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CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI

 

Intervento del Cardinale Prefetto Leonardo Sandri
al Convegno per i 20 anni di promulgazione del CCEO

VENTI ANNI DI ESPERIENZA APPLICATIVA DEL CCEO

(Roma, 8 ottobre 2010)

Eminenze ed Eccellenze,
illustri Professori,
cari sacerdoti,
fratelli e sorelle in Cristo,

quasi come un proemio alla Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi è stato posto il Convegno per i venti anni dalla promulgazione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali.
Il Supremo Legislatore offrì il patrimonio codiciale orientale a tutta la Chiesa e tutta la Chiesa ne ha avuto beneficio. Intendendo il codice regolare la vita delle Chiese Orientali dava ad esse un riferimento e uno stimolo non comune perché potessero essere prima di tutto se stesse, al loro interno e nelle relazioni con la Chiesa latina, con le altre Chiese e comunità ecclesiali, come pure con le altre religioni e la società del nostro tempo.
L’Assemblea Sinodale sta per aprire le porte: queste due intense giornate di riflessione con l’aiuto di validi canonisti costituiranno un primo dono col quale i Padri intraprenderanno il loro impegno.
Desidero rendere grazie al Signore, come ringrazio il Servo di Dio Giovanni Paolo II, che promulgò il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, dando in tal modo uno dei tanti segni della sua paterna benevolenza verso l’Oriente cattolico. E ringrazio il Santo Padre Benedetto XVI per essersi messo sollecito sulle sue orme confermando tale amore in innumerevoli circostanze, tra le quali eccelle il Sinodo per il Medio Oriente.
Il mio grazie molto fervido va al Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, al suo Presidente, Sua Eccellenza Mons. Francesco Coccopalmerio, e al Segretario, S.E. Mons. Arrieta, e a tutti i Collaboratori per questa iniziativa, alla quale di buon grado la Congregazione per le Chiese Orientali e il Pontificio Istituto Orientale hanno offerto la loro collaborazione.
Circa dieci anni orsono un altro Convegno dal titolo rimasto ben presente a molti “Jus ecclesiarum, vehiculum caritatis”, quella volta organizzato dalla Congregazione per le Chiese Orientali con la partecipazione del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, scandagliò per così dire l’accoglienza dei canoni orientali.
A venti anni ormai ci interessiamo più direttamente della sua applicazione e della verifica della fisionomia conciliare che anche le nostre chiese orientali hanno potuto assumere grazie allo strumento codiciale.

Gli inizi degli anni ’90 del secolo scorso conobbero straordinari eventi sociali ed ecclesiali. Essi scossero violentemente gli assetti del mondo intero, provocando una implosione repentina di sistemi totalitari proprio mentre essi tentavano con ostentazione indebita di confermare la conduzione delle sorti dell’umanità. Altrettanto forti furono le conseguenze nel mondo ecclesiale.
La promulgazione del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium giunse provvidenzialmente quasi a raccogliere lo smarrimento iniziale per una riacquistata libertà da parte delle Chiese che proprio in Oriente - mi riferisco soprattutto all’Est Europeo - erano persino impreparate a tale novità: forte era l’attesa del crollo di un sistema, alimentata dalle stesse certezze della fede, ma nel concreto bisognava poi edificare con abilità che non si potevano improvvisare.
I tempi, guidati dalla Provvidenza Divina, diedero segni potenti nello scorcio finale del secolo: la codificazione orientale esprime la capacità della Chiesa cattolica di leggere evangelicamente tali segni e di rispondere alla grazia divina.
Vehiculum caritatis fu davvero il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium per tante Chiese che si trovarono alle prese con novità ben superiori alle loro attese. Esse trovarono l’alveo nel quale contenere utilmente il flusso impetuoso della novità e porlo a servizio della edificazione ecclesiale totalmente impegnata in una nuova evangelizzazione dopo il silenzio imposto a Dio e alle Chiese.

Per esporre, come mi è stato proposto, l’esperienza della Congregazione per le Chiese Orientali nell’applicazione del Codice, ne prenderò in considerazione l’azione per la conoscenza della nuova normativa e per la sua applicazione nelle Chiese particolari, quelle che il Codice chiama Chiese sui iuris, l’applicazione che essa stessa fece del Codice, e infine ricorderò la ristrutturazione di alcune Chiese orientali cattoliche.

I

Vorrei ancora citare lo stato delle Chiese dell’Europa Orientale, sino a quel momento oppresse nei loro territori tradizionali dai regimi comunisti, le quali avevano dovuto fare sforzi eroici fino al martirio per mantenersi fedeli alla professione di fede e alla identità cristiana e cattolica.
Alcuni loro membri emigrati stabilmente da una o più generazioni in Europa occidentale o nelle Americhe godevano della libertà religiosa e avevano, in genere, una propria Gerarchia, ma già da tanti anni non avevano potuto coltivare alcun rapporto, almeno ufficiale, con le rispettive Chiese dell’Europa Orientale che essi riconoscevano e tuttora riconoscono come Madri, sorgenti della loro spiritualità, vita liturgica e cultura.

Molto diversa era invece la situazione delle Chiese orientali del Medio Oriente, che sono tutte e sei Patriarcali, e diversa la situazione pure per l’Etiopia, l’Eritrea e il Kerala, e nelle circoscrizioni ecclesiastiche europee di rito bizantino: esse avevano avuto modo di evolversi normalmente, di conoscere il rinnovamento auspicato dal Vaticano II e di adeguarsi alle norme emanate dalla Santa Sede per applicarne i principi e per renderne esecutivi i Decreti. Esse poterono seguire, ma anche partecipare ai lavori della Pontificia Commissione per la revisione del Codex Iuris Canonici Orientalis, che si sarebbero conclusi con la promulgazione del nuovo Codice.

Di conseguenza, mentre queste ultime dovevano soltanto essere incoraggiate ad applicare pienamente la nuova normativa, che si inseriva nel processo di rinnovamento avviato con il Concilio, quelle dell’Europa Orientale dovevano essere innanzi tutto aiutate ad uscire dalla clandestinità e a riorganizzarsi, ad aggiornarsi dopo decenni di isolamento, ad istituire nel loro interno strutture e organismi che in alcuni casi suonavano come assolutamente nuovi.
Occorreva inoltre favorire la ripresa dei vincoli canonici fra le Chiese Madri e quelle della diaspora, che pur nella fedeltà alle proprie origini, avevano seguito delle linee evolutive alle quali le Chiese Madri erano rimaste completamente estranee.
Anche alcuni Istituti religiosi orientali si trovarono di fronte a questi stessi problemi, per il fatto che mentre le loro province americane si erano rinnovate secondo i principi conciliari e le istruzioni emanate dalla S. Sede, quelle di origine erano rimaste, come le gerarchie e i fedeli delle Chiese di appartenenza, isolate dal resto del mondo cattolico.

La Congregazione per le Chiese Orientali era l’organo della Santa Sede deputato per la sua stessa istituzione ad operare questo entusiasmante ma gravoso servizio ecclesiale di sostegno alle varie Chiese orientali, e vi ci si accinse subito.

Essa si impegnò pertanto a promuovere presso tutte le Chiese orientali cattoliche la conoscenza del nuovo Codice, offrendo a richiesta brevi corsi informativi, rivolti in primo luogo ai Vescovi orientali che non avevano potuto seguire i lavori della Commissione di revisione del vecchio Codice, e al loro clero, ma anche a Vescovi latini interessati.

Tale attività si inserì nel quadro più vasto del tradizionale sostegno alla formazione dei seminaristi e del giovane clero, che si dimostrò ancor più preziosa del solito; la Congregazione, infatti, non aveva mai interrotto la cura della formazione dei chierici, sostenendo moralmente e finanziariamente numerose case di formazione a livello istituzionale e superiore, sia in Oriente sia a Roma, ma, dalla promulgazione del Codice, essa vi si impegnò maggiormente, incrementandola sotto ogni aspetto.

Il citato Simposio Internazionale organizzato in Vaticano nel 2001 per il decennale, grazie alla presenza di numerosi Docenti e Periti, anche non cattolici, offrì apprezzabili opportunità e rappresentò una sorta di esplicita dichiarazione di maturità al più alto livello riconosciuta alle Chiese Orientali anche a livello canonico.
E’ una chiara percezione che la lettura degli Atti pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana nel 2004 consente tuttora.

II

Per quanto di sua competenza, la Congregazione applicò senza particolari difficoltà la nuova normativa nei rapporti con le Chiese locali.
Essa aveva, infatti, collaborato molto strettamente con la Pontificia Commissione per la revisione del Codex Iuris Canonici Orientalis e sin dalla fine del Concilio sostenne l’applicazione delle norme esecutive riguardanti l’ordinamento interno delle singole eparchie e l’aggiornamento degli Istituti di Vita Consacrata.
Nel caso di disposizioni della Santa Sede destinate alla sola Chiesa latina, la Congregazione ne aveva curato l’estensione, con i dovuti adattamenti, alle Chiese orientali e nel medesimo tempo si premurava di indicare al Romano Pontefice le lacune da colmare, ottenendo tramite gli Organismi competenti delle indicazioni specifiche.
Così era avvenuto nel caso della soluzione pratica riguardante la procedura da seguire nelle elezioni vescovili; essa era stata autorevolmente suggerita da Papa Paolo VI alla Commissione per il coordinamento dei lavori postconciliari e per l’interpretazione dei lavori del Concilio, che la fece propria il 24 maggio 1966 e la indicò alla Congregazione Orientale.
Questa a sua volta la portò a conoscenza dei sei Patriarchi cattolici con lettera del 22 giugno 1966, redatta dal Dicastero, ma di cui il Papa aveva voluto rivedere ed approvare in persona la minuta, comprese le varianti relative a ciascuno dei destinatari.
Un'altra questione fu quella riguardante i rapporti tra il Vescovo con giurisdizione extra territorium e la Gerarchia della propria Chiesa Patriarcale (o Arcivescovile maggiore): come è noto, i Padri Conciliari avevano asserito nel Decreto Orientalium Ecclesiarum (al n. 7) che detto Vescovo rimane “aggregato”.alla Gerarchia della propria Chiesa, ma occorreva chiarire quanto prima il contenuto di questa “aggregazione”.
La Congregazione si rivolse il 13 novembre 1967 alla citata Commissione, divenuta Commissione per l’Interpretazione dei Decreti Conciliari, con la richiesta di un chiarimento, e la Commissione comunicò il 7 febbraio 1968 una risposta molto restrittiva; ne seguì un’immediata reazione delle parti interessate, che diede origine ad una voluminosa corrispondenza con le Chiese locali e tra vari Dicasteri, inducendo così Papa Paolo VI ad incaricare la Pontificia Commissione per la redazione del Codex Iuris Canonici Orientalis di approfondire lo studio della questione, con il contributo della Commissione di Interpretazione dei Decreti Conciliari e dell’allora Segretariato per l’unione dei Cristiani.
Al termine di questo studio Papa Paolo VI, che ne aveva seguito le varie fasi, diede incarico alla Commissione competente di redigere, assieme alla Congregazione per le Chiese Orientali, il testo che, con l’approvazione del Papa, fu pubblicato il 25 marzo 1970 come Dichiarazione della Congregazione, “de mandato Summi Pontificis”.

Questi coinvolgimenti della Congregazione nell’emanazione di nuove norme le avevano permesso di informare la Commissione di revisione del CICO della propria prassi e nel medesimo tempo seguire integralmente il processo di redazione dei nuovi canoni e di conoscerne sia le problematiche sia le motivazioni delle singole scelte.

In questo ventennio la Congregazione è dovuta ricorrere una volta sola all’allora Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi, con lettera in data 30 settembre 1993, a motivo di una pretesa illegittimità della procedura indicata dai cc. 181-185 del CCEO relativa alle elezioni vescovili; il Consiglio rispose il 23 ottobre 1993, confermando la legittimità della procedura, ed aggiungendo alcuni suggerimenti pratici per snellirne l’applicazione, per quanto di competenza della Congregazione.

La Congregazione ha inoltre sottoposto all’attenzione degli Em.mi Cardinali ed Ecc.mi Arcivescovi e Vescovi che la compongono, riuniti in Sessione Plenaria, alcune particolari questioni riguardanti il nuovo Codice e la sua applicazione.
Così, nella Sessione Plenaria dei giorni 29 settembre – 2 ottobre 1998 sono state esaminate tra l’altro alcune questioni attinenti allo stato giuridico dei fedeli e ai diritti e privilegi dei Patriarchi orientali cattolici; nella Sessione Plenaria dei giorni 19 – 22 dicembre 2002 figurava all’ordine del giorno la prassi seguita dalla Congregazione nelle procedure attinenti alle elezioni episcopali, per la quale si sta cercando una soluzione che coordini alcune esigenze della Santa Sede con altre delle Chiese Patriarcali e Arcivescovili maggiori.
E’ auspicabile che nel dialogo si possano risolvere queste difficoltà di ordine eminentemente pratico.

III

Vent’anni fa soltanto le sei Chiese Patriarcali erano costituite in conformità alle strutture definite e regolate dal nuovo Codice, mentre l’unica Chiesa Arcivescovile maggiore, quella ucraina, era ben organizzata nella diaspora ma non ancora nel proprio territorio.

Altre Chiese avevano una struttura semplicemente metropolitana, ma alcune di queste avevano in sé non pochi elementi che ne suggerivano l’elevazione, a norma del nuovo Codice, a Chiese Arcivescovili maggiori.
Vi era poi la Chiesa Siro malabarese, la quale presentava l’anomalia di essere costituita da due Metropolie indipendenti l’una dall’altra, quasi fossero due Chiese distinte. In talune contingenze storiche si ravvisa questa necessità, la quale è tuttavia una condizione - potremmo dire “transeunte” - per una Chiesa votata esplicitamente a concludere il percorso di maturità con la elevazione al grado arcivescovile maggiore.

La Congregazione si pose dunque a studiare questi aspetti, coinvolgendo le parti interessate, prestando tuttavia una particolare attenzione alla riorganizzazione delle Chiese dell’Europa Orientale, i cui sacerdoti non sempre erano pronti ad uscire dalla clandestinità e a dedicarsi a tempo pieno all’esercizio del ministero sacro.
A questo fine, essi dovevano rinunciare alle professioni con le quali si erano sino ad allora mantenuti e talvolta anche affermati nei rispettivi ambienti, ed avevano nel medesimo tempo coperto il loro statuto ecclesiale. Erano richiesti di adeguarsi rinnovamento spirituale e all’aggiornamento teologico prospettati per colmare le immancabili lacune e poter svolgere pubblicamente e proficuamente il ministero pastorale.

La Congregazione seguì queste Chiese ad una ad una, mentre ciascuna faceva il proprio cammino, ma prestò particolare attenzione a quelle siro malabarese, siro malankarese e romena, promovendo incontri delle rispettive Gerarchie, anche a Roma, fino all’auspicato traguardo del grado arcivescovile maggiore che le pone canonicamente quasi al livello di quelle Patriarcali.

Fu così che le due province ecclesiastiche Siro Malabaresi furono erette da Papa Giovanni Paolo II sin dal 16 dicembre 1992 in un’unica Chiesa Arcivescovile maggiore, dal titolo di Ernakulam-Angamaly; il medesimo Pontefice promosse il 10 febbraio 2005 la Chiesa metropolitana di Trivandrum dei Siro Malankaresi a Chiesa Arcivescovile maggiore, e lo stesso fece il 16 dicembre 2005 il Santo Padre, Papa Benedetto XVI, per quella di Făgăraş şi Alba Iulia dei Romeni.


* * *

Gentili ascoltatori,
vent’anni sono significativi nella vita di una persona, ma sono ben pochi nella storia bimillenaria della Chiesa. In un arco di tempo breve, comunque il nuovo Codice ha mostrato tutta la sua validità nel regolare e promuovere l’identità e le relazioni delle Chiese orientali cattoliche ad intra e ad extra, compresi i loro rapporti con la stessa Santa Sede. Ho potuto offrirvi solo alcuni accenni della sua applicazione. Temi di particolare importanza sono stati suggeriti dallo stesso Supremo Legislatore (nel 90° di fondazione del dicastero-visita del 9.6.2007) , che ha chiesto attenzione alla “sinodalità” per il suo significato ad intra e ad extra, e una “puntuale verifica dello sviluppo ecclesiale portato dalla ritrovata libertà specialmente nell’est europeo”. Aggiungiamo il tema del “diritto particolare”, per la cui elaborazione le Chiese sanno di poter avere l’assistenza della nostra Congregazione e del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, anche recentemente ribadita. Ma sarebbe stato alquanto interessante e opportuno rilevare il rinnovato percorso liturgico sostenuto dal Codice in seno alle Chiese. Rimane una eco di tale impulso nella stessa Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del CCEO, emanata dalla Congregazione per le Chiese Orientali fin dal 1996.
La liturgia è la sorgente e la misura dell’autenticità delle Chiese nella loro identità e nella missione. Le mantiene nella fedeltà alle origini, così come queste si sono sedimentate e sviluppate nella tradizione propria, e nell’apertura al futuro che può nascere proficuamente solo da un sicuro radicamento in ciò che “è fin dal principio”. La Congregazione per le Chiese Orientali segue un serio lavoro di revisione e pubblicazione dei testi liturgici di diverse Chiese.
Questo riferimento conclusivo alla liturgia vuole richiamare gli stessi inizi del CCEO. Nella costituzione apostolica “Sacri Canones” (quella della sua promulgazione) Papa Giovanni Paolo II esprimeva, infatti, l’augurio che il nuovo strumento giuridico potesse favorire la “tranquillitas ordinis” tra le Chiese Orientali. E ricevendo i partecipanti al Simposio del decennale ribadiva che “l’ordine a cui mira il codice è quello che assegna il primato all’amore, alla grazia, al carisma, rendendo agevole il loro organico sviluppo nella vita dei singoli fedeli e dell’intera comunità ecclesiale” (AAS 82-1990-1042-43).
Il primato dell’amore è salvaguardato solo se la liturgia “culmen et fons” di tutta la vita della Chiesa rimane anch’essa suprema lex nel nostro cammino perché da essa come da sorgente sempre fresca ci vengono la grazia e i carismi. La liturgia è una priorità che la Congregazione segue con convinzione, affinché tutto nelle Chiese e nella Chiesa sia orientato alla “gloria di Dio” e alla “salute delle anime”. Grazie.
 

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