere che il diritto comune attribuisce al vicario generale”.

Quanto all’istituzione degli “Ordinariati orientali” ancora esistenti in diversi paesi (Francia [4], Austria, Polonia, Argentina, ad es.), essi non sono previsti dai due Codici in vigore (CIC e CCEO), ma questa istituzione è inevitabile in quei territori in cui risiedono gruppi di fedeli di diversi riti per i quali non è possibile costituire delle proprie circoscrizioni ecclesiastiche. La duplice giurisdizione cumulativa tra gli Ordinari interessati dovrà essere regolata da necessario accordo [5].

Premesso tutto ciò, si pone il seguente problema pratico: quale è lo stato giuridico dei migranti cattolici orientali che hanno il domicilio o il quasi-domicilio in territori dove manca il proprio parroco oppure nei luoghi dove non è costituita una gerarchia orientale propria?

Le continue trasmigrazioni di gruppi sempre più numerosi di fedeli cattolici orientali in occidente hanno avuto come conseguenza che essi si sono trovati ordinariamente in un territorio posto sotto la giurisdizione di un Vescovo latino. Il caso si presenta nei territori dove non esiste una gerarchia orientale. Il CCEO, can. 916, § 5, stabilisce che, nei luoghi dove non è eretta una diocesi per i fedeli cristiani di qualche Chiesa sui iuris, si deve riconoscere come Gerarca (Ordinario) proprio degli stessi fedeli cristiani il Gerarca (Ordinario) di un’altra Chiesa sui iuris, anche della Chiesa latina.

Conformemente a questi dettati del Concilio, il can. 372 del CIC, mai eludendo la regola generale della territorialità della diocesi, aggiunge che “dove, a giudizio della suprema autorità della Chiesa, sentite le Conferenze episcopali interessate, l’utilità lo suggerisca, nello stesso territorio possono essere erette Chiese particolari distinte sulla base del rito dei fedeli o per altri simili motivi”. In pratica, la Sede Apostolica ha applicato ed applica ampiamente questa norma, costituendo dovunque in territori latini una gerarchia orientale: Esarcati apostolici o anche Eparchie (Diocesi) direttamente dipendenti dal Romano Pontefice.

Inoltre, il CIC, can. 383, § 2 stabilisce che, “se il vescovo diocesano ha nella sua diocesi fedeli di rito diverso, provveda alle loro necessità spirituali sia mediante sacerdoti o parroci del medesimo rito, sia mediante un vicario episcopale”. Questo vicario episcopale, a norma del can. 476 del CIC, “ha la stessa potestà ordinaria che, per diritto universale, a norma dei canoni, spetta al vicario generale [...] anche in rapporto ai fedeli di un determinato rito [...]”. Il CIC, can. 518, dopo aver enunciato il principio della territorialità della parrocchia, stabilisce che “dove risulti opportuno, vengano costituite parrocchie personali, sulla base del rito [...]”.

Qualora fossero costituite delle parrocchie personali per i fedeli di un determinato rito, esse fanno giuridicamente parte integrante della diocesi latina, e i rispettivi parroci fanno parte integrante del clero diocesano latino. Ma i fedeli e i sacerdoti di queste parrocchie personali restano sempre ascritti alla propria Chiesa orientale sui iuris. E’ da notare, tuttavia, che, sebbene questi fedeli orientali, nell’ipotesi prevista dai suddetti canoni, siano sotto la giurisdizione del vescovo latino, è ovviamente opportuno che egli, prima di istituire delle parrocchie personali e di designare un sacerdote come assistente o parroco, o addirittura vicario episcopale per i fedeli orientali, si metta in contatto sia con la Congregazione per le Chiese orientali sia con la loro gerarchia e in particolare con il loro Patriarca.

Una norma di questo tenore è prevista nel CCEO, can. 193, § 3: “I Vescovi eparchiali che costituiscono questo tipo di presbiteri, di parroci o Sincelli (Vicari episcopali) per la cura dei fedeli cristiani delle Chiese patriarcali, prendano contatto con i relativi Patriarchi e, se sono consenzienti, agiscano di propria autorità informandone al più presto la Sede Apostolica; se però i Patriarchi per qualunque ragione dissentono, la cosa venga deferita alla Sede Apostolica”. Sebbene nel CIC manchi una espressa disposizione su questa materia, implicitamente dovrebbe riguardare anche gli Ordinari latini.

Per garantire adeguatamente lo stato giuridico dei migranti cattolici orientali, che hanno il loro domicilio o il quasi-domicilio in territori dove manca il proprio parroco oppure nei luoghi dove non è costituita una gerarchia orientale propria, e per assicurare la cura pastorale dei fedeli migranti di un’altra Chiesa sui iuris, è assai raccomandabile che si favorisca una specifica azione pastorale. I sacerdoti del medesimo rito, quando cioè possibile, o altri ministri sacri, osservando sempre l’unità cattolica nella diversità delle tradizioni e dei riti vedano di assicurare il più possibile una sufficiente vita ecclesiale ordinaria. La necessità per gli orientali cattolici di osservare il proprio rito impegna, pertanto, la gerarchia latina nella conoscenza e nell’accoglienza del diritto orientale. Al riguardo, non vale il principio locus regit actum, bensì lo ius personarum. Questo secondo principio deve essere applicato, specie nel campo dell’amministrazione dei Sacramenti (dell’iniziazione cristiana e del Matrimonio) per evitare la “latinizzazione” dei fedeli orientali.

Si deve, dunque, al Concilio Vaticano II l’opera di recupero e di rinvigorimento della pastorale migratoria in seno alla cattolicità, grazie al servizio del Vescovo che diviene il segno visibile e il garante della comunione e della cattolica unità nelle diversità. In tal senso va letto il Decreto Christus Dominus sull’ufficio pastorale dei Vescovi al n. 23 sopra citato.

L’Istruzione del Pontificio Consiglio Erga migrantes caritas Christi, n. 55, conferma la normativa in vigore: “Qualora così si proceda, tali parrocchie faranno giuridicamente parte integrante della Diocesi latina, e i Parroci del medesimo rito saranno membri del Presbiterio diocesano del Vescovo latino. E’ da notare, tuttavia, che sebbene i fedeli, nell’ipotesi prevista dai suddetti canoni, si trovino nell’ambito della giurisdizione del Vescovo latino, è opportuno che questi, prima di istituire Parrocchie personali o designare un Presbitero come assistente o parroco, o addirittura Vicario episcopale, entri in dialogo sia con la Congregazione per le Chiese Orientali, sia con la rispettiva Gerarchia, e in particolare con il Patriarca”. Il Vescovo diocesano latino può richiedere al Patriarca dei presbiteri idonei che si assumano la cura pastorale dei fedeli cristiani orientali nella sua diocesi; il Patriarca poi, per quanto è possibile, soddisfi questa domanda. I presbiteri inviati dal Patriarca a tempo determinato oppure indeterminato nella diocesi latina sono da ritenere addetti alla diocesi latina e soggetti in tutto alla potestà del Vescovo diocesano latino.

L’Istruzione Erga migrantes caritas Christi, infine, riporta il già citato can. 193, § 3 del CCEO, aggiungendo anche un riferimento agli Ordinari latini: “quando i Vescovi eparchiali costituiscono questo tipo di presbiteri, di parroci o sincelli per la cura dei fedeli cristiani delle Chiese patriarcali, prendano contatto con i rispettivi Patriarchi e, se sono consenzienti, agiscano di propria autorità informandone al più presto la Sede Apostolica; se però i Patriarchi per qualunque ragione dissentissero, la cosa venga deferita alla Sede Apostolica. Sebbene nel CIC manchi una espressa disposizione a questo proposito, per analogia essa dovrebbe però valere anche per i Vescovi diocesani latini” (n. 55).

Conclusione

Il can. 39 del CCEO, ispirato dalle dichiarazioni del Concilio Vaticano II, Orientalium Ecclesiarum, nn. 1,2,5 e 6, stabilisce: “I riti delle Chiese orientali, quale patrimonio della Chiesa universale di Cristo nel quale risplende la Tradizione che deriva dagli Apostoli attraverso i Padri e che afferma la divina unità nella varietà della fede cattolica, siano religiosamente osservati e promossi”. Questo sacro dettato del Concilio, riformulato nel CCEO in norma canonica, impone l’obbligo grave di osservare le norme circa l’ascrizione dei fedeli cristiani, formulate nel CCEO e nel CIC.

Il can. 39 ricorda il sacro obbligo dei fedeli orientali cattolici di conservare e di far promuovere e progredire il proprio rito, inteso come patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare (can. 28). Non si tratta di osservare e conservare in modo statico e legalistico il proprio patrimonio, ma di testimoniarlo nella vita, celebrarlo nella Liturgia, conoscerlo nella sua essenza e profondità, promuovendolo in modo dinamico. Il Vaticano II con particolare sollecitudine desidera che le Chiese orientali “fioriscano e assolvano con nuovo vigore apostolico la missione loro affidata” (OE 1). La ragione di questo sacro auspicio, secondo il Vaticano II, sta nel fatto che nelle istituzioni, nei riti liturgici, nelle tradizioni ecclesiastiche e nella disciplina delle Chiese orientali “poiché sono illustri per veneranda antichità, risplende la tradizione che deriva dagli apostoli attraverso i padri e che costituisce parte del patrimonio divinamente rivelato e indiviso della chiesa universale” (OE 1). Proprio per questa ragione lo stesso Concilio “non solo circonda di doverosa stima e di giusta lode questo patrimonio ecclesiastico e spirituale, ma lo considera fermamente come patrimonio di tutta la chiesa” (OE 5).

Il Vescovo diocesano, poi, deve considerare affidati a sé “nel Signore” anche i migranti battezzati che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica: ad essi offrirà gli aiuti spirituali di cui hanno bisogno come credenti in Cristo, compresa ogni prudente attenzione in vista di un adeguato luogo di culto, ferma restando l’osservanza della normativa canonica circa la communicatio in sacris.

E sarà sollecito verso gli stessi non battezzati, curando che risplenda per loro la carità di Cristo, di cui egli deve essere testimone di fronte a tutti, nonché la testimonianza dei fedeli cristiani che vivono nella comunione ecclesiastica.

Come è noto, conformemente al Concilio, sia il CIC sia il CCEO hanno adottato al riguardo adeguate norme (cf. CIC cann. 383 § 2, 476 e 518; CCEO, can. 193 § 3).

Pertanto, il servizio ai migranti di qualsiasi rito cattolico o non cattolico, e ai non battezzati, non sarà considerato dai Vescovi cattolici latini e orientali un’ulteriore incombenza accanto alla ordinaria responsabilità della propria Chiesa particolare, bensì una espressione “ordinaria” e “inderogabile” di quella sollecitudine per la Chiesa universale che è insita nella missione episcopale.



[1] G.G. TASSELLO (a cura di), Enchiridion della Chiesa per le migrazioni. Documenti magisteriali ed ecumenici sulla pastorale della mobilità umana (1887-2000), EDB, Bologna 2001, p. 20.

[2] Ibidem, pp. 22-23.

[3] IOANNES PAULUS PP. II, Constitutio apostolica Pastor Bonus, art. 59, in AAS, 80 (1988), p. 875.

[4] Cf. Congregazione per la Chiesa Orientale, Decreto del 27 luglio 1954, in AAS, 47 (1955) pp. 612-613.

[5] Cf. Congregazione per le Chiese Orientali, Declaratio del 30 aprile 1986, AAS, 78 (1986) pp. 784-786, riguardante l’Ordinariato di Francia.

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