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PONTIFICIA ACCADEMIA ECCLESIASTICA   

 

Discorso commemorativo tenuto da
S. E. Rev.ma Mons. Giovanni Battista Montini
Sostituto della Segreteria di Stato
in occasione del 250° anniversario di fondazione della
Pontificia Accademia Ecclesiastica
nell'Aula magna della Cancelleria Apostolica

25 aprile 1951

 

 

Eminenze, Eccellenze, Signori,

Invitato ad aggiungere la mia voce modestissima a quelle ben più alte e più degne, che qui poco fa si sono ascoltate nella celebrazione della rievocatrice e ammonitrice ricorrenza della nostra Accademia, io oso proporre alla loro attenzione, alla loro pazienza una questione semplicissima, ma fondamentale, che non riguarda tanto la storia del venerando Istituto (sarebbe troppo lungo e largo tema per questo, che vuole essere un discorso semplice e breve) quanto il concetto e il giudizio che di esso possiamo avere noi, oggi, che l'incombente crisi dei tempi obbliga a valutare ogni cosa in ordine ai suoi aspetti essenziali all'infuori delle consuete classifiche tradizionali.

Né riguarda le persone, che hanno avuto relazione con l'Istituto o che hanno avuto in esso ospitalità o che da esso hanno avuto la formazione.

Altro tema, che del resto ho visto tratteggiato nella bella pubblicazione, fatta per l'occasione, che richiederebbe tanto tempo e tanta erudizione.

La questione, che io pongo alla loro riflessione riguarda invece la funzione pedagogica dell'Accademia; considera il perché della sua presenza nel quadro della vita ecclesiastica, e gli scopi ai quali intende servire nel quadro, anche più largo, del nostro mondo contemporaneo; la questione cioè della ragion d'essere di questoIstituto: se questo Istituto ancora abbia motivo di vivere, di esistere, di esercitare una funzione, o se invece sia un superstite risultato di anni trascorsi.

Enon è irriverenza il pensare così, quando si sa che nella Chiesa Romana la tradizione, lo spirito di conservazione è tanto forte e abituale da rendere interessanti e belle e gradevoli anche le reliquie del passato.

E questa domanda, questa questione non deriva a me dallaesperienza degli anni, in cui ho avuto l'alto onore di servire nella Curia Romana, dai quali anzi mi viene qualche convinta risposta affermativa.

Mi viene piuttosto da un antico stato d'animo, da una forma spirituale di dubbio e di critica davanti ad un'istituzione, che, a prima vista, pareva un superstite avanzo d'altri tempi, e sembrava difficilmente conforme allo spirito vivo e nuovo della Chiesa di Dio; viene dal ricordo dei primi momenti, in cui varcai le soglie del l'Accademia con una grandeesitazione, con un senso di riserva, con una certa perplessità.

Ricordoinfatti, Eminentissimo Cardinal Pizzardo, la sera d'autunno del 1921, in cui ebbi la ventura di salire per la prima volta le scale della Segreteria di Stato, di essere accolto dal Sostituto di allora, Monsignor Pizzardo che, con la sua affabilità e la sua gentilezza, mi disse: « Lei andrà all’Accademia ». lo provai ad affacciare qualche difficoltà.

Madifficile resistere a Mons. Pizzardo! Ricordoinfatti che le sue parole, le sue esortazioni prevalsero più per la sua autorità che per persuasione mia, che quella fosse la strada, che mi era destinata.

Pensavo allora di dedicarmi ad altri studi speculativi o letterari; ed a questa mia obbiezione ricordo che Mons. Pizzardo mi disse: « Ma sì, troverà tutto. Qui abbiamo tante cose! ».

E al mio sommesso desiderio di tentare la via delle lingue classiche, ricordo che mi disse: « Da poco è è stato creato Cardinale Mons. Galli, grande latinista: troverà in lui un ottimo maestro ed iniziatore magnifico ».

Ma, subito dopo, non si parlò più di studi letterari; ed il mio itinerario piegò verso gli studi giuridici e diplomatici.

E la perplessità perciò rimase per qualche tempo; e la sentii dopo condivisa da altri, formulata in diverse obbiezioni.

La prima, che sembrava la più ovvia: quella del sospetto che la diplomazia pontificia, con la caduta del potere temporale, avesse compiuto i suoi anni, e che rimanesse ancora questoIstituto, questo strumento dell'antica diplomazia pontificia, come erano rimaste tante forme del precedente stato di cose, quasi a protesta di quello che si era prodotto nel campo ecclesiastico con la caduta del potere temporale.

E se è vero che la diplomazia pontificia ha avuto, attraverso i secoli, fin dai primi tempi, delle manifestazioni assolutamente indipendenti dal potere temporale, è anche vero che dal potere temporale ha avuto le forme stabili, caratteristiche, che le hanno conciliate, per gli ultimi secoli specialmente, la fama di una grande diplomazia.

Basta ricordare ciò che scrive il Pieper, nel suo libro sull’origine delle Nunziature stabili, per rilevare come fossero gli affari temporali della Chiesa, quelli che consigliarono l'istituzione delle prime Nunziature permanenti, cominciando dal Leonini1a Venezia.

Eallora, terminato questo momento storico particolare, doveva sembrare che anche l'Istituto, che l'aveva accompagnato e sorretto, dovesse o cambiarsi o venir meno.

Tanto più perché nel frattempo, cioè in questi ultimi secoli, la concezione generale del mondo, della nostra civiltà ha essa pure cambiato la sua formulazione giuridica.

Voglio dire che con lo sviluppo del diritto pubblico civile ed ecclesiastico moderno, le due società, lo Stato e la Chiesa, si sono distinte, si sono divise.

La Chiesa ha maggiormente marcato l'esercizio delle sue funzioni nella sfera spirituale, pur conservando il potere indiretto sopra una quantità di campi appartenenti al potere temporale, e nel contatto ufficiale con la società civile ha ristretto la sua azione alla difesa degli interessi religiosi e dei mezzi necessari per l'esplicazione della sua specifica missione.

Oltre questaobiezione d'indole storica, un'altra ho sentito circolare, anche nel nostro ambiente ecclesiastico, fatta un po' di impressioni, e se volete, di luoghi comuni, nei riguardi della diplomazia in se stessa.

La diplomazia è l'arte di riuscire; per riuscire ogni mezzo spesso inavvertitamente diventa buono; e perciò rappresenta una forma d'azione in cui la morale riporta facilmente delle ferite; e quando la si vuole difendere, si hanno molte difficoltà da sciogliere.

È ancora presente, specialmente nei nostri spiriti italiani, la prosa di Niccolo Machiavelli, dellaastuzia fortunata, come definiva l'arte di pervenire al potere il vecchio fiorentino.

È ancora presente nella nostra memoria tutto quello che di male si e detto della diplomazia in se stessa, della sua capacita di estrarre dalla parola, che dovrebbe essere lo specchio della realtà e della verità, di estrarre, dico, invece una pluralità di sensi, unaambiguità di espressioni, una elasticità di intenti ecc. da fare della parola non il riflesso e la trasmissione, ma piuttosto il velo del pensiero.

Cosa che si accentua e si aggrava, se si pensa appunto come la diplomazia, specialmente nei secoli XVII e XVIII, venne presentata al mondo, direi quasi ritualizzata, con delle maniere molto caratteristiche, reclutata esclusivamente in ceti sociali molto chiusi, vestita di forme, di etichette, di livree, che non sembrano più essere conformi allo spirito dei nostri tempi.

E questa maniera sfavorevole di valutare la diplomazia veniva rinforzata non poco anche da altre considerazioni, che sentiamo ancora circolare nel nostro ambiente ecclesiastico.

Non è su queste forme e su queste forze, che può basarsi la Chiesa: la Chiesa deve estrarre da se stessa le forze per vivere, deve trovare vie nuove diverse da quelle percorse in dati e superati momenti storici. La diplomazia ecclesiastica sembra costituire un sistema di puntelli, che mettono in gioco le varie protezioni degli Stati, e che fanno consistere il bene della Chiesa nell'avere dei vincoli con dei poteri, che sono diventati laici, estranei ed alcune volte nemici della Chiesa; essi sembrano non dei sostegni, ma dei ceppi, che ritardano il cammino della Chiesa, piuttosto che farlo progredire, sostenerlo, difenderlo e proteggerlo. La Chiesa odierna non deve mutuare dal favore dei poteri statali la sua forza e la sua prosperità, ma dalla parola e dalla virtù che porta, per divina istituzione, nel cuore; non di vincoli, ma di libertà ha bisogno; non dall'esterno, ma dall'interno deve derivare la sua fortuna.

Cose queste, che hanno sicuramente una parte di verità e quindi sono rispettabili sotto un certo aspetto, ma che non traducono, a mio avviso, e ad avviso di tutti quelli che stanno celebrando questo bell'anniversario dell'Accademia, la realtà completa.

La realtà completa è diversa; e per comprendere ciò, basta farsi un concetto più esatto della diplomazia. Basta cioè osservare come l'esperienza storica di questi ultimi anni venga ponendo gradatamente in luce — e, Dio voglia, in essere — una definizione della diplomazia migliore di quella che certe sue forme dubbie o degeneri non ci abbiano tramandato; essere cioè la diplomazia l'arte di creare e di mantenere l'ordine internazionale, cioè la pace; l'arte, voglio dire, d'instaurare rapporti umani, ragionevoli, giuridici fra i popoli, e non per via di forza o diinesorabile contrasto ed equilibrio d'interessi, ma per via di aperto e responsabile regolamento. lo non voglio qui certamente fare una lezione di diritto pubblico o di diritto diplomatico; mi limito ad osservare due caratteristiche della diplomazia moderna.

La prima caratteristica è che essa va rendendosi libera dalle forme, con cui è stata finora rivestita.

Non che le ripudii, non che se ne senta sciolta e quasi imbarazzata, ma se ne sente altrettanto libera.

E passa da tutto questo formalismo, cosi delicato e cosi legato alle etichette e alle maniere esteriori di esprimersi, passa invece ad una considerazione sostanziale della sua funzione.

Lo sivede dall'ampiezza e dalla ricchezza dei programmi, che essa si prefigge.

A tutte le Rappresentanze diplomatiche stabili, adesso, si aggiunge una corona di funzionari, che indicano e svolgono degli uffici ben più larghi e complessi di quelli dell'antico « Orator »; si aggiunge l'Addetto Commerciale, l'Addetto Stampa, l'Addetto Militare, l'Addetto Navale, l'Addetto Culturale, ecc.; e questo dimostra come la diplomazia si in vesta di problemi pratici e reali, e cerchi non più di essere una conversazione da salotto o un rito, celebrate in onore del puro prestigio nazionalistico, e espresso in rigoroso stile protocollare, ma sia aderenza a degli affari vivi e palpitanti della vita sociale.

Perciòil diplomatico, adesso, e molto più realista, molto più completo nella sua formazione, nella sua attività, che non fosse il diplomatico negli anni scorsi.

È la seconda osservazione, che traggo da un vecchio articolo di una illustre figura della vita pubblica europea: il Conte Alberto Apponyi, scomparso qualche anno fa, che, tratteggiando la figura del nuovo uomo di stato, asseriva che ciò che lo distinguerà dal tipo precedente di uomo di stato sarà ch'egli avrà e suggerirà al suo popolo il medesimo rispetto per gli altri ch'esso esige per sé.

Se prima era gloria l'esser capace di difendere gli interessi in una forma rivale, antagonista a quella degli altri Stati, ora il diplomatico migliore è quello, che sa proporre il programma più largo, più universale, che sa trovare delle formule, che siano di beneficio a tutti e che propone programmi di vita internazionale, tra Stato e Stato, che non difendano gli interessi esclusivi della propria nazione, ma siano invece di beneficio reciproco, d'interesse comune e di valore universale.

II che lascia vedere che la diplomazia non è per niente, come qualcuno ha voluto insinuare, unaistituzione sorpassata, una istituzione antiquata, e che ha fatto il suo tempo, perché infinite altre maniere di comunicazione si sono stabilite tra gli uomini e tra gli Stati.

Sembrainfatti non più necessario l'invio di un messo, che sia interprete del suo sovrano presso un altro: vi sono mille altre maniere per stabilire rapporti e trattare affari a distanza: si può, direi, parlare al telefono, direttamente.

Se si pensa invece alla funzione rappresentativa e responsabile di questoagente dell'ordine internazionale che è il diplomatico, noi vediamo che quanto più complesso diventa questo ordine, quanto più sviluppato diventa il diritto internazionale, quanto più compromesso sembra essere, a volta a volta, l’equilibrio del mondo in cui viviamo, e la pace precaria, tanto più importante, tanto più moderno, tanto più necessario diventa l'ufficio del diplomatico.

II diplomatico non è l'uomo di ieri, è l'uomo oggi, al punto tale, che lo si direbbe espressione dei più gravi e urgenti bisogni della vita contemporanea; e lo vediamo in questa nostra trepida ora, nella crisi di questo momento, in cui si delinea davanti a noi oggi, una volta di più, un dilemma terribile, con drammatica evidenza; e cioè si pone una duplice funzione umana intesa a decidere le sorti del mondo: o la diplomazia, o la milizia, che è quanto dire: o la pace, o la guerra.

Perché quel giorno che venisse meno la funzione del diplomatico, quel giorno che il rapporto fra gli Stati lo congedasse, o gli Stati cadrebbero, l'uno rispetto all'altro, nell'assenza di relazioni degne di tal nome, nel caos internazionale, nel duello irrazionale delle forze brutali industrializzate, motorizzate, scientificamente potenziate per la sopraffazione; ovvero essi avrebbero da dire l'un l'altro: regoliamo i nostri interessi con misure di forza.

E se è vero che la diplomazia non basta a regolare, a portare la pace, ed a consolidarla; a questo tuttavia essa tende, per questo lavora, per questo fatica, per questo moltiplica, e non si stanca, i suoi tentativi; e l'arte della pazienza, e l'arte del saper durare, e l'arte del produrre una pace, che a stento vuol introdursi negli animi e nelle relazioni internazionali.

E se fra le due funzioni, la milizia o la diplomazia, dovessi dire quale risente più del passato, quale delle due devo auspicare che si dica superata, non dirò la diplomazia, dirò la milizia.

Se così è la diplomazia non è estranea né contraria allo spirito ecclesiastico, né tanto meno all’autorità della Chiesa e del Romano Pontefice.

lo non sto a fare, anche qui, una lezione di diritto pubblico ecclesiastico; mi limito a delle osservazioni molto modeste, molto ovvie.

Se la diplomazia si esercita attraverso una rappresentanza responsabile, e se essa tende a costruire la pace, se essa è l'arte della pace, direi che nessun istituto, che nessuna forma diattività fra i popoli e più consentanea alla Chiesa Cattolica, che la pace, la vera pace, più d'ogni altro bene terreno predica, cerca, produce.

La diplomazia, si sa, si esplica mediante la rappresentanza dell'autorità sovrana; ora, nessuna autorità, quanto quella che presiede alla Chiesa Cattolica e atta all’impiego di tale sistema; perché nessuna è così alta, così universalmente sovrana, così capace di conferire ai suoi rappresentanti potestà d'azione, d'impartire ordini da eseguire, di stabilire unita di disegni, di educare a dignità di contegno, d'infondere generosità di servizio, di comunicare saggezza d'esperienza, e di proporre altezza di fini.

E di più, se la diplomazia civile tende all'unificazione del mondo e al prevalere della ragione sulla forza, e all'incremento dei singoli Stati nel concerto armonico di sempre più vasta organizzazione internazionale, essa trova nella diplomazia ecclesiastica quasi un vertice a cui può guardare con profitto non già per l'abilità che la diplomazia ecclesiastica può esplicare, o per i risultati ch'essa può raggiungere — l’una e gli altri possono fallire — quanto piuttosto per l'ordine ideale da cui essa parte e a cui essa aspira, la fratellanza universale dagli uomini.

Cosicché, se per ipotesi venisse meno la diplomazia pontificia nel mondo, l'ordine diplomatico verrebbe ad essere privato, direi, di un paradigma esemplare, che gli mostra le forme, che gli addita gli scopi, che controlla i metodi, di cui forse già inconsciamente esso vive.

Perciòla mia apologia della diplomazia mi sembra che non abbia ad essere tanto per giustificare se essa debba essere nella Chiesa, ma piuttosto quale essa debba essere nella Chiesa.

E allora, innanzi tutto, vien la considerazione, estremamente ovvia, che se una diplomazia deve essere nella Chiesa Romana, essa deve essere una buona diplomazia.

Né buona sarebbe se non fosse ben preparata, e non sarebbe buona la preparazione se questa fosse riservata al talento nativo del diplomatico, o fosse riservata allaesperienza empirica che esso va raccogliendo nei suoi viaggi e nelle sue missioni.

Una preparazione è necessaria.

È vero che la diplomazia è un'arte, e che la diplomazia si giova di virtù intrinseche, di doti naturali, di facilità a conoscere le lingue, a trattare problemi ecc., ma niente, mi pare, potrebbe essere più nocivo all’esercizio della diplomazia, specialmente quando vuol essere seria, meditata, coerente, responsabile, che quello d'essere affidata a gente di formazione superficiale, o che crede di avere le virtù per l'esercizio di questa difficile missione, mentre queste non ha.

Ed ecco che allora ci appare quanto mai sapiente è stata la Chiesa per aver preceduto la formazione diplomatica di tutti gli Stati civili, creando, formando questo Istituto, che appunto si prefigge di essere la scuola dei diplomatici della Chiesa e dimostra come la pedagogia della Chiesa, anche in questo caso, sia di una sapienza, di una antiveggenza, che altri adesso vanno gradatamente imitando ed emulando.

E ci sarebbe da domandarsi allora se questa scuola risponda al suo scopo, e se cioè davanti ad una missione così grande, cosi complessa, cosi difficile, come quella di estendere l'ordine religiose, di diffondere l'ordine ecclesiastico in relazione con l'ordine internazionale nel mondo, la scuola, che abbiamo da vanti sia capace di corrispondervi degnamente.

Si potrebbe rispondere a tale questione in diversi modi: mi limito ad osservare alcuni criteri, che io ho trovato a mia edificazione, a mia istruzione, nell'Accademia, nei cinque anni che ho avuto la fortuna di esservi ospitato.

Sarebbe troppo lungo discorso: dico delle cose, quasi per elenco.

Uno degli aspetti degno di nota della Accademia Ecclesiastica, sebbene non sempre avvertito da chi non respira l'atmosfera della vita cattolica romana, è la formazione ad un senso storico, molto ricco e profondo, per cui il quadro della vita del mondo palesa un ordine che impronta tutta la mentalità dell'alunno, e, comunque se ne voglia giudicare il contenuto, appare a chi apprezza la formazione storicista della cultura moderna, elemento pedagogico di grande importanza.

Il senso storico invade una scuola come questa, non solo perché ha 250 anni di vita, ma perché prospetta come prima lezione davanti ai suoi alunni, la vita della Chiesa nei secoli.

Lo studio della storia ecclesiastica, nell’Accademia, non è soltanto uno studio speculativo e mnemonico; diventa, direi, unaassimilazione vissuta d'un panorama contemplato ad ogni istante.

II tempo, in questa visione presentata continuamente ai suoi alunni, acquista una coerenza, una logica, una sicurezza luminosa e confortevole; esso mostra di avere dei termini, di essere guidato da una Provvidenza, di obbedire a dei destini, che non sono soltanto preparati dagli uomini, ma da Dio; così che l'alunno sente di essere nel tempo, direi quasi, come in una catena, nella quale siinnesta.

See vero che la storia volge gli occhi di coloro, che la coltivano, all'indietro, è pur vero che una storia così concepita, così vissuta, fa vedere non tanto il passato quanto il presente; fa vedere non tanto quello che è stato, ma presagire altresì quello che deve essere, quello che sarà nel futuro; proietta davanti l'avvenire della Chiesa e con fiducia: la Chiesa potrà avere mille vicissitudini, ma ha davanti a se l'avvenire.

E se la diplomazia si confronta con la storia, essa appare, non so se il paragone sia del tutto esatto, ma mi si consenta l'analogia, quello che è stato nel diritto romano il diritto pretorio: unaadattazione del diritto al costume internazionale, una sapiente comparazione tra la legge e la vita, uno sviluppo della legge stessa davanti ai nuovi bisogni, alle nuove vicende e alle nuove situazioni.

La formazione storica dell'Accademia diventa una delle forme migliori per preparare il diplomatico.

Ricordo di aver letto nelle « Memorie storiche » di un alunno dell'Accademia, il Card. Pacca,2che, forse in parole, se mi è lecito dire, alquanto ingenue, narra di sé che quando era in situazioni difficili — diplomatico a 29 anni in Germania — andava a consultare i libri storici per sapere come regolarsi. « Quando io sentivo qualche importante avvenimento, che poteva trar seco grandi conseguenze o in bene, o in male, io intraprendevo la lettura di quell'epoche della storia, nelle quali una,o più nazioni si erano trovate in circostanze consimili a quelle, che allora apparivano... ». Questo metodo di trarre gli oroscopi dal tempo passato per il presente esige, nella pratica diplomatica, ogni cautela; ma indica come nel diplomatico la visione larga del tempo, estesa nella concatenazione di vicende e diavvenimenti, offra come l'atmosfera, nella quale egli vive e della quale egli mitre la sua stessa vita spirituale, e faccia guida alla sua esperienza.

Equesta larghezza di vedute si conforta anche di un'altra considerazione, di un'altra forma pedagogica, che si trova nell'Accademia, nella preparazione del diplomatico.

Voglio ricordare che lo spirito, è troppo dire forse, egoistico, o almeno dell'interesse proprio, che muove il diplomatico civile nella visione degli interessi esclusivi del proprio paese in confronto con quello degli altri, non è quello istillato all'Accademico pontificio.

Perché ha questo di caratteristico la diplomazia della Santa Sede: manda i suoi Rappresentanti, i suoi Nunzi nei vari Paesi non solo a difendere, è ovvio, i diritti della Santa Sede, della Chiesa, ma li manda altresì a difendere i diritti, a servire i bisogni del popolo presso cui va.

Non diventa il diplomatico ecclesiastico uno che va a fare delle trattative quasi nemiche, ostili e furbe e sottili con il Governo, che lo ascolta e lo accetta.

Va a portare, direi, una parola di collaborazione, va a svelare i bisogni della popolazione, va a collaborare con il Governo e con la Nazione, che lo ospita.

Non rappresenta interessi contrastanti, ma coincidenti.

Ed è per questo che la diplomazia si presenta come una forma diamore per i popoli; e la scuola, che li prepara, è una scuola di superiore carità.

Quando eravamo in Seminario ciinsegnavano ad amare le anime, ad amare la parrocchia, ad amare la diocesi.

Qui ciinsegnano ad amare i popoli interi, ad estendere il cuore, ad allargarlo in una magnanimità veramente romana, ad aprire lo spirito nella considerazione delle nazioni, dei continenti, delle storie più complesse, delle forme più vaste di vita umana. La scuola qui dice all'alunno: tu sarai servitore di questi grandi, di questi superiori, di questi immensi bisogni.

Scuola, ripeto, di carità superiore.

E infine anche questo è da notare: a complemento, a correzione e forse a sublimazione di ciò, che c'è di meglio nella diplomazia civile la scuola diplomatica ecclesiastica mette, giorno per giorno, davanti al suo alunno l'esempio della fonte da cui trae ogni autorità e origine: il Sommo Pontefice, che definisce se stesso « Servus servorum ».

Eogni giorno la parola evangelica, che dice: chi è superiore fra voi sia « sicut ministrator », sia come ministro, si comporti come servitore. E cioè la lezione quotidiana, che informa, che intreccia tutta la disciplina ascetica di questoIstituto è quella evangelica: tu sarai un servitore.

Seha un difetto, un'attrattiva, un incantesimo di dubbio valore, la diplomazia, e quello di presentarsi come facile camera, che nel giro di pochi anni fa percorrere un « cursus honorum », che porta uno da piccoli e bassi gradi al vertice di grandi funzioni rappresentative di governo.

Tutto questo è presentato, sì, all'alun­no dell'Accademia; ma è presentato come una scala di responsabilità: a mano, a mano che salirai, tanto più servirai; e ricordati che salire vuol dire avere il peso di nuove responsabilità; e sappi che vuol dire rappresentare: vuol dire dare, esporre se stesso per un Altro: oportet me minui, ilium autem crescere, a mano a mano che salirai, tremerai della tua missione, e dovrai confondere nella preghiera e nellaumiltà l'esercizio delle funzioni, che ti saranno demandate.

Non è questo, signori miei, una cosa estranea alla vita degli alunni dell'Accademia.

lo sono in grado di rendere testimonianza a tanti miei compagni di studi, alcuni dei quali già passati a miglior vita, ed altri ancora a servizio della Santa Sede: essi hanno esercitato ed esercitano questa mis­sione con questo sublime spirito di sacrificio.

Spirito di sacrificio che non ignora le corroboranti asprezze dell'ascetismo. Valga un esempio, che ho visto ricordato dallo stesso Card. Pizzardo nella bella iscrizione fatta per l'opuscolo pubblicato per questa nostra celebrazione, quello del compianto Mons. Canovai (è vero ch'egli non è stato propriamente alunno dell'Accademia ma ne ha assorbito lo spirito); egli cingeva le reni del cilizio della penitenza, per conseguire la forza e la freschezza d'animo necessarie al pieno esercizio della sua missione.

E allora l’Accademia, mi domando, tiene fede a questo suo programma? Sa fare degli alunni così?

La storia di ieri vi risponde con bellissimi nomi, la storia dioggi, ha gia detto che sì: e potrei aggiungere tante belle testimonianze.

Ne prendo due estreme: indica, l'una,la estrema semplicità, la modernità, la vivacità di spirito, che anima questa scuola; l'altra che mostra non esserle straniera un'abnegazione, un coraggio, che arriva all’eroismo.

Mi ricordo di un compagno giovanissimo, che al termine del corso accademico fu mandato umile addetto non so in quale lontana Nazione dell'America Latina.

Siinformò, volle sapere tutto, passò giorni per rendersi conto del paese, in cui andava.

E poi alla fine, a noi compagni, che lo interrogavamo: « Bene, allora che cosa hai concluso? ». « Ho capito, rispondeva, quel che occorre (mi si voglia scusare la testualità della citazione), un paio di pantaloni di cuoio per poter cavalcare ».

Ei pantaloni non furono inutili, perché il giovane diplomatico, rimasto Incaricato d'Affari da solo, cavalcò per 15 giorni per andare a fondare un Vicariato Apostolico.

Eun'altra di pochi mesi, di poche settimane fa.

Alla stazione Termini: siamo andati ad incontrare alcuni dei nostri colleghi, reduci da uno di quei paesi, che chiudono la loro oscura vicenda dietro la cortina di ferro, e rompono i loro rapporti con la Chiesa Cattolica nel modo doloroso e ignobile, che tutti conoscono.

Paese, che ha messo in carcere Sacerdoti, Vescovi, e che finalmente espelle i rappresentanti della Santa Sede.

E l’unica, semplice, umana, ma stupenda parola, che questi nostri amici dicevano: « Ci dispiace una cosa: che non abbiamo potuto restare in quel paese a soffrire coi nostri confratelli ».

Signori, questa è l'Accademia, e queste sono le cose, che la giustificano, che la ren­dono attuale, che la rendono viva, che la rendono strumento di grande servizio per la Sede Apostolica, per il bene, per la pace del mondo.

lo ho quindi una domanda da fare, alle Loro Eminenze, alle Loro Eccellenze, a tutti, di voler bene a quest'Istituto, di non considerarlo nella pomposa risonanza di forme e di nomi, che tante volte non traducono la realtà; ma di vederlo realmente nella sua vita passata e presente e nella sua destinazione prossima e futura, qual è: un docile e vero strumento dell'autorità e dell'apostolato del Sommo Pastore della Chiesa Romana.

E agli amici, al giovane clero specialmente, che e qui davanti, io dovrei ricordare, forse con qualche trepidazione, e con qualche non lieta previsione, che i momenti in cui viviamo sono molto gravi, molti tristi.

Che cosa sia riservato a questoIstituto della Chiesa Romana e a tutta la rete dei suoi Rappresentanti nel mondo, io non so.

Certo che i tempi sono estremamente duri e difficili.

Certo che la figura del diplomatico, come diceva la Lettera da noi ascoltata, testé, del S. Padre, cui è dato fare realmente del gran bene nel mondo, è quella di uno, che ha veramente la coscienza di portare Cristo con sé.

Vorrei dire, a ricordo e a monito di questa commemorazione, specialmente, ripeto, al giovane clero: abbiate, abbiamo tutti il senso della rappresentanza. La diplomazia e una rappresentanza.

Abbiamo il senso della rappresentanza di Cristo, della rappresentanza della Chiesa.

E sia nostra meta e nostro vanto il poter dire: Io sono Cristo, io sono la Chiesa. 

                      



 [1] A. PIEPER, Zur Entstehungsgescbichte der standingen Nuntiaturen, 1894, Pag. 36.

 [2] Memorie storiche, Appendice sui nunzi articolo VII, p. 202, Roma 1832.

 

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