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CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI
DALLA PERSECUZIONE AL
SERVIZIO PER LE CHIESE ORIENTALI
A colloquio con l'Arcivescovo
Cyril Vasil', S.J.
Segretario della Congregazione per le Chiese Orientali
L'Osservatore Romano, 25 luglio 2009
Testimone della persecuzione del regime cecoslovacco durante gli anni
della guerra fredda nei confronti della Chiesa greco-cattolica, nato in una
famiglia profondamente cristiana, fugge dal suo Paese per seguire la
vocazione e diviene gesuita e sacerdote. Viene poi nominato rettore del
Pontificio Istituto Orientale ed è chiamato l'8 maggio da Benedetto xvi a
ricoprire l'incarico di segretario della Congregazione per le Chiese
Orientali. È in sintesi il ritratto dell'arcivescovo Cyril Vasil' che, in
un'intervista a «L'Osservatore Romano» racconta la sua vita, la sua
formazione, le sue attese.
Come è nata la sua vocazione ?
Vengo da una famiglia molto cristiana. Mio padre era un sacerdote della
Chiesa greco-cattolica e, agli inizi del suo servizio ministeriale, venne
mandato in una parrocchia lontana. I primi anni della mia infanzia, perciò, li
ho trascorsi senza la sua assidua presenza. Ricordo che andava e tornava
continuamente ed era talmente impegnato che in casa non c'era quasi mai.
Fortunatamente, dopo qualche tempo, venne trasferito in una parrocchia più
vicina, dove ci stabilimmo tutti insieme. In questo ambiente familiare, non
solo dall'esempio di mio padre, è nata la mia vocazione al sacerdozio.
All'epoca non ho potuto realizzarla come volevo, viste le difficoltà causate
dal regime che controllava la Chiesa permettendole di vivere solo sotto lo
stretto controllo governativo. Vi erano limitazioni notevoli per chi voleva
seguire la via del sacerdozio ed esisteva un unico seminario nazionale
autorizzato, dove vigeva il numero chiuso. Per l'ingresso, per esempio, si
doveva superare l'esame della commissione statale. Inoltre, ci imponevamo una
sorta di autocensura per non dare pretesti al regime per attaccarci. Tutto ciò
influiva molto sulla nostra formazione. Poi un giorno un incontro particolare
mi fece comprendere quale sarebbe stata la mia strada. Conobbi una persona,
che poi capii essere un sacerdote clandestino, un gesuita dottore in filosofia,
il quale aiutava alcuni giovani a sostenere gli studi. L'incontro lasciò in me
un'impressione particolare. In lui vidi realizzata la possibilità di studiare
e di fare apostolato. Si chiamava Michele Fedor; fu lui a farmi scoprire il
mio fascino verso la Compagnia di Gesù.
Come si realizzò il suo desiderio di diventare gesuita?
Terminato il seminario, mi si presentò la possibilità di continuare gli
studi all'estero, grazie anche all'appoggio del mio ordinario monsignor Hirka.
Il Governo però negava il permesso per espatriare, perciò scelsi di seguire
una strada che definirei un po' ingenua e, allo stesso tempo, romantica.
Decisi di uscire dal Paese senza permessi governativi e di andare a Roma a
studiare. In questo progetto, mi ha aiutato monsignor Miklovš. Andai in
Jugoslavia, dove si trovava, e mi fornì delle credenziali da presentare
all'ambasciata italiana di Belgrado. Avevo 22 anni, non richiesi asilo
politico, ma giunsi a Roma con un visto per motivi di studio, rilasciatomi dal
Governo italiano. Venni ospitato nel collegio romano di San Giosafat e
cominciai il corso di studi al Pontificio Istituto Orientale. Intanto la mia
famiglia, rimasta in Cecoslovacchia, dovette subire vari interrogatori.
Vennero compiute indagini, fu fatto un processo e mi inflissero una condanna
in contumacia a due anni di carcere. La condanna non fu particolarmente severa,
perché eravamo nel 1987: erano gli ultimi strascichi del regime e già soffiava
la perestroika. Dovetti attendere però la caduta del regime per venire
amnistiato e riabilitato.
Per chi viveva lontano da Roma che cos'era il Pontificio Istituto
Orientale?
Il Pontificio Istituto Orientale più che un'istituzione accademica era un
simbolo dell'attenzione e della cura di Roma per le Chiese orientali
perseguitate, cancellate o, in qualche modo, messe al bando. Per me venire a
Roma e potermi iscrivere all'Istituto era la massima aspirazione. Un salto di
qualità l'ho compiuto dopo la licenza, quando sono andato a congedarmi dal
rettore dell'Orientale. Gli ho domandato il permesso di assentarmi per due
anni dagli studi per andare in noviziato. «In quale noviziato?» mi chiese. «Nella
Compagnia di Gesù» risposi. Allora volle sapere da me che cosa avrei fatto
dopo. Risposi che avrei fatto quello che mi avrebbero detto. Cosa
rappresentava per la comunità greco-cattolica slovacca la Congregazione per le
Chiese Orientali?
In base alle poche notizie che filtravano da Roma, la Congregazione era
considerata l'istituzione alla quale eravamo affidati e che esprimeva la
sollecitudine del Papa nei confronti dell'Oriente cristiano. Per i nostri
sacerdoti era il primo punto di riferimento per tutte le cose, piccole o
grandi, da risolvere. Molte volte, quando qualche sacerdote riusciva a venire
a Roma con un visto turistico, passava sempre dalla Congregazione e si
riforniva di libri e di materiale religioso.
Che ricordi ha della vita della vostra Chiesa negli anni Settanta?
Certi modi di vivere potrebbero risultare strani ai nostri giorni, ma
all'epoca non conoscevamo altro modo per superare le difficoltà. A differenza
degli anni Cinquanta, caratterizzati da persecuzioni violente, dopo il 1968,
nel periodo della normalizzazione, la lotta antireligiosa si era spostata più
sul piano ideologico, sulla sottile persuasione e sulla corruzione morale.
Anche all'interno della Chiesa vi era una sorta di adattamento alla situazione:
c'era chi aveva una vita privata coerente con la fede e una pubblica di
consenso apparente al regime. Questo comportamento però era pericoloso,
dannoso per l'animo umano, perché una persecuzione aperta di per sé provoca
una reazione, mentre una lenta corruzione corrompe l'anima. Questo è quanto
abbiamo vissuto tra gli anni Settanta e Ottanta: si era costretti a
nascondersi o ad adattarsi alla situazione attraverso piccoli e grandi
compromessi. Vorrei ricordare un episodio personale: ero studente liceale
quando un giorno un'insegnante fu incaricata di fare una statistica. Ci chiese
quanti di noi avevano già chiara un'idea circa la religione, cioè quanti di
noi erano atei. La professoressa ci chiese se poteva scrivere che tutti
eravamo ancora indecisi. Io mi alzai e chiesi quali erano le alternative. La
risposta fu che vi era la possibilità di essere credenti. Allora espressi
l'intenzione di optare per questa scelta. I miei compagni mi dicevano di
lasciar perdere, di non compromettermi: ma è importante che poi, a distanza di
anni, si interrogarono sul perché di quella mia scelta. Allora era molto
difficile non scendere a compromessi.
Vi era differenza nell'atteggiamento del regime nei confronti della
Chiesa greco-cattolica rispetto a quello verso la Chiesa latina?
Negli anni Cinquanta vennero compiuti molti tentativi da parte del regime
per distruggere le Chiese. In un primo momento, si cercò di corrompere dal di
dentro la Chiesa latina, spingendola verso atteggiamenti scismatici. Ma il
tentativo non riuscì. Quindi, si provò a fare un'azione contro la Chiesa
greco-cattolica, liquidandola direttamente e ponendola sotto la Chiesa
ortodossa. Per 18 anni la nostra Chiesa ufficialmente non esistette,
addirittura venne cancellato il termine «greco-cattolico» dai dizionari. La
Chiesa latina, invece, veniva tenuta continuamente sotto pressione, attraverso
l'incarcerazione dei vescovi e la scelta di sacerdoti che collaboravano con il
regime alla guida delle parrocchie. Dopo il 1968 la pressione divenne uguale
per tutte e due le Chiese, solo che per noi c'era sempre la minaccia di finire
incorporati nella Chiesa ortodossa, a quell'epoca favorita dal Governo. Contro
le nostre comunità il regime a volte cercava forme di ricatto familiare, ma
tutto questo si è rivelato uno strumento poco efficace: erano proprio i
familiari a far coraggio ai sacerdoti per affrontare le deportazioni e i
lavori forzati. Durante gli anni dell'unione con la Chiesa ortodossa,
moltissimi fedeli cominciarono a frequentare la Chiesa latina. Molti vi sono
rimasti definitivamente e ciò ha fatto sì che i fedeli di quella
greco-cattolica diminuissero notevolmente di numero. Io stesso sono stato
battezzato con il rito romano, perché non c'era altra alternativa. Però,
appena è stato possibile, la mia famiglia è tornata nella Chiesa
greco-cattolica.
Ricorda qualche episodio particolare di quegli anni?
Ci sono degli episodi bellissimi di quel periodo: interi villaggi che hanno
tenuto chiuse le porte delle chiese per tutto il tempo in cui era stata
decretata la fine della Chiesa greco-cattolica. I fedeli facevano da soli i
battesimi e i funerali; per i matrimoni andavano in qualche paese vicino, dove
c'era un sacerdote latino che benediceva le nozze. La gente si riuniva per la
liturgia e in silenzio ripeteva le parole che avrebbe dovuto dire il sacerdote,
poi rispondeva come se fosse stato presente. Una giornalista comunista scrisse
che in quel silenzio era racchiusa la minaccia più forte per il regime, perché
c'era l'unione spirituale del popolo con il sacerdote deportato in prigione.
Il ripristino della libertà per la nostra Chiesa è stato un frutto della
primavera di Praga del 1968.
Come mettere in pratica le raccomandazioni di Benedetto xvi per una
maggiore attenzione nei confronti delle Chiese orientali? L'indicazione del
Papa non è nuova. Si tratta di un atteggiamento che i Pontefici hanno da oltre
un secolo. Il concilio Vaticano ii poi ha ribadito l'importanza della ricerca
dell'unità e del cammino ecumenico. Dato che le Chiese orientali sono poco
numerose e perciò poco visibili dal punto di vista quantitativo all'interno
della Chiesa, esse sono un indicatore, un catalizzatore di quello che è
l'atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti dell'oriente. Per questo,
credo che le Chiese ortodosse guardino con molta attenzione al modo con cui
vengono gestite e governate le Chiese orientali in comunione con la Chiesa
cattolica, perché questo costituisce un esempio per la ricerca di una
possibile strada verso l'unione fra tutto l'oriente e il mondo cattolico.
Negli ultimi tempi, infatti, non si parla più del ritorno degli ortodossi o
della riunificazione, ma si ricercano strade che conducano all'unità nel
rispetto sia dei principi della Chiesa cattolica, sia dell'unione
ecclesialmente accettabile da parte del mondo orientale.
(© L'Osservatore Romano - 25 luglio 2009)
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