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DICIOTTO MISSIONARI MARTIRI DEL PIME
tratto dal libro a cura di Maria Grazia Zambon
pubblicato dalla EMI nel 1994


GIOVANNI MAZZUCCONI
(1 marzo 1826 - settembre 1855)

Estate 1845: un piccolo gruppo di seminaristi organizza una gita in calesse alla Certosa di Pavia. Tra questi c'e' Giovanni Mazzucconi e il suo amico Carlo Salerio. Vi si fermano alcuni giorni e, oltre ad ammirare l'arte di questo splendido luogo di preghiera e riposarsi nella quiete, hanno occasione di incontrare e di poter parlare a lungo con il priore p. Suprier che si e' fatto certosino, dopo essere stato missionario in India. Egli rivela a questi giovani il suo desiderio di veder nascere in Italia un seminario per le missioni estere. Racconta loro della sua vita in India, l'esperienza fatta e le persone incontrate, il bene compiuto e ricevuto. I seminaristi ne rimangono ammirati e affascinati. Giovanni e Carlo in maniera particolare. Cosi' che, rientrati nel loro seminario di S.Pietro Martire a Monza, iniziano un'intensa corrispondenza con il priore.
«Come mai in Italia non c'e' ancora un istituto che prepari i sacerdoti desiderosi di andare in missione?», si domanda p. Suprier e le sue parole rimbalzano nel cuore di quei giovani, che si sentono interrogati personalmente. Giovanni comincia a coltivare dentro di se' questo sogno e per "portarsi avanti" si mette a studiare le lingue straniere: all'inglese, che gia' studia da tempo, aggiunge il francese e il tedesco. Pero' non parla ai compagni della sua vocazione missionaria, per non correre il rischio di essere frainteso. Si confida, invece, con il suo direttore spirituale, dal quale riceve una risposta secca: «Sei matto? Le tue Indie sono qui!». Un colpo duro, eppure non si scoraggia. Anzi, dopo aver trascorso dieci giorni di esercizi spirituali, nel 1846, con il p. Suprier, rafforza la sua decisione. Deve comunque attendere non solo di diventare sacerdote, ma addirittura che nasca, nella diocesi di Milano, il primo istituto missionario italiano. Ma anche questo non e' un sogno irrealizzabile. Infatti Angelo Ramazzotti, giovane laureato in legge che ha lasciata l'avvocatura per diventare sacerdote negli Oblati di Rho, da tempo coltiva un vivace e coinvolto interesse per la missione.
Nel novembre 1847 giunge a Milano, da Roma, mons. Luquet, delegato apostolico in Svizzera, con l'incarico di comunicare ai vescovi della Lombardia il desiderio di papa Pio IX che nasca, proprio a Milano, un istituto missionario. L'appoggio e la benevolenza del Papa permette a Ramazzotti, che nel frattempo e' stato nominato superiore degli oblati, di vincere ogni esitazione e di impegnarsi personalmente nella realizzazione di questo progetto. Come primo superiore e direttore viene scelto mons. Giuseppe Marinoni, chiamato a sostituire Ramazzotti che, nel frattempo, e' stato nominato vescovo di Pavia.
Il 25 maggio 1850 Giovanni viene ordinato sacerdote. Due mesi dopo riceve una lettera di mons. Ramazzotti che lo invita a partecipare all'inaugurazione del nuovo "Seminario missionario", che avra' come sede la casa ereditata dal padre, che si terra' a Saronno il 31 luglio. Da quel giorno, Giovanni Mazzucconi, Carlo Salerio, altri tre sacerdoti e due catechisti, insieme al rettore e al fondatore mons. Ramazzotti, iniziano questa nuova "avventura".
Insieme vengono redatte le regole o "costituzioni" dell'Istituto nascente. Insieme si preparano alla partenza, attraverso la preghiera, lo studio e le attivita' caritative, allenandosi allo spirito missionario di sobrieta' e sacrifico. Insieme, da subito, sognano di andare in Oceania. Sanno che questo immenso continente, disperso sull'infinita superficie dell'oceano Pacifico, rappresentano una missione vergine e difficile. E questo diventa il criterio decisivo per la scelta: «L'istituto - e' infatti scritto nelle "Regole" del 1886 - fin dall'inizio miro' ad avere missioni proprie, e tra le popolazioni piu'derelitte e piu'barbare». Sono al corrente, inoltre, che i Maristi hanno chiesto a Propaganda Fide di abbandonare la missione della Melanesia-Micronesia, per le difficolta' incontrate e perche' gia' impegnati in altre parti dell'oceano Pacifico.
Per loro il sogno si identifica con quel luogo, tanto che, quando sembra che il Papa proponga loro altre destinazioni, quali Ceylon (l'attuale Sri Lanka) o l'isola greca di Corfù, pur nella piena disponibilita' ad obbedire, Salerio scrive: «Il nostro cuore viene ancora vivamente amareggiato ogniqualvolta pare che si voglia allontanare dall'Oceania la povera opera del nostro ministero. Chi ci ha posta in cuore tanta affezione per quei popoli, che nessuno di noi finora ha conosciuto, affezione che tanto piu'cresce quanto e' maggiore il timore che venga ancora differita per quelle nazioni la luce del Vangelo, diffusavi dall'Altissimo per opera dei suoi servi inutili?».
Il 2 dicembre 1851, dopo mesi di sofferta attesa, giunge a Milano, dove nel frattempo si e' trasferito il Seminario per le Missioni Estere, la lettera del cardinale Fransoni, di Propaganda Fide, che comunica l'assegnazione ufficiale del campo di missione: la Melanesia - Micronesia!
Tre mesi e mezzo piu'tardi, il 16 marzo 1852, l'arcivescovo di Milano consegna il crocifisso ai padri Paolo Reina, "capo della spedizione", Giovanni Mazzucconi, Carlo Salerio, Timoleone Raimondi, Angelo Ambrosoli e ai "fratelli catechisti" Giuseppe Corti e Luigi Tacchini. A mezzogiorno del Sabato Santo dello stesso anno salpano da Londra. Un bastimento a vela su cui Mazzucconi e i suoi compagni rimangono tre mesi e mezzo prima di approdare a Sydney, in Australia.
Il mattino del 25 luglio, sono in vista le coste dell'Australia e il giorno seguente gettano l'ancora nel porto di Sydney. Ma il viaggio dei sette missionari non e' ancora finito. Due mesi nella procura dei Maristi, durante i quali studiano la lingua e i costumi degli abitanti delle isole a cui sono destinati, poi salpano nuovamente verso Woodlark e Rook.
Sulla goletta francese Jeune Lucie i pensieri si accavallano e gli stati d'animo si intrecciano. Ai sette giovani missionari sembra di sognare a occhi aperti. Ed ecco apparire, sulla linea dell'orizzonte, il profilo delle isole che, via via, si fa piu'distinto. Scogliere a picco sul mare si alternano a spiagge di finissima sabbia e piu'in la' un'interminabile fila di cocchi piumati, di mangrovie, di bougainvillee e di orchidee. Un fitto intreccio di vegetali chiude il passaggio verso l'interno montuoso, coperto di foresta. Un vero "paradiso terrestre".
A Woodlark la comitiva si divide: i pp. Salerio e Raimondi, con un catechista, rimangono nell'isola, mentre i pp. Reina e Ambrosoli, con l'altro catechista, Mazzucconi e un padre Marista che li accompagna, fanno rotta verso l'isola di Rook, dove giungono il 28 ottobre 1852. E' qui che vivra' per due anni e mezzo p. Giovanni.
Mentre a Woodlark i missionari trovano gia' alcune case, a Rook c'e' solo un capannone costruito dai maristi l'anno della loro permanenza sull'isola (1847-48). Esso e' separato internamente da pareti di cortecce d'albero e un graticcio orizzontale divide il capanno in due piani: sotto l'abitazione e sopra il magazzino; il tetto e' coperto da tegole.
Mazzucconi pero', nelle sue lettere, non si lamenta mai delle condizioni materiali di vita. L'abitudine alla mortificazione gli rende piu'facile accettare una situazione che, per noi, sarebbe quasi insopportabile: l'isolamento totale che dura un anno e anche piu'(solo una volta l'anno giunge da Sydney una nave noleggiata apposta dalla missione per portare la posta e qualche rifornimento di cibo e medicine), il clima costantemente umido e caldo, zanzare e insetti a profusione, il cibo poverissimo a base di radici di taro, da cui si ricava una farina simile alla mandioca.
Contrariamente a quanto fanno i missionari di Woodlark, quelli di Rook scelgono la via dell'evangelizzazione indiretta: «Per adesso - scrive Mazzucconi - la missione bisogna farla con lo stare sempre con la gente locale e impararne la lingua e poi, quando il Signore vorra', gli parleremo di Lui». E i missionari, intanto, fanno di tutto per aiutare gli isolani a migliorare le loro condizioni di vita: insegnano a fare la calce e i mattoni, a lavorare il ferro e a usare la ruota, introducono nuove colture con sementi portate dall'Australia (mais, aranci, pomodori, carote, patate e viti), ma non riescono a convincere gli indigeni ad adottare un'agricoltura piu'evoluta ne' a coltivare con un minimo di razionalita'. Cosi' come sono inutili gli sforzi di insegnare loro a cucire, a purificare l'acqua stagnante, ad applicare i principi base dell'igiene. Il rispetto della tradizione e' assoluto, come il rifiuto di ogni novita'. Gli abitanti disprezzano i missionari e non capiscono il motivo per cui sono venuti nell'isola.
Inoltre, estenuati da fatiche e disagi, questi giovani missionari sono continuamente tormentati da febbri e malattie, che peggiorano per la mancanza di medicine e di nutrimento adeguato. Mazzucconi e' colpito dalla malaria fin dall'inizio. Si indebolisce a vista d'occhio anche per la scarsezza di cibo.
Nel gennaio del 1855, i cinque missionari si trovano in una situazione disastrosa. Almeno due, il catechista Corti e lo stesso Mazzucconi, sono quasi in fin di vita: il corpo si e' gonfiato all'inverosimile e la pelle comincia a spaccarsi e a coprirsi di piaghe con dolori indicibili. I denti diventano neri e gli eccessi di febbre e di delirio si succedono senza tregua: «P. Reina - scrive Giovanni - comincio' a farmi certe interrogazioni... e io feci testamento». Non ha ancora ventinove anni.
Il 20 gennaio 1855 ecco giungere la nave attesissima, con tre mesi di ritardo e il superiore Reina ordina a Mazzucconi di lasciare l'isola per recarsi in Australia a ristabilirsi. Ma il capitano della nave, che deve fare numerosi scali commerciali, e' indeciso se caricare a bordo "quel cadavere ambulante". Si rifiuta decisamente di imbarcare il catechista, incapace di stare in piedi. A Sydney la sua salute migliora di giorno in giorno e non vede l'ora di ritornare dai suoi confratelli con i rifornimenti. Cosi', il 18 agosto 1855, salpa dal porto di Sydney sulla piccola nave "Gazelle". Non sa che il catechista Corti nel frattempo e' morto e che da Roma e' arrivata la notizia che nessun altro missionario italiano li avrebbe raggiunti, per non mettere a repentaglio altre vite. Ma soprattutto non puo' sapere che i suoi compagni, vista la situazione cosi' disperata, hanno deciso di lasciare, almeno momentaneamente, le isole e si sono messi in viaggio gia' da quaranta giorni. Sbarcheranno in Australia qualche giorno dopo la sua partenza.
Nella prima quindicina di settembre la Gazelle entra nella baia di Woodlark e gli indigeni accorrono numerosi sulla spiaggia. Ma il capitano, poco pratico di quel mare, fa incagliare la nave sulla barriera corallina. Dalla spiaggia, allora, parte una canoa con a bordo quattro uomini, tra i quali Puarer, un amico di p. Giovanni (quello che in seguito raccontera' lo sviluppo degli avvenimenti), che lo informa della partenza dei suoi confratelli. Ma intanto, a riva, gli indigeni decidono di approfittare della situazione per sfogare il loro odio, covato a lungo, verso i missionari. Numerose canoe si staccano dalla spiaggia e si dirigono verso la nave, circondandola. Due indigeni balzano sulla "Gazelle" e uno di essi, Aviocar, si dirige deciso verso il missionario, con la mano tesa in segno di saluto, ma improvvisamente estrae una scure da sotto il perizoma e con essa lo colpisce violentemente sul capo. E' l'inizio del massacro. Dopo di lui tutti i marinai vengono trucidati e i loro cadaveri gettati in mare.
Quando, parecchi mesi dopo, p. Raimondi puo' finalmente tornare a Woodlark alla ricerca del confratello trova solo lo scafo riverso della "Gazelle", abbandonato sugli scogli.
Il 19 febbraio 1984, il martire Giovanni Mazzucconi, a 129 anni dalla sua morte, viene proclamato Beato da papa Giovanni Paolo II, in San Pietro a Roma.

BEATO ALBERICO CRESCITELLI
(30 giugno 1863 - 21 luglio 1900)

E' il 17 agosto del 1888 e un'altra, interminabile giornata volge al termine. Per i tiratori della barca e' stata faticosa, ma anche per padre Alberico Crescitelli e il suo confratello padre Vincenzo Colli. E' ormai dal 30 maggio che il barcone sta risalendo, lentamente, il fiume Han, che da Hankou porta a Xiaozhai, meta finale dei due missionari.
Padre Alberico si e' ormai ritirato nell'angusto alloggio dei viaggiatori, una casetta con il tetto di stuoie e con le pareti di assi cosi' mal connesse, che lasciano libero passaggio al vento, alla pioggia, all'afa soffocante, al fetore, al fumo acre e accecante che penetra dalla cucina adiacente.
Da poppa provengono le voci sommesse dei tiratori cinesi che, stanchi per il duro lavoro della giornata, fumano oppio o tabacco, giocando a carte. Avvolto nella sudicia coperta, accanto a padre Vincenzo che, coricatosi alla cinese, gli da' i piedi in faccia, padre Crescitelli e' sfinito. Dopo 132 giorni di nave da Marsiglia a Shanghai, anche questo viaggio estenuante... Quanto dista ancora la missione? Non riesce a prender sonno. Ripensa alla fatica affrontata da quei lavoratori cinesi: «Il Signore anche oggi ci ha assistito. Non abbiamo avuto disgrazie. Eppure mi domando come abbia potuto resistere la barca all'urto di tanti scogli. La corrente, in alcuni punti, era cosi' forte che ci volevano una cinquantina di uomini per tirarla con fatica». Gia' da tempo hanno abbandonato il paesaggio monotono delle vaste pianure, interrotte solo da rari salici e da poche, misere abitazioni. La', ai tiratori, bastava trainare lentamente la barca per mezzo di funi di bambù, cadenzando il passo, l'uno dietro l'altro lungo le sponde del fiume. Anche le colline incolte hanno lasciato il posto alle scoscese montagne. Il corso del fiume si e' fatto sempre piu'impervio. I trascinatori hanno dovuto fare sforzi sovrumani per vincere la corrente e il timoniere ha dovuto usare molta prudenza e abilita' per impedire che lo scafo andasse a fracassarsi contro le rocce che sporgono all'improvviso tra lo spumeggiare delle acque. E oggi, piu'di una volta, i passeggeri hanno dovuto scendere dalla barca per costeggiare a piedi il fiume, nei punti piu'pericolosi.
La sua mente si lascia prendere dai ricordi, per un attimo riesce a dimenticare i disagi del viaggio e corre ai verdi colli dell'Irpinia, che ha percorso in lungo e in largo accudendo i poderi di suo padre. Infatti ancora ragazzino, appena finite le elementari, suo papa', farmacista di Altavilla, in provincia di Avellino, ha scelto lui tra i dieci figli per sorvegliare i lavoratori nei suoi poderi. E' il piu'forte e il piu'scaltro.
Per anni si dedica volentieri a questo lavoro, ma nel 1878, all'eta' di quindici anni, decide di riprendere gli studi. Gia' da qualche tempo ruba un po' di ore al gioco e scappa nella biblioteca del canonico Raffaele Crescitelli per leggere avidamente libri di storia, ascesi, liturgia, fino a far diventare la lettura il suo "hobby" preferito.
Ricorda ancora, come se fosse ieri, la partenza di suo fratello Luigi per il servizio militare. Alberico e' stato dichiarato inabile e discute con la mamma di questo "privilegio". Cosi' un discorso tira l'altro e, finalmente, ha il coraggio di confidarle il desiderio che coltiva da due anni: poter diventare missionario.
I ricordi vagano lungo gli anni di seminario. Ricorda quel lontano 8 novembre del 1880, che ha segnato il suo ingresso nel Pontificio Seminario dei SS. Apostoli Pietro e Paolo di Roma. E la fatica, la passione nello studiare latino, filosofia, teologia, alternate alla gioia delle vacanze al suo paese d'origine. Ma non puo' dimenticare anche la triste estate del 1883, quando suo padre e sua sorella Rosina, rimasero sepolti tra le macerie di Casamicciola, durante un violento terremoto. Ne' l'epidemia di colera scoppiata nel 1887 in Campania, subito dopo la sua ordinazione sacerdotale. Gia' destinato in Cina, tornato a casa per quell'ultima vacanza, deve rimandare la partenza. Per quattro lunghi ed estenuanti mesi si dedica all'assistenza e alla cura dei colerosi del suo paese. E ancora una volta, i suoi ricordi sono invasi dalla morte che ha gia' conosciuta sul volto di tanti amici.
Le grida dei cinesi lo richiamano dal suo malinconico dormiveglia. Il treccino del confratello gli solletica i piedi. Per farsi cinesi tra i cinesi, i due missionari si sono adeguati pure nell'abbigliamento. Cosi', prima di salire sul barcone, si sono lasciati trasformare dalle forbici del barbiere e dalle cure del sarto. Padre Alberico ride tra se'. Lui, che fin da bambino ha avuto problemi di calvizie, ora, a venticinque anni, si ritrova rasato a zero, con un ciuffo in mezzo alla nuca, intrecciato alla rinfusa, corto e ridicolo. Per ovviare all'inconveniente e' costretto a portare un cappellino aderente, provvisto di una treccina posticcia. E che dire del vestito lungo fino ai piedi, dalle maniche larghissime? Ripensa alla foto che ha spedito a suo fratello Luigi: «Quasi irriconoscibile, agghindato in questo modo, eppure sono proprio io!».
Lasciandosi cullare da questi pensieri, prende sonno. Questa volta pero', a svegliarlo, sono voci italiane, frammiste alle urla della folla radunatasi sulla sponda del fiume. E' il 18 agosto 1888. Il sole e' gia' alto. Finalmente, dopo 81 giorni di navigazione sul Han, i padri Crescitelli e Colli sono arrivati a Xiaozhai, cittadina di antica cristianita', dove ad aspettarli ci sono i confratelli, gia' sul posto da tre anni.
Una decina di giorni per riposarsi dall'estenuante viaggio e poi i due missionari si trasferiscono a Hanzhong, sede del vicariato apostolico dello Shaanxi meridionale, per sottoporsi «alla tortura intellettuale dello studio del cinese». Dopo solo nove mesi di tirocinio, viene affidato a padre Alberico il distretto di Sijiaying, che si estende tra le vallate e le colline che circondano il fiume Han: mille cristiani sparsi in sette villaggi. Molto attivo nella cura dei cristiani e la formazione dei catecumeni, percorre in lungo e in largo il territorio a lui assegnato. Viaggia tra i monti scoscesi e le pianure melmose, tutte coperte di risaie. Cavalca a fatica, a causa di una sua malattia congenita, si arrampica per sentieri impervi, e' costretto, suo malgrado, a salire in portantina. Il continuo viaggiare lo obbliga ad accettare di frequente alloggi di fortuna anche presso i "pagani", perche' i cristiani che vivono sui monti sono poverissimi. Una camera di paglia, una stanza "affumicata", un retrobottega umido e oscuro, un ospizio freddo e malsicuro... Prova a dormire e a celebrare messa ovunque.
Ma se il suo spirito di adattamento e' davvero ammirevole, sofferenze d'altro genere lo tormentano. Tra le prove a cui e' sottoposto, forse la piu'dura e' quella causata dall'inefficacia apparente delle sue fatiche: «I cinesi si dimostrano indifferenti, se non addirittura ostili». Tuttavia scrive a suo fratello: «Chi e' felice su questa terra? Tu spesso ti sei creduto assai infelice, eppure quanti piu'infelici di te! Io pure sono un uomo soggetto a tante miserie. Ho anche momenti di tedio, di abbattimento, di disillusione, di tentazione, di pericoli forse ignorati e di prova. Chi sulla terra puo' sottrarsene? Eppure finora io mi credo meno infelice della generalita' degli uomini: in qualunque paese si vive, la provvidenza proporziona i patimenti alle nostre forze, per poterli sopportare e si sta meglio quando si sta dove Dio ci vuole. Attualmente sto benissimo». E cosi' fa catechesi, difende i deboli, che assiste e aiuta, insegna agricoltura, compra appezzamenti di terreno per dare una fonte di sostentamento ai poveri e ai vagabondi. Cio' nonostante, non sempre e' accolto con entusiasmo, o almeno rispettosamente. Il suo ottimismo, infatti, e' davvero sconcertante, benche' in tutta la Cina ci sia in atto una sottile forma di persecuzione contro i cristiani e i missionari stranieri, considerati pedine assoldate dalle grandi potenze e complici della loro politica di penetrazione nel Celeste Impero.
Anche in Italia cominciano a giungere notizie allarmanti di disordini e persecuzioni, ma padre Alberico, nel 1896, scrive a sua madre preoccupata: «Cosa temete? Sono nelle mani di Dio... Dunque si faccia la sua volonta' e basta... Purche' il Signore mi dia la forza, qualunque cosa avvenga e' il meglio per me». E ancora: «Non ti impensierire per me, se senti che nelle altre province della Cina sono avvenute delle stragi, se pensi a cio' che altre volte ti ho scritto, ti persuaderai che qui non c'e' nulla da temere, a meno che non capitino circostanze del tutto impreviste. I cristiani, ad eccezione di altri vicariati, sono uniti e i pagani ci temono e ci rispettano, ne' osano farci ingiuria alcuna. Di piu'l'indole del popolo e' pacifica e in generale pagani e cristiani vanno d'accordo. Riguardo ai mandarini, per quanto in cuore ci vogliano male, devono sapere che, se hanno delle segrete istruzioni per ostacolarci, la corte imperiale non vuole certo si arrivi a persecuzioni che mettano il governo in imbarazzo. Per se stessi, poi, sono interessati a mantenere l'ordine, perche' essendo i cristiani in numero considerevole e uniti, andarli a stuzzicare sarebbe pericoloso per il mandarino che rischierebbe di perdere il posto. Qui e' pur noto che anche sotto le piu'fiere persecuzioni, il mandarino di qui mitigo' in pratica gli editti imperiali. Di veri massacri qui in Shangyuanguan, da che vi sono cristiani, non ve ne sono mai stati. Solo si sa che un prete cinese mori' martire, ma per mano del mandarino, quando la persecuzione infieriva. Nello stesso tempo molti furono bastonati, esiliati, ma nessuno fu mai torturato».
Intanto, pero', schiacciato il movimento riformatore nel 1898, la lotta anti-straniera esplode apertamente e prendono sempre piu'piede varie societa' segrete nazionaliste, tra cui la Societa' dei Boxer, all'inizio tacitamente sostenuta e appoggiata da alcuni esponenti del governo, poi ufficialmente incoraggiata dall'imperatrice stessa. Cosi', proprio quando queste due forze si coalizzano, i massacri e gli attacchi si sviluppano a macchia d'olio, soprattutto nello Shaanxi, dove dal dicembre 1889 era stato posto come governatore Yu Xian, acerrimo nemico degli stranieri e protettore dei Boxer. Essi creano centri di addestramento, distruggono tratti della ferrovia e abbattono i pali del telegrafo, simboli dell'ingerenza straniera. Si accaniscono, in particolare, contro i cristiani che, denigrati e oltraggiati, perdono sempre piu'diritti sociali e umani.
E' proprio in questo contesto che padre Alberico, nel 1900, viene trasferito in un nuovo distretto, Ningqiang. Un posto selvaggio, tra i monti solcati da torrenti e strette valli, dove la maggior parte della popolazione e' costituita da discendenti di condannati ai lavori forzati e all'esilio a causa dei delitti commessi. Un luogo, quindi, che lontano dalla sorveglianza del governo e di difficile accesso, favorisce il pullulare di societa' segrete, ostili a qualunque forma di autorita' legale. Per di piu'questa zona, quando vi giunge padre Crescitelli, e' devastata anche da una terribile carestia.
Padre Alberico conosce bene quello a cui sta andando incontro, ma e' pronto a tutto: «Chissa' come andra' in quel lontano distretto; comunque sia, la vita e la morte stanno nelle mani di Dio: non cade foglia che Dio non voglia... State di buon animo e non vi prendete pensiero per me. Io sono nelle mani di Dio e sono contento. C'e' il mio angelo custode che ha cura di me... Mi aspetta un lavoro enorme, meglio cosi', piuttosto che soffrire di noia per disoccupazione!».
E cosi' si rimette in viaggio attraverso un territorio sconosciuto. Durante il tragitto viene subito a contatto con la realta' dolorosa di cui ha tanto sentito parlare. Lungo la strada e' tutto un succedersi di rovine: case diroccate e con i tetti scoperchiati per venderne le tegole; immondizie abbandonate un po' ovunque, dalle quali sbucano bambini macilenti, dagli occhi lividi e infossati, donne che tra i rifiuti, come "cadaveri ambulanti", sono alla ricerca di qualcosa da vendere o da mangiare. Non c'e' nulla per sfamarsi e molti sono costretti a macinare la corteccia degli alberi per mangiarla impastata con radici di erbe e cotta. Secondo le leggi imperiali, i granai pubblici avrebbero dovuto garantire il sostentamento della popolazione in periodo di carestia, ma le milizie irregolari li hanno gia' saccheggiati. Molti granai delle province vicine sono ancora intatti, ma nessuno si preoccupa del trasporto. Fortunatamente l'autorita' locale, che ha chiesto a Pechino il condono delle tasse e aiuti alimentari, riesce a ottenere che i soldati imperiali portino riso nella zona.
Ma ai cristiani viene negato ogni aiuto. Secondo Teng, un prepotente che spadroneggia nella zona, arricchitosi con l'usura e ostile al cristianesimo, essi hanno tradito la Cina, non sono piu'cinesi, ma "diavoli stranieri" che seguono le dottrine occidentali. Non hanno più, quindi, alcun diritto da rivendicare nella societa' cinese. Padre Crescitelli si oppone con tutte le forze a questi soprusi. Ricorre al mandarino della citta', che gli da' ragione, scatenando pero' sullo straniero l'odio e il desiderio di vendetta dei maggiorenti.
La situazione si fa sempre piu'critica e cominciano a circolare voci vaghe e inquietanti. Si trama la sua morte. Ma padre Alberico sembra non accorgersi di nulla. Anzi, soddisfatto per aver ottenuto il sussidio anche per i cristiani, benche' ridotto della meta' e corrisposto in grano anziche' in riso, il 10 luglio 1900 scrive al vicario apostolico: «A Yanzibian regna una pace giammai vista e i litigi sono finiti come per incanto». Una strana calma prima dell'uragano.
Mentre intorno a padre Crescitelli avviene tutto questo, il 5 luglio viene emanato a Pechino un decreto imperiale con cui si stabilisce la pena di morte per i cristiani che non rinunciano alla loro religione e il rinvio in patria per tutti i missionari stranieri. Il vicere' dello Shaanxi non pubblica il decreto, ma ai nemici del padre, che ne giungono ugualmente a conoscenza, non sembra vero di potersi sbarazzare del missionario con l'approvazione dell'imperatrice e con la connivenza del mandarino di Ningaiang decidono di ucciderlo.
I catecumeni pero', avvertito il pericolo, si affrettano ad avvisarlo perche' si allontani dalla zona, ma a lui sembra indecoroso e ingiusto abbandonare i suoi cristiani proprio nel momento di maggiore difficolta' e si trattiene a Tsinkanping, a solo mezzo chilometro, circa, da Yanzibian. Il 20 luglio la guardia territoriale di Talanhuo saccheggia la casa del catechista e padre Alberico, accorgendosi che la sua presenza e' causa d'una violenza ancora maggiore, decide a malincuore di lasciare la missione per mettersi sotto la protezione delle autorita' mandarinali. Triste e amareggiato, raccoglie i suoi pochi averi in due ceste e a cavallo, accompagnato dal suo catechista e da alcuni cristiani, si avvia verso la campagna.
Ma e' troppo tardi. Sta scendendo la sera e inaspettatamente si vede venir incontro il doganiere Jao che, con insistenza, lo invita a pernottare presso di lui perche', dice, le strade sono insicure mentre alla dogana non c'e' nulla da temere. Il missionario finisce per accettare. Piu'tardi pero', assalito da tristi presentimenti e sollecitato piu'che mai dalle preghiere dei suoi compagni, che hanno compreso il tranello, cerca di rimettersi in viaggio. «Sulla via ci sono centinaia di armati che ti aspettano, questo e' l'unico luogo sicuro», ribadisce il doganiere, convincendolo definitivamente a restare.
Si e' fatto buio, ormai, quando, nel profondo silenzio della notte, risuonano tre colpi di mortaio. E' il segnale convenuto: numerose persone si accalcano alla porta del doganiere per prelevare il "diavolo europeo". Il doganiere, ipocritamente addolorato, si avvicina al missionario: «Vedi quanta gente si e' radunata contro di te? Mi e' impossibile difenderti, l'unica via di scampo, se ti riesce, e' quella porta di servizio che da' sul monte», e lo spinge fuori di casa. Ma dove scappare? La parete della montagna, a ridosso della casa, e' troppo impervia. Padre Alberico sa di non avere scampo. Si inginocchia e prega.
Ormai la folla in tumulto gli e' addosso: «Perch&Mac226; fate cosi'? - domanda padre Crescitelli ai suoi assalitori. - Che male vi ho fatto? Se avete qualche cosa contro di me, qualche accusa da farmi, parlate, conducetemi dall'autorita'». Per tutta risposta un terribile fendente per poco non gli stacca il braccio sinistro e un altro, diretto alla testa, lo ferisce al naso e alle labbra. Stordito dai colpi di bastone e dalle ferite, viene dapprima trascinato, poi, data la robusta corporatura, obbligano un catecumeno a caricarselo sulle spalle. Infine, dopo averlo legato mani e piedi e sospeso a un tronco, lo trasportano come una bestia da macello.
Deposto al centro del mercato di Yanzibian, padre Alberico vi rimane in balia della folla inferocita, che lo sottopone a innumerevoli sevizie. Cosi' passa la notte, alternando momenti di delirio a momenti di lucidita', durante i quali prega per i suoi aguzzini, che intanto ingannano il tempo ubriacandosi e giocando.
Si fa mattino e il sole e' gia' alto quando gli assassini decidono di mettere fine alle torture. Ma mentre discutono come ammazzare il missionario, arriva un mandarino militare, avvisato la sera precedente dai catecumeni. Ha con se' venti soldati, ma subito si accorge che, di fronte alla folla esaltata, non sono sufficienti per riportare l'ordine e aiutare il padre. Si limita, percio', a esortarli perche' non lo uccidano, e intanto cerca un mezzo per trasportare padre Alberico da un medico. Ma mentre il funzionario, con i suoi soldati, e' in cerca di una barella, il padre viene trascinato con una corda fin sulla riva del fiume, che scorre presso il mercato e li' decapitato, tagliato a pezzi e gettato nella corrente.
E' appena passato il mezzogiorno del 21 luglio 1900. Padre Alberico Crescitelli ha 37 anni. Come lui, durante la rivoluzione dei Boxer, sono stati uccisi, in Cina, migliaia di cristiani. Il 18 febbraio 1951, a Roma, papa Pio XII lo dichiara Beato.

PADRE CESARE MENCATTINI
(7 maggio 1910 - 12 luglio 1941)

17 settembre 1927: il campanello del seminario del Pime ad Agazzi, in provincia di Arezzo, trilla forte e a lungo. Sbirciando dalla finestra, il rettore scorge, immobile davanti al portone, un ragazzo con due occhi scintillanti e il volto deciso: «Mi prendete? Voglio farmi missionario!».
Viene da Bibbiena, ha diciassette anni e si chiama Cesare Mencattini. Da cinque anni ha lasciato la sua casa, per recarsi prima nel seminario di Arezzo e poi, a causa della salute delicata, in quello di Cortona, dove ha compiuto gli studi ginnasiali con risultati brillanti.
Ora, pero', il desiderio di diventare un buon sacerdote diocesano non gli basta più: l'idea della missione si fa sempre piu'forte, tanto da diventare il suo pensiero fisso.Ma la strada e' ancora lunga, anche se l'entusiasmo non manca.
Gli piace studiare e studia con impegno, ma quando puo' non esita a passare qualche giorno nelle vicinanze della foresta di Camaldoli, immerso nel silenzio e nella natura, che lo incanta e lo corrobora, rinvigorendolo dopo i lunghi mesi trascorsi sui libri.
La sua anima e' rapita dalle meraviglie del creato: in un'escursione, dopo una notte trascorsa con i compagni a contare le stelle, vede la cima di Pratomagno, sormontata dal gigantesco crocione: «Quella vista - scrivera' anni dopo - ci infuse gran desiderio di umiliare sotto i nostri piedi quella cima superba, camminammo sulla giogaia della catena montuosa che separa il Valdarno dal Casentino: poco prima delle nove percorrevamo quelle belle praterie che assomigliavano a tappeti di velluto... Ah, i bei panorami di quella vallata!».
E il suo spirito si eleva a Dio salendo la Verna: «Passammo per l'Abetone e per lo scoglio di Frate Lupo; dalla terrazza della Penna non ci si stanca mai di ammirare quell'incantevole Valle Santa! Io ci sarei rimasto delle ore in contemplazione... I vasti orizzonti invitano l'anima ad allargarsi, suggeriscono cose grandi e ci si sente arditi... Lassù, da quella cima ben poteva San Francesco intonare il Cantico delle creature...».
Terminata la teologia, nel seminario del Pime di Monza, si prepara al presbiterato: «Non pensiamo di essere in credito davanti a Dio facendoci missionari! Siamo sempre noi debitori a Lui, per questa grazia che, quaggiù, non arriveremo mai a capire!». E, inviando gli auguri per le feste natalizie al fratello minore Pasquale, seminarista a Cortona, scrive: «Presto saremo sacerdoti, e proprio per il Mistero che in questa solennita' si celebra! La nostra vita sacerdotale sara' un continuo inno di "Gloria a Dio" e un perenne messaggio di "Pace agli uomini"... Per quanto grandi tu ti immagini i sacrifici della nostra vocazione, pure non arriverai mai a fartene un'idea! Bisogna essere disposti a tutto...».
La sua grande ambizione e' quella di mettere in pratica l'esempio di Cristo, ma e' consapevole della sua debolezza e capisce che, per essere pronto ad affrontare tanta sofferenza, ha bisogno di essere ben allenato e per "allenamento" si sottopone persino a un'operazione chirurgica... senza anestesia.
Il 22 settembre 1934 don Cesare viene ordinato sacerdote. Durante i brevi ritorni in famiglia, fa gia' il missionario, predicando ritiri spirituali, visitando i malati nell'ospedale di Bibbiena e tenendo incontri missionari nel Casentino.
Il 9 agosto 1935, all'ora suggestiva del tramonto, nella penombra della cappella dell'Istituto, il Superiore Generale saluta i nuovi missionari con le parole rivolte da Gesu'agli apostoli: «Io vi mando come agnelli tra i lupi...» e mostra le difficolta' della loro scelta, senza nascondere timori e speranze.
Dodici anni di formazione, una vocazione lungamente curata e ora sono vicini a realizzare il loro sogno. «Secondo le mie previsioni - scrive p. Cesare - andro' in Cina, perche' ad essa verra' destinato il grosso della spedizione di quest'anno. Cosi' sarebbero appagati proprio i miei desideri e avrei il campo che in questi tempi ci da' la speranza di coronare la nostra vita con la palma dei Martiri». Questo il pensiero che accompagna p. Mencattini e i suoi compagni, mentre, alla stazione di Milano, vedono il gruppo dei parenti e degli amici fermi sulla banchina rimpicciolire sempre più, rapiti dalla distanza che il treno in corsa rende infinita. Allora si partiva cosi': un nodo in gola e un "mai più, se non in cielo" conficcato negli sguardi.
Dopo un lungo viaggio per nave, il 10 settembre 1935 p. Cesare giunge in Cina, a Shanghai: «Sono tanto contento di essere arrivato qui e di aver dato cosi' a Dio una prova che veramente lo amo, avendogli fatto il sacrificio delle persone e delle cose piu'care... Sono nella mia patria d'adozione; ringrazio il Signore che mi ha condotto tra i cinesi; ora si tratta di acclimatarsi e morire al proprio modo di vivere, per adottarne uno nuovo».
E non e' facile. Gia' durante i nove mesi di studio della lingua, a Kaifeng, presso la Casa Regionale del Pime, ha piu'volte occasione di rendersi conto delle difficolta' che i missionari devono affrontare: «Vi sono popolazioni immense, in regioni estese per centinaia di chilometri di desolazione e miseria. Noi missionari non potremmo arrivare a tutto, neppure se avessimo le ali. Siamo costretti a fare ben poco in proporzione al lavoro immenso che c'e' da compiere. Gli abitanti di queste zone sono ridotti alla piu'estrema indigenza dopo il passaggio dei briganti, le guerre e le inondazioni del Fiume Giallo. Per le vie si vedono gruppi di straccioni che non hanno neppure un buco dove rifugiarsi la notte e sono privi anche degli stracci sufficienti per ripararsi dal freddo che qui, nel Henan, e' tanto intenso. Non si puo' immaginare quanto costi a noi missionari vivere qui. Non sono le sofferenze fisiche che ci fanno veramente soffrire, ma il sentirci soli in mezzo a questo popolo che ci guarda con indifferenza e disprezzo. Spesso giungono al nostro orecchio parole di insulto. Quando ci vedono passare, per esempio, molto facilmente dicono: "Ecco un cane europeo". Se sapessero quanto bene vogliamo loro e i sacrifici che abbiamo fatto e facciamo per vivere e stare in mezzo a loro!».
Ma p. Mencattini non si scoraggia perche' sa di essere nelle mani di Dio anche in questo «deserto di sabbia gialla, fine fine, che te la trovi addosso, negli orecchi, negli occhi, dovunque... In questa pianura senza confini, tutta uguale... Che contrasto con i panorami di verde e di incanto che presenta il nostro Casentino!».
Anzi, gli riesce d'essere contento. Infatti, inviato nel giugno 1936 nel vasto distretto di Huaxian, come coadiutore di p. Paolo Giusti di Lucca, scrive al fratello: «Io sono felice di fare il prete zingaro, senza chiesa, senza canonica, senza beneficio ma... ricco di anime, cariche di stracci ma rigenerate alla grazia! I miei cristiani sono poveri ma... veramente buoni! Come mi stanno attenti quando parlo loro della bonta' di Dio e della vita eterna! Poi tutti in ginocchio, sulla nuda terra, sotto le stelle, a pregare... Dillo, se questa non e' vera felicita'! Dopo aver abitato per sei giorni in certe topaie e capanne di fango, questa mia stanzetta per me vale piu'che il Quirinale per Sua Maesta' il Re d'Italia e Imperatore d'Etiopia. Ti assicuro che sono veramente felice, perche' ho il cuore contento. Contento di aver lasciato i miei cari, perche' il mio affetto sia completamente rivolto verso Dio e verso tanti poveri, che ora mi sono carissimi avendoli rigenerati al battesimo. Contento di aver rinunciato alle bellezze della nostra Italia per queste sabbie gialle che mi sono divenute familiari quanto il mio paese. Contento di lasciare la mia scienza, appresa con tanta fatica, per farmi ignorante ed esporre con le parole piu'semplici, con i paragoni piu'rozzi, in una lingua non mia, le bellezze della nostra religione. Contento di dover rinunciare alla grandiosita' liturgica dei nostri paesi cattolici, per celebrare la Santa Messa e amministrare i sacramenti nella forma piu'povera...».
E cosi' p. Cesare si butta a capofitto nelle sue "escursioni" attraverso le sterminate pianure del Fiume Giallo. Posto il suo "quartier generale" a Baliying, ogni lunedi' mattina, inforcata la sua bicicletta, parte in visita ai villaggi cristiani tornando a casa ogni sabato sera, per passarvi la domenica. Proprio mentre p. Cesare sta raggiungendo i primi, promettenti risultati nell'attuazione del suo "piano pastorale", scoppia la guerra cino-giapponese e il futuro diventa sempre piu'oscuro. Deve sospendere il progetto di aprire delle scuole, rimandare i catechisti alle loro case e far fronte ai bisogni piu'urgenti della gente.
Nel 1937 l'avanzata giapponese e' sempre piu'preoccupante: si alzano trincee e sospetti. Incominciano le ostilita'. Nel gennaio 1938, ormai, la guerra infuria e ai brevi momenti di tregua succedono intensi bombardamenti: «Ovunque sono scomparse tutte le autorita'. Col continuo passaggio dei soldati, le riserve alimentari, gia' misere a causa dello scarso raccolto dell'ultimo autunno funestato dalle inondazioni, sono agli sgoccioli. Lo spettro della fame e il brigantaggio sono inevitabili».
P. Cesare, piu'volte, si spinge fino in prima linea per soccorrere i feriti, assistere i moribondi, seppellire i morti. Piu'volte viene inseguito e catturato dalle truppe di una o dell'altra parte; finche', nel febbraio del 1939, i giapponesi stabiliscono a Huaxian un presidio per il controllo della citta' e per il rastrellamento della campagna. I posti gia' occupati dai giapponesi, e spesso abbandonati per i loro spostamenti, ricadono nelle mani o dei comunisti o dei briganti, o di altri soldati. La citta' di Huaxian, in un anno, ha subito questo stato di cose almeno cinque volte: sotto le truppe regolari, poi sotto i giapponesi, quindi sotto i briganti, poi i comunisti e ora e' stata occupata nuovamente dai giapponesi che lavorano alacremente per sollevarla.
Al principio del 1941, descrivendo la situazione caotica in cui ancora si trova, p. Cesare scrive: «Da tempo pensavo di scrivervi. Le circostanze attuali me l'hanno impedito. Potessi descrivervi il mondo in cui viviamo! ... Vi meravigliereste come ancora nessun missionario di Weihui non ci abbia lasciato la pelle. Cerchero' di raccontarvi qualche cosa. Da quattro anni, curo il medesimo distretto. Ancora non ho passato un giorno di pace. Sempre in guerra. Tutta la mia zona e' stata ed e' sempre, piena di soldatacci che mi fanno tribolare non poco. Che guerra strana! In qualsiasi luogo siamo al fronte. Non ci si capisce nulla in tanto disordine. Non trovo parole per darne un'idea. Vi sono i comunisti! Fanno paura. Agiscono e si muovono sempre di notte. Poveri noi, se riuscissero a stabilirsi! Mi sono incontrato con loro quattro o cinque volte. Me la sono sempre cavata per vera protezione del Signore. La prima volta mi spararono ben tre rivoltellate, senza riuscire a colpire ne' me ne' il servo, nonostante i proiettili ci sfiorassero la testa e la schiena! La seconda volta mi portarono via la coppa del calice, la pisside e stracciarono cotta e messale. Una terza volta, al buio, tornando da un'estrema unzione, mi fermarono, spianandomi i fucili dinanzi. Pochi giorni or sono, mi condussero con loro, ma mi rilasciarono subito, senza neppure perquisirmi. Per fortuna non riescono a fermarsi a lungo in un medesimo luogo. Sono combattuti continuamente dai giapponesi e dai soldati del vecchio governo. Poi vi sono anche i soldati del nuovo governo. Aggiungete, infine, una moltitudine di brigantacci che cercano di rosicchiare piu'che possono, commettendo ogni sorta di delitti e di rapine... Tra le loro vittime, io conto due catechisti portati via da loro, di cui uno fu sepolto vivo e uno fu decapitato. Immaginate la confusione, le guerriglie! Io vi sono sempre in mezzo. Cosi' da tre anni e più, senza sapere come andra' a finire. Oggi sotto questi, domani sotto quelli, sempre assillato dal pensare al modo migliore per cavarmela con tutti, continuando il mio lavoro. Come vedete, mi trovo in una posizione difficile e anche pericolosa. In questi ultimi mesi, quasi tutti i giorni si vedono villaggi in fiamme, si odono scariche di fucili. E noi, qui ad aspettare che... passi. Proprio mentre scrivo, poco lontano, si sentono fucilate, interrotte dal crepitare della mitragliatrice. Forse sono i briganti che prendono d'assalto qualche paese; forse sono i comunisti che si picchiano con i soldati del nuovo governo. Prima di notte, sicuramente, si sentira' anche il rombo del cannone, con cui i giapponesi, da lontano e per un momento, metteranno in fuga tutta quella soldataglia. Nonostante tanto disordine, sono riuscito a fabbricare una piccola cappella. E' di lusso per questo paese, dove non esiste una casa piu'bella. Sono semplici mura di fango, all'esterno ricoperte di mattoni. Ho in mente di ornarne le disadorne pareti e arricchirla d'un altarino decente che sostituisca l'attuale tavolaccio. Ho in progetto anche la costruzione d'una casa asciutta e piu'sana per me. Il legname e' pronto. Poi il catecumenato, la scuola... Quanti sogni! Finisse la guerra! Questo e' il sogno, la speranza piu'grande. Si e' troppo stanchi di questa vita cosi' agitata, si e' troppo nauseati di vedere tante miserie e tanti corpi straziati. Non si puo' resistere piu'a lungo, sentendo tanti pianti e tanti lamenti. Cosi' nel nostro vicariato vi sono un buon numero di missionari molto scossi in salute. Io pero' sono ancora nel numero dei sani».
P. Mencattini pur sapendo che la situazione e' sempre piu'pericolosa e puo' precipitare da un momento all'altro, tuttavia, decide di rimanere sul "campo". Gia' dal luglio 1939, infatti, scrive: «Piu'volte mi sono gettato in ginocchio attendendo la morte. Non ho mai lasciato il mio posto. Se dovessi perdere la vita per causa del mio ministero, sarei proprio felice».
E anche quando nel 1940 scoppia il colera e a causa degli enormi strapazzi a p. Cesare viene una fortissima dissenteria e a p. Giusti la malaria, pur richiamati dal vescovo, decidono di restare. Devono correre nei punti piu'dislocati del distretto, per consolare, aiutare centinaia e centinaia di rifugiati e sinistrati, seppellire i morti. Il vescovo e' costretto a cedere di fronte alla loro risolutezza.
Poi, all'improvviso, giunge in Italia un telegramma indirizzato al Superiore Generale del Pime: «Il 12 luglio 1941 p. Cesare Mencattini e' rimasto vittima in un assalto avvenuto da parte di soldati cinesi sbandati. Nella medesima circostanza sono stati feriti p. Angelo Bagnoli e p. Leo Cavallini». Il telegramma non da' altri particolari e bisogna attendere il mese di novembre per poter avere notizie piu'dettagliate.
Da una lettera di p. Sordo, procuratore della missione a Hankou, vengono finalmente ricostruiti i fatti. La sera dell'11 luglio, dopo un estenuante viaggio in bicicletta sotto il solleone, da Baliying p. Cesare giunge a Huaxian, per trattare con p. Giusti l'acquisto d'un appezzamento di terreno per la costruzione di una scuola femminile. Decidono di parlarne al vescovo: il giorno dopo, p. Cesare si rechera' a Weihui in compagnia di p. Bagnoli e p. Cavallini. E cosi', dopo la celebrazione della messa, all'alba del 12 luglio, partono tutti e tre: p. Cesare in bicicletta viene rimorchiato con una corda dai suoi due confratelli in moto. Verso le nove, la piccola carovana giunge al mercato di Qimen. Tutto sembra tranquillo, nessuno puo' prevedere che di buon ora sono arrivati dei soldati irregolari che si dicono dipendenti dal mandarino di Rencun. I padri, giunti a un centinaio di metri dalla porta del mercato sono, senza alcun preavviso, presi a fucilate da quei soldati che si erano appostati dietro un muricciolo fuori dall'abitato. Tutti e tre vengono colpiti dalle loro palle dum-dum. P. Mencattini cade all'istante emettendo un doloroso grido, con il ventre squarciato dalle pallottole. Lo finiscono subito a baionettate e lo seppelliscono dopo averlo derubato di tutto, anche degli abiti.
P. Bagnoli, che e' stato ferito alla coscia sinistra, fa appena a tempo a chiamarlo per nome e dargli l'assoluzione. P. Cavallini, colpito al piede sinistro, ha l'osso della caviglia fratturato e cade con la moto nel fosso a lato della strada. P. Bagnoli tenta inutilmente di fermare i briganti spiegando loro che sono missionari cattolici, ma quelli si limitano a rispondere: «Lo sappiamo». Poi fermano un carro, caricano i due feriti e li conducono al mercato. Qui li abbandonano in una pagoda, dove rimangono fino alle quattro del pomeriggio, minacciando e percuotendo tutti coloro che si avvicinano per soccorrerli. I due superstiti sono condannati a essere seppelliti vivi, ma, provvidenzialmente, un influente ufficiale cristiano, avvertito dell'accaduto, dopo ore di vive discussioni riesce a strapparli dalle mani dei loro assalitori. Quindi, su due carrettini trascinati a mano, i pp. Bagnoli e Cavallini vengono trasportati all'ospedale di Weihui, distante cica 25 chilometri, dove finalmente possono essere curati. Il cadavere di p. Mencattini, invece, sempre per l'interessamento dell'ufficiale cristiano, viene disseppellito e composto in una bara. Il giorno dopo e' trasportato a Weihui, dove i confratelli, i fedeli ma anche i non cristiani, si recano, numerosi, a porgergli l'ultimo saluto.

MONS. ANTONIO BAROSI
(23 novembre 1901 - 19 novembre 1941)

Un piccolo chierichetto biondo, sull'altare, osserva, con gli occhi sgranati, la Messa solenne celebrata da mons. Geremia Bonomelli: assorto nei suoi pensieri, scruta i movimenti del grande vescovo cremonese vestito con i paramenti delle grandi occasioni... chissa' cosa passa per la testa di questo ragazzino!
Antonio Barosi, nato il 23 novembre 1901 a Solarolo Rainerio e trasferitosi a Cremona, con la famiglia, nel 1912, tante volte serve la Messa nella cattedrale e altrettante rimane conquistato dal fascino del ministero sacerdotale. Non lascia, percio', trascorrere molto tempo e nel 1913 entra nel Seminario diocesano, convinto di diventare sacerdote al servizio della sua diocesi. Ma, dopo la prima liceo, Tonino sente parlare del cremonese p. Silvio Pasquali di Picenengo, missionario in India, e rimane affascinato da questa nuova figura che si affaccia nella sua vita.
Cosi', il 27 settembre 1919, decide di continuare la sua preparazione al sacerdozio nel Seminario per le Missioni Estere di Milano, dove presto lo seguono i suoi compagni Luigi Martinelli e Angelo Corbani, poi missionari, il primo in Bengala, il secondo in India.
Finalmente, nel 1925, viene ordinato sacerdote e il 5 ottobre riceve il crocifisso di missionario dall'arcivescovo di Milano, cardinal Eugenio Tosi. Il giorno dopo salpa per la Cina. Due mesi e diciotto giorni di viaggio, sui mezzi piu'disparati. Partito da Genova, su un bastimento tedesco, sbarca ad Hong Kong alla fine di ottobre, quindi raggiunge Shanghai e di li', in quattro giorni di navigazione sul Fiume Azzurro, raggiunge Hankou. Finalmente da Hankou, dopo una giornata e mezza di treno e cinque giorni di carro cinese, e' a Jingang, centro della sua futura missione. «Due mesi e diciotto giorni di viaggio! Quanti paesi ho attraversato senza mai vedere una croce! Qui voglio consumare la mia vita per l'avventura del Regno di Dio!», queste le prime parole pronunciate dal giovane p. Antonio al suo arrivo in Cina.
Due mesi di studio della lingua cinese e poi, ancora disorientato e inesperto, viene mandato nel distretto di Dengxian, come coadiutore di p. Massa: e' incaricato di assistere gli alunni della scuola cattolica, questi l'aiuteranno a imparare piu'in fretta il cinese, che ancora balbetta appena.
Ma oltre ai disagi della lingua e dell'ambientamento, subito si deve scontrare con la dura realta' del comunismo cinese. Infatti scrive, nell'ottobre 1927, ai seminaristi di Cremona: «Il luglio scorso le truppe rosse sono entrate vittoriose nella nostra provincia del Henan, il nostro vicariato e' stato il primo a essere invaso da piu'di 70 mila soldati senza ordine e senza regola. Le nostre chiese e case furono tutte occupate dai soldati, anche la nostra di Dengxian e' stata occupata e per noi soltanto due stanze: un mese e cinque giorni di convivenza con quei briganti che non sapevano far altro che insultare e gridare "a morte lo straniero". Questa truppa, diretta verso Zhumadian, sulla ferrovia, si diresse poi a Kaifeng, capitale della provincia, che in pochi giorni fu assediata e occupata. Il nuovo regime si e' fatto ben presto sentire ovunque. Scuole proibite alla Chiesa cattolica. Anche la nostra, chiusi i vasti locali appena fabbricati e requisiti dai soldati, e' trasformata in caserma. Cosi' anche nelle altre residenze del vicariato abbiamo soldati. Evviva il socialismo... Da Kaifeng, poi, sono stati mandati i propagandisti del "sole dell'avvenire". Al loro arrivo hanno tappezzato tutti i muri di manifesti, molti dei quali contro di noi: contro la nostra religione, e contro gli schiavi degli stranieri (i cristiani). Dopo l'entrata del nuovo regime, non possiamo uscire senza sentirci insultati, maledetti e derisi. Il nostro ministero e' molto intralciato, noi qua siamo ancora tutti al nostro posto e ci staremo fino a che non ci manderanno via o ci uccideranno. Non vi nego che c'e' da soffrire. Ma non vi nego pure che il Signore sa sostenere e aiutare. Speriamo che il Signore ci conceda un po' di pace e tranquillita' in mezzo a tanta babilonia per poter fare un po' di bene; se non altro sostenere i cristiani affinche' non vengano meno alla fede ricevuta. Dirvi quando potra' finire questo caos e' difficile: sono troppi i pretenziosi, tutti egoisti. Tutti dicono di venire a salvare la patria, mentre troppo chiaro si vede che lavorano per arricchirsi e farsi una fama. Tutti questi capi, pero', si trovano d'accordo su un punto: allontanare dalla Cina lo straniero».
Dopo un anno le cose sembrano tornare alla normalita', ma, nell'inverno 1928-29 scoppia una grande carestia nel Henan: «Da dieci mesi non piove, in primavera e in autunno non si e' raccolto nulla. Qui, a Dengxian, p. Massa e io abbiamo pensato di aprire ai piu'affamati i locali della scuola, ora abbandonata dai comunisti. Misurando le nostre forze non volevamo raccoglierne piu'di una trentina... ma, aperta la porta, chi la puo' richiudere? Ora ne abbiamo un centinaio e più. Le nostre risorse, pero', sono terminate, quindi abbiamo messo l'affare nelle mani della Provvidenza, e con questa fiducia tiriamo avanti».
P. Barosi si da' un gran da fare e riesce a ottenere una buona quantita' di grano dal paesino cattolico. Il ventisettenne Tonino comincia, cosi', a rivelare le sue doti di organizzatore e diplomatico. Ma e' proprio quando a nulla puo' servire la diplomazia, che p. Barosi dimostra la qualita' della sua fede. Infatti il 9 febbraio 1929 giunge a Dengxian una grossa banda di briganti che sottopone a crudeli sevizie i ricchi della citta', nella speranza di poter ottenere grosse somme di denaro... e tutto cio' sotto gli occhi dei padri, minacciati dello stesso trattamento se non pagano in contanti. Il mattino seguente, all'avvicinarsi dei soldati regolari, la banda cerca di raggiungere i suoi rifugi sui monti, trascinando con se' tremila ostaggi e i due missionari, legati e costretti a camminare in mezzo ai cavalli scalpitanti. P. Massa e p. Barosi si vedono ormai perduti. Invece, durante la violenta battaglia che oppone i briganti alle truppe regolari, nella confusione generale, riescono a liberarsi dalle funi e a nascondersi. Terminati i combattimenti, stremati e impauriti, passando tra i cadaveri abbandonati sulla strada, riescono a mettersi in salvo.
Ma sembra che per p. Barosi non ci sia mai pace. «Dopo essere stato preso dai briganti, rimasi ancora nel distretto di Dengxian fino ai primi di maggio, sono dovuto poi tornare a Kaifeng, nella residenza vescovile, perche' nel mio ultimo giro di missione mi presi il vaiolo. Guarito, gia' stavo preparando i miei tre stracci per ritornare al mio distretto, quando il vescovo decise di cambiarmi incarico... non volevo accettare tanto delicato ufficio, ma alla fine, confidando nel Signore, ubbidii. Ora sono qui da dieci mesi. Ho bisogno di un grande aiuto del Signore, per portare la mia croce non troppo leggera».
E' nominato, infatti, economo di Nanyang, la missione piu'importante della provincia, deve cioe' «amministrare quanto non e' mai necessario neppure ai bisogni piu'urgenti». A lui fanno capo i cristiani per le loro questioni, i catechisti per rifornirsi di libri e sussidi didattici, i padri per tutto l'occorrente delle residenze, scuole e chiese. Deve badare ai coloni che coltivano i pochi terreni della missione, ai muratori e agli artigiani che lavorano in questa o quella stazione. Deve pensare al pane quotidiano per gli orfani e alla loro educazione, alle suore addette alla cucina, al guardaroba, all'assistenza dei ricoverati, alla direzione delle scuole femminili. Inoltre e' l'economo del seminario.
Ma tutto questo non basta: deve provvedere vitto e alloggio per i soldati di passaggio e foraggio per le loro bestie. Dagli agenti governativi, che pretendono il pagamento di tasse e dazi assurdi, deve lasciarsi "alleggerire" il meno possibile. Non e' mai imbarazzato. Non si spaventa neppure di fronte alle immense necessita' della sua gente, ne' davanti alla cronica mancanza di fondi, anzi, sembra che siano proprio le difficolta' a stimolarlo nel tentare l'impossibile. P. Barosi ha appena assunto il nuovo incarico, nell'estate del 1929, che gia' progetta di costruire una nuova scuola, e questo nonostante la missione debba affrontare notevoli problemi finanziari e fare i conti con la persecuzione accanita contro "tutto cio' che sa di Chiesa cattolica". E sempre nello stesso momento, che noi, umanamente, giudicheremmo inopportuno, si decide di: «aprire nella nostra residenza principale di Jingang, unica non occupata dai soldati, una scuola-collegio, che raccogliesse i nostri giovani dei distretti desiderosi di studiare. Non c'era da pensarci due volte, e senza tener conto delle difficolta', si diede principio alla tanto desiderata scuola». Gli inizi sono modesti: casette cinesi adattate, arredamento riciclato, tavoli e sgabelli sgangherati. Ma, con il passare degli anni, la scuola raggiunge un buon livello, sia per il numero degli alunni che per la qualita' dell'insegnamento impartito, tanto che il vescovo decide di rinnovarne completamente le strutture, per renderle piu'adatte alle nuove esigenze.
Dunque e' un successo, tanto che le tre universita' cattoliche di Pechino, Tianjin e Shanghai si impegnano ad ammettere senza esami gli alunni della Scuola Volonteri, cosi' chiamata in onore del primo vescovo di Nanyang, mons. Simeone Volonteri. Tutto, percio', sembra procedere a gonfie vele, eppure la situazione non e' poi cosi' rosea. Il 18 gennaio 1931 p. Barosi scrive ai seminaristi cremonesi: «Sono tre anni che facciamo una vita sempre con una tensione di nervi che se non ci fosse stato un aiuto tutto speciale del Signore, certo saremmo gia' fuori uso. Sapranno quanti dei nostri confratelli furono portati in prigionia dai briganti e quanti trucidati. Ma purtroppo non e' terminata la storia! Si vive alla giornata confidando nel Signore; anche noi qui a Jingang si e' sempre circondati da briganti, tutte le notti si deve vegliare per timore di essere assaliti all'improvviso; senza poi parlare delle angherie che continuamente i soldati e i capi della citta' ci fanno in guanti gialli. Questo lo dico non per spoetizzare la vita missionaria, ma perche' sappiate in che condizioni ci troviamo e possiate con piu'ardore pregare il cuore eucaristico di Gesu'per un po' di pace e tranquillita' su questa povera Cina. Pero', nonostante questi trambusti e prove, il Signore ci consola e ci benedice nell'opera nostra».
Uomo dalle mille capacita', si deve continuamente impegnare in nuove mansioni. Sembra infaticabile e il pro-vicario apostolico mons. Pietro Massa, conoscendo la sua grande disponibilita', nel 1936 gli affida un ulteriore incarico: «L'anno scorso il vescovo mi chiama e mi dice: "Caro padre, so che e' gia' molto occupato, ma, cosa vuole, mi faccia un vero favore: diriga, in qualita' di vicario foraneo, le tre sottoprefetture occidentali (un'estensione come mezza Lombardia)". Come si puo' dire di no? Anzi, proprio in questi giorni sto per mettermi a cavallo di un mulo e fare il giro del mio vicariato. Oltre a questo "poco" da fare, quest'anno ho anche la direzione della costruzione della cattedrale della citta' di Nanyang. Come vedete anche ingegnere, capomastro e manovale. Qui si diventa laureati in tutte le scienze. Voi penserete: "Come fa a seguire tante cose?". Si fa tutto quello che si puo'. E' certo che non si fanno le cose a perfezione. Cosa si potrebbe fare se ci fosse qualche sacerdote in più! Si comincia la giornata alle quattro del mattino e la si finisce alle dieci della sera. Senza contare le peripezie e i viaggi da fare».
Intanto l'obbedienza spinge p. Barosi ad assumersi sempre nuove e piu'grandi responsabilita'. Infatti, nel 1939, il nuovo vescovo Pietro Massa, suo primo parroco in Cina, lo nomina pro-vicario apostolico, ben sapendo che il suo antico coadiutore di Dengxian ha le spalle robuste. E il padre Antonio comincia a sostituire il vescovo durante le sue assenze, sbrigando la corrispondenza con Roma e Milano, curando le relazioni con le autorita' locali, vigilando sul seminario, sulle attivita' pastorali, sull'orfanotrofio.
Ma non basta ancora. A p. Barosi sono riservate ancora maggiori responsabilita' in piu'vasto campo di lavoro. Dopo 45 anni di missione, mons. Giuseppe Tacconi, vicario apostolico del Henan Orientale, chiede alla Santa Sede che il vicariato, da lui fondato nel 1916, sia affidato a qualcuno piu'giovane di lui. Roma, accogliendo la domanda, nella primavera del 1940 nomina p. Antonio Barosi amministratore apostolico di Kaifeng, capitale del Henan e centro della missione, aspettando tempi migliori per eleggere il nuovo vescovo. Ancora una volta p. Tonino obbedisce.
Mons. Barosi, pero', a causa della difficolta' di comunicazioni non puo' raggiungere subito la nuova sede. Per recarsi a Kaifeng, deve attraversare il nuovo vasto letto del Fiume Giallo e passare dal territorio in mano ai cinesi a quello occupato dai giapponesi. Infatti questo vicariato e' diviso in due dalle acque e dal fronte di guerra: passare dall'una all'altra parte non solo e' difficile e pericoloso, ma pressoche' impossibile. Solo dopo due mesi, per opera di p. Vitali, missionario di Kaifeng, conosciutissimo dalle autorita' cinesi militari e civili delle due sponde, Barosi puo' mettersi in viaggio per raggiungere la sua nuova destinazione.
Il suo primo impegno e' quello di visitare tutti i distretti posti sotto la sua giurisdizione, per avere una visione completa delle comunita' cristiane presenti, consolarle, incoraggiarle e riorganizzarle, dove necessario.
Nel novembre 1941 a mons. Barosi non rimane da visitare che il distretto di Dingcunji, situato a sud della citta' di Luyi, quasi totalmente sommerso dalle acque del Fiume Giallo che quell'anno, a causa delle violente piogge estive, aveva addirittura cambiato il percorso e formato un lago dalle acque basse e limacciose di parecchi chilometri quadrati.
I giapponesi si sono spinti tre volte fino a Dingcunji, ma si sono sempre ritirati; al contrario i soldati cinesi sono riusciti ad avere il controllo permanente del territorio. Dingcunji, a ragione, puo' essere definito "terra di nessuno" perche', in assenza di una vera autorita' centrale, e' perennemente in bali'a dei vari occupanti che successivamente vi spadroneggiano a loro piacimento. Essendo un territorio di confine, incuneato tra due province, i briganti filo-comunisti, fatta razzia nella provincia di Henan, si rifugiano in quella di Anhui, dove si possono ritenere al sicuro, e viceversa.
Anche mons. Barosi teme i pericoli che questo distretto puo' nascondere, tanto che la visita, alla fine, diventa quasi un'ossessione carica di cupi presentimenti. Eppure, e per gli stessi motivi, non puo' rimanere tranquillo nella sicura residenza centrale, situata in una zona controllata dai giapponesi, sapendo i suoi missionari esposti a disagi e pericoli d'ogni genere.
Cosi' il 10 novembre parte, in treno, da Kaifeng e il 17 raggiunge la citta' di Luyi, sotto controllo giapponese e residenza di p. Zanardi. Il mattino del 18 novembre, in compagnia di questi, lascia la citta'. Prima di arrivare a destinazione, incontrano p. Zanella che sta loro venendo incontro e alle quattro del pomeriggio sono a Dingcunji. L'accoglienza della gente e' festosa; la presenza del vescovo, in un momento cosi' critico, non puo' non rappresentare un motivo di speranza. Ma la gioia e la fraternita' rinsaldate sembrano destinate a durare troppo poco in Cina, un paese che, almeno in quegli anni, sembrava cosi' avaro di speranza.
MARTIRIO A DINGCUNJI
(19 novembre 1941)
E' il 19 novembre 1941: una domenica di tardo autunno, i primi venti che soffiano dal nord raggelano l'aria. Ma a Dingcunji c'e' aria di festa, nonostante il grigiore autunnale: c'e' mons. Barosi in visita pastorale. Ogni cristiano ha fatto il possibile perche' il paese, nonostante i tempi difficili, sia degno di questo giorno solenne... non capita tutti gli anni che il vescovo in persona visiti la comunita'. Del resto p. Zanella, il parroco, ha tanto insistito perche' fosse lo stesso vescovo a impartire le cresime. Anche i cresimandi dei villaggi vicini si sono riuniti a Dingcunji, ospitati presso parenti o amici, e gia' dalla sera del sabato si nota un gran movimento tra chi arriva e chi cerca di sistemarsi. I piu'lontani, o quelli che abitano nei villaggi piu'disagiati e che avrebbero dovuto attraversare le localita' inondate dal Fiume Giallo, nel pomeriggio della domenica saranno raggiunti dal vescovo accompagnato dai pp. Zanella, Lazzaroni e Zanardi.
Conclusa, in mattinata, la celebrazione delle cresime, il vescovo si trattiene con i catechisti, i cresimandi e i loro parenti. Poi tutti si ritirano per il pranzo. Alle tredici, un ufficiale con una decina di soldati entra nella residenza dei missionari e, dopo averne scacciato i cristiani, chiude la porta d'ingresso e la fa piantonare da un gruppo di soldati ben armati. All'intero villaggio di Dingcunji viene imposto una specie di coprifuoco. P. Pollio (divenuto poi vescovo di Kaifeng nel 1947) descrive l'accaduto prima nelle pagine del suo diario, in seguito stende una relazione piu'organica che spedisce al superiore generale del Pime, mons. Lorenzo Maria Balconi. Ci serviamo di questo scritto per conoscere i particolari dell'omicidio.
L'ufficiale e i soldati, entrati in residenza, prima chiedono di p. Zanella, il quale si presenta subito; i soldati lo conducono in una stanza di fronte a quella nella quale i padri hanno appena finito di pranzare, con la scusa di fargli alcune domande. Quasi contemporaneamente chiedono anche di p. Lazzaroni che conducono in sacrestia, con la proibizione di muoversi e con le sentinelle alla porta. L'ufficiale e altri soldati vanno direttamente nella stanza dove il vescovo sta chiacchierando con l'altro missionario. Mons. Barosi ha con se' una carta d'identita' rilasciatagli dai giapponesi, un lasciapassare necessario per potersi muovere nelle zone controllate dalle forze nipponiche. E' questo il pretesto di cui si servono i soldati per sostenere l'accusa, rivolta ai quattro, d'essere "spie del nemico e agenti del capitalismo". Egli usa parole gentili con l'ufficiale, ma i soldati, a un suo cenno, legano mani e piedi a mons. Barosi e a p. Zanardi. Si sente gridare p. Zanella. Subito alcuni soldati trascinano in chiesa i due appena legati e li buttano a terra, chiudono loro bocca e orecchie con della carta.
A questo punto i soldati bendano gli occhi al domestico di mons. Barosi, Han, che aveva seguito i padri da Kaifeng, percio' di tutto quello che succede dopo non puo' essere testimone. Il cuoco pero' e' in grado di raccontare altri particolari. Egli e' in cucina e, avendo paura, si nasconde in un angolo ben protetto da paglia e legna: da li' assiste al martirio di p. Zanella. I soldati portano p. Bruno fuori dalla stanza e da grandi recipienti gli versano in bocca acqua bollente e petrolio. Piu'volte il padre grida tra la morte e la vita, in una lingua sconosciuta al servo, e piu'volte afferma di non avere denaro e armi. Invoca con forti urla l'aiuto di mons. Barosi e p. Zanardi, ma non riceve alcuna risposta. Finalmente quei soldati, dopo avergli fatto bere piu'volte acqua bollente e petrolio, lasciano il suo corpo privo di sensi o senza vita nel cortiletto. Non si puo' precisare se p. Zanella sia morto li' o in fondo al pozzo nel quale verra' gettato. Il cuoco, intanto, vede che i soldati trascinano con forza il vescovo e p. Mario verso l'altro cortile.
Svaligiata la residenza degli oggetti piu'preziosi e utili, i soldati, verso le diciotto, se ne vanno da Dingcunji. Saliti sulle barche scompaiono nell'oscurita', mentre una gelida pioggerella scende col silenzio della sera. Solo allora i cristiani si dirigono alla residenza dei missionari. Forzata la porta, entrano e in portineria trovano il servo Han legato. Lo slegano e tutti insieme si mettono a cercare i padri. Chiamano, ma nessuno risponde. Nel disordine nessuna traccia di sangue, nessun corpo. Non sospettano ancora la tragedia, tanto piu'che non si e' sentito nessun colpo d'arma da fuoco. Contro ogni speranza, pensano che i missionari siano stati presi in ostaggio. Continuano a chiamare, a cercare in ogni angolo, ma nulla... Finalmente alcuni si accorgono che il muricciolo intorno al pozzo e' crollato e i mattoni ne ostruiscono completamente l'imboccatura (i pozzi cinesi sono molto stretti, per cui una simile operazione diventa molto facile). Si guardano muti, nessuno osa manifestare apertamente il sospetto che tiene nel cuore: certo sotto i mattoni ci deve essere qualcosa. Si comincia l'opera di sgombero e compaiono i corpi delle vittime. Per mezzo di lunghe pertiche di bambù, munite di un uncino, si cerca di estrarre i cadaveri. Il primo e' quello di p. Zanella, poi quello di p. Zanardi, quindi quello di mons. Barosi. E' ormai tardi e non si riesce a trovare il corpo di p. Lazzaroni. Inutilmente si lavora ancora per qualche ora, poi si rimanda tutto al giorno successivo. Alle prime luci dell'alba, finalmente, si riesce a recuperare anche il corpo di p. Lazzaroni, che quasi certamente e' stato gettato ancora vivo nel pozzo. Girolamo aveva 27 anni e solo due di missione. Padre Bruno Zanella 32 anni e cinque di missione, padre Mario Zanardi aveva da poco compiuto i 37 anni, di cui quattordici in missione e monsignor Antonio Barosi di 40 anni, ne aveva trascorsi sedici in Cina.

PADRE GIROLAMO LAZZARONI
(24 settembre 1914 - 19 novembre 1941)

Colere: uno sperduto paesino della bergamasca, nell'incantevole Valle di Scalve, ai piedi del versante nord della Presolana. Siamo nei primi anni del 1900: le famiglie di questa zona, per poter sopravvivere, coltivano l'orto, producono un po' di fieno, durante l'inverno affittano una o due mucche, che assicurano il latte e un po' di calore nel grande gelo invernale; spesso pero' questo non basta e i capofamiglia sono costretti ad andare altrove, lontano, in cerca di qualche lavoro.
Anche i Lazzaroni conducono questa vita e Girolamo, fin da piccolo, aiuta a raccogliere le patate, tagliare l'erba, sistemare il fieno, mungere e portare al pascolo le pecore. Insieme ai suoi tre fratelli maggiori, deve aiutare la mamma a portare avanti la famiglia: suo padre, infatti, per lunghi periodi emigra in Australia, dove cerca di guadagnare qualcosa come minatore.
Percio', quando Girolamo confida alla mamma il desiderio di proseguire gli studi in seminario, inevitabilmente si sente rispondere un secco "no". E' davvero una cosa impensabile: il costo del suo trasferimento a Bergamo non puo' essere sostenuto dal magro bilancio familiare, e' meglio per lui archiviare il suo sogno. La povera famiglia Lazzaroni non puo' permettersi di pagare la retta e di preparargli il corredo richiesto (abituato com'e' a indossare pantaloni rattoppati e zoccoli)... La madre spera che sia solo una fantasia passeggera.
Ma nel 1927, dopo il rientro definito del padre dall'Australia, Girolamo, ormai tredicenne, ripropone il suo desiderio. La presenza del papa' assicura un aiuto in piu'alla famiglia, e i risparmi portati dall'Australia possono garantire un maggior, seppure limitato, respiro. Cosi', con l'attestato di terza elementare e con le poche nozioni di latino insegnategli dal parroco, Girolamo, nel novembre del 1927, lascia Colere per il seminario diocesano di Bergamo. Abituato a lunghe passeggiate in montagna, sempre all'aria aperta, inizialmente trova dura la vita del seminario. Quelle lunghe ore trascorse seduto a un banco ad ascoltare cose a lui incomprensibili... qualche volta gli sembra persino di trovarsi in prigione. Non poter cantare a squarciagola come faceva quando andava a raccogliere la legna nei boschi con i suoi fratelli, dover restare fermo, chiuso in un'aula quando il cielo e' azzurro e tutto invita a correre nell'aria, con i capelli sollevati dal vento, a salire in montagna, ad arrampicarsi in vetta alla Presolana.
Di fronte alle difficolta' rappresentate dagli studi e dalla vita di gruppo, vuole lasciar perdere tutto e tornare a casa. Ma la sua vocazione non puo' finire come una bolla di sapone, confida nel Signore e piu'volte gli ritorna in mente la frase del suo parroco: «Senza sacrificio e senza fatica non si realizza nulla di buono nella vita». Con la testa tra le mani, allora, si accanisce sui libri sicuro che anche cosi' sta realizzando, fin d'ora, il suo servizio a Dio. Intanto l'ambiente e i compagni, cosi' lontani dalla sua cultura, cominciano a diventargli familiari: gli viene affidata la responsabilita' di guidare le passeggiate in montagna, di organizzare partite di calcio e di animare le serate per vincere la nostalgia di casa. Vivace e amante degli scherzi, rivoluziona il seminario con le sue trovate. Anche gli studi proseguono, tanto che, quando un compagno non comprende qualche argomento, si rivolge a lui per averne una spiegazione chiara.
Nel frattempo, durante gli anni del liceo, matura la scelta di essere missionario e nel 1935 si trasferisce nel seminario del Pime a Genova e poi a Milano. Pochi mesi prima della sua ordinazione sacerdotale, nel 1938, gli muoiono, a breve distanza, entrambi i genitori. E' un duro colpo per lui, cosi' affezionato alla sua famiglia, ma anche in questa difficile occasione sa affidare tutto a Dio. Alle condoglianze ha il coraggio di rispondere: «Il Signore ha loro anticipato il premio per il sacrificio che avevano gia' compiuto offrendomi a Lui per le missioni». Ordinato sacerdote il 24 settembre del 1938, nel duomo di Milano, celebra la sua prima messa a Colere, dove, al tramonto, i suoi amici gli fanno un'insolita sorpresa: nello sfondo della vallata brillano enormi linee luminose... una grandiosa fiaccolata raffigurante un'ostia e un calice di smisurate proporzioni!
Ha 24 anni quando, finalmente, viene a sapere la sua destinazione: insieme al confratello Valentino Corti e' assegnato alla missione di Hanzhong nella provincia dello Shaanxi in Cina, la piu'lontana di tutte le missioni del Pime. E il 16 agosto 1939 parte da Genova per una meta che non raggiungera' mai a causa della guerra cino-giapponese. Dopo essere sbarcato a Shanghai, raggiunge Kaifeng e li' si ferma un anno con altri nove missionari per imparare il cinese e anche qui l'allegria e la voglia di scherzare non gli vengono mai meno. Per rompere la monotonia dello studio, gli studenti fanno qualche gita fuori citta', visitando questo o quel centro cristiano, ma il suo tormento resta sempre l'inafferrabile idioma, benche' cominci a gustarne le bellezze. Se gli capita di sentire un cinese che, appassionatamente, narra qualche cosa, lo ascolta attento ai modi di dire, piu'che al soggetto del racconto, preso com'e' dallo stupore per la facilita' con cui quello descrive ogni minimo dettaglio ed esprime ogni sfumatura del pensiero. Presto si azzardera' a predicare, fara' il missionario "davvero". E' il suo piu'grande desiderio, come appare evidente da una lettera scritta alla sorella: «Prega molto perche' io impari meglio possibile il cinese cosi' potro' fare tanto bene qui, dove Lui mi ha voluto. Ogni giorno mi accorgo quanto sono ancora impreparato alla missione che il Signore mi vuole affidare. Non sono le belle prediche che convertono le anime, ma tutti quei sacrifici quotidiani dei quali la Provvidenza ci presenta l'occasione».
Nel giugno del 1940 termina l'anno dedicato allo studio del cinese e i giovani missionari lasciano la casa regionale di Kaifeng per raggiungere ciascuno la propria missione. Ma p. Girolamo e p. Valentino Corti, destinati al vicariato di Hanzhong (Shaanxi), non possono muoversi. Quel lungo viaggio e' pericoloso anche in tempi normali; ora, a causa della guerra cino-giapponese, risulta addirittura impossibile. P. Girolamo deve attendere. Ma si sente un pesce fuor d'acqua: «Io qui sto bene e sono lontano da ogni pericolo, ma non sono al mio posto. Io desidero tanto partire per raggiungere la mia missione, lontana, segregata lassù, verso le frontiere del Tibet dove si trova ancora la vera e autentica Cina di Confucio... Continuo a sperare che si apra un passaggio per Hanzhong. Ah, se potessi andare in bicicletta!». L'entusiasmo del giovane non e' affatto smorzato dalla prospettiva dei rischi da affrontare, tanto che, se fosse per lui, partirebbe per la sua missione con qualsiasi mezzo.
Purtroppo, pero', deve rinunciare e, aspettando tempi migliori, resta nel vicariato di Kaifeng, dove viene assegnato alla missione di Dingcunji, di cui e' appena stato nominato parroco p. Bruno Zanella. Cosi', con p. Bruno, finalmente lascia la citta'. Dopo il primo tratto in ferrovia, non si sa piu'con quali mezzi continuare: non ci sono piu'le strade, solo zone allagate da attraversare con zattere di fortuna per evitare i terreni melmosi e argillosi. Superati i trecento chilometri che lo separano da Dingcunji, p. Girolamo puo' scrivere: «Ho viaggiato in treno, in biciclette, a piedi, in barca, e... in carretta. Ma sono arrivato, finalmente, dove il Signore voleva che arrivassi!».
Intanto giunge da loro anche p. Edoardo Piccinini, gia' responsabile del distretto e destinato a Taikang, per dare ai suoi successori tutte le informazioni necessarie. Cosi', solo due giorni dopo l'arrivo, i tre missionari sono di nuovo in viaggio per visitare le varie comunita' cristiane. P. Girolamo, pur in mezzo alla desolazione provocata dall'inondazione, dal brigantaggio e dalla guerra, gusta la felicita' sognata durante i duri anni dello studio e nei momenti di preghiera. Rientrato a Dingcunji, p. Lazzaroni riceve l'incarico di catechizzare ogni giorno i ragazzi nell'ultima ora di scuola.
Girolamo si trova bene con i bambini cinesi: sono pochi gli anni che lo separano dalla sua infanzia e comprende bene cosa significa non avere scarpe adatte durante il freddo dell'inverno, o spostarsi sotto un acquazzone senza l'ombrello, o non poter cambiare un quaderno ormai tutto scritto. Sente di amare questi ragazzi, si sente capace di comprenderli e di dare la vita per loro.
Intanto la miseria aumenta: «Sono molto contento dei miei cristiani, solo mi fanno compassione per la loro miseria - scrive in una lettera. - In autunno avevano seminato un po' di frumento. Ma ora, in primavera, con lo scioglimento delle nevi, i fiumi hanno straripato recando danni immensi. Salvo qualche rara eccezione, abitano miseri tuguri oscuri e affumicati, aperti ai quattro venti, con certe notti di vento fortissimo. Il cibo e' scarso e miserabile. Ora poi che i giapponesi hanno ritirato il riso, non c'e' piu'neppure quello. Il piu'miserabile d'Europa e' piu'ricco di questi cinesi».
Soffre con la sua gente e per la sua gente: «Questo e' territorio di nessuno. Come se non bastasse tutto il resto, le truppe giapponesi, quelle cinesi e i briganti in grigioverde. E tutti non fanno che angariare il popolo». I briganti grigioverdi: i veri padroni del territorio. Sono di casa, nessuno cerca di eliminarli. E' piu'comodo ignorare il problema e fingere di non sapere che esiste. Il distretto di Dingcunji e' sul confine di tre province, ciascuna delle quali scarica la responsabilita' sull'altra, sostenendo che non e' di propria competenza. Una massa di sbandati: disertori, mercenari, delinquenti comuni, radunati in gruppi senza regola ne' disciplina, spinti alla violenza dalla fame e dal malcontento. Insomma, uomini da temere e di cui aver paura. Invece, malgrado questa situazione di estrema insicurezza, i missionari restano e viaggiano qua e la' nei pericoli, solidali con la loro gente. Padre Girolamo non teme le difficolta', la fatica e i viaggi disagevoli: e' forte, coraggioso, e non e' tipo da subire passivamente ogni sorta di angherie. Eppure, anche i piu'forti, a volte, devono cedere agli avvenimenti che li sovrastano, e alle ragioni superiori della "debolezza".
Il 18 novembre, p. Lazzaroni e' solo a Dingcunji. P. Zanella e' andato incontro al vescovo. Tutto e' pronto, nella piccola comunita'. La speranza ha disegnato un arco all'entrata del villaggio.

MARTIRIO A DINGCUNJI
(19 novembre 1941)

E' il 19 novembre 1941: una domenica di tardo autunno, i primi venti che soffiano dal nord raggelano l'aria. Ma a Dingcunji c'e' aria di festa, nonostante il grigiore autunnale: c'e' mons. Barosi in visita pastorale. Ogni cristiano ha fatto il possibile perche' il paese, nonostante i tempi difficili, sia degno di questo giorno solenne... non capita tutti gli anni che il vescovo in persona visiti la comunita'. Del resto p. Zanella, il parroco, ha tanto insistito perche' fosse lo stesso vescovo a impartire le cresime. Anche i cresimandi dei villaggi vicini si sono riuniti a Dingcunji, ospitati presso parenti o amici, e gia' dalla sera del sabato si nota un gran movimento tra chi arriva e chi cerca di sistemarsi. I piu'lontani, o quelli che abitano nei villaggi piu'disagiati e che avrebbero dovuto attraversare le localita' inondate dal Fiume Giallo, nel pomeriggio della domenica saranno raggiunti dal vescovo accompagnato dai pp. Zanella, Lazzaroni e Zanardi.
Conclusa, in mattinata, la celebrazione delle cresime, il vescovo si trattiene con i catechisti, i cresimandi e i loro parenti. Poi tutti si ritirano per il pranzo. Alle tredici, un ufficiale con una decina di soldati entra nella residenza dei missionari e, dopo averne scacciato i cristiani, chiude la porta d'ingresso e la fa piantonare da un gruppo di soldati ben armati. All'intero villaggio di Dingcunji viene imposto una specie di coprifuoco. P. Pollio (divenuto poi vescovo di Kaifeng nel 1947) descrive l'accaduto prima nelle pagine del suo diario, in seguito stende una relazione piu'organica che spedisce al superiore generale del Pime, mons. Lorenzo Maria Balconi. Ci serviamo di questo scritto per conoscere i particolari dell'omicidio.
L'ufficiale e i soldati, entrati in residenza, prima chiedono di p. Zanella, il quale si presenta subito; i soldati lo conducono in una stanza di fronte a quella nella quale i padri hanno appena finito di pranzare, con la scusa di fargli alcune domande. Quasi contemporaneamente chiedono anche di p. Lazzaroni che conducono in sacrestia, con la proibizione di muoversi e con le sentinelle alla porta. L'ufficiale e altri soldati vanno direttamente nella stanza dove il vescovo sta chiacchierando con l'altro missionario. Mons. Barosi ha con se' una carta d'identita' rilasciatagli dai giapponesi, un lasciapassare necessario per potersi muovere nelle zone controllate dalle forze nipponiche. E' questo il pretesto di cui si servono i soldati per sostenere l'accusa, rivolta ai quattro, d'essere "spie del nemico e agenti del capitalismo". Egli usa parole gentili con l'ufficiale, ma i soldati, a un suo cenno, legano mani e piedi a mons. Barosi e a p. Zanardi. Si sente gridare p. Zanella. Subito alcuni soldati trascinano in chiesa i due appena legati e li buttano a terra, chiudono loro bocca e orecchie con della carta.
A questo punto i soldati bendano gli occhi al domestico di mons. Barosi, Han, che aveva seguito i padri da Kaifeng, percio' di tutto quello che succede dopo non puo' essere testimone. Il cuoco pero' e' in grado di raccontare altri particolari. Egli e' in cucina e, avendo paura, si nasconde in un angolo ben protetto da paglia e legna: da li' assiste al martirio di p. Zanella. I soldati portano p. Bruno fuori dalla stanza e da grandi recipienti gli versano in bocca acqua bollente e petrolio. Piu'volte il padre grida tra la morte e la vita, in una lingua sconosciuta al servo, e piu'volte afferma di non avere denaro e armi. Invoca con forti urla l'aiuto di mons. Barosi e p. Zanardi, ma non riceve alcuna risposta. Finalmente quei soldati, dopo avergli fatto bere piu'volte acqua bollente e petrolio, lasciano il suo corpo privo di sensi o senza vita nel cortiletto. Non si puo' precisare se p. Zanella sia morto li' o in fondo al pozzo nel quale verra' gettato. Il cuoco, intanto, vede che i soldati trascinano con forza il vescovo e p. Mario verso l'altro cortile.
Svaligiata la residenza degli oggetti piu'preziosi e utili, i soldati, verso le diciotto, se ne vanno da Dingcunji. Saliti sulle barche scompaiono nell'oscurita', mentre una gelida pioggerella scende col silenzio della sera. Solo allora i cristiani si dirigono alla residenza dei missionari. Forzata la porta, entrano e in portineria trovano il servo Han legato. Lo slegano e tutti insieme si mettono a cercare i padri. Chiamano, ma nessuno risponde. Nel disordine nessuna traccia di sangue, nessun corpo. Non sospettano ancora la tragedia, tanto piu'che non si e' sentito nessun colpo d'arma da fuoco. Contro ogni speranza, pensano che i missionari siano stati presi in ostaggio. Continuano a chiamare, a cercare in ogni angolo, ma nulla... Finalmente alcuni si accorgono che il muricciolo intorno al pozzo e' crollato e i mattoni ne ostruiscono completamente l'imboccatura (i pozzi cinesi sono molto stretti, per cui una simile operazione diventa molto facile). Si guardano muti, nessuno osa manifestare apertamente il sospetto che tiene nel cuore: certo sotto i mattoni ci deve essere qualcosa. Si comincia l'opera di sgombero e compaiono i corpi delle vittime. Per mezzo di lunghe pertiche di bambù, munite di un uncino, si cerca di estrarre i cadaveri. Il primo e' quello di p. Zanella, poi quello di p. Zanardi, quindi quello di mons. Barosi. E' ormai tardi e non si riesce a trovare il corpo di p. Lazzaroni. Inutilmente si lavora ancora per qualche ora, poi si rimanda tutto al giorno successivo. Alle prime luci dell'alba, finalmente, si riesce a recuperare anche il corpo di p. Lazzaroni, che quasi certamente e' stato gettato ancora vivo nel pozzo. Girolamo aveva 27 anni e solo due di missione. Padre Bruno Zanella 32 anni e cinque di missione, padre Mario Zanardi aveva da poco compiuto i 37 anni, di cui quattordici in missione e monsignor Antonio Barosi di 40 anni, ne aveva trascorsi sedici in Cina.

PADRE MARIO ZANARDI
(8 agosto 1904 - 19 novembre 1941)

A Soncino, paesotto tra Cremona e Treviglio, l'8 ottobre 1904 nasce Mario, il secondo dei tredici figli di Luigi Zanardi, mercante ambulante nei cascinali e nei paesi vicini. Figlio di commercianti, dunque, e' proprio dal padre che eredita lo spirito di intraprendenza e la vivacita' di carattere.
Sereno, esuberante ed espansivo, Mariolino ha una grande fantasia, tanto che, frequentando l'oratorio, riesce a coinvolgere gli altri ragazzi ingegnandosi con la musica, la pittura e la meccanica. E' all'oratorio che, a servizio dei piu'piccoli, matura la sua formazione spirituale e la sua vocazione al sacerdozio. Cosi', a sedici anni, dopo un anno dalla morte della mamma, decide di entrare nel seminario diocesano di Cremona. Ma a poco a poco cresce in lui il desiderio di essere missionario. Il 9 febbraio 1925, nel seminario di Cremona viene ufficialmente costituito il Circolo Missionario, con lo scopo dichiarato di far maturare nei seminaristi un'autentica sensibilita' missionaria. Mario Zanardi ne rimane pienamente coinvolto e anche quando, dopo la seconda teologia, passa al seminario del Pime a Monza, non si dimentica delle sue "origini". Rimarra' sempre legato cosi' profondamente a questo Circolo che, anche dalla Cina, non gli fara' mai mancare le sue lettere.
Nella casa del Pime a Monza, pur essendo impegnato nello studio, Mario non smette di manifestare la sua creativita' e durante il tempo libero, si esercita in mille "esperimenti" con il legno e con la plastica, attivita' che gli saranno utili in missione e che lo aiuteranno ad abbellire le povere cappelle delle comunita' cristiane. Anche la musica e il teatro continuano ad appassionarlo, tanto che compone un dramma missionario, rappresentato con successo.
L'11 giugno 1927 e' ordinato sacerdote. Poche settimane per i saluti e i festeggiamenti, poi la partenza per la Cina. E' il 17 agosto, e a bordo del piroscafo Venezia inizia quello che chiama il suo "viaggio di nozze", malgrado il mal di mare che, per tutto il tragitto, lo fa soffrire tanto da impedirgli di celebrare quotidianamente l'Eucaristia. Il viaggio faticosissimo dura tre mesi durante i quali, nelle lunghe conversazioni con il medico di bordo, con gli indiani confinati giu'in quarta classe, con l'equipaggio, parla spesso della sua fede cristiana. Finalmente sbarca a Shanghai. L'ultimo tratto del viaggio, da Hankou a Kaifeng, dove e' destinato, e' il piu'emozionante. I treni sono requisiti dai soldati comunisti e i civili sono stipati in vagoni bestiame, con fermate eterne. Ma p. Mario si consola: «Vada come vuole, qui non c'e' il mal di mare! E poi, cosa sono questi disagi in confronto alle rischiose spedizioni dei nostri primi padri missionari!».
A Kaifeng la sua prima occupazione e' quella d'imparare la lingua: «Il vescovo mi ha dato un libro e un maestro: domani comincio a studiare! Se non fosse per il Signore, credo non arriverei mai a imparare il cinese. Ma, per amor suo e con il suo aiuto, voglio non solo parlarlo, ma leggerlo, scriverlo e persino cantarlo... qui i cristiani lo cantano sempre cosi' bene!».
Solo quattro mesi dopo, cio' che sembrava impossibile diventa realta': puo' confessare in cinese e nelle comunita' cristiane i fedeli si stupiscono che sappia parlare la loro lingua come un anziano... e pensare che deve ringraziare i bambini e la loro pazienza nel ripetergli mille volte la pronuncia d'un monosillabo! Nel 1928, dopo un anno dal suo arrivo, il vescovo gli affida il distretto di Weishe: tutto da creare e organizzare. Ci vuole un grande entusiasmo e p. Mario e' il tipo adatto.
Weiche e' un distretto molto vasto, costituito solo da poche centinaia di cristiani molto poveri e dispersi in piccoli villaggi lontani uno dall'altro quindici, venti chilometri, in luoghi infestati da briganti. «La poesia del missionario e' bella vederla scritta... pero' io sono contento di essere missionario anche in mezzo a mille difficolta'. Quando ho proprio il cuore gonfio, vado in chiesa a sfogarmi con Dio. A volte e' l'unico che mi possa comprendere... Dopo un po' riprendo le mie occupazioni e tiro avanti».
Si procura catechisti, apre scuole, inizia un dispensario e, a giorni e ore stabiliti, e' lui stesso che assiste gli ammalati. Anche in questa occasione dimostra un'eccezionale prontezza nell'organizzare le risposte piu'adatte ai problemi che deve affrontare. Ma proprio quando il distretto e' nel pieno delle attivita', gli viene comunicato l'ordine di trasferimento in un altro "campo di lavoro": e' il giugno 1931. P. Mario e' disposto, come sempre, a obbedire, ma non lo sono i suoi fedeli che, per trattenerlo, inviano al vescovo numerose suppliche e addirittura un'ambasceria composta dalle persone piu'ragguardevoli ed eloquenti del distretto. Ma tutto e' inutile e padre Zanardi organizza, di nascosto, la sua partenza: mentre un'ennesima rappresentanza e' in viaggio per Kaifeng, il padre ne approfitta per andarsene. Di buon mattino esce dalla citta', inforca la motocicletta che il vescovo gli ha regalato e si dirige a Dingcunji, la sua nuova destinazione.
«Ci sono stati gli altri, ci staro' anch'io!», aveva risposto al vescovo che gli proponeva quel distretto, dove tutti andavano a malincuore perche' dislocato all'estrema periferia della missione, situato sul confine di tre province e infestato dai banditi. Il vescovo preferisce mandare lui non solo per la sua intraprendenza, ma perche' e' giovane e, inoltre, e' un ottimo motociclista, il che, laggiù, puo' rappresentare la salvezza. Quante volte, infatti, p. Zanardi deve ringraziare la velocita' della sua moto!
Certamente, nell'affrontare i pericoli, e' aiutato anche dal suo carattere gioviale e aperto che riesce a conquistare perfino la durezza dei soldati e dei banditi. Nell'autunno 1936, p. Mario viene nominato vicario foraneo del vasto distretto di Luyi, di cui fa parte anche Dingcunji e che conta comunita' cristiane molto antiche. Ma le ripercussioni della guerra, l'incertezza della situazione, il rincaro delle derrate, la miseria del popolo si fanno sentire anche troppo, cosi' che, a contatto con questa realta', i bei progetti che ha in mente vengono accantonati. Le bande di briganti imperversano, seminando rovine e saccheggiando, tanto che p. Mario scrive ai seminaristi membri del Circolo missionario di Cremona: «...Voi nella pace e nella serenita' del seminario, noi in mezzo ai pericoli di ogni guerra, che talvolta ci fanno sospirare il Paradiso come luogo di dolce riposo: stiamo sempre uniti nella preghiera. Noi soprattutto abbiamo bisogno della vostra carita' perche' invochiate dal Signore misericordia e perdono su tante deficienze... Seguitemi sempre con le vostre preghiere, specialmente in questi momenti poiche' siamo in mezzo agli orrori della guerra e del brigantaggio».
Infatti nella primavera del 1938, come se non bastassero i briganti, arrivano i giapponesi con il seguito abituale di saccheggi, rapine e violenze. P. Zanardi riesce a stento a mettere in salvo le suore cinesi e le catechiste. Passati quelli, i briganti, tornati padroni del campo, finiscono di dissanguare la povera gente gia' immiserita dalla guerra e dall'inondazione del Fiume Giallo, che riduce le capanne dei villaggi a mucchi di melma coperti di paglia marcia. L'inverno successivo provoca, in una situazione gia' disperata, una quantita' immensa di disperati che cercano alla missione cattolica un po' di cibo: una scodella di brodaglia nera, distribuita due volte al giorno, ma che ha prosciugato tutte le risorse di p. Mario desideroso solo di alleviare, almeno in minima parte, tante sofferenze.
P. Mario, intanto, si trova sballottato da un padrone all'altro e non sa piu'chi comanda. Nel 1939 scrive: «In tre giorni abbiamo cambiato tre padroni: cinesi, giapponesi e briganti si susseguono depredando le ultime scorte di viveri... Viviamo ogni giorno completamente abbandonati nelle mani del Signore». Ed e' questa la forza che lo fa andare avanti e che gli fa trovare anche dei motivi di gioia. Nell'estate 1939, mentre i giapponesi occupano per la terza volta la citta', p. Mario riceve un tandem, regalatogli dagli amici di Soncino. Nessun dono potrebbe essergli piu'gradito! Puo' finalmente viaggiare insieme al proprio "factotum", il catechista, che all'occasione diventa chierichetto, segretario e interprete, avvocato nelle liti tra cristiani e non cristiani e, in assenza di p. Mario, anche giudice. Sempre e dovunque animatore pastorale e conferenziere. Sul tandem p. Zanardi puo' portare con se' tutto l'occorrente per la celebrazione della Messa, la catechesi e l'animazione: libri, oggetti devozionali, stampa cattolica. Le comunita' cristiane possono essere visitate piu'spesso e a Natale puo' spostarsi piu'facilmente per celebrare la messa in comunita' diverse. E' davvero felice! Il tandem. Un regalo caro, che gli ricorda la patria lontana, a cui e' molto legato. Contento di aver potuto impiantare un apparecchio radio rudimentale, puo' anche seguire le vicende dell'Italia e, pur di tenersi al corrente con le notizie italiane, si alza alle tre di notte per ascoltare il giornale radio. Cio' gli costa un enorme sacrificio: per svegliarsi al mattino, non solo punta due sveglie che trillano da far sfondare i timpani, ma deve persino ordinare ai suoi domestici di bussargli ripetutamente alla porta. «Eppure, voi che vivete in mezzo alle comodita' moderne, non potete neppure comprendere che dolce compagnia sia per me la radio, che mi porta notizie di "casa". Ieri ho avuto la fortuna di ascoltare il papa e vi dico che per me fu una grande commozione sentire in mezzo a questa immensa Cina la sua "dolce" voce».
Forte, spiritoso, allegro, ma anche molto sensibile e affezionato alla sua famiglia, p. Mario vive intensamente i legami affettivi e non riesce a nascondere a lungo la sua nostalgia: «Ieri - scrive ai suoi familiari il 3 giugno del 1940, - il mio spirito era triste e grigio come il cielo. Pensai a tutti voi, alle cose presenti e passate; ai miei amici morti o perduti per la via. Lessi qua e la' il lungo vostro epistolario, che mi ricorda tante e tante cose ormai lontane piu'di vent'anni e i miei occhi, a tanti ricordi, si inumidirono di lacrime. Non sono riuscito a trattenere il pianto. Ho vegliato fino a notte tarda. Poi, finalmente, sono riuscito ad addormentarmi».
Il 1940 si era aperto con molti problemi, anche se per nulla diversi da quelli, purtroppo, abituali. E nessuna speranza: «Mandatemi quanto potete: qui la miseria e' molta; a uscir di casa vengono le lacrime agli occhi». In autunno, pero', ha una grande consolazione: arriva a Kaifeng mons. Barosi, suo concittadino e compagno di studi. Finalmente si possono riabbracciare dopo quindici anni! In autunno celebrano insieme il centenario del beato Giovanni Gabriele Perboyre, un missionario francese martirizzato nel Henan nel 1840. L'anno dopo, quando mons. Barosi decide di recarsi a Dingcunji, p. Zanardi lo accompagna. Il 18 luglio 1941, non avendo ricevuto notizie allarmanti e benche' p. Zanardi sappia che in quel distretto, considerato "terra di nessuno", gli italiani sono malvisti, di buon mattino lasciano la citta' di Luyi in tandem, seguiti da due domestici in bicicletta. Entrambi sono consci del pericolo cui vanno incontro, eppure p. Mario e' contento di poter rivedere tante persone amiche. Lungo la strada viene loro incontro p. Zanella e tutti e tre, alle quattro del pomeriggio, arrivano a Dingcunji dove c'e' ad aspettarli p. Lazzaroni.
Tutto sembra tranquillo. Ma la situazione generale e' troppo compromessa perche' si possa scommettere sul giorno dopo.

MARTIRIO A DINGCUNJI
(19 novembre 1941)

E' il 19 novembre 1941: una domenica di tardo autunno, i primi venti che soffiano dal nord raggelano l'aria. Ma a Dingcunji c'e' aria di festa, nonostante il grigiore autunnale: c'e' mons. Barosi in visita pastorale. Ogni cristiano ha fatto il possibile perche' il paese, nonostante i tempi difficili, sia degno di questo giorno solenne... non capita tutti gli anni che il vescovo in persona visiti la comunita'. Del resto p. Zanella, il parroco, ha tanto insistito perche' fosse lo stesso vescovo a impartire le cresime. Anche i cresimandi dei villaggi vicini si sono riuniti a Dingcunji, ospitati presso parenti o amici, e gia' dalla sera del sabato si nota un gran movimento tra chi arriva e chi cerca di sistemarsi. I piu'lontani, o quelli che abitano nei villaggi piu'disagiati e che avrebbero dovuto attraversare le localita' inondate dal Fiume Giallo, nel pomeriggio della domenica saranno raggiunti dal vescovo accompagnato dai pp. Zanella, Lazzaroni e Zanardi.
Conclusa, in mattinata, la celebrazione delle cresime, il vescovo si trattiene con i catechisti, i cresimandi e i loro parenti. Poi tutti si ritirano per il pranzo. Alle tredici, un ufficiale con una decina di soldati entra nella residenza dei missionari e, dopo averne scacciato i cristiani, chiude la porta d'ingresso e la fa piantonare da un gruppo di soldati ben armati. All'intero villaggio di Dingcunji viene imposto una specie di coprifuoco. P. Pollio (divenuto poi vescovo di Kaifeng nel 1947) descrive l'accaduto prima nelle pagine del suo diario, in seguito stende una relazione piu'organica che spedisce al superiore generale del Pime, mons. Lorenzo Maria Balconi. Ci serviamo di questo scritto per conoscere i particolari dell'omicidio.
L'ufficiale e i soldati, entrati in residenza, prima chiedono di p. Zanella, il quale si presenta subito; i soldati lo conducono in una stanza di fronte a quella nella quale i padri hanno appena finito di pranzare, con la scusa di fargli alcune domande. Quasi contemporaneamente chiedono anche di p. Lazzaroni che conducono in sacrestia, con la proibizione di muoversi e con le sentinelle alla porta. L'ufficiale e altri soldati vanno direttamente nella stanza dove il vescovo sta chiacchierando con l'altro missionario. Mons. Barosi ha con se' una carta d'identita' rilasciatagli dai giapponesi, un lasciapassare necessario per potersi muovere nelle zone controllate dalle forze nipponiche. E' questo il pretesto di cui si servono i soldati per sostenere l'accusa, rivolta ai quattro, d'essere "spie del nemico e agenti del capitalismo". Egli usa parole gentili con l'ufficiale, ma i soldati, a un suo cenno, legano mani e piedi a mons. Barosi e a p. Zanardi. Si sente gridare p. Zanella. Subito alcuni soldati trascinano in chiesa i due appena legati e li buttano a terra, chiudono loro bocca e orecchie con della carta.
A questo punto i soldati bendano gli occhi al domestico di mons. Barosi, Han, che aveva seguito i padri da Kaifeng, percio' di tutto quello che succede dopo non puo' essere testimone. Il cuoco pero' e' in grado di raccontare altri particolari. Egli e' in cucina e, avendo paura, si nasconde in un angolo ben protetto da paglia e legna: da li' assiste al martirio di p. Zanella. I soldati portano p. Bruno fuori dalla stanza e da grandi recipienti gli versano in bocca acqua bollente e petrolio. Piu'volte il padre grida tra la morte e la vita, in una lingua sconosciuta al servo, e piu'volte afferma di non avere denaro e armi. Invoca con forti urla l'aiuto di mons. Barosi e p. Zanardi, ma non riceve alcuna risposta. Finalmente quei soldati, dopo avergli fatto bere piu'volte acqua bollente e petrolio, lasciano il suo corpo privo di sensi o senza vita nel cortiletto. Non si puo' precisare se p. Zanella sia morto li' o in fondo al pozzo nel quale verra' gettato. Il cuoco, intanto, vede che i soldati trascinano con forza il vescovo e p. Mario verso l'altro cortile.
Svaligiata la residenza degli oggetti piu'preziosi e utili, i soldati, verso le diciotto, se ne vanno da Dingcunji. Saliti sulle barche scompaiono nell'oscurita', mentre una gelida pioggerella scende col silenzio della sera. Solo allora i cristiani si dirigono alla residenza dei missionari. Forzata la porta, entrano e in portineria trovano il servo Han legato. Lo slegano e tutti insieme si mettono a cercare i padri. Chiamano, ma nessuno risponde. Nel disordine nessuna traccia di sangue, nessun corpo. Non sospettano ancora la tragedia, tanto piu'che non si e' sentito nessun colpo d'arma da fuoco. Contro ogni speranza, pensano che i missionari siano stati presi in ostaggio. Continuano a chiamare, a cercare in ogni angolo, ma nulla... Finalmente alcuni si accorgono che il muricciolo intorno al pozzo e' crollato e i mattoni ne ostruiscono completamente l'imboccatura (i pozzi cinesi sono molto stretti, per cui una simile operazione diventa molto facile). Si guardano muti, nessuno osa manifestare apertamente il sospetto che tiene nel cuore: certo sotto i mattoni ci deve essere qualcosa. Si comincia l'opera di sgombero e compaiono i corpi delle vittime. Per mezzo di lunghe pertiche di bambù, munite di un uncino, si cerca di estrarre i cadaveri. Il primo e' quello di p. Zanella, poi quello di p. Zanardi, quindi quello di mons. Barosi. E' ormai tardi e non si riesce a trovare il corpo di p. Lazzaroni. Inutilmente si lavora ancora per qualche ora, poi si rimanda tutto al giorno successivo. Alle prime luci dell'alba, finalmente, si riesce a recuperare anche il corpo di p. Lazzaroni, che quasi certamente e' stato gettato ancora vivo nel pozzo. Girolamo aveva 27 anni e solo due di missione. Padre Bruno Zanella 32 anni e cinque di missione, padre Mario Zanardi aveva da poco compiuto i 37 anni, di cui quattordici in missione e monsignor Antonio Barosi di 40 anni, ne aveva trascorsi sedici in Cina.

PADRE BRUNO ZANELLA
(27 agosto 1909 - 19 novembre 1941)

Bruno Zanella nasce il 27 agosto 1909 a Piovene di Vicenza. A sette anni si trasferisce, con la famiglia, a Povegliano di Treviso. Ben presto pero', partito il padre per la guerra, durante "i giorni di Caporetto", la famiglia Zanella e' costretta a sfollare, scappando di notte in fretta e furia. E Bruno, la mamma, i suoi fratelli e le sue sorelle attraversano, come profughi, tutta l'Italia, fino a giungere a Castelvetrano, in provincia di Trapani. Tornata la pace, gli Zanella possono finalmente rientrare a Povegliano e riunirsi al padre, che pero', irrimediabilmente provato dai lunghi anni di guerra, muore nel marzo del 1919. La famiglia e' numerosa e ha bisogno di ogni possibile aiuto. Anche Bruno, terminate le elementari, e' assunto come apprendista meccanico. Lavora fino a tardi, eppure, andando a riposare, immancabilmente raccomanda alla mamma di svegliarlo presto la mattina, volendo servire la Messa prima di andare in officina. La sua vocazione missionaria matura tra lavoro e preghiera.
Proprio in questo periodo il vescovo di Treviso, mons. Andrea Longhin, offre all'Istituto delle Missioni Estere il vicariato di S. Martino, nel centro della citta', perche' la canonica diventi la sede di un piccolo seminario. Cosi' il 1 ottobre 1923 i missionari del Seminario per le Missioni Estere aprono il ginnasio a Treviso e Bruno Zanella e' uno dei primi alunni.
Poco abituato a usare carta e penna, Bruno non trova facile dedicarsi allo studio. E' dotato, pero', se non di una gran intelligenza certamente di una forte volonta' e di molto buon senso, che gli consentono di applicarsi nello studio con serieta' e costanza, nonostante le difficolta' permanenti causate anche dalla salute debole, che lo costringe a interrompere spesso le lezioni. Riesce pero' a concludere gli anni di seminario non solo con buoni risultati, ma anche conquistandosi la simpatia e l'amicizia dei compagni, per la sua discrezione e disponibilita'.
Nell'ottobre del 1933, ormai studente di teologia, si trasferisce a Ducenta come assistente dei seminaristi piu'giovani. Due anni piu'tardi, il 21 settembre 1935, nel duomo di Milano, viene ordinato sacerdote. Finalmente l'anno seguente p. Bruno puo' scrivere ai suoi famigliari: «Andro' in Cina, la terra da me tanto sognata!». E' destinato a Kaifeng, capitale del Henan.
La partenza dei missionari avviene a scadenze diverse, a seconda dei luoghi di destinazione, ma il saluto ai parenti e' fissato, per tutti, il 30 luglio 1936 a S. Maria alla Fontana in Milano, dove mons. Giuseppe Tacconi, vescovo della futura missione di p. Bruno, presiede la cerimonia della consegna del crocifisso. E il 2 settembre p. Zanella salpa da Genova, con altri due compagni, diretto in Cina.
Attento osservatore, nelle sue lettere descrive con precisione i luoghi incontrati durante il viaggio e i suoi sentimenti: a Port Said, Suez e Aden guarda stupito il mondo musulmano; a Bombay rimane a bocca aperta di fronte alla "Torre del silenzio", dove i parsi espongono agli uccelli i corpi dei loro defunti; a Colombo, capitale dell'odierno Sri Lanka, rimane sconcertato nel vedere un fanatico che, durante una processione in onore della sua divinita', si butta sotto le ruote di un carro, lasciandosi stritolare. E poi un episodio curioso, ma nello stesso tempo imbarazzante: a Shanghai il funzionario della dogana, preoccupato di non lasciar entrare droga nel paese, perquisisce ogni straniero e, scoperte delle buste sospette nel bagaglio di p. Zanella, pretende di assaggiarne a tutti i costi il contenuto... Quale smacco nel constatare che e' semplicemente la magnesia S. Pellegrino che p. Bruno deve portare sempre con se'!
Finalmente i tre missionari raggiungono Kaifeng. Il loro cuore e' colmo di gioia, vorrebbero subito "mettersi al lavoro", ma prima devono fare, come tutti, i conti con la lingua. E p. Bruno trascorre un anno intero, nella Casa Regionale, a studiare il cinese. Nella sua prima lettera alla mamma, scrive: «I versi che si devono fare per pronunciare bene questi caratteri, sono inimmaginabili... la pronuncia svariatissima diventa a volte inafferrabile!». Anche stavolta, pero', la sua forte volonta' lo sostiene e cosi', alla fine dell'anno di studio, riesce a cavarsela dignitosamente. In giugno le lezioni di cinese finiscono e gli studenti aspettano con ansia la loro destinazione. Anche p. Zanella si presenta a mons. Tacconi, ma, anziche' essere mandato in qualche distretto, viene trattenuto in citta'. A settembre p. Bruno viene informato dal vescovo che, presto, sarebbe andato nella missione di p. Filippin come suo coadiutore. Ma, anche questa volta, il progetto va a monte: le scorrerie dei briganti impensieriscono il vescovo che non se la sente di esporre a pericoli imprevedibili p. Bruno che ha solo 28 anni.
A sessanta chilometri a sud ovest da Kaifeng la citta' di Zhongmou e' gia' in mano ai giapponesi e il sacerdote cinese, parroco di quella comunita' cristiana, si trova a disagio per i dissidi sorti tra cinesi e giapponesi; gli viene affiancato, percio', proprio p. Zanella, per rappresentarlo e difenderlo davanti all'autorita' nipponica. Dopo solo sei mesi, pero', a p. Bruno viene affidato un nuovo incarico: nel distretto di Yejigang p. Lanzano e' da tempo ammalato e bisognoso di cure, il vescovo vi manda provvisoriamente p. Bruno che, pur nell'incertezza della durata del suo incarico, si da' un gran da fare nella visita e nel sostegno delle comunita' cristiane del suo nuovo distretto. Inoltre deve fare da spola con la vicina citta' di Lanfeng per aiutare il sacerdote cinese, li' residente, contro le prepotenze giapponesi. P. Bruno riesce a instaurare un buon rapporto con gli invasori. Per gli affamati e i sinistrati, apre un centro di accoglienza nei locali della sua residenza e mette a disposizione tutto quello che possiede. I giapponesi ne rimangono ammirati, tanto che contribuiscono al sostentamento dei rifugiati, inviandogli numerose casse di gallette per l'esercito!
27 ottobre 1940. Sono appena terminati gli esercizi spirituali e i missionari vanno a ricevere gli ordini dal loro nuovo superiore, mons. Antonio Barosi. P. Bruno si augura di ottenere un impegno permanente. Il suo superiore ha pensato, per lui, al distretto piu'lontano e difficile, spesso tormentato dai briganti e ora, per di più, inondato dal Fiume Giallo: Dingcunji. Padre Bruno sa di addossarsi un bel peso, ma accetta. «Risposi un si' forzato», scrive alla mamma, quasi rimproverandosi di non averlo detto con gioia.
Mons. Barosi, ringraziandolo, gli assegna come compagno p. Lazzaroni e gli promette di far loro una visita presto, mentre lo assicura che laggiu'trovera' ottimi cristiani. Il 6 novembre del 1940, dopo un viaggio lungo e difficile, arriva alla sua missione e senza perdere tempo esce subito a fare un giro d'ispezione nelle diverse comunita', accompagnato dal coadiutore e dal predecessore, p. Piccinini, che gli fornisce le opportune informazioni. Tornati a Dingcunji dopo un giro di quindici giorni, e partito p. Piccinini per il suo nuovo posto di lavoro, i due missionari si aspettano che mons. Barosi, arrivato a Luyi per il centenario del martirio del beato Perboyre, mantenga la promessa. Invece, chiamato d'urgenza a Shanghai, deve rinviare l'impegno. P. Zanella e p. Lazzaroni, allora, riprendono le loro visite in barca, tra i villaggi cristiani delle zone allagate, in bicicletta o a piedi.
Il 13 gennaio 1941 p. Bruno parte per Kaifeng, chiamato da mons. Barosi, che, appena rientrato da Shanghai e non potendo subito intraprendere il viaggio di trecento chilometri per Dingcunji, vuole sapere come procede il lavoro e verificare di persona come sta il missionario del "distretto dei briganti, la terra di nessuno". Rinnova inoltre la promessa di una sua visita. P. Zanella, quindici giorni piu'tardi, ritorna alla sua missione e comincia i preparativi, intensificando la catechesi per la cresima che mons. Barosi avrebbe amministrato.
Finalmente e' novembre: sembrano non esserci piu'intoppi per la venuta del vescovo, ma p. Bruno, intuendo i tentennamenti di mons. Barosi, si affretta a raggiungerlo a Luyi, dove nel frattempo il vescovo si era spostato. Ma il 18 novembre, giunto nei pressi della citta', lo trova gia' in viaggio con p. Zanardi e si incammina con loro alla volta di Dingcunji, dove c'e' p. Lazzaroni ad aspettarli.
Finalmente il vescovo sta per arrivare.

MARTIRIO A DINGCUNJI
(19 novembre 1941)

E' il 19 novembre 1941: una domenica di tardo autunno, i primi venti che soffiano dal nord raggelano l'aria. Ma a Dingcunji c'e' aria di festa, nonostante il grigiore autunnale: c'e' mons. Barosi in visita pastorale. Ogni cristiano ha fatto il possibile perche' il paese, nonostante i tempi difficili, sia degno di questo giorno solenne... non capita tutti gli anni che il vescovo in persona visiti la comunita'. Del resto p. Zanella, il parroco, ha tanto insistito perche' fosse lo stesso vescovo a impartire le cresime. Anche i cresimandi dei villaggi vicini si sono riuniti a Dingcunji, ospitati presso parenti o amici, e gia' dalla sera del sabato si nota un gran movimento tra chi arriva e chi cerca di sistemarsi. I piu'lontani, o quelli che abitano nei villaggi piu'disagiati e che avrebbero dovuto attraversare le localita' inondate dal Fiume Giallo, nel pomeriggio della domenica saranno raggiunti dal vescovo accompagnato dai pp. Zanella, Lazzaroni e Zanardi.
Conclusa, in mattinata, la celebrazione delle cresime, il vescovo si trattiene con i catechisti, i cresimandi e i loro parenti. Poi tutti si ritirano per il pranzo. Alle tredici, un ufficiale con una decina di soldati entra nella residenza dei missionari e, dopo averne scacciato i cristiani, chiude la porta d'ingresso e la fa piantonare da un gruppo di soldati ben armati. All'intero villaggio di Dingcunji viene imposto una specie di coprifuoco. P. Pollio (divenuto poi vescovo di Kaifeng nel 1947) descrive l'accaduto prima nelle pagine del suo diario, in seguito stende una relazione piu'organica che spedisce al superiore generale del Pime, mons. Lorenzo Maria Balconi. Ci serviamo di questo scritto per conoscere i particolari dell'omicidio.
L'ufficiale e i soldati, entrati in residenza, prima chiedono di p. Zanella, il quale si presenta subito; i soldati lo conducono in una stanza di fronte a quella nella quale i padri hanno appena finito di pranzare, con la scusa di fargli alcune domande. Quasi contemporaneamente chiedono anche di p. Lazzaroni che conducono in sacrestia, con la proibizione di muoversi e con le sentinelle alla porta. L'ufficiale e altri soldati vanno direttamente nella stanza dove il vescovo sta chiacchierando con l'altro missionario. Mons. Barosi ha con se' una carta d'identita' rilasciatagli dai giapponesi, un lasciapassare necessario per potersi muovere nelle zone controllate dalle forze nipponiche. E' questo il pretesto di cui si servono i soldati per sostenere l'accusa, rivolta ai quattro, d'essere "spie del nemico e agenti del capitalismo". Egli usa parole gentili con l'ufficiale, ma i soldati, a un suo cenno, legano mani e piedi a mons. Barosi e a p. Zanardi. Si sente gridare p. Zanella. Subito alcuni soldati trascinano in chiesa i due appena legati e li buttano a terra, chiudono loro bocca e orecchie con della carta.
A questo punto i soldati bendano gli occhi al domestico di mons. Barosi, Han, che aveva seguito i padri da Kaifeng, percio' di tutto quello che succede dopo non puo' essere testimone. Il cuoco pero' e' in grado di raccontare altri particolari. Egli e' in cucina e, avendo paura, si nasconde in un angolo ben protetto da paglia e legna: da li' assiste al martirio di p. Zanella. I soldati portano p. Bruno fuori dalla stanza e da grandi recipienti gli versano in bocca acqua bollente e petrolio. Piu'volte il padre grida tra la morte e la vita, in una lingua sconosciuta al servo, e piu'volte afferma di non avere denaro e armi. Invoca con forti urla l'aiuto di mons. Barosi e p. Zanardi, ma non riceve alcuna risposta. Finalmente quei soldati, dopo avergli fatto bere piu'volte acqua bollente e petrolio, lasciano il suo corpo privo di sensi o senza vita nel cortiletto. Non si puo' precisare se p. Zanella sia morto li' o in fondo al pozzo nel quale verra' gettato. Il cuoco, intanto, vede che i soldati trascinano con forza il vescovo e p. Mario verso l'altro cortile.
Svaligiata la residenza degli oggetti piu'preziosi e utili, i soldati, verso le diciotto, se ne vanno da Dingcunji. Saliti sulle barche scompaiono nell'oscurita', mentre una gelida pioggerella scende col silenzio della sera. Solo allora i cristiani si dirigono alla residenza dei missionari. Forzata la porta, entrano e in portineria trovano il servo Han legato. Lo slegano e tutti insieme si mettono a cercare i padri. Chiamano, ma nessuno risponde. Nel disordine nessuna traccia di sangue, nessun corpo. Non sospettano ancora la tragedia, tanto piu'che non si e' sentito nessun colpo d'arma da fuoco. Contro ogni speranza, pensano che i missionari siano stati presi in ostaggio. Continuano a chiamare, a cercare in ogni angolo, ma nulla... Finalmente alcuni si accorgono che il muricciolo intorno al pozzo e' crollato e i mattoni ne ostruiscono completamente l'imboccatura (i pozzi cinesi sono molto stretti, per cui una simile operazione diventa molto facile). Si guardano muti, nessuno osa manifestare apertamente il sospetto che tiene nel cuore: certo sotto i mattoni ci deve essere qualcosa. Si comincia l'opera di sgombero e compaiono i corpi delle vittime. Per mezzo di lunghe pertiche di bambù, munite di un uncino, si cerca di estrarre i cadaveri. Il primo e' quello di p. Zanella, poi quello di p. Zanardi, quindi quello di mons. Barosi. E' ormai tardi e non si riesce a trovare il corpo di p. Lazzaroni. Inutilmente si lavora ancora per qualche ora, poi si rimanda tutto al giorno successivo. Alle prime luci dell'alba, finalmente, si riesce a recuperare anche il corpo di p. Lazzaroni, che quasi certamente e' stato gettato ancora vivo nel pozzo. Girolamo aveva 27 anni e solo due di missione. Padre Bruno Zanella 32 anni e cinque di missione, padre Mario Zanardi aveva da poco compiuto i 37 anni, di cui quattordici in missione e monsignor Antonio Barosi di 40 anni, ne aveva trascorsi sedici in Cina.

PADRE CARLO OSNAGHI
(26 ottobre 1899 - 2 febbraio 1942)

Ormai il sole e' calato da un pezzo sulla landa sperduta di Yejigang. Fa molto freddo in questa notte del 1° febbraio 1942. Pioviggina e tira un forte vento dal nord. Padre Carlo Osnaghi continua a rigirarsi inquieto sulla stuoia.
Fin da ragazzo ha sempre sofferto di insonnia e anche in missione ha trascorso numerose notti in bianco. Le ore della notte sono le piu'lunghe, ma anche le piu'"fruttuose", soprattutto per chi si immerge facilmente nei ricordi. E p. Carlo ricorda le nottate trascorse curvo sui quaderni sgualciti, a correggere le versioni di latino e i problemi di matematica, quando nel 1924, appena giunto a Kaifeng, il vescovo gli aveva affidato l'incarico di insegnare latino e matematica agli alunni del seminario. Mai avrebbe pensato, durante gli anni di formazione, che la sua vita missionaria si sarebbe "impantanata" sui bassifondi delle lezioni di latino o del teorema di Pitagora...
Questa volta, pero', le cose vanno diversamente. Non e', infatti, la solita notte divisa tra lo studio, la preparazione delle lezioni e la cappella. E non e' la scolaresca indisciplinata a preoccuparlo con le sue risate irriverenti, quando lui, il professore, inciampa su un monosillabo cinese dal significato mutevole e inafferrabile. Sono le voci che provengono dall'altro angolo della capanna a non lasciarlo tranquillo. Voci roche e irose, alle quali l'ennesimo bicchiere di vino di riso infonde una violenza, se possibile, maggiore. Imprecano contro di lui, contro il vescovo e tutti i preti che hanno cosi' poca considerazione della sua vita, tanto da non aderire alla loro richiesta di riscatto. Cerca di non pensarci. Si volta urtando il catechista cinese, il compagno di sventura che lo fissa ininterrottamente con gli occhi sgranati. Neanche lui puo' prendere sonno. Ha ben presente che da un momento all'altro i rapitori potrebbero decidere la loro sorte. Solo Huang San, il ragazzetto di dodici anni sdraiato poco lontano, sembra dormire beato. Come puo' essere cosi' incosciente? Forse e' certo che suo padre, l'eminente mandarino del luogo, escogitera' qualcosa per venirlo a salvare o paghera' fino all'ultimo centesimo la somma richiesta per la sua liberazione. Padre Carlo, invece, sa bene che per lui e' diverso: e' sicuro che il suo superiore sta facendo il possibile per liberarlo dalla prigionia e da piu'giorni ci sono trattative in corso, ma sa anche che e' impossibile per i suoi confratelli riuscire a racimolare quei 500.000 dollari richiesti per pagare il suo riscatto.
L'ansia si fa sempre piu'angosciante. Ancora una volta volge lo sguardo al suo domestico; prova una profonda ammirazione per questo cristiano semplice e coraggioso che ha voluto seguirlo e rimanere con lui, pur avendo la possibilita' di andarsene libero. I briganti, che li tengono in ostaggio, cominciano a litigare. Padre Carlo tra le urla percepisce il suo nome. L'agitazione aumenta sempre più. Fruga tra le tasche del suo pigiama, lo stesso che indossava quando l'hanno sequestrato nel pieno della notte. Cerca il rosario e, trovatolo, affannosamente comincia a sgranare Ave Marie. I suoi occhi stanchi si perdono nel vuoto.
Benche' siano gia' passati quasi venti giorni dal sequestro, non riesce ancora a capacitarsi di quanto gli stia succedendo. Gli sembra di udire ancora quegli insistenti colpi alla porta della missione, a Yejigang. Era la notte del 12 gennaio quando, balzando dal letto, si era precipitato al portone per vedere chi avesse cosi' urgentemente bisogno. Per un attimo aveva pensato si trattasse della richiesta di un'estrema unzione. Ma, appena inforcati gli occhiali e abituato lo sguardo al buio della notte, si era dovuto ricredere: un folto gruppo di uomini armati lo aveva immediatamente afferrato e immobilizzato. Erano quindi entrati in casa e l'avevano svuotata di tutto. Avevano messo a soqquadro anche la chiesa, rubando tutto il possibile. Poi il missionario, il catechista e il ragazzino erano stati portati in una capanna, in aperta campagna, tra le steppe al confine nord-est del Henan, in modo che, al minimo accenno di pericolo, la banda avrebbe potuto, con un breve spostamento, mettersi al sicuro cambiando semplicemente provincia.
Padre Carlo, ancora intontito e incredulo, si era lasciato trascinare senza opporre resistenza. Piu'volte, durante i suoi diciotto anni di missione in Cina, aveva pensato, e anche desiderato, una morte violenta come quella di Gesu'per la "causa" del vangelo. E questo pensiero lo stupiva, non tanto perche' fosse fuori posto, ma perche' lo trovava in evidente contrasto con la sua cronica timidezza. Lui, che aveva "paura della sua ombra", come avrebbe potuto all'occasione trovare il coraggio necessario? Ma, col passare del tempo, aveva imparato a convivere con quei sentimenti e a far emergere la sua nascosta temerarieta'. Sapeva bene di non essere un eroe, d'altra parte a lui, dell'eroismo non era mai importato nulla. Gli bastava essere un bravo missionario, e questo era tutto. Cosi' aveva scoperto il silenzioso martirio che sa infliggere, ogni giorno, la consapevole accettazione della propria fragilita'.
Intanto il rosario scorre tra le sue dita, velocemente. Ha sempre avuto una gran paura dei briganti. Lo sapeva bene il suo vescovo che, nel 1926, dopo solo pochi mesi di missione nel distretto di Yuanzhai, a causa del pullulare di bande armate aveva richiamato p. Osnaghi a Kaifeng affidandogli l'incarico di coadiutore in cattedrale e cappellano dell'orfanotrofio. Ma questa volta non ci sono "uscite di sicurezza". Non deve piu'misurarsi con le ipotesi, ma deve affrontare la realta'. E i briganti, che discutono concitatamente sono la sua realta'. E' nelle loro mani. Il pensiero va ai suoi confratelli appena uccisi a Dingcunji. Un brivido gli scorre per il corpo. Il pensiero, istintivamente, ripercorre gli ultimi tragici avvenimenti, quando, a capodanno, era giunta a Kaifeng la notizia dell'assassinio dei suoi quattro confratelli. Conosceva bene soprattutto padre Zanella, perche' aveva svolto la sua attivita' missionaria proprio a Yejigang, lo stesso distretto dove, dal 1937, era stato mandato a sostituirlo. Un vero shock sentire quel racconto raccapricciante.
Padre Carlo non aveva potuto fare a meno di raccontare i suoi sentimenti alla madre, alla quale era legatissimo: «Tutti siamo scombussolati - aveva scritto a Milano, dove viveva sua mamma. - Ci sembra quasi un sogno... Il sangue di queste vittime possa essere l'ultimo. Le vittime dal cielo stenderanno su di noi tutti, rimasti in questo campo tanto tribolato e pieno di spine, il loro manto e ci proteggeranno. Ma, se sara' il caso, ci daranno la forza di morire generosamente al pari loro».
La mamma. Mentre continua a pregare, in padre Carlo si fa sempre piu'nitida la sua immagine. E' a lei che confida, per iscritto, ogni gioia, difficolta', preoccupazione. Come quando, dopo le varie esperienze a Kaifeng, nel 1930 venne inviato a Fengjiao, centro di tre villaggi cristiani di antica data, poco lontani dalla citta' di Luyi. Con la mamma si rallegrava per le sue comunita' cristiane, le comunicava il suo lavoro pastorale, le confidava i suoi desideri. Si trovava bene li' e ci sarebbe rimasto per sempre. Invece, nel novembre 1937 era stato trasferito nel distretto di Yejigang, anticamente un fiorente mercato, quando il Fiume Giallo gli scorreva vicino. Non per niente era stato chiamato "Colle dei fagiani", anche se ora, a ricordare quel nome non c'era piu'nulla. Solo poverta' e squallore, causati dalla deviazione del fiume.
Per padre Carlo erano stati tempi duri. Il ricordo corre ai suoi numerosi viaggi nelle diverse comunita', alle lunghe distanze percorse a piedi a causa della sua forte miopia che gli impediva di andare in bicicletta, alle soste nelle malandate locande, o presso le povere famiglie cristiane. E poi, al ritorno in missione, c'era sempre qualche sorpresa. Come quella volta che aveva trovato tutta la casa svaligiata dai ladri. Ma questi problemi concreti non erano i soli.
A causa dell'aggravarsi della guerra cino-giapponese, scoppiata nel 1937, p. Carlo veniva sempre piu'visto come un pericoloso nemico, per il solo fatto di essere straniero. Il senso di ospitalita' cominciava a diminuire e serpeggiavano il sospetto e i timori nei suoi confronti. Eppure lui, ne e' sicuro, non ha mai smesso di amare questo popolo: «Povera Cina infelice! Quanto sentiamo di amarti, noi ultimi apostoli, pronti a tutto pur di salvarti dall'abisso. E se Iddio vuole vittime di espiazione, eccoci!».
Mentre il forte vento continua a sibilare tra le fessure della baracca, la sua preghiera si fa piu'pacata. Non si ode piu'nessuna voce. Forse tutti si sono addormentati. Anche il catechista si e' assopito. Le prime luci dell'alba avanzano lentamente tra il turbine di sabbia fine sollevata dal vento che soffia dalla rive del Fiume Giallo. E' il 2 febbraio 1942. I briganti hanno deciso. Inutile aspettare oltre. All'improvviso il padre vede spalancarsi la porta: «Su, presto. Alzati! Oggi sarai messo in liberta'!». Non sa se credere alle sue orecchie. Gli altri due ostaggi, speranzosi, sono gia' scattati in piedi. I tre prigionieri, condotti all'aperto, si incamminano scortati dai loro sequestratori. Padre Osnaghi si sente piu'leggero, come se gli avessero tolto di dosso un grande peso. Presto sara' nuovamente libero.
Ma, non molto lontano dalla baracca, si fermano davanti ad una grande fossa, profonda circa due metri, scavata da poco. ...A un cenno del capo dei briganti, legarono subito mani e piedi ai tre prigionieri; il giovane Huang incomincio' a piangere e a gridare. Intanto con un calcio secco fecero rotolare p. Osnaghi nella fossa; con un secondo calcio fecero rotolare il cuoco (il catechista, secondo altre fonti), che cadde addosso a p. Carlo e subito si diedero a ricoprire la fossa con terra. Huang San ha ripetutamente affermato che p. Osnaghi trovandosi davanti alla fossa, vedendosi legato, non vedendo alcuna via di salvezza, scoppio' in un forte pianto, nel pianto grido' parole straniere e alcune parole cinesi invocanti la mamma! E mentre i briganti seppellivano gli ostaggi, mentre la terra man mano si accumulava sui loro corpi, p. Osnaghi e il catechista piangevano, finche' il loro pianto man mano si spense (dal diario di p. Gaetano Pollio). Il figlio del mandarino, Huang, viene rilasciato.

PADRE EMILIO TERUZZI
(17 agosto 1887 - 26 novembre 1942)

Sebbene il cielo plumbeo non prometta ancora nulla di buono, almeno ha smesso di piovere. E' da tempo, ormai, che non passa giorno senza un improvviso scroscio di pioggia. E in una simile situazione e' difficile, se non impossibile, percorrere i sentieri fangosi che conducono agli sparuti villaggi dispersi lungo le coste rocciose di Cairn, nei Nuovi Territori.
P. Emilio, raccolto nei suoi pensieri, seduto su uno sperone roccioso, a picco sul mare, si lascia trasportare dall'onda lunga della tristezza. Al largo non si scorge nessuna imbarcazione. Cairn, antico mercato in riva al mare, sembra deserto. Le barche che portano gli acquirenti dai paesi vicini hanno sospeso il servizio. C'e' aria di terrore.
E' il 16 novembre 1942. Non e' ancora passato un anno da quando, l'8 dicembre del 1941, l'esercito giapponese ha attaccato la colonia inglese di Hong Kong e, dopo averne sconfitto i difensori, l'ha occupata. Da allora non c'e' stata piu'pace. Se in citta' miseria, fame e abusi si succedono inarrestabili, sul continente la situazione e' ancora piu'disastrosa e caotica. La vastita' delle regioni occupate, infatti, non permette ai giapponesi un completo controllo del territorio, percio', frequentemente, molte zone tornano in mano ai cinesi. Guerriglieri, briganti e comunisti, spacciandosi tutti per patrioti, approfittano della confusione per compiere scorrerie. Ogni giorno si registrano uccisioni, disordini, vendette, interi villaggi vengono distrutti.
P. Teruzzi, appena rientrato nel suo antico distretto, e' frastornato. Ha tanto insistito, presso il suo vescovo, per poter tornare tra i cinesi di Cairn e non sa ancora spiegarsi bene se sia stato per coraggio o per incoscienza. Certo si e' sentito in dovere di tornare. Si trovava a Hong Kong da diverso tempo per affiancare il vescovo, mons. Valtorta, nelle attivita' pastorali e di assistenza caritativa, ma p. Emilio era costantemente in ansia per i due sacerdoti cinesi lasciati nella sua parrocchia. Per mesi non aveva avuto loro notizie, fino a quando, nei primi giorni di settembre di quello stesso anno, aveva saputo che erano stati sequestrati e trucidati dai guerriglieri comunisti, insieme ad altre otto persone. All'inizio era stato invaso da una rabbia tremenda e da un profondo senso di ribellione, di impotenza; poi dal forte desiderio di tornare, per sostituirli e continuare il loro lavoro. Del resto chi meglio di lui, conoscendo il luogo e i suoi pericoli, poteva aiutare quella povera gente bisognosa di tutto e abbandonata a se stessa?
Il vescovo si era mostrato a lungo perplesso. Ma alla fine aveva dovuto cedere. In padre Emilio riecheggiano ancora le dure parole di mons. Valtorta: «Pero' non faccia pazzie. Si ricordi che va solo per studiare la situazione. Non mi e' ancora venuta nessuna idea di lasciarla a Cairn. Le raccomando, anzi le comando, di essere sempre prudente e di non esporsi al pericolo della cattura». «Vedro' cosa posso fare», ricorda di aver risposto diplomaticamente, consapevole dell'elevato rischio a cui sarebbe andato incontro. Ma ora non se la sente, in nome della prudenza, di rinunciare a visitare i villaggi. Ormai fanno parte della sua vita. Ne conosce le famiglie, a una a una. Le loro vicende, i loro problemi. Tanti, che ora sono adulti, li ha visti nascere... e insieme hanno imparato a conoscersi, ad accettarsi, a stimarsi. Gli viene da sorridere. Con estrema nitidezza, benche' ormai siano trascorsi parecchi anni, riaffiorano i ricordi delle fatiche e delle paure dei primi tempi di missione. Tutto era una grande incognita. Tutto era motivo di tensione. La lingua, la cultura, le persone, anche lo stesso paesaggio. Cosi' aveva scritto a un amico, in Italia, nel lontano novembre 1914: «Trovatomi a capo del distretto, navigo in un mare di difficolta' perche' ignaro della lingua, essendomi dovuto applicare allo studio di un altro dialetto rispetto a quello gia' studiato, che e' generalmente parlato da queste parti, e inoltre perche', essendo rimasto troppo poco con il mio predecessore, non ho potuto avere tutte quelle informazioni necessarie, sia riguardo alla religione, sia riguardo alle questioni morali e finanziarie del distretto. E queste sono quelle che mi danno piu'fastidio. I miei cristiani, montanari o pescatori, vivono quasi tutti alla giornata con un po' di pesci e di vegetali. Sono una passivita'. Non sono le pecore che sostengono il pastore: e' questi che deve provvedere di tutto anche loro. Il distretto affidato alle mie povere cure comprende parte della colonia chiamata "Nuovi Territori", che ha un'estensione maggiore della nostra bella Brianza. Il paesaggio e' splendido, perche' intersecato in mille modi dal mare e solcato dai monti. Ma per godere i bei panorami bisogna assoggettarsi a faticose salite, e il mare ha i suoi corrucci, puoi percio' immaginare come passo la vita quaggiù. Una cosa ti raccomando, ed e' un' Ave Maria alla Regina del Cielo, alla Stella del mare, perche' se dovessi finire in bocca ai pesci, mi conceda la grazia di non essere impreparato. Gettando una sguardo sulla cartina del mio distretto, o ammirando dalla sommita' di qualche monte le tante regioni, i tanti villaggi ancora avvolti nelle tenebre di morte, mi sento una stretta al cuore, mi sento le ali ai piedi, mi sento prudere le mani: vorrei correre o lanciarmi tra quei popoli, ma... debbo dire col profeta "puer sum ego, nescio loqui" (sono un bambino, non so parlare). Tutto il cristianesimo del mio distretto e' confinato in una specie di penisola. Di cristiani ne ho abbastanza, tenuto conto che questo e' il piu'antico. Devo occuparmi di una quindicina tra chiesette e cappelle, ma la maggior parte di questi edifici minaccia la rovina, richiede provvedimenti e le acque sono basse, bassissime, per non dire che si va a secco. Quelle benedette formiche bianche non si accontentano di rovinare le chiese e le case, mangiano anche le scarpe e il borsellino del povero missionario. Poi ci sono le scuole, un altro grande essiccatore di acque finanziarie. Vorrei che tutti i ragazzi studiassero almeno le preghiere e il catechismo, ma l'istruzione non e' obbligatoria quaggiù, e se ci si fa sentire un po', "Padre - rispondono - da' tu il denaro e mio figlio studiera'". Ecco il mezzo piu'spiccio per far mettere la coda tra le gambe anche al missionario».
Si domanda ancora adesso, stupito, dove avesse trovato tutto quel coraggio che lo ha aiutato non solo a non cedere di fronte ai numerosi momenti di scoraggiamento e di delusione, ma che addirittura lo ha spinto a difendere i suoi cinesi da soprusi e ingiustizie. Piu'd'una volta se l'e' vista brutta. Come quando, avendo insistito nel costruire una scuola su una collina rivendicata ingiustamente da un potente del luogo, si era visto istigare contro tutti gli abitanti del paese, tanto che, se non fosse intervenuta la polizia inglese (dai cinesi temuta piu'degli spiriti), avrebbero certamente risolto la questione facendolo a pezzi senza esitazioni. O come quando non si era dimostrato titubante nel presentarsi in un covo di briganti per trattare la liberazione di un ostaggio. Adesso ci ride sopra soddisfatto, ma che fatica fingere quella sicurezza, mista a una certa spavalderia, che avevano cosi' colpito il capobanda, tanto da renderglielo amico!
P. Emilio sa di riuscire sempre a farsi ben volere e questa e' la molla che l'ha aiutato in mille situazioni. Anche quando, rientrato in Italia per il venticinquesimo di sacerdozio nel 1937, i suoi superiori gli comunicarono che avrebbe dovuto restare in patria a prestare il suo servizio in seminario. Il breve periodo di vacanze si trasformo', quindi, in due anni di "lavoro" e benche' la nostalgia della sua Cina fosse molto forte e altrettanto difficile reinserirsi nel mondo giovanile italiano, si butto' a capofitto nell'incarico ricevuto riuscendo a essere per i seminaristi non solo il loro rettore, ma anche un amico e un confidente.
Inoltre e' consapevole di saper ottenere tutto cio' che vuole. Cosi' e' capitato, ad esempio, per il suo rientro ad Hong Kong nel 1938. In coscienza, pero', riconosce di non essere un tipo ribelle. Ed e' per questo che, nonostante la voglia irrefrenabile di recarsi subito a Cairn, aveva saputo aspettare l'autorizzazione del vescovo, accettando, provvisoriamente, una serie di incarichi in curia e a livello diocesano. Infatti aveva promosso varie attivita' di Azione Cattolica nella citta' e aveva curato la formazione di nuovi gruppi di Boy Scout (Giovani esploratori cattolici) accompagnandoli, benche' fosse ormai sulla cinquantina, nei loro campi estivi o invernali. Inoltre aveva svolto la mansione di archivista. D'altra parte non era nuovo a questo tipo di lavoro: anni prima, infatti, era riuscito, utilizzando il "tempo libero", a mettere in ordine l'archivio della missione, che possedeva preziosi documenti riguardanti tutte le missioni della Cina, fin dal 1841, ricavandone una "Breve storia del Vicariato apostolico di Hong Kong".
Si liscia il lungo pizzetto ormai bianco e la sua mente si concentra nell'organizzare i prossimi itinerari. E' la voce del catechista a distrarlo dai suoi pensieri. Si e' fatta sera ed e' l'ora della messa nella piccola chiesa della missione. Padre Emilio si affretta a raggiungere la sacrestia.
A Roma, "Propaganda Fide" in data 2 gennaio 1943 porta a conoscenza il contenuto di un telegramma spedito da mons. Valtorta, con il quale annuncia la morte di padre Teruzzi: «ucciso, a quanto pare, da briganti cinesi nel distretto di Cairn». Le prime relazioni dell'accaduto sono molto lacunose e ignorano la data, il luogo e i particolari del delitto. Tutte si basano su un semplice rapporto scritto in latino, probabilmente di un prete cinese e datato 3 dicembre 1942, che dice: «Otto giorni fa, o anche prima, Han Ah Kung (il custode della chiesa di Cairn) ha consigliato a p. Teruzzi di non andare in giro a visitare i piccoli villaggi perche' le yiu-kit-dui (squadre di guerriglieri) lo consideravano un traditore della Cina; pero' p. Teruzzi ha risposto di non essere un traditore, ma di curare semplicemente le anime dei cristiani e di non avere percio' nulla da temere. Quello stesso giorno si reco' a visitare Taitung, Tsengtau e Wukaisa, dicendo che sarebbe rientrato dopo due giorni. Non e' piu'tornato. Ieri sera un cristiano dell'isola, che fa commercio a Cairn disse ad Ah Kung che p. Teruzzi era stato ucciso. Il cadavere era gia' stato trovato e sepolto, ma dove, quando e come non lo sa». Notizie avute in seguito da testimoni aiutano a ricostruire quanto accaduto. P. Emilio e' stato catturato mentre si preparava a celebrare l'Eucaristia in una casa di cristiani. Condotto in mare su una barca, li' e' stato ucciso a colpi di pietra sulla testa il 26 novembre 1942.

PADRE PIETRO GALASTRI
(18 aprile 1918 - 24 maggio 1950)

«Suona la sirena, la nave si stacca dalla banchina trainata da due rimorchiatori. Ci riuniamo sul ponte, si prende la fisarmonica e si canta, si canta con tutte le nostre forze, con tutto l'animo: cantiamo inni alla Vergine, innalziamo preghiere alla Madonna del cielo perche' ci aiuti a fare generosamente l'ultimo distacco; perche' benedica quelli che lasciamo, benedica tutti coloro che in quel momento sono uniti a noi con lo spirito della preghiera. Genova si allontana piano piano. Genova, la superba Genova, ci sfugge. Le sue luci, da principio tanto belle e vivaci, svaniscono lentamente: le stelle e la luna fanno da coro al nostro canto che sempre piu'si dilegua. La voce tormentata da una forte corrente d'aria si affievolisce, finche' muore nella tristezza della notte. Muore nella solitudine dello spazio infinito, muore sulle onde del mare tagliato dalla nostra nave che, con il suo monotono rumore, fa eco alla nostra voce. E la nave da sola continua il canto, lasciando dietro di se' una lunga scia a guisa di corda che ci unisce ancora alla patria.
La stanchezza, il fresco, la tristezza conciliano il riposo. Tutti lasciano il ponte e si ritirano. Rimango solo, appoggiato alla ringhiera, osservando con uno sguardo quasi smarrito quella scia e quei lontani lumicini. Sono le 22. Prego e penso, penso e prego, per tutti. La tristezza mi invade l'animo, prendo la corona e passeggiando recito il rosario. La mia fantasia mi porta nella casa paterna, rivivo la preghiera familiare quando ogni sera, tutti riuniti presso il quadro dell'Addolorata, recitavamo, sotto l'invito paterno, la preghiera mariana. E' martedi', giorno dell'incontro degli aspiranti: mi sembra di trovarmi nella sala delle adunanze e vedo davanti a me tutti quei vivaci ragazzi, mi sembra che rispondano, come sempre, al rosario. Terminata la preghiera, termina anche il sogno, torno alla realta': mi trovo sulla nave che fende le onde e la', dietro l'orizzonte Genova scompare».
E' p. Pietro Galastri che scrive una delle prime pagine del suo diario di viaggio. Sta lasciando l'Italia sul piroscafo Taurinia, diretto in Birmania, il 23 marzo 1948. Alto, rigido, severo; lineamenti marcati, volto scuro; occhi grandi, penetranti, vivaci; pizzo nero e folto sulla faccia lunga e austera; crocifisso sul petto. Ma nonostante l'apparenza burbera e controllata, nel suo cuore si agitano forti passioni e grandi ideali. Ha trent'anni e finalmente, missionario da cinque, dopo una forzata attesa, puo' partire verso quel futuro da tempo sospirato.
Nato, infatti, il 18 aprile 1918, all'eta' di tredici anni comunica al rettore del Seminario missionario di Agazzi il desiderio di "farsi prete". Gia' suo cugino Cesare Mencattini e' nel seminario e Pietro, che spesso va a trovarlo, nutre lo stesso sogno. Cosi', da Partina, piccolo villaggio arroccato sui monti di Camaldoli, Pietro Galastri va ad Agazzi (Arezzo), lasciando i suoi genitori e i suoi otto fratelli, i fitti boschi di faggi e abeti, la verde vallata, la quiete del monastero e dell'eremo di Camaldoli.
Ad Agazzi, paesino isolato in aperta campagna, a quattro/cinque chilometri da Arezzo, prima della seconda guerra mondiale c'era un piccolo seminario per le Missioni Estere, dove gli aspiranti missionari frequentavano il ginnasio inferiore. Il primo anno di questa nuova vita non e' facile per Pietro. Abituato a una vita indipendente, svariata, fra scuola, occupazioni domestiche, giochi e passatempi all'aperto, accusa il brusco cambiamento: la disciplina e' severa, il regolamento rigido, duro, monotono. Presto vi si adatta, ma dopo la prima ginnasio, viene trasferito in altri seminari dell'istituto, prima a Ducenta e poi ad Aversa, in provincia di Caserta. E cosi', oltre alla disciplina, deve affrontare la prima, vera lontananza dalla famiglia. Agazzi era a due passi da casa, per cui era facile per i familiari andare ad Arezzo a trovarlo, ora la distanza e' maggiore. Si abitua cosi', lentamente, al distacco da tutto e da tutti. Questa separazione, pero', non diminuisce l'affetto per i suoi familiari, tanto che, appena possono, i fratelli lo vanno a trovare.
Neppure l'entusiasmo per la scelta fatta diminuisce, anzi si delinea ulteriormente, si rafforza e si arricchisce. Di ritorno dalla guerra in Africa Orientale, per esempio, suo fratello Luigi passa da Ducenta, dove Pietro sta frequentando il sesto anno di seminario: «Mi volle trattenere piu'del solito - scrive il fratello - per farmi domande sulla vita degli "indigeni". Voleva conoscere quello che sta dall'altra parte della nostra Chiesa. Le sue domande erano cariche di ansia e di entusiasmo. Sognava di essere presto a contatto con quelle creature diverse da noi, che io brutalmente avevo combattuto. Egli desiderava abbracciarle e portarle al Signore. Le sue parole, diceva, sarebbero state piu'efficaci delle mie a suon di fucilate, perche' frutto dell'amore e della convinzione!».
Nell'autunno del 1937, finita la quinta ginnasio, Pietro e' trasferito da Aversa a Monza dove frequenta la prima liceo. Oltre a dover affrontare le fatiche della scuola, bisogna fare i conti con l'inizio della seconda guerra mondiale, con i bombardamenti inglesi. Il pericolo diventa sempre piu'insostenibile, cosicche' nel 1943 i corsi teologici vengono trasferiti a Villa Grugana, in Brianza, dove Galastri puo' continuare i suoi studi e, il 18 dicembre 1943, diventare sacerdote. Ormai e' pronto per essere inviato in missione, ma la guerra divampa ancora e le frontiere sono chiuse. A lui e ai suoi confratelli non resta che aspettare. Frattanto, pero', viene data loro la possibilita' di esercitare il ministero nelle parrocchie lombarde. Il lavoro in parrocchia si rivela proficuo da piu'punti di vista: essi maturano esperienze utili per le loro future missioni e nel contempo offrono un aiuto provvidenziale alla diocesi. Infatti molti giovani sacerdoti diocesani sono partiti per il fronte come cappellani di guerra, lasciando i parroci soli nella gestione delle diverse parrocchie. Cosi', il 9 settembre 1944, p. Galastri viene inviato come coadiutore a Groppello, nel comune di Cassano d'Adda, in provincia di Milano. Giovane, attivo, intraprendente e ricco d'entusiasmo, si butta nell'apostolato con tutte le sue energie. Si dedica in modo particolare ai giovani, escogitando attivita' attraenti e nello stesso tempo educative: compagnie teatrali che riscuotono successo anche nei paesi vicini, gite indimenticabili, momenti di intensa gioia e comunione, rallegrati dall'arrivo nel paese della prima macchina del cinema. Vive intensamente la vita della parrocchia e dei parrocchiani, assiste le orfane della Piccola Opera Tognoli, rimette in uso una vecchia macchina per maglieria e trova una ragazza che insegna loro a usarla.
La notizia che presto sarebbe partito per la missione gli e' comunicata alla fine del 1947. Inutili sono le insistenti pressioni dei groppellesi perche' "padre barba" rinunci alla partenza e resti con loro. Il 23 marzo 1948 si imbarca per la Birmania. Dopo un mese e mezzo circa, il 4 maggio, la nave raggiunge Calcutta e ripartira' per Rangoon solo il 12, mentre il passaporto scade il 9: occorre prendere l'aereo per anticipare i tempi. La mattina dell'8 maggio, parte per Toungoo in treno: sedili alla birmana, bisogna incrociare le gambe e sedere sui talloni; le stazioni ferroviarie sono capanne sulle palafitte; solo le pagode, che qui trionfano, sono in mattoni. A Toungoo li aspetta il vescovo Alfredo Lanfranconi. Dopo un bel Te Deum nella cattedrale di legno, comincia la nostra vita missionaria.
Nei primi mesi la piu'grande penitenza per p. Pietro e' di non poter parlare con i ragazzi: l'urgenza piu'pressante e' lo studio delle lingue locali. Intanto il vescovo nota in p. Galastri un lavoratore ingegnoso e infaticabile: puo' essere prezioso nel distretto di p. Vergara a Pre'thole, dove tutto e' ancora da fare e in piu'li' puo' esercitarsi a parlare con la gente. Gli viene dunque assegnato il posto piu'difficile e lontano.
«Un colpo di gioia inondo' il mio volto. Si parte per la destinazione!», in treno e in camion, a cavallo e a piedi. Eppure tutti questi disagi non sono nulla in confronto alle condizioni di anarchia e di disordine nelle quali si trova la Birmania. Il governo e' debole, le forze contrarie ne approfittano per combatterlo. Dalla Cina penetrano i guerriglieri comunisti: assaltano villaggi, incendiano paesi, rubano, distruggono, uccidono. A questi si aggiungono i protestanti battisti, che odiano e combattono i cattolici. Il popolo, che non si sente piu'sicuro, teme i ribelli ed e' difficile in queste condizioni lavorare, arare i campi e piantare il riso. Arrivano notizie di villaggi bruciati, abitanti sterminati, raccolti distrutti. I pochi soldati governativi sembrano impotenti. Anche il lavoro missionario diventa impossibile: linee ferroviarie fatte saltare, servizio di camion interrotto dai guerriglieri nascosti nelle foreste e lungo le strade. Non c'e' angolo di questo grande paese che non sia insicuro. Intanto, proprio nel giorno in cui arriva p. Galastri, il governo stabilisce di non accogliere piu'missionari stranieri sul suo territorio: «Sono arrivato in tempo! - scrive - Ancora una settimana di ritardo e non sarei piu'potuto entrare in Birmania: i missionari che ci sono, restano; i nuovi non saranno accettati».
Ed e' in questa situazione, a Tarudda', un villaggio cattolico sperduto nella foresta, tra "baracche sgangherate", che p. Pietro svolge le sue attivita' insieme a p. Vergara: «Roba da matti! Ma ormai ci sono e devo ballare! E... balliamo, a gloria di Dio!».
Nei due anni di vita in Birmania, svolge un lavoro enorme: costruisce edifici in legno e muratura, attrezza locali per la catechesi e altre attivita' pastorali, senza trascurare l'apostolato, il catechismo, la predicazione. Con p. Mario cura l'istruzione dei ragazzi, provvede il cibo per gli orfani, e, costruita una piccola chiesa in legno a Tarudda', si trasferisce con il confratello a Shadow: ci sono da costruire e curare la residenza, la scuola, la chiesa, l'orfanotrofio e il dispensario.
Presto pero' cominciano i guai. Quando Loikaw viene occupata dai ribelli, p. Pietro scrive: «Qui a Shadow siamo isolati dal nostro centro di rifornimento, Loikaw, perche' nessuno ci vuole andare. Percio' adottiamo restrizioni su tutto. Pregate per me che, non possedendo bene la lingua, soffro piu'di tutti». Dal luglio 1949 le comunicazioni si fanno sempre piu'difficili. In Italia invano si aspettano sue notizie: p. Galastri e' isolato a Shadow, dove sta curando la costruzione della chiesa e della scuola. Il vescovo e p. Vergara, da Loikaw, assicurano che p. Pietro sta bene, ma c'e' la "cortina di ferro" e non si puo' spostare. Finalmente in settembre riesce a raggiungere i suoi confratelli: «La vita e' difficile - scrive rispondendo alle lettere inviate dall'Italia - ma in nome di Dio si tira avanti! Come passo il tempo? Ecco: lavoro, delusioni, privazioni... Si lotta con le labbra fra i denti e lo sguardo in alto. Mi avete creduto morto e sepolto?! Invece sono ancora vivo, anzi sano, sanissimo, robusto e forte! Piuttosto p. Vergara soffre della sua malaria cronica. Che il Signore me lo conservi! Lavorare di giorno, vegliare di notte, non importa. Ma restare soli! Questo no, no! Anch'io ne ho passate delle belle, ma sempre bene, con fortezza e coraggio! Tutta grazia di Dio, ottenuta dalle vostre preghiere. E sono contento, anche quando il cuore sanguina! Non mi e' mai venuta la tentazione di pentirmi di essere venuto qui! Oh, miei cari, in mezzo ai dolori, alle tribolazioni e privazioni di ogni genere, ci si sente sempre contenti, gioiosi. Se c'e' un momento di oppressione, subito con uno sguardo in alto, ci sentiamo forti e decisi a tutto!».
Con il passare del tempo la guerriglia si intensifica. Un giorno una banda armata fa irruzione nella capanna di p. Galastri, mentre sta pregando. Con lui ci sono i suoi ragazzi. Questi banditi lo accusano di detenzione di armi e di essere una spia dell'esercito regolare. La perquisizione da' esito negativo, ma lo prelevano ugualmente e lo costringono a camminare verso la foresta con le mani sulla nuca minacciando di giustiziarlo. E' solo un avvertimento, un primo avviso di quello che sarebbe poi accaduto. Egli stesso da' notizie di queste cose, scrivendo che «Dio ha cosi' disposto per il bene della missione».
Con una fede grande sfida la morte che lo sfiora ogni giorno. E quando anche il posto piu'avanzato di Pre'thole cade in mano ai ribelli, p. Pietro, che e' un uomo quieto e pacifico ma sempre vicino al suo confratello, ne condivide la sorte. E' il 25 maggio 1950.

PADRE MARIO VERGARA
(16 novembre 1910 - 24 maggio 1950)

Primi del novecento. A otto chilometri da Napoli, verso nord, c'e' Frattamaggiore, cittadina industriale, famosa per la lavorazione della canapa. Numerosi sono gli stabilimenti che offrono manodopera agli abitanti della zona. Una di queste fabbriche e' gestita da Gennaro Vergara (anche assessore comunale), che spesso si reca all'estero, specialmente in Germania, dove e' destinata gran parte della produzione. Durante i periodi di assenza rimane a sostituirlo nel canapificio Antonietta, la moglie, che tiene tutta l'amministrazione, senza trascurare l'andamento della casa e la cura dei nove figli. Ultimo dei cinque fratelli e' Mario, nato il 16 novembre 1910.
«Ragazzo estroso e avventuroso - ricorda il suo compaesano e grande amico Gennaro Auletta. - Dopo le elementari, nel 1921, entro' nel seminario diocesano di Aversa. Forse neanche i superiori ne speravano un gran che: per il suo fare aperto e l'aria sbarazzina era qualificato un "carattere ribelle". Certo e' che chi non ebbe intimita' con lui non lo conobbe mai e lo giudico' un "tipo curioso"! Ma sotto la scorza rude, batteva un cuore grande».
Infatti, spinto dal forte desiderio di amare Dio e ogni fratello, resiste alla disciplina del seminario e fortifica maggiormente la sua vocazione. Nell'ottobre del 1929 Mario Vergara entra nell'Istituto del Pime, iniziando il secondo anno di liceo a Monza. Ma prima della fine dell'anno scolastico deve rientrare in famiglia: forti attacchi di appendicite lo costringono a sospendere gli studi. Sopraggiunge addirittura una peritonite che lo riduce in fin di vita, ma Mario e' sicuro del fatto suo, tanto che lui stesso ricorda: «Attorno a me tutti piangevano, io solo me la ridevo dentro di me, sapendo di non poter morire, perche' dovevo andare missionario!». E cosi', di fatto, guarisce. Per non sottoporre ancora azzardatamente il suo debole fisico ai rigori invernali del nord, egli riprende gli studi nel Pontificio Seminario Campano di Posillipo, tenuto dai padri gesuiti, dove Mario si ingegna nelle iniziative di animazione missionaria.
Il 31 agosto 1933, puo' rientrare nel Pime e con grande riconoscenza scrive al Superiore: «La gioia che mi riempie il cuore e' cosi' grande da rendermi impossibile esprimere i miei sentimenti di gratitudine per la grazia singolare concessami». A Milano frequenta l'ultimo anno di teologia e il 24 agosto 1934 Vergara viene ordinato sacerdote. Un mese dopo parte per la Birmania.
Appena giunto a Toungoo, alla fine di ottobre 1934, p. Vergara si da' allo studio delle lingue delle tribu'cariane e dopo qualche mese, quando ne arriva a conoscere ben tre, gli viene assegnato il distretto di Citacio', della tribu'dei Sokù, con 29 villaggi cattolici e altrettanti catechisti da mantenere, oltre alla cinquantina di orfani raccolti dalla missione. P. Mario e' sempre in movimento: noncurante dei disagi, del maltempo, della malaria, ai cui attacchi e' soggetto di frequente, va in giro per i villaggi anche con la febbre in corpo. E per la sua gente si prodiga in mille modi: prete, educatore, medico, amministratore e spesso anche giudice. Poi, all'improvviso, la guerra interrompe i suoi sogni e la sua attivita'. Il 10 giugno 1940 l'Italia dichiara guerra all'Inghilterra. Anche i missionari italiani vengono considerati "fascisti" e quindi, automaticamente diventano nemici degli inglesi. Padre Mario deve ritirarsi nella casa di formazione del Pime a Momblo e cosi' si concentra nello studio di una nuova lingua locale: il Ghekù, nella vana speranza di poter comunicare con questa tribù. Ma ben presto entra in scena anche il Giappone: dopo Pearl Harbor, rapidamente invade le Filippine, l'Indocina, Hong Kong e la Thailandia. Ormai e' alle porte della Birmania.
I missionari cattolici, non ancora internati dagli inglesi e rimasti nella foresta, cercano di resistere ai forti disagi e ai pericoli, ma quando il 21 dicembre 1941 i giapponesi invadono il territorio birmano vengono inviati nei campi di concentramento inglesi in India. Tra questi c'e' anche p. Mario Vergara. I missionari sono tra gli internati civili di guerra e il loro rammarico piu'grosso e' l'inoperosita'. La vita nei campi di concentramento e' estremamente noiosa: «Il ricordo dei giorni nella mia missione mi rende nervoso, in mezzo a questi fili spinati e senza occupazioni - scrive il 25 gennaio 1943 p. Grazioso Banfi dall'Internment Camp di Bombay. - Quando penso al lavoro che la' c'e' da fare, mi vengono le lacrime agli occhi. E intanto prego, soffro e studio per la mia missione. E' da due anni che sono qui con quasi tutti i missionari del Pime (ottantadue, ormai)... i giorni non passano tanto veloci come vorremmo. Ma, a quando la pace? Povere nostre missioni! Il Signore, se cosi' ha voluto, sapra' anche ricavarne un bene». E con questa certezza vanno avanti. Intanto, dopo l'ispezione della Croce Rossa, le insistenze del Vaticano e dei vescovi cattolici dell'India, il 15 marzo 1943 gli internati civili italiani vengono trasferiti in un'ala del campo dove le condizioni di vita sono migliori e i missionari, riuniti in due baracche vicine, possono curare maggiormente la loro vita spirituale e i loro studi.
Nella speranza di tornare in Birmania, imparano la lingua cariana, organizzano seminari teologici e corsi di medicina, si confrontano sui loro diversi stili pastorali, tengono periodicamente conferenze liturgico-morali e commentano le costituzioni dell'Istituto. I giorni non sono piu'cosi' lungamente tetri e noiosi. Riescono persino a creare una cappellina per l'adorazione perpetua. Pur sembrando una prigionia senza fine, grazie alla speranza di cui si fanno portavoce, i missionari sono di conforto anche a tutti coloro che vivono nelle loro medesime condizioni. Verso la fine del 1944 i primi padri vengono rilasciati e possono tornare alle loro missioni.
Dopo quattro anni di penoso e snervante internamento, anche p. Mario Vergara viene rilasciato. E' molto indebolito perche', oltre alla spossatezza dovuta alla durezza della detenzione, ha subi'to diverse operazioni chirurgiche, in una delle quali gli e' stato asportato un rene. Teme di essere ritenuto ormai inutile ed e' preoccupato che gli impongano il rimpatrio o un riposo. Ma non e' cosi', anzi, ben presto gli viene affidato un lavoro arduo e pericoloso. Il vescovo della Birmania, mons. Lanfranconi, ha in mente di fondare all'estremita' della frontiera orientale della missione di Toungoo un nuovo centro: tribu'ignote e quindi anche lingue da imparare e costumi da conoscere, un centinaio di villaggi sperduti nella jungla. Un progetto apparentemente irrealizzabile. Ne parla a p. Mario che, senza indugio, accetta la "sfida".
Il nuovo distretto, situato a duemila metri di quota sulle catene montuose dette Pre'thole, a est di Loikaw, da cui dista due giorni di viaggio, comprende numerosi villaggi di religione tradizionale, e pochi villaggi protestanti battisti. Nel 1939 due villaggi sono diventati cattolici, ma poi, con la guerra, tutto e' rimasto bloccato. E proprio da questi due villaggi, il 26 dicembre 1946, p. Mario Vergara e' accolto festosamente.
Manca tutto: non un "buco" dove abitare, non una stuoia su cui stendersi. P. Mario adatta come meglio puo' una catapecchia abbandonata: «Abito ora in una capanna di bambù, posta su un cocuzzolo di un monte sovrastante il villaggio di Tarudda' - uno dei due villaggi cattolici che e' diventato la sua residenza -. Vento e sole entrano liberamente; se piove ho il bagno a domicilio, proprio come i grandi signori... eh, quando uno nasce fortunato! Per il mobilio due sedie e un tavolino che ho fatto col coltellaccio del mio catechista; per cibo un po' di riso con erbe di bosco. A sinistra catene di monti digradanti fino alla pianura di Loikaw e popolatissimi; sono duecento i villaggi di cariani rossi e alcuni di shan. I protestanti vi giunsero vent'anni or sono, capite? E contano quattro villaggi. Presto vi faro' un giro di "ricognizione" col prete cariano e alcuni catechisti».
Con quel suo entusiasmo, calmo e misurato, ma fermo, affronta questa vita, di certo non facile per la lontananza dal centro, per la poverta' della gente, per la scarsita' dei viveri, per la mancanza di trasporti. Maggiori del disagio materiale sono le difficolta' di inserimento e di dialogo con la gente, con i buddhisti e, ancora di più, con i battisti. Ma tutti questi ostacoli non fanno che aguzzare l'ingegno di p. Vergara, che comincia a studiare la lingua locale appassionatamente, cosi' da riuscire a prendere contatto con una quindicina di villaggi e ad avere dei catecumeni. La sua esperienza in medicina lo agevola molto. A volte sembra addirittura compiere "miracoli": un bambino, moribondo, guarisce grazie a un sorso di vino da messa che p. Mario gli da' da bere, non avendo con se' nessuna medicina; uno storpio, che si trascina penosamente, dopo i massaggi del padre riesce ad alzarsi e a camminare. Due guarigioni straordinarie che destano il sospetto dei battisti, i quali, temendo il "concorrente", sferrano l'offensiva della calunnia: «Mentre sono in cerca di maestri - racconta lui stesso - i protestanti si portano sul luogo a sparlare della nostra religione. La gente, disgustata, non prende piu'ne' me, ne' loro. Soffro indicibilmente: solo la preghiera di chi mi vuol bene, mi puo' sostenere».
Nel frattempo, e' l'ottobre del 1948, arriva ad aiutarlo p. Pietro Galastri. E' proprio l'aiutante che ci vuole. Con lui, abile falegname e muratore, si puo' finalmente pensare alla costruzione degli edifici utili alla missione: scuola, chiesa, orfanotrofio e dispensario. Insieme, poi, i due padri si stabiliscono nel grosso mercato di Shadow, della tribu'dei buddhisti shan, dove danno inizio ad altre costruzioni. P. Mario, intanto, aiutato e sorretto dal confratello, continua la sua fatica di "apostolo errante", tra monti e risaie. Il suo desiderio piu'vivo e' quello di formare catechisti in grado di tradurre la sua fede europea nella cultura locale, in modo da far diventare il cristianesimo comprensibile e convincente. Ma e' un compito arduo e si deve scontrare continuamente con le tradizioni e le superstizioni del luogo. Come se non bastasse diversi sono gli imbroglioni che approfittano dell'ingenuita' di questa gente. Uno addirittura, spacciandosi per profeta, promette denaro, riso, benessere e, soprattutto, l'immortalita': basta fidarsi del suo dio e fargli numerose offerte. Intanto i campi rimangono incolti, i villaggi vengono abbandonati e le famiglie disgregate. L'illusione, ovviamente, svanisce presto e tocca a p. Vergara aiutare questa gente ad affrontare la miseria, diventata ancora piu'squallida, e la degradazione morale. Istituisce, allo scopo, una singolare forma di Azione Cattolica.
L'odio dei battisti contro di lui aumenta. P. Vergara infatti, con le sue attivita' pastorali, non fa altro che incrementare il malcontento dei protestanti, ultimamente cresciuto a causa della nuova situazione politica creatasi in seguito all'indipendenza dall'Inghilterra ottenuta nel 1948. Scrive p. Mario: «Quando qui erano gli inglesi a comandare, tutto era ordine e pace; adesso dappertutto e' disordine e guerra civile. I cariani protestanti, approfittando della confusione generale, si sono impadroniti del potere e vanno terrorizzando i cattolici fedeli al governo legittimo». P. Girolamo Clerici, nel 1949, precisa in un suo articolo: «L'eredita' d'una guerra distruttrice, l'inesperienza del governare, le gelosie personali e le ambizioni private possono far naufragare le grandi speranze d'un paese che, nel suo legittimo orgoglio nazionale, si rallegra d'aver preso in mano le redini del proprio destino. Il governo ha incontrato formidabili problemi come le minoranze nazionali, l'influenza comunista e la crisi economica. A loro volta i cariani, dopo aver sempre invano reclamato l'autonomia, ora sono delusi per la distribuzione delle terre e irritati perche' esclusi dalla nuova armata, di pura razza birmana». I ribelli sono convinti che i cattolici siano gli "eredi" dell'antico governo coloniale e le spie del nuovo: vengono quindi perseguitati e osteggiati.
Dal gennaio del 1949 Toungoo viene occupata dai cariani ribelli. Ma dopo i primi successi, questo esercito irregolare comincia a risentire della controffensiva delle truppe governative e a subire sconfitte su tutti i fronti. I capi dei ribelli, per nutrire la truppa affamata, requisiscono i viveri e opprimono con tasse esorbitanti la popolazione dell'importante mercato di Shadow. P. Vergara non puo' tacere di fronte a questo sopruso e prende le difese degli oppressi. Questo suo intervento da un lato gli procura la riconoscenza dei capovillaggio ma, nello stesso tempo, gli attira l'odio dei ribelli e specialmente del capo politico sig. Tire, gia' maldisposto verso p. Mario per i suoi "successi" religiosi. La posizione di p. Vergara e del suo coadiutore p. Galastri peggiora quando, nel gennaio 1950, Loikaw, loro unico luogo di rifornimento, cade in mano ai governativi. La loro missione viene cosi' tagliata in due e i padri sono costretti ad attraversare frequentemente le linee per raggiungere, dalla loro residenza di Shadow ancora in mano ai ribelli, gli altri villaggi situati nel territorio riconquistato dalle truppe regolari.
Alla fine del mese, tornando da Loikaw a Shadow, p. Mario e p. Pietro sono fermati e perquisiti dai ribelli, che sperano di trovarli in possesso di armi o lettere compromettenti. L'esito della perquisizione e' negativo, cio' nonostante si ostinano a credere che i due missionari siano le spie del governo centrale. Intanto, in assenza di notizie, il vescovo e i confratelli di Loikaw cominciano a preoccuparsi. Per mesi si e' in ansia circa la sorte dei pp. Vergara e Galastri fino a quando, il 31 agosto del 1950, la radio locale annuncia che i due missionari sono stati arrestati, uccisi e i loro cadaveri gettati nel fiume Salween.
Solo in seguito si avranno notizie piu'dettagliate: il 24 maggio, alle sei del mattino, alcuni ribelli entrano nella residenza di Shadow, dove p. Galastri e' in preghiera, e gli ordinano di seguirlo. Legato mani e piedi, viene condotto al bazar dove, nel frattempo, e' stato portato anche p. Vergara con il catechista Isidoro, arrestati precedentemente nella piazza del villaggio. A sera inoltrata vengono fatti incamminare tutti e tre lungo un sentiero che costeggia la sponda sinistra del Salween e all'alba del 25 sono uccisi a colpi di fucile. I loro cadaveri, rinchiusi in sacchi, sono abbandonati in bali'a della corrente.

PADRE ALFREDO CREMONESI
(15 maggio 1902 - 7 febbraio 1953)

20 febbraio 1946, Toungoo, in Birmania: «Da ormai sei anni sono forzato al silenzio. La guerra e' stata terribilmente lunga e la prova per noi difficile oltre ogni dire. Qui fummo per quattro anni in mezzo a una guerra coloniale, devastatrice e crudele piu'di ogni altra, perche' in colonia nessuno ha interesse a combattere, e tutti trovano gusto a rubare. Ho dovuto scappare anch'io nel bosco e vi assicuro che durante la stagione delle piogge non e' affatto piacevole, soprattutto se non si ha nulla. Possedevo solo i vestiti che avevo addosso. Non ebbi mai una goccia di olio per condimento, non si vide mai pane, mancammo per anni di zucchero, ci venne a mancare persino il sale, dovemmo usare ogni cosa per vestito e zoccoli per scarpe. Tutti i mercati erano stati devastati e svuotati. Non c'era piu'nessuna idea di botteghe, tutti i mezzi di comunicazione erano in mano ai giapponesi per la loro guerra, e le strade erano battute e distrutte continuamente dai potenti aeroplani inglesi; non era possibile alcun scambio di merci, nemmeno tra regione e regione. Abbiamo, dunque, sofferto tutti, e nessuna meraviglia se adesso mi trovo stanco, di una stanchezza pero' vincibile. Sono vivo. E' questa una grande grazia, dopo aver affrontato la morte quasi ogni giorno. Il Signore mi ha visibilmente protetto».
Sono ormai ventun'anni che p. Alfredo Cremonesi e' in missione, affrontando sofferenze di ogni tipo, compresi i grossi disagi causati dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, come descrive in questa lettera. Chi l'avrebbe detto che sarebbe riuscito a sopportare queste enormi privazioni fisiche, proprio lui di salute cosi' debole e provata, che gia' da giovane aveva rischiato di morire? Anni addietro nessuno avrebbe osato scommettere su di lui. Impossibile che diventasse missionario. Affetto da linfatismo e con il sangue malato, durante gli studi liceali Alfredo dovette trascorrere lunghi periodi a letto, nel seminario diocesano di Crema, senza nessuna speranza di guarigione. I mille rimedi sembravano inefficaci e ormai medici e familiari cominciavano a credere di non poterlo salvare. E quand'anche ce l'avesse fatta, sarebbe sempre stato un "povero malaticcio", costantemente sotto cura e bisognoso di medicine e ricostituenti. Invece guari' perfettamente. Ne era sicuro: si era affidato a santa Teresa del Bambin Gesu'e sapeva che gli avrebbe concesso questa grazia particolare. Cosi', una volta riacquistata la salute, decide di lasciare il seminario diocesano per quello missionario.
Gli ostacoli pero' non sono ancora tutti superati. Questa volta deve scontrarsi con il padre. Infatti, benche' cristiano convinto, molto impegnato nell'Azione cattolica, suo padre si oppone in maniera risoluta a questa scelta di vita. Ma Alfredo non si scoraggia e, con l'aiuto della mamma, nell'ottobre del 1922, all'eta' di vent'anni, inizia a frequentare la terza teologia nel Seminario per le Missioni Estere di Milano.
Sempre in movimento, precipitoso nel parlare e nell'azione, si lascia impressionare da ogni cosa e si entusiasma subito a tutto: gli piace scrivere romanzi e comporre poesie; numerose riviste cattoliche ospitano suoi articoli. Scrittore brillante, dunque, e poeta, tanto che, mentre porta a termine gli studi teologici, insegna lingua italiana agli studenti del ginnasio. Il 12 ottobre 1924 viene ordinato sacerdote ed esattamente un anno dopo parte per la Birmania. Ha solo ventitre' anni quando salpa da Genova verso questo paese sconosciuto, eppure saluta coraggiosamente i suoi amici, i suoi sei fratelli minori e i suoi genitori, giurando a se stesso di non rientrare mai piu'in patria.
Arrivato il 10 novembre 1925 a Toungoo, p. Alfredo si trova in un mondo completamente diverso dal suo e per un anno deve impegnarsi nello studio lingua e del nuovo stile di vita, dopodiche' gli viene affidato l'incarico di seguire la procura della missione. Tenere i conti, combinare il bilancio, inviare il necessario per scuole, cappelle, orfanotrofi e dispensari ai missionari lontani: non e' certo quello che si aspettava di fare andando in missione. Ma fa bene il suo dovere, pur aspirando ad altro: «Stando a Toungoo, con che desiderio guardo a quella catena di monti che si alzano come nubi all'orizzonte! E' lo Yoma Occidentale, dove ci sono molte tribu'cariane. Quanto vorrei essere tra quelle regioni montuose...».
Presto il suo sogno si realizza: il vescovo gli affida un distretto nuovo e Donoku, un villaggio sperduto tra i monti, diventa il punto di partenza per molte sue spedizioni. Inizia cosi' la sua «vita di vagabondaggio tra villaggi pagani e cattolici», diventando uno dei viaggiatori piu'instancabili tra i suoi confratelli. Infatti, come lui stesso scrive, «i villaggi sono generalmente molto distanti l'uno dall'altro, per il fatto che i monti sono innanzitutto una riserva del prezioso teck, "vera cuccagna" del governo. Un esercito di incaricati sorvegliano piante, ne contano gli anni e i mesi. Ai villaggi, quindi, viene assegnata un'area ristrettissima e si cammina a volte giornate intere senza incontrare nessuno. Bisogna quindi portarsi dietro tutto, se non si vuol morire di fame».
Il suo entusiasmo e' grande, ma la giovinezza inesperta e l'impazienza lo portano presto a doversi misurare con la sua fragilita' e umanita': «Vi dico il vero: molte volte mi sono sorpreso a piangere come un bambino, al pensiero di tanto bene da fare e alla mia assoluta miseria, che mi immobilizza, e non una volta sola, schiacciato sotto il peso dello scoraggiamento, ho chiesto al Signore che era meglio mi facesse morire piuttosto che essere un operaio cosi' forzatamente inattivo». Eppure, proprio nel suo rapporto d'intimita' profonda con Dio, trova la forza per andare avanti.
Infatti e' missionario soprattutto con la preghiera. Dedica molto tempo all'adorazione e non esita a trascorrere diverse ore della notte davanti all'Eucaristia. Questa la sua a'ncora di salvezza, anche nei momenti piu'duri di solitudine. Dopo dieci anni passati tra i monti scrive: «Che cosa significa per me esser solo? Significa un cumulo di questioni che se ve le raccontassi tutte per filo e per segno non la finirei più. Significa un cumulo di faticacce, a cui a quest'ora dovrei avere gia' fatto il callo, ma che, viceversa, pesano sempre di più. Le mie povere gambe su quei montacci stentano ormai tanto a salire. In una settimana di giro, passo attraverso una varieta' straordinaria di malattie, e quando ritorno mi meraviglio di essere ancora in piedi. E ho solo 35 anni. Una vergogna, vero, essere cosi' fiacco a quest'eta'? Forse colpa del clima, forse colpa del cibo, forse colpa delle troppe preoccupazioni, ma piu'di tutto colpa della mia irrimediabile poverta' per cui devo continuare a fare buchi nella cinta dei calzoni e rinunciare a una quantita' di cose che mi devo convincere essere inutili». Ma tutto questo lo porta a maturare una fede sempre piu'autentica e una profonda consapevolezza di essere un inutile strumento nelle mani del Signore: «Noi missionari non siamo davvero nulla. Il nostro e' il piu'misterioso e meraviglioso lavoro che sia dato all'uomo non di compiere, ma di vedere: scorgere delle anime che si convertono e' un miracolo piu'grande di ogni miracolo». Questa e' la forza che lo spinge a continuare, nonostante tutto.
E cosi' continua le sue "peregrinazioni apostoliche", lasciandosi plasmare da Dio che agisce non solo fuori ma anche dentro di lui. Infatti, pur con le sue crisi interiori, riesce a essere sempre servizievole, sempre allegro: irradia intorno a se' gioia e serenita', tanto che la gente dei villaggi vicini lo chiama "il sorriso della missione". Nel 1941 la Seconda guerra mondiale si fa sentire sempre piu'vicina. Al sopraggiungere dei giapponesi sul territorio birmano, gli inglesi internano i missionari nei campi di concentramento in India, eccetto i sei anziani che sono sul luogo da piu'di dieci anni. Tra questi c'e' p. Cremonesi, che rimane a Moso' fino al termine della guerra. Ancora piu'solo e privo di ogni cosa, deve affrontare tribolazioni di ogni tipo. A forza di mangiare erbe cotte in acqua e sale, quando c'e', si riduce a un "fantasma", e all'esaurimento per inedia si aggiunge la febbre malarica che lo divora. Ma piu'ancora delle privazioni materiali, ci sono le sofferenze morali. Fino all'8 settembre 1943 i missionari italiani sono trattati dai soldati giapponesi come amici, ma in seguito ne diventano i peggiori nemici: «In tutto il tempo dell'invasione giapponese io rimasi tra i cariani rossi dei monti nelle vicinanze di Loikaw. Fui dunque per tutto il tempo vicino al fronte, essendo a tre miglia soltanto dalla strada carrozzabile, l'ultima rimasta ai giapponesi per la loro fuga serrata e per la loro estrema, disperata difesa. Su questa strada, negli ultimi sei mesi di guerra, passarono almeno duecentoventicinquemila giapponesi, in fuga verso il Siam. Passavano di notte, in file serrate di cinquemila, a piedi o su tutti i mezzi possibili di trasporto: automobili, camions, motociclette, biciclette, carri da buoi, elefanti, cavalli, muli. Confluivano da tutte le parti della Birmania, da dove erano cacciati dalle vittoriose truppe anglo-americane. Ti puoi dunque immaginare come noi, che eravamo solo a tre miglia dalla strada, fummo "tartassati". Non si poteva scappare, perche' questi sono luoghi dove di foresta ce n'e' poca, e io ero fisso nel programma di rimanere con la gente fino a che fosse possibile, per essere di aiuto e conforto. Arrischiai cosi' la vita quasi ogni giorno. Tra noi non ci fu nessun morto, mentre nei villaggi vicini molti furono massacrati dai giapponesi, per il solo gusto di uccidere. Ma fummo derubati di tutto. Non ci avanzo' neppure una gallina, nemmeno un maiale, pochissimi buoi e bufali. Tutto il riso ci venne portato via. Io poi fui preso, l'ultimo mese di guerra, da un ufficiale estremamente crudele, il quale comandava le ultime squadre giapponesi che, secondo tutte le apparenze, dovevano essere composte da ladri e assassini liberati dal carcere e lasciati per l'ultimo macello. Venni legato per una notte e un giorno al loro campo, e poi, non so ancora per quale miracolo, fui liberato. Allora dovetti scappare e rifugiarmi nel bosco. In quell'occasione fui nuovamente derubato di tutto. I miei cristiani raggranellarono qualche piatto, un cucchiaio, un po' di riso, mi diedero una delle loro coperte e cosi' potei arrivare fino alla fine della guerra».
Ai primi di gennaio del 1947 la Birmania e' ormai libera dall'invasione giapponese e indipendente dall'Inghilterra e p. Alfredo puo' tornare a Donoku. Con nuovo entusiasmo si mette a ricostruire tutto quello che e' stato devastato e a risistemare quanto e' ormai abbandonato: «La mia vita ricomincia con grande rapidita', ho dovuto soprattutto aprire nuove scuole, tutti vogliono istruirsi...». Insegna catechismo e anche inglese, assiste e cura gli ammalati, riprende le sue attivita' pastorali. Ma ben presto sopraggiungono nuove prove. La Birmania ha si' ottenuto l'indipendenza, ma il governo centrale incontra grossi ostacoli: le tribu'cariane, e in particolare quelle formate da protestanti battisti, si ribellano al potere costituito e si danno alla guerra partigiana. I cattolici, rimasti fedeli al governo, sono malvisti dai ribelli, inoltre non godono di nessuna protezione da parte dell'esercito regolare che non osa addentrarsi troppo nel territorio controllato dalla guerriglia. Cosi' p. Cremonesi, in seguito a un'irruzione di ribelli nel villaggio di Donoku, e' costretto ad abbandonare il suo lavoro e a rifugiarsi a Toungoo: «Se riuscissi a tornare lassù! Il peggio che mi ca'piti e' di essere ammazzato dai ribelli. Ma l'agonia di questi mesi e' peggiore di qualunque morte».
Per la Pasqua 1952, essendo stato stipulato un patto di non belligeranza tra ribelli e governativi che assicura alla regione un po' di calma, osa tornare a Donoku. Ma la pace e' di breve durata. Benche' ormai sconfitti, i ribelli compiono continue scorrerie, anche nei villaggi presidiati dalle guarnigioni governative. La guerra tra i due schieramenti e' senza esclusione di colpi; soprattutto e' furiosa la rabbia delle truppe regolari contro i villaggi cariani, sospettati ormai indistintamente di favorire i ribelli. E p. Alfredo, pur di assistere i suoi cristiani, ne condivide tutti i pericoli. Ha ottenuto da ambo le parti un lasciapassare per potersi muovere piu'liberamente, ma adesso anche i governativi nutrono grossi sospetti su di lui, troppo ostinato a voler lavorare in zona di guerriglia. Cosi', dopo il fallimento di un'operazione militare con la quale l'esercito regolare intendeva ripulire definitivamente la regione dai ribelli, le truppe governative, durante la ritirata, irrompono improvvisamente nel villaggio di Donoku, accusando p. Cremonesi e gli abitanti del villaggio di favoreggiamento nei confronti dei ribelli. A nulla servono le parole concilianti del padre, che cerca di spiegare e rassicurare, difendendo l'innocenza della sua gente. Accecati dalla rabbia, i soldati non gli lasciano neppure il tempo di terminare il discorso. Rispondono immediatamente con raffiche di mitra. Colpiscono per primo il capo-villaggio, che si trova accanto al missionario, poi si rivoltano contro p. Cremonesi. Colpito in pieno petto, cade a terra. E' il 7 febbraio 1953.

PADRE PIETRO MANGHISI
(7 gennaio 1899 - 15 febbraio 1953)

A Monopoli, quarantadue chilometri a sud di Bari, da una famiglia di agricoltori e agronomi, il 7 gennaio 1899 nasce Pietro, il sesto dei dodici figli di Luigi Manghisi e Paola Immizzi. E' un ragazzo molto vivace, a cui piace giocare e correre con gli amici sull'aia o nei campi, dove il papa' coltiva la vigna e le piantagioni di ulivi e agrumi. Appena terminate le elementari, prosegue gli studi in seminario, fino ai primi anni del liceo, quando deve abbandonare la scuola. Infatti, dopo la disfatta di Caporetto inflitta all'esercito italiano dalle truppe austriache l'8 novembre del 1917, vengono inviati al fronte i "ragazzi del '99" e tra questi c'e' anche il seminarista Pietro Manghisi, allora diciottenne. E cosi', inaspettatamente, si trova a vivere il Natale del '17 sull'Asolone del Grappa, al freddo, lontano dei suoi cari e con un'amarezza profonda nel cuore. Conclusa l'esperienza al fronte, viene destinato all'ufficio "Perizie danni di guerra" a Milano. Ormai il seminario e la voglia di studiare sembrano lontani.
A Milano, infatti, pur essendo militare, non vive in caserma, alloggia in una pensione con amici e, dopo un'intera giornata impegnata tra le "scartoffie" del catasto, trascorre le serate giocando a carte o a biliardo, andando a teatro, al cinema o a spettacoli di varieta'. La sua vita sembra procedere spensierata, eppure Pietro non e' sereno. Sfiduciato e insoddisfatto, nel luglio del 1920, annota sul suo diario: «Quanti pensieri ho per la testa. Come sono annoiato e afflitto. Chi fara' lume nella mia mente squilibrata? Non so che cosa mi agita internamente. Quale vita mi si presentera' nel mio avvenire? Chi fara' luce? Quante cose nella vita! Quante disillusioni! Quanti inciampi!».
Tenta di riprendere privatamente lo studio, nella speranza di ottenere la licenza liceale, ma l'esito degli esami e' «un fiasco completo». Ha vent'anni ed e' stanco, esasperato, angosciato perche' non riesce ad individuare la sua strada. Il mancato conseguimento del diploma, che gli avrebbe aperto tante vie, contribuisce a rimettere tutto in discussione. Tornare in seminario? Iscriversi a qualche corso? Darsi al commercio? Tutte domande a cui non sa rispondere.
Nell'autunno del 1921, dopo aver sostenuto gli esami di riparazione, concorda con il padre l'iscrizione alla facolta' di ingegneria dell'Universita' di Bari. Ma proprio il giorno della partenza cambia ancora idea. Questa, sara' l'ultima volta. Finalmente ha capito e l'inquietudine sembra svanire: decide di farsi sacerdote. Entra cosi' al Pontificio Seminario Regionale di Molfetta. La sua vocazione, pero', non e' ancora pienamente definita: il 12 settembre 1922, infatti, si trasferisce a Ducenta, nel Seminario Meridionale per le Missioni Estere. Aveva sentito parlare di questo nuovo seminario aperto da p. Manna e anche lui aveva voluto contribuire alle spese, non pensando di rimanerne cosi' tanto coinvolto. Lo racconta lui stesso, scrivendo, molti anni piu'tardi: «Quando p. Manna apri' il seminario di Ducenta, io ero studente in quello di Molfetta. Non so come, mi capito' tra le mani il suo foglio di "Propaganda missionaria". Su quel foglio c'era un breve appello che invitava a contribuire all'arredamento del seminario per le missioni. Gli mandai cinque lire. Dopo pochi giorni mi arrivo' una cartolina missionaria, in cui c'era scritto: "Grazie della sua offerta. Se l'offerta poi fosse lei stesso, sarebbe molto piu'gradita". Per me quelle parole, in apparenza scortesi, furono come la piccola fiamma che accese il fuoco. Dopo nemmeno un anno arrivavo a Ducenta».
Il 6 giugno 1925, terminati a Milano gli studi teologici, viene ordinato sacerdote nella Cattedrale di Monopoli e la notte del 16 ottobre salpa da Napoli per Kengtung, in Birmania, insieme ad altri 14 missionari, tra cui p. Alfredo Cremonesi (destinato a Toungoo in Birmania) e p. Antonio Barosi (destinato a Nanyang in Cina). Dopo un anno e mezzo di studio della lingua a Kengtung, p. Pietro viene destinato a Mong Ping, punto di partenza per la visita ai villaggi sparsi nelle foreste e sui monti. Qui la vita e' dura e nel giugno 1927, scrivendo al suo parroco, racconta: «E' da parecchi giorni che sono tra questi monti impraticabili, senza sentieri, e con un tempo piovigginoso che fa venire l'uggia e accascia l'animo gia' oppresso dalla solitudine. Se non fosse per l'amor di Dio, per convertire le povere anime, nemmeno a caricarmi d'oro sarei capace di fare questa vita. Vai su e giu'per i monti; scivoli di qua, cadi di la'; attraversi questo fiumiciattolo. Passa per quel luogo melmoso; apriti questo sentiero, riceviti questo acquazzone, sopporta quei raggi cocenti di sole, mangia alla meglio, riposati come si puo' e avanti, sempre avanti! Oh, l'entusiasmo finisce presto, se fosse solamente quello! Aggiungi la ferita che si apre al cuore, quando giungendo a un villaggio (e qui i villaggi non sono che di quaranta, cinquanta persone) ti vedi sparire quei pochi abitanti come pulcini dinanzi allo sparviero; e se tutti tremanti ti ricevono in casa, ricusano di voler sentire parlare di Dio. Oggi, per esempio, sono stato ricevuto come un grande uomo, perche' sapevano che avevo con me delle medicine. Ebbene, dopo aver cavato un dente a una vecchia e medicato il braccio di una donna, dopo aver parlato di questa e di quell'altra cosa, quando il catechista (io con questa lingua musho' ancora non so cavarmela sufficientemente) ha cominciato a parlare di Dio, gli anziani a poco a poco hanno tagliato la corda, lasciandomi solo con i ragazzi e le ragazze, a cui avevo dato gli zuccherini, e che ora ne attendevano degli altri. Quale amaro disinganno! Si va con la speranza nel cuore e si ritorna con l'animo pieno di tristezza. O Signore Iddio, abbiate pieta' di questi poveri, perche' se non ci mettete voi la mano, noi siamo buoni a nulla».
Ma p. Manghisi non si scoraggia: la sua profonda umilta' e la sua grande fede, che lo porta ad avere un'immensa fiducia nella preghiera, lo sostengono nel suo apostolato e lo aiutano ad affrontare ogni difficolta'. Cosi', nella sua residenza abituale, mentre cura i casi di tifo e di malaria, si circonda di allegria: la sua casa rigurgita di ragazzini orfani o abbandonati. Li assiste, li educa e li istruisce: «Se sono paffutelli e allegri, il missionario gode della loro felicita'. Ma se li vedo intirizziti dal freddo o stesi su una stuoia, consumati dalla malaria, allora anch'io sto male!». Con infinita pazienza e amorevolezza, a poco a poco, p. Pietro si conquista la fiducia e la stima di tutta la popolazione lahu della zona.
Egli sa, pero', che nella missione di Kengtung c'e' ancora molto territorio da esplorare, abitato da tribu'mai raggiunte da nessuno: sui monti ci sono gli Wa, i tagliatori di teste. Da quando e' stata tagliata la testa ad alcuni ufficiali inglesi, avventuratisi nella zona, anche per i missionari vige la proibizione di passare quel confine pericoloso. Ma p. Pietro li ha come "vicini di casa" e spera un giorno di poterli conoscere, aiutare ed evangelizzare. Finalmente, dopo tanta insistenza, nel 1937 le autorita' inglesi gli concedono il permesso di aprire un nuovo distretto tra gli Wa: «Il mio cuore esulto' di gioia, quantunque mi tremasse un po' per paura di fare qualche incontro poco gradito con questi Wa che vanno in giro in cerca di teste umane per infilzarle su dei pali vicino ai loro villaggi, come offerta agli spiriti protettori dei nuovi campi di riso. Invece tutto ando' sempre bene; l'angelo custode mi accompagno' per tutto il tempo».
Cosi' si stabilisce a Mangphan, la capitale del distretto Wa, un grosso villaggio buddhista a piu'di tremila piedi d'altezza. Si sistema sotto una tettoia di paglia, tra i venditori di sale e aspetta. Cerca di parlare con chi incontra, comincia a distribuire medicine, cura gli ammalati, raccoglie i bambini abbandonati... Col tempo anche i famigerati tagliatori di teste gli si affezionano, lo aiutano a costruirsi una casa, un dispensario, un orfanotrofio e piu'tardi anche una cappella di bambù! Ben inserito e stimato, il 21 giugno 1940, e' costretto, pero', ad abbandonare il suoi nuovi amici. L'Italia, infatti, ha dichiarato guerra all'Inghilterra e i missionari italiani che vivono in Birmania, colonia inglese, si trovano da un momento all'altro dalla parte dei nemici. Anche p. Manghisi, benche' isolato nella foresta, viene accusato dagli inglesi di fanatismo fascista. Considerandolo individuo pericoloso per la sua presunta propaganda anti-inglese, lo costringono ad abbandonare i monti: «O povero mondo, come sei ridicolo! - annota sul suo quaderno - Per un innocuo missionariuccio, quanto fracasso!». Eppure c'e' poco da ridere: dopo essere stato arrestato, perquisito e privato di tutti i suoi averi, gli viene proibito di ritornare tra gli Wa.
Ma il peggio deve ancora venire. La guerra imperversa ovunque e il governo inglese della Birmania, prevedendo l'invasione giapponese, nel 1941 decide di internare tutti i civili europei nei campi di concentramento in India. Anche i preti italiani, presenti in Birmania da meno di dieci anni, devono lasciare le loro missioni. P. Pietro Manghisi, che e' un "veterano", puo' rimanere a Lashio, ma condannato alla piu'totale inoperosita'. Dopo la ritirata degli inglesi, la sua posizione non migliora con i nuovi venuti, i giapponesi, dai quali e' sospettato di essere una spia. E' la Kempetai, la famigerata polizia segreta giapponese, che tortura e uccide senza scrupoli: «Il solo nome Kempetai fa venire i brividi. Per tre lunghi anni ognuno in Birmania visse sotto questo terribile spettro. Le sue lunghe braccia arrivavano ovunque: nessuno era fuori dalle sue orribili sgrinfie: neppure l'armata giapponese, ne' gli stessi suoi generali; ma noi missionari, perche' bianchi di colore e cristiani, eravamo le sue vittime particolari».
Anche p. Manghisi conosce i rigori di questa spaventosa associazione per delinquere, sopportandone le torture e gli insulti. Per cinque giorni viene percosso, schiaffeggiato, maltrattato in ogni modo, finche' viene rilasciato, ma solo dopo aver firmato le scuse all'armata giapponese per il disturbo arrecato e promesso di non raccontare cio' che ha subi'to. E' il maggio 1942 e solamente tre anni piu'tardi, il 15 aprile 1945, con la disfatta dei giapponesi, p. Pietro puo' tornare a Lashio. La citta' e' completamente distrutta e presidiata da due reggimenti americani e venticinquemila cinesi. I soldati cattolici americani, dopo aver costruito una chiesetta in legno, si rivolgono a p. Manghisi perche' diventi il loro cappellano.
Nel dicembre del 1948 p. Pietro viene richiamato in Italia, con l'incarico di rettore del seminario di Ducenta. La nomina non lo rallegra perche' non si sente all'altezza, si ritiene incapace di "comandare" e si giudica culturalmente impreparato. E poi i lunghi anni di assenza dall'Italia lo fanno sentire uno "straniero" in patria. Le sue motivazioni sono fondate, ma il superiore, p. Manna, insiste. E cosi', per ubbidienza piu'che per reale convinzione, alla fine accetta. Il 24 aprile del 1949, dopo ventiquattro anni di missione, e' a Ducenta, disponibile a cominciare un'altra vita. Ma la sua permanenza in seminario e' davvero brevissima, anche se sufficiente per lasciare nei ragazzi un ricordo vivo e affettuoso. Infatti dopo la dichiarazione di indipendenza del 4 gennaio 1948, la situazione politica della Birmania e' peggiorata a tal punto che il governo, ritenendo la ribellione delle tribu'del nord alimentata da agenti nemici, emana delle norme estremamente restrittive per regolare l'ingresso degli stranieri nel paese. E i missionari italiani non fanno eccezione. In seguito a queste norme possono rientrare, entro il 1949, soltanto quei missionari che hanno ottenuto il visto prima del 1930. Tra questi, in Italia, c'e' solo p. Manghisi. Cosi' p. Pietro rientra in Birmania e nel gennaio 1950 e' a Namtu, nuovamente sui monti cariani: «Qui c'e' molta miseria. Durante le lotte tra i ribelli ho avuto dei morti tra i cristiani, tra cui un catechista. Ora abbiamo paura che ci piovano addosso i comunisti cinesi. Gia' tanti cinesi scappano qui perche' in Cina c'e' fame e tasse. Nella nostra missione di Kengtung le truppe cinesi nazionaliste si sono sparse sui monti portando paura e fame».
Lashio, il distretto dove nel 1951 e' nuovamente trasferito p. Pietro, vicino al confine con la Cina, e' ancor piu'soggetto alle incursioni e rappresaglie dei soldati irregolari cinesi. Essi, mancando di viveri e di paga, si danno percio' al brigantaggio e compiono frequenti razzie a danno dei villaggi cariani. Questi, per difendersi, hanno costituito un contingente di truppe con l'appoggio del governo. P. Manghisi, nonostante la difficile situazione, si dedica alla cura dei feriti. E' consapevole del pericolo cui va incontro, ma non puo' esimersi dallo stare vicino alla sua gente. Cosi', spesso, si ritrova in pieno campo di battaglia. Il 15 febbraio 1953, mentre si reca in jeep sul confine, cade in un'imboscata tesa dai guerriglieri cinesi. E' il conducente della jeep che racconta l'accaduto: «Al mattino il padre celebro' la messa per i soldati, all'accampamento di Nampaka e subito continuo' il viaggio in jeep verso la frontiera. Il padre volle guidare e io gli sedevo accanto. Per strada caricammo due donne anziane e un bambino. Al 91° miglio a nord di Lashio, mentre la jeep passava su un ponte, comincio' una scarica di mitraglia dalla collina sovrastante. Io saltai fuori dalla macchina e rotolai sotto il ponte, mettendomi cosi' in salvo, ma la mitraglia continuava rabbiosa. L'auto rallento' e appena superato il ponte il padre cadde sul ciglio della strada con il cranio trapassato da due pallottole, mentre la macchina si schiantava contro la montagna. Una decina di guerriglieri cinesi si precipitarono giu'dalla collina sulla jeep. E io, uscito dal nascondiglio, corsi dal padre che mi riconobbe, mosse le labbra, sbarro' gli occhi e spiro'. Allora supplicai i guerriglieri di aiutarmi a portar via la salma ma essi mi intimarono con i fucili spianati "Lascia i morti dove sono e vai via, se hai cara la pelle..."».
Dal 1962, al 91° miglio della Burma road, una croce bianca, con una lapide in marmo richiama ai passanti il martirio di p. Pietro e testimonia la sua fedelta' alla vocazione missionaria.

PADRE ELIODORO FARRONATO
(18 maggio 1912 - 11 dicembre 1955)

E' il 10 ottobre 1926. La chiesa di S. Maria Maggiore di Treviso e' gremita di folla: p. Antonio Farronato ha appena terminato di celebrare la messa e sta salutando amici e parenti, pronto a partire per la Birmania assieme ad altri compagni. Sceso dal pulpito si trova di fronte uno dei suoi otto fratelli, Elio, che frequenta il ginnasio nel seminario diocesano di Thiene. Tra i due c'e' sempre stata una forte intesa. Elio ha seguito le orme del fratello, amato e stimato come un modello, e ha sempre partecipato intensamente alle tappe del suo cammino, perche' percepiva, gia' da ragazzo, che le loro vite erano chiamate ad una stessa vocazione. Ora che Antonio parte per la Birmania, Elio lo "segue" con lo sguardo, fiducioso di poterlo riabbracciare ancora. Eliodoro e' un tipo energico, deciso: sebbene abbia solo 14 anni ha gia' le idee chiare. E cosi', due anni dopo, entra nel seminario del Pime, a Monza. Sulla scrivania del suo studio c'e' sempre in bella vista una lettera proveniente da Mong Yong. E' Toni, che nell'agosto del 1929 gli scrive: «Fratello caro, qui io vivo senza casa, mi alzo senza sveglia, prego senza chiesa, caccio senza licenza, sto allegro senza amici, studio lingue senza professori, non ho giorni senza fastidi, invecchio senza accorgermi, morro' senza rimorsi... Quando verrai a farmi compagnia?».
Benche' i genitori si oppongano al pensiero di avere un altro figlio lontano e in continuo pericolo, Elio non vede l'ora di finire il seminario per raggiungere il fratello. Ma il 13 ottobre 1931 il sogno sembra svanire, Toni, il "fratellone", il piu'caro amico, muore di febbre malarica nel suo villaggio birmano all'eta' di trent'anni. Elio piange come un bambino, ma ha la forza di confessare ai suoi compaesani: «Speravo di andare ad aiutarlo, ma se Dio vorra', andro' a sostituirlo».
E cosi', ordinato prete il 22 settembre 1934, padre Eliodoro e' destinato alla Birmania, proprio nella missione del fratello. La sera del 24 agosto 1935 salpa per l'Oriente e il giorno dopo, dal ponte della motonave, scrive ai familiari: «Al momento della partenza, mare e cielo sembravano imbronciati, quasi a indicare il dolore di chi restava e di chi partiva. Ma sopra le nuvole leggere, c'era il sole, bello come sempre e oggi e' splendido. Se vi ho lasciati, e' per Dio. Percio', dopo il dolore, sento una gioia ineffabile. E spero che la proviate anche voi, piu'felice di me non c'e' nessuno! Valeva la pena fare quel che ho fatto e lasciare tutto per provare la consolazione di sentirsi unicamente di Dio, per amarlo e farlo amare!».
Sbarcato in Birmania, dopo un periodo di studio della lingua Shan, nell'aprile del 1936 arriva a Mong Yong, dove gli abitanti lo stanno gia' aspettando. E qui inizia la sua attivita' pastorale. Ma presto a lui, alto, con muscoli d'acciaio e spalle massicce, dal carattere volitivo come i contadini della sua terra, viene assegnato il distretto di Mong-tsat, il piu'lontano e difficile, nella Birmania orientale che dista un'intera settimana di viaggio a cavallo da Kengtung. La strada impervia, ora serpeggiando tra le foreste, ora elevandosi sulle montagne, si riduce a un sentiero, in cui una lussureggiante vegetazione spesso cancella ogni traccia e chi vuole transitare deve aprirsi il passaggio con l'accetta. Giunto in questo luogo sperduto, si improvvisa muratore, cuoco, ortolano e sarto. Costruisce chiese, orfanotrofi, asili e scuole professionali. I confratelli ammirano p. Elio non solo perche' resiste in un simile ambiente lavorandovi attivamente, ma soprattutto perche' si fa rispettare e benvolere da tutti gli abitanti, shan e lahu, grazie alla sua grande carica di umanita' e di amore.
Nel 1940 anche per i missionari di Kengtung cominciano a farsi sentire le dolorose ripercussioni della guerra finche' vengono confinati dagli inglesi in zone d'isolamento. Gli spostamenti sono continui e numerosi. La prima segregazione e' nella stessa residenza di Kengtung, dove p. Elio organizza scuole professionali per i missionari costretti all'inattivita'. Cosi', oltre a riempire utilmente il tempo, imparano nuove professioni come il meccanico e il fotografo. Anche p. Farronato ne approfitta per approfondire le sue conoscenze in campo medico. Dopo un anno p. Eliodoro e altri missionari italiani sono trasferiti a Kalo' e nel '42 vengono internati in India, a Katapahar, alle falde dell'Himalaia. Di la' sono portati a Deoli nel Rajasthan. Nel 1943, infine, vengono tutti concentrati nel campo generale a Dhera Dun, con diverse altre centinaia di missionari. Padre Elio e' il numero 18522.
Finalmente nel 1944 riacquista la liberta'. Il suo piu'grande desiderio e' quello di rientrare il piu'presto possibile a Kengtung, ma non riesce a ottenere il permesso da parte degli inglesi, poiche' la Birmania e' ancora sotto il controllo giapponese. Si reca allora a Bezwada, chiamato dal vescovo, dove organizza un dispensario per i fuoricasta. Quando finita la guerra, nel 1946, puo' tornare a Kengtung, subisce un duro colpo: la missione di Mong-tsat e' stata rasa al suolo e bisogna ricominciare tutto da capo. Ma il momento della ricostruzione, anche se faticoso, e' sempre il piu'ricco di fantasia, di coraggio e di intuizioni. Infatti, proprio in quegli anni, la piccola chiesa birmana percepisce che, per rendere piu'efficace il lavoro di evangelizzazione, e' necessario dotare le varie lingue, fino ad allora solamente parlate, di un alfabeto. E a padre Elio viene affidato l'incarico di studiare sistematicamente le lingue delle tribu'birmane, fino a diventare il "miglior linguista della missione".
Inizia, cosi', la traduzione dei manuali di preghiere, storia sacra, catechismi e canti liturgici nelle lingue Shan, Lahu e Ahka'. Ma il suo incarico non si esaurisce qui. Infatti, e qui sta forse l'espressione piu'alta di coraggio e di intelligenza di p. Eliodoro, non sono solo le tribu'dei monti i destinatari dell'azione evangelizzatrice della chiesa, ma anche le classi sociali piu'elevate. A questo scopo si mette a compilare il primo catechismo in lingua khun, quella classica e religiosa, parlata dalla dinastia regnante e scritta per tramandare nei secoli i testi sacri custoditi nelle pagode. Un catechismo cattolico scritto in khun, dunque, che richiede alcuni anni d'impegno per la trascrizione e compilazione. Una "dolce fatica", come la definisce lo stesso p. Elio. Nel settembre del 1955 torna a Kengtung e nella residenza del vescovo conclude l'ultima revisione delle bozze, prima dell'approvazione definitiva. Alla fine di novembre l'importante lavoro e' terminato: «Ora tiro un lungo respiro - scrive p. Elio al cugino sacerdote - mi dispongo a tornare alla mia residenza che, purtroppo, e' ancora occupata dalle truppe regolari birmane: per sommo privilegio mi hanno permesso di utilizzare il piano superiore della casa. Se non ci fossero i soldati sarebbe meglio! A ogni modo cerchero' di fare un po' di bene anche a loro, in compenso del male che fanno».
E cosi' ai primi di dicembre del 1955 si appresta a raggiungere Mong Yong, dove intende celebrare il Natale con la sua comunita' cristiana. I soldati birmani, che sono alloggiati nella sua casa, gli promettono un passaggio sul loro camion militare, ma poi se ne dimenticano. Il 4 dicembre, percio', approfittando del servizio pubblico, p. Farronato si mette in viaggio per Mong Pyak, dove c'e' la residenza di p. Cattani, situata a meta' strada. Tre giorni dopo, benche' sconsigliato da tutti a causa dei pericoli che puo' riservare la strada, riprende il cammino a cavallo, accompagnato da tre uomini.
La mattina del 9 dicembre e' gia' in vista di Mong Yong. Ha attraversato valli e monti, infestati da briganti e ora, con il cuore in gola, scruta dall'alto il suo piccolo villaggio e in silenzio fissa lo sguardo tra il verde della radura: gli sembra di riconoscere la sua casa e, distante appena 30 metri, separata da una valletta, la tomba del fratello. Quanti ricordi e quanto tempo e' passato, eppure ogni persona conosciuta e ogni avvenimento sono cosi' vivi in lui. Gli sembra di riprendere a respirare a pieni polmoni. Ancora dieci chilometri e arrivera' a casa.
Ma appena ripreso il cammino, viene fermato da diciassette guerriglieri cinesi. Ancor prima che se ne renda conto e abbia tempo di reagire, viene legato e ricondotto indietro di mezzo miglio nel folto della foresta. E' l'11 dicembre 1955. Per alcuni giorni i soldati birmani e la gente del villaggio si mettono sulle sue tracce. E la sera del 14 viene ritrovato il corpo sepolto a fior di terra sotto alcune pietre, nel greto d'un ruscello. Il cadavere reca tre ferite d'arma da fuoco al petto e una alla nuca, le braccia e il collo mostrano tracce di strette legature. Nessuno sa perche' e' stato ucciso, ne' da chi. Forse dai soldati nazionalisti cinesi sbandati che, dopo l'omicidio, hanno ripreso il loro vagabondare. Eliodoro viene deposto accanto al fratello e la sua tomba, con quella del suo Toni, e' testimonianza di fede tra i villaggi sperduti della Birmania.

PADRE ANGELO MAGGIONI
(14 giugno 1917 - 14 agosto 1972)

16 dicembre 1971: finalmente, dopo nove mesi di guerra civile, i pakistani, intrappolati e sconfitti firmano la resa con i bengalesi. Dalla secessione con il Pakistan occidentale, nasce il Bangladesh. Un paese prostrato da distruzioni, sovrappopolazione e fame, che ancora una volta deve ricominciare da zero. «In questi mesi quante cose sono successe! Quanti eventi belli e brutti, piu'brutti che belli: fuga dei nostri cristiani e non cristiani per scappare alle rappresaglie dei soldati pakistani, distruzione di interi villaggi, saccheggi, uccisione indiscriminata di gente innocente e poi la guerra di liberazione. Qui attorno alla missione di Andharkota, lungo il fiume Gange che fa da confine, per un'estensione di venti miglia, tutti i villaggi sono stati bruciati dai soldati col pretesto che vi trovavano rifugio i guerriglieri bengalesi. Non solo: in ogni villaggio pretendevano un certo numero di persone, quelle che capitavano, giovani e vecchi che non avevano potuto fuggire, facevano loro scavare una fossa e poi li fucilavano...
Dunque, i più, presi dalla paura, dall'incertezza dell'avvenire, si sono dispersi qua e la' in cerca di sicurezza fuori dal pericolo... Nessuno li tratteneva, la paura era troppo forte; vendevano tutto, buoi, riso, lasciavano la casa i terreni e se ne andavano. Molti varcando il confine. ... Ora che la vittoria e' venuta a coronare nove mesi di sacrifici, stanno tornando. E qui comincia il grosso problema: tutta questa gente ritorna con niente e non trova niente: ne' casa (quelle non bruciate e saccheggiate sono state deteriorate dal tempo e dall'alluvione), ne' attrezzi per lavorare, ne' mezzi per vivere (non hanno ne' buoi, ne' bufali per arare i terreni); l'anno scorso non hanno potuto fare il raccolto... Tutta questa gente come fara' a vivere?».
Una domanda inquietante che non lascia in pace padre Angelo Maggioni. Lui, che ha radici contadine, sa bene cosa vuol dire dover fare i conti con la mancanza di raccolto. E i ricordi vanno indietro di parecchi anni. Quante volte anche la sua famiglia ha dovuto "stringere la cinghia" perche' l'appezzamento di terreno affittato a Trezzo, sulle rive dell'Adda, aveva dato un raccolto magro o era andato male... Lui conosce bene la fatica di suo padre per tirare avanti la famiglia, tanto da dover sopportare che le sorelle di Angelo, ancora bambine, lavorassero ai telai di uno stabilimento tessile, con orari intollerabili. Ricorda l'impossibilita' di sostenere qualunque spesa, tanto che gli era stato possibile entrare nel seminario del Pime a undici anni solo perche' il rettore gli aveva concesso di non pagare la quota d'iscrizione. Ricorda anche il dispiacere di sua madre di non poter comprare le medicine per alleviare le sofferenze di quella malattia che portera' suo padre alla morte, nel lontano 1929. E come dimenticare che per cinque anni ininterrottamente non aveva potuto tornare a casa dal seminario di Treviso perche' non aveva soldi per pagarsi il viaggio e i familiari non avevano mezzi per andare a trovarlo?
E' con questo grande spirito di sacrificio, maturato in tante ristrettezze, che ora, a trentadue anni di sacerdozio e ventitre' di missione in Bengala, puo' affrontare ancora una volta la sofferenza e l'ingiustizia, condividendo con il suo popolo adottivo dolori e necessita'. Ma non solo. E' la sua bonta', la sua mitezza che colpisce chi gli sta accanto. Rosa, la sorella maggiore, infatti, ricorda: «Quando perdeva la pazienza, gli altri non se ne accorgevano nemmeno. Lui era buono, buono davvero. Non e' mai stato un tipo nervoso. Aveva sempre il viso contento, anche quando aveva grosse preoccupazioni. E non era capace di essere duro con nessuno». In missione, di fronte a tanti soprusi e prepotenze soffre in silenzio, dandosi da fare in mille modi per testimoniare la misericordia e la solidarieta' cristiana verso tutti. E fa colpo proprio cosi': con il suo fare mite, il sorriso sereno, il suo parlare pacato e il suo agire umile. Tanto che un insegnante bengalese del ginnasio di Andharkota, nel ricevere la notizia della morte del missionario, asciugandosi le lacrime, dice: «Questo vostro prete incarnava in se' l'idea che noi musulmani abbiamo della santita': siamo forti nella fede, ma difficilmente lo siamo altrettanto in mitezza, lui invece era riuscito a fondere insieme queste due qualita'».
P. Angelo Maggioni, nato nel 1917 a Trezzo d'Adda, in provincia di Milano, a 22 anni viene ordinato sacerdote nel Pime. Ma il sopraggiungere della seconda guerra mondiale gli impedisce di partire missionario. I confini sono chiusi, le vie di comunicazione bloccate: nessuno, se non per manovre militari, puo' espatriare. E cosi' per nove anni padre Angelo svolge servizio di vice parroco a Fara d'Adda, attendendo di partire per il Bangladesh, (l'allora Pakistan Orientale) a cui e' gia' destinato. Solo nel '48, riesce a salpare. Insieme a quattro confratelli diretti alla stessa missione, si "intrufola" sulla Taurinia, una nave ormai rudere di guerra, adibita solo al trasporto merci. Dopo trentatre' giorni di viaggio, finalmente, il 14 novembre di quello stesso anno, toccano il suolo bengalese. Ad accoglierli ci sono gli anziani confratelli «macilenti e ingialliti dalla malaria: essi ci guardavano in faccia e i loro occhi si riempivano di salute. Noi per loro eravamo la certezza che la missione ora sarebbe continuata, dopo la reciproca lunga attesa durata dieci anni». Dunque, forze e speranze nuove.
Da appena un anno la Gran Bretagna ha concesso l'indipendenza al suo grande impero asiatico (1947), che in base a criteri religiosi, viene diviso in due Stati distinti: l'India, popolata prevalentemente da indu'e il Pakistan, diviso in due parti distanti 1500 chilometri l'una dall'altra, i cui abitanti sono in prevalenza musulmani. E' una spartizione fatta a tavolino e a rimetterci sono proprio i bengalesi: il Pakistan orientale, infatti, ha perso la sua capitale culturale ed economica, la grande Calcutta, e si trova cosi' non solo completamente circondato dal grande stato indiano, ma anche e soprattutto in una situazione di sfruttamento e di dipendenza assoluta dall'industriale e fiorente Pakistan occidentale. Padre Maggioni, dunque, inizia e svolge la sua attivita' missionaria nella zona piu'povera e popolosa di questo impero frantumato, tra i musulmani bengalesi, per l'80% analfabeti e contadini.
La sua prima destinazione e' la missione di Ruhea, allora retta da un parroco indiano, poi passa a Mariampur dove impara il santal, per poter comunicare con le tribu'dei villaggi vicini. Questa infatti diventa la sua attivita' principale. Anche nei successivi luoghi dove sara' trasferito (Borni, Saidpur, Dinajpur e infine Andharkota), non impianta grosse strutture, non si dedica alla costruzione di edifici per opere educative e sanitarie, ma si da' al lavoro silenzioso tra i tribali santal, formando piccole comunita' cristiane e apportando il suo aiuto spirituale e materiale. E' convinto che la "fiacchezza" di questa gente sia dovuta alla malnutrizione: «Non mangiano mai abbastanza: il riso e' l'alimento base, spesso l'unico, sovente non c'e' neppure questo». E poi «il caldo umido, che passa i 40 gradi, mette addosso una tale spossatezza, che si ha voglia solo di bere e dormire. Quando si comincia a respirare un po' meglio, iniziano i mesi di pioggia e allora si vede acqua a non finire. Non solo i campi, ma anche le strade si allagano, le capanne vengono danneggiate e il raccolto del riso va in malora. Poi ritornano i mesi di siccita' che, giungendo inesorabilmente, fanno prevedere carestia».
Un circolo vizioso di alluvioni e siccita', che rendono difficile una coltivazione costante e fruttuosa. P. Maggioni, allora, progetta lavori di irrigazione, per garantire acqua nella stagione secca e per diminuire le inondazioni durante la stagione delle piogge. Dal 1948 padre Angelo torna in Italia solo due volte: nel 1961 e nel 1971. Ed e' proprio durante quest'ultima vacanza a casa di sua sorella Rosa, che apprende dai giornali italiani notizie sempre piu'tragiche sul Pakistan orientale: il presidente Yahya Khan sta ordinando sanguinose repressioni contro i separatisti del Bengala, che hanno proclamato la repubblica popolare del Bangladesh il 26 marzo del 1971. La guerra civile provoca dieci milioni di profughi e suscita l'intervento dell'India in difesa dei bengalesi. Padre Maggioni riceve notizie poco confortanti da Andharkota e fissa subito la data della partenza. La sorella cerca di persuaderlo, ma non c'e' nulla da fare: «Io gli dicevo - ricorda Rosa Maggioni - "Perche' vai? Resta almeno finche' la situazione non si sia calmata. Tanto non puoi mica cambiare nulla". "Lo so, - mi rispondeva con la sua solita aria serena - ma bisogna che io vada. Sono il piu'vecchio della missione, so come risolvere certi guai"».
Cosi' padre Maggioni, senza pensarci due volte, ritorna in Bangladesh, ad Andharkota. Trova numerosi villaggi bruciati e saccheggiati e si vede costretto a dolorose peripezie per salvare cristiani e indù; tant'e' vero che, poiche' protegge poveri e indifesi, viene percosso e maltrattato. A casa, pero', preferisce non scrivere nulla di quello che gli sta capitando. Solo qualche accenno alla condizione generale del Paese, come nella lettera del 26 ottobre 1971: «La situazione e' sempre precaria, sempre soggetta a peggiorare, come un bubbone che puo' scoppiare da un momento all'altro. E' questa atmosfera di incertezza che ci tiene con il cuore in sospeso. Non possiamo progettare niente per il futuro, poiche' non si sa come potra' essere. La fiducia in Dio, e' questa che ci sostiene». Poi in Italia, per diversi mesi, si resta senza notizie. Solo a gennaio del 1972 arriva una nuova lettera di padre Angelo, in cui parla di distruzioni immani e di tre milioni di morti dall'inizio della guerra civile. Con l'arrivo degli indiani, infatti, comincia la spirale di violenza contro i pakistani occidentali in territorio bengalese, contro coloro che sembrano pakistani, o fa comodo ritenere pakistani: gente linciata, sgozzata per le strade. Muoiono assassinati anche tre missionari, tra cui il bengalese padre Lucas, ucciso con un colpo di fucile alla nuca.
Poi, molto lentamente, in primavera, ricomincia la ricostruzione. Tutto raso al suolo. Case, scuole, strade, canali, ponti, hanno subito distruzioni immani. Il primo ministro del nuovo stato bengalese, Mujbur Rahman, accetta aiuti economici e umanitari da chiunque. Le organizzazioni internazionali cattoliche, dunque, d'accordo con il governo di Dakha, si danno da fare per incentivare l'autopromozione dei bengalesi e aiutano la gente in mille modi, per riuscire almeno a soddisfare i bisogni di prima necessita'. Padre Maggioni e' parroco in Andhakota, ma si dedica molto anche all'apostolato nei circa quaranta villaggi sparsi nel territorio della sua parrocchia, dove viene a contatto con i profughi rientrati dall'India che «vivono sotto le tende, in capanne improvvisate con foglie e paglia, o sotto le piante. Mi stringe il cuore al vedere le condizioni di vita di tanta gente senza casa, senza lavoro, senza cibo». E a nessuno riesce a dire di no: «Tutto il giorno la mia casa e' assediata da turbe di gente che invocano aiuto: chi vuol essere aiutato a costruire la casa, chi vuole vestiti, chi un po' di riso o di frumento, qualche donna domanda latte in polvere per i suoi bambini, chi domanda aiuto per comprare buoi o recuperarli; altri chiedono che si metta una pompa d'acqua nel loro villaggio o un pozzo, perche' non hanno acqua da bere». La missione diventa un centro propulsore di raccolta e distribuzione. E' l'unica organizzazione sociale che funziona. «Bande armate, poi, girano per le campagne, disposte a qualunque rapina. Cosi' le residenze dei missionari, spesso isolate, sono le piu'esposte agli atti di brigantaggio, proprio perche' punto di convergenza e di smistamento degli aiuti provenienti dall'estero». E' il caso di padre Angelo.
E' l'una di notte del 14 agosto 1972: una banda di ladri, armati di fucile, fa irruzione nella missione di Andharkota. Sulla veranda, a pian terreno, tre ragazzi cristiani stanno dormendo tranquilli. I ladri gridano, schiamazzano, chiamano il missionario. Padre Angelo, svegliato di soprassalto, si affaccia. Non riesce neppure a far luce con la pila che subito gli sparano due colpi di fucile. Si ripara in casa. Intanto due dei ragazzi alloggiati in veranda scappano, mentre il terzo viene catturato e costretto a dire dove sono i soldi. Non lo sa. I ladri si precipitano al piano superiore e mettono a soqquadro la casa. Si sentono altri colpi di fucile. La gente dei villaggi vicini grida spaventata, ma nessuno ha il coraggio di intervenire. Dopo tre quarti d'ora i ladri, delusi, fuggono via senza essere riusciti a trovare le poche centinaia di rupie che il padre ha ritirato dalla banca il giorno prima. Subito le suore e i vicini accorrono, ma padre Angelo e' gia' morto, steso nel mezzo della sua camera. Una pallottola, sparata attraverso la fessura della porta, gli ha trapassato l'aorta.

PADRE VALERIANO FRACCARO
(15 marzo 1913 - 28 settembre 1974)

A scoprire il corpo e' un giovanissimo missionario di ventisei anni, Francesco Frontini. Per lui e' un colpo terribile: a Hong Kong da pochi mesi, si e' gia' affezionato a padre Valeriano. Come tutti quelli che lo conoscono, del resto. «La sera del 28 settembre del 1974 - racconta - il padre e' rimasto solo in casa. Noi missionari piu'giovani siamo usciti in fretta, dopo cena. Io dovevo fare un giro di visite tra i parrocchiani e p. Adelio Lambertoni era stato invitato da un gruppo di cinesi alla tradizionale Festa della Luna. Nessuno poteva sospettare quello che sarebbe successo. A tavola, p. Valeriano ha scherzato con i confratelli e con Chan Che-keung, il sacrestano suo vecchio amico e ha chiacchierato tranquillamente con i tre orfani adottati dalla parrocchia. Poi il sacrestano se n'e' andato e anche i ragazzi si sono ritirati nel loro alloggio, in un edificio poco distante. Padre Fraccaro e' rimasto solo. Solo per modo di dire, perche' quando e' in casa c'e' sempre gente che va e viene: cristiani, atei, persino maoisti. E' amico proprio di tutti.
Anche quella sera il missionario ha avuto visite, fin quasi le undici. Sono rientrato a mezzanotte e l'ho trovato in camera sua. Svestito, per terra, una pozza di sangue sotto la testa e la faccia coperta da un asciugamani. E' stato ucciso con la mannaia, quella piccola accetta da macellaio che si trova in tutte le cucine cinesi, usata per tagliare le cotolette di maiale».
Ma chi puo' averlo ucciso? Chi poteva voler male a padre Valeriano? La sua veste bianca, la cartellona sformata che si portava sempre dietro, il grande ombrello da contadino con cui si riparava dai caldi raggi del sole, sono popolari in tutti e trentasette i villaggi del distretto. I bambini lo riconoscono da lontano per quel suo incedere un po' goffo e gli corrono incontro gridando sulle stradine polverose, che lui stesso percorre sempre a piedi. Non ha la macchina e non vuole neppure imparare a guidarla: «Figurarsi, alla mia eta'!», dice sorridendo.
E gia', eppure quando era giovane, piu'di trent'anni prima, ancora in territorio cinese, correva da un posto all'altro in bicicletta. Una "biciclettaccia" pesante come il piombo. Le stradette che percorreva erano piene di buche e sassi. Se pioveva erano impraticabili perche' il fango bloccava le ruote e cosi' doveva portarla in spalla. Ma lui era inarrestabile: non riusciva a fermarsi piu'di due giorni in uno stesso posto. Benche' la bicicletta avesse continuamente bisogno di riparazioni o pezzi di ricambio, perseverava nel girare in lungo e in largo lo Shensi Meridionale, diocesi all'interno della Cina.
Nel novembre del 1939 scriveva a suo fratello, p. Vittorino: «Sono sempre lieto e la salute non mi manca, le gambe ancora forti per fare lunghi viaggi, la stanza senza disturbi e il sonno profondo senza sogni. C'e' da lavorare da spolmonarsi...».
Era giunto a Hanzhong nel 1937, all'eta' di ventiquattro anni, senza nulla. Infatti i bagagli, spediti dall'Italia via mare, erano rimasti fermi in un magazzino allo scoppio della guerra. Glieli consegnarono soltanto nel 1945 quando "ormai non ne avevo piu'bisogno", raccontava p. Valeriano ricordando quei suoi primi anni di missione. Era un duro periodo: «La guerra continua e non si sa quando finira'. In questi giorni - scriveva alla fine del 1939 - gli aeroplani giapponesi hanno cominciato a bombardare Hanzhong: tante bombe, tanti disastri e morti. L'ultima volta trenta bombe e piu'sono cadute sui fabbricati del Vicariato. Bombe sul seminario, sulla casa delle suore canossiane, sulla casa delle catechiste, nel cortile della cattedrale, sulla cucina e sulle stanze della missione. Ma perche' mai i giapponesi bombardano i nostri fabbricati mentre sventola sul campanile il tricolore italiano? Non lo so ancora. Da questo i cinesi dovrebbero capire che i giapponesi non sono nostri alleati, ne' tanto meno nostri amici». Tanto e' vero che, al sopraggiungere delle truppe di occupazione giapponesi, venne rinchiuso in un campo di concentramento. Ma questo non gli servi' a molto quando, nel 1949, i comunisti di Mao occuparono il territorio. Padre Fraccaro fu nuovamente arrestato, inizialmente condannato all'ergastolo e poi, per bonta' del giudice, graziato e la pena detentiva commutata in domicilio coatto. Gennaio 1951: «Siamo sotto dei veri padroni, proclamata la liberta' di religione, di stampa, di propaganda, pero' vogliono sapere tutte le nostre cose, pretendono che si avvisi la polizia su tutto, proibiscono ai cristiani di andare in chiesa e ai preti di compiere il ministero. Temiamo di essere cacciati via dalla Cina o concentrati, ma finora siamo al nostro posto. Preparo le consegne da fare in caso di cacciata. La chiesa di Hanzhong, come ovunque, e' impoverita per tasse enormi, si cerca di renderci mendicanti, di costringerci a chiedere aiuto al governo, e cioe' di renderci suoi servi e farci divenire operai come gli altri. Dove ho la mia residenza, l'anno scorso ho aperto un dispensario con due suore cinesi che curavano le malattie degli occhi, ma dopo un mese e mezzo ho dovuto abbandonare tutto perche' tassato oltre le entrate. Si stringe sempre piu'la cinghia alla Chiesa in tutta la Cina, le si vuol togliere le opere, farle tirar fuori soldi creduti nascosti e un po' alla volta abbatterla».
Cosi', dopo molte dolorose vicende, anche lui nel 1951 fu espulso dalla Cina per sempre, come nemico del popolo. Lasciata la Cina continentale, riusci' a rimanere a Hong Kong, con la speranza di poter tornare, un giorno, "dentro la Cina vera". E ad Hong Kong, invece, mette radici.
La citta' si gonfia, ogni anno, di oltre sessantamila neonati e di quasi centomila profughi, che fuggono dalla Cina comunista con ogni mezzo, per terra o per mare, braccati dalle mitragliatrici "rosse". Donne, vecchi, bambini si ammassano nei casermoni di periferia, si "raggrumano" nelle barche o nelle baracche dei distretti piu'periferici: a Kowloon, a Lantao, a Castle Peak, a Cairn. Padre Valeriano gira un po' tutti i distretti fino a che, nel 1967, viene destinato a Cairn. Infaticabile, ricomincia ad andare nei numerosi villaggi e nelle isole, in corriera, in barca, a piedi. «Quando conobbi padre Fraccaro - racconta un'anziana donna cinese - abitavo ancora nel lontano villaggio di Sa Chui. Mi ricordero' sempre la prima volta che venne al villaggio. La mia casa era di fronte al piccolo molo dove attraccava la giunga che ogni due giorni veniva da Cairn, cosi' potevo vedere le persone che arrivavano. Quel giorno notai un uomo un po' basso e grassottello che, appena sceso dalla barca, apri' l'ombrello per ripararsi dal sole e si avvio', a passo sicuro, quasi saltellando, verso il villaggio. In un attimo me lo trovai davanti alla porta della mia casa: "Nonna, mi disse, sono il nuovo padre!". Mi piacque il suo modo di chiamarmi nonna (da allora mi chiamo' sempre cosi') e il suo sorriso mi diede confidenza. Gli offrii il te' e due uova fresche, che bevve subito, senza complimenti».
E' da poco a Cairn quando scoppia un violentissimo tifone che devasta ogni cosa. Padre Valeriano, allora, organizza i soccorsi, cerca un ricovero d'emergenza per la gente che guarda affranta la propria baracca inghiottita dal fango, salva quelli che abitano sulle barche. I cinesi cominciano a conoscere la sua generosita' senza limiti. «Conobbi padre Valeriano nel 1965, appena arrivo' a Cairn - racconta una giovane maestra, per vari anni aiutante catechista di p. Fraccaro - perche' allora frequentavo la scuola superiore della missione. Sorrideva sempre. Era buffo con quel paio di occhiali fuori moda che gli scivolavano spesso sul naso. L'unica cosa che immediatamente attraeva era il suo bel sorriso. All'inizio poteva apparire di una "bambinesca semplicita'", ignara dei problemi; ma vivendo accanto a lui mi sono accorta della sua profonda conoscenza della realta' e della sua capacita' di discutere e di approfondire le cose. Un fatto indubitabile e' che era accolto da tutti: vecchi, bambini, giovani; con ognuna di queste categorie di persone sapeva adattarsi e vivere all'unisono. Le sue cure particolari andavano pero' ai vecchi, perche' sapeva che erano i meno considerati, i piu'soli e i piu'bisognosi: quante ore spendeva nel visitare gli anziani e nel parlare con loro, dando loro la gioia di fare una lunga chiacchierata!».
Ama talmente le persone anziane, che ha persino organizzato il "Festival della riconoscenza per i vecchi". In coincidenza con le feste del Capodanno cinese - quando tutti corrono in citta' a divertirsi, lasciano in casa, soli, i "nonni" - padre Valeriano inventa una gran festa riservata agli anziani. Fa tutto lui: serve in tavola, canta, racconta storie allegre e mesce del buon vino, un vero lusso per i pescatori di Cairn (c'e' sempre qualche vecchietto che se ne torna a casa mezzo brillo!). «Che male c'e'? Se fosse male - sostiene p. Valeriano - nostro Signore non avrebbe cambiato l'acqua in vino, alle nozze di Cana».
Ai bambini, insieme alle immaginette ingiallite, regala, tirandole fuori dalla borsa impolverata, numerose fette di quel dolce che impasta e cucina lui stesso: lo conoscono, infatti, come "il prete fornaio". Si e' fatto mandare dai suoi parenti, piccoli industriali dolciari di Castelfranco Veneto, un vecchio forno; l'ha sistemato in una baracca e si e' messo a fare il pane e i dolci. «Ne hanno bisogno», afferma, pensando ai bambini magri e malnutriti dei villaggi, i cui pasti consistono solo d'un pugno di riso insaporito, a volte, con pezzetti di pesce. Il suo panettone alle erbe aromatiche e' ben noto nel circondario. E non lo mangiano solo i tremila cristiani di Cairn; padre Fraccaro ne ha per tutti: cristiani, buddisti, maoisti o protestanti. Lavora di notte perche' al mattino ci sia tanto pane fresco da portare in giro. Ai fratelli in Italia ha scritto di mandare solo un po' zucchero, per poter confezionare anche i dolci.
In tutte le case e' amato il suo "faccione sorridente, grondante sudore, che egli si asciuga con un gran fazzoletto da contadino" e che gli e' valso un altro soprannome: "papa Giovanni". Per lui evangelizzazione significa rapporto personale con la gente, mantenere i contatti con tutte le famiglie dei villaggi. E' capace di prendere la barca e partire alle sette del mattino e tornare la sera alle dieci, undici: fa il giro dei piccoli gruppi dispersi, entra nelle baracche a visitare i malati, a scherzare con le vecchiette che non si possono muovere, va a trovare i pescatori sul luogo del loro lavoro e poi celebra messa dove capita, spesso nelle barche dove i pescatori vivono e dormono. Questo, dice, per creare una comunita' di fede e di vita. «Quando dico messa la' dentro - scrive a casa - devo stare in ginocchio, perche' il soffitto e' troppo basso o perche' il tavolino e' alto mezzo metro». Ma lui ci si diverte: con i cinesi si trova bene, li capisce alla perfezione. «Sono come me, gente di campagna: scarpe grosse e cervello fino». Infatti, «Era molto buono con noi - ricorda un pescatore - non si arrabbiava mai con nessuno, nonostante noi pescatori fossimo analfabeti; era sempre sorridente e se qualche volta parlando usavamo parole sbagliate, le usava anche lui e noi ci sentivamo a nostro agio».
Un piccolo "papa Giovanni", dunque, con quel sorriso che nasce dalla semplicita' evangelica, da un cuore dilatato, da una fede piu'forte delle amarezze quotidiane, che gli fa dire: «E' bello il mondo, secondo me, - scrive alla cognata - anche quando ci sono difficolta' e noie che allenano alla vita e all'esperienza... Vedo della gente che sta forte nella fede e non bada ne' a chi contraddice, ne' a chi deride: sembra che vedano quel che credono...». E lui e' il primo a coltivare questo intenso rapporto con Dio, nonostante i mille impegni e preoccupazioni: «Pur essendo occupati in tante faccende materiali, cerchiamo di trovare un po' di tempo per raccoglierci tra noi e Dio e pensare alla nostra anima». Riesce percio' a ritagliarsi dei momenti che trascorre in chiesa immergendosi nella preghiera, quella preghiera che gli infonde tanta serenita'.
«La cosa che mi fece piu'impressione - afferma una ragazza cattolica di Cairn - era la sua dedizione nell'aiutare i bisognosi: chiunque ricorreva a lui, certamente riceveva un aiuto. Andava egli stesso a cercare i piu'poveri, gli piaceva aiutare le persone che nessuno aiutava». Proprio per questo appoggia l'iniziativa del suo giovane confratello Lambertoni di creare il "Villaggio Papa Giovanni", per poter offrire una casa solida, sulla terra ferma, ai disgraziati costretti a vivere sulle barche. L'idea e' semplice: stipendiare i disoccupati della zona per costruire case in muratura, una scuola, persino un piccolo ospedale; poi affitta queste case popolari, per una cifra irrisoria (ma quanto basta per costruirne di nuove), alle famiglie bisognose dei boat-people.
Con gli anni settanta, infatti, la poverta' raggiunge l'apice e la baia diventa, sempre più, rifugio malsano di profughi e derelitti. «E' piu'difficile ora fare il missionario e il cristiano fedele - scrive alla cognata nel 1972 - ma e' anche piu'consolante e attraente, penso io». La recessione mondiale colpisce anche questa metropoli dal capitalismo selvaggio: le fabbrichette di sandali in plastica, di giocattoli e di aggeggi elettronici, che vivevano di esportazione, chiudono una dopo l'altra. E intanto la citta' scoppia; l'afflusso dei profughi e' continuo e viene ad aggravare la piaga della disoccupazione. Con la miseria, la delinquenza dilaga a macchia d'olio. Si formano bande di minorenni che saccheggiano, distruggono, aggrediscono, per bisogno o per teppismo. La violenza, prima confinata all'area cittadina, ora si espande nei distretti periferici. Anche a Cairn. Questo villaggio di pescatori e' sotto l'incubo costante delle bande che ricattano, rapinano, compiono vendette e delitti. Padre Fraccaro soffre di questa situazione, quando ne parla perde il suo sorriso, ma non smette di investire le sue energie e il suo ottimismo per aiutare la "sua gente".
E ancora una volta, povero, piu'povero dei suoi poveri, si rimbocca le maniche, non negando niente a chi chiede. Tutti lo stimano. Chi avrebbe potuto volergli del male? Ma una sera come tante altre, il 28 settembre del 1974, viene ammazzato nella sua abitazione da qualcuno, penetrato in casa dalla porta della cucina, tenuta sempre aperta per chiunque volesse entrare e trovarvi una buona parola o una pagnottella calda. Un misterioso assassino, dunque. Forse un sicario mandato da chi spera grossi guadagni dalla vendita delle lussuose abitazioni progettate proprio su quella splendida spiaggia, dove il missionario ha costruito case per i poveri.

PADRE TULLIO FAVALI
(10 dicembre 1946 - 11 aprile 1985)

«Sono un giovane di Mantova prossimo ai trentadue anni, che intende entrare a far parte del PIME per un servizio disinteressato alla Chiesa come sacerdote. Premetto che ho alle spalle un'esperienza di seminario diocesano, dove ho trascorso volentieri gli anni della mia giovinezza, fino a un anno e mezzo dal sacerdozio. Nel 1970 ho interrotto il mio cammino per intraprendere una vita diversa... I miei superiori mi sconsigliarono, ma io ho voluto fare di testa mia, cosi' ho cercato, in mezzo a tante difficolta', di inserirmi nel mondo».
Questo e' solo uno stralcio della lunga lettera che nel 1978 Tullio Favali indirizza al superiore del Pime, esprimendo il desiderio, ormai piu'che fondato, di diventare prete e missionario. Entrato, infatti, nel seminario della diocesi di Mantova a undici anni, Tullio ne esce, alla vigilia del sacerdozio, per trascorrere otto anni fra lavoro e studio. Ripercorriamo la sua storia.
Anni settanta: epoca del post-Concilio e dei postumi della contestazione sessantottina. Molti giovani, in seminario fin da ragazzi, sentono la necessita' di chiarire l'identita' del prete e Tullio e' fra questi. Sente il bisogno di: «una verifica del problema affettivo, di una ricerca di indipendenza e di vita autonoma al di fuori di un ambiente protettivo e poi l'esigenza di concretezza e di azione, l'insofferenza per un lavoro strettamente intellettuale, il bisogno di solidarieta' con gli ultimi nel condividere la durezza della vita, la paura di incarnare la figura del prete, conscio dei miei limiti, il sentirmi disarmato di fronte a un mondo potente che travolge, non possedere cuor di leone capace di imporsi sugli altri».
Cosi' lotta con il Signore per tanti anni. Non vuole fare il prete non perche' non senta questa chiamata, ma per le difficolta' che avverte: teme la solitudine in una canonica di paesini indifferenti, cerca un contatto con la vita quotidiana e con la gente che sia piu'vero e spontaneo, vuole provare a lavorare, sente il desiderio della paternita'. Nel 1970, dunque, torna a casa. Non rompe pero' con la fede, anzi, si assume l'incarico di condurre il gruppo liturgico della parrocchia, insegna i canti e il catechismo ai bambini, frequenta l'Azione Cattolica ed entra a far parte del gruppo giovanile.
Ben presto, pero', parte per il militare, prima a Palermo e poi a Torino. Potrebbe svolgere il servizio di leva come sottoufficiale, avendo cosi' la possibilita' di guadagnare qualcosa per la sua famiglia bisognosa, ma chiede di essere arruolato come soldato semplice, per non avere privilegi. Un atteggiamento che sara' la costante della sua vita. Dopo il congedo, trova lavoro, come impiegato, in un maglificio, ma non dura a lungo. Soffre per le ingiustizie e gli atteggiamenti dispotici del padrone, non sa come reagire e preferisce cambiare lavoro. E' il primo di molti spostamenti: dapprima lavora in una latteria, poi come saldatore, ma resta ugualmente deluso perche' vede i compagni, strumentalizzati politicamente, che si gettano in una lotta dura e spesso ingiustificata. Per un'estate fa anche il cameriere sul lago di Como.
Intanto, in paese, la gente chiacchiera, dice che e' instabile di carattere, che non si puo' fare affidamento su di lui. La mamma, vedova da parecchio tempo, vorrebbe che questo figlio trovasse, finalmente, un posto sicuro, sposasse una brava ragazza, mettesse su famiglia. In fondo e' un ragazzo come tanti altri, forse un po' piu'idealista, piu'assetato di Dio, che ricerca senza tregua, con tormento. Sicuramente ama i vecchi e i bambini, si ferma a parlare con tutti, anche con i giovani del bar che non frequentano la chiesa, ma che sa accogliere senza pregiudizi. Gli sarebbe, forse, piaciuto essere uno zingaro, per incontrare persone di tutti i paesi del mondo, portandosi appresso, sul carrozzone, tutti coloro che ama.
Intanto, ancora piu'prepotente, la vocazione del sacerdozio, che ha cercato di assopire, torna alla luce. Assume pero' un taglio piu'definito, maturato negli anni di impegno in parrocchia, nei lunghi colloqui con gli amici: la missione "ad gentes". Tullio decide, nel frattempo, di lasciare il lavoro in fabbrica; rimane per qualche tempo disoccupato, poi vince il concorso per un impiego pubblico nel comune di Sustinente, il suo paese. Ha conseguito anche il diploma di geometra, conquistato con fatica, ma con buoni risultati, alla scuola serale. La mamma ora e' contenta, pero' Tullio non si siedera' mai dietro una scrivania in municipio. Da troppo tempo sta giocando a rimpiattino con il Signore: «In tutto questo tempo - scrive Tullio - ho trascurato un po' la mia vita spirituale, volendo svestirmi del mio habitus clericale. Cosi' facendo mi sono svuotato a poco a poco, perdendo la mia identita'. Non potevo pero' sbarazzarmi di cio' che costituiva la sostanza della mia vita». Ormai sicuro della sua vocazione sacerdotale e missionaria, torna al seminario di Mantova a parlare con il rettore.
Contemporaneamente si mette in contatto con il Pime che ha conosciuto, ancora in seminario, attraverso le sue riviste e si reca a Busto Arsizio (Va), dove l'Istituto ha una casa di formazione e di verifica vocazionale. Questa sua decisione lascia tutti allibiti. Ma Tullio e' finalmente sereno: ha davanti, chiara, senza ombre, la sua scelta. Non ha piu'dubbi, piu'indugi. Se ne accorgono anche gli amici: «Era completamente cambiato - e' il commento di tutti - avevamo davanti un uomo, e un uomo vero». Quello che piu'colpisce e' la sua pace interiore, frutto di una profonda maturita'.
Il 1° ottobre 1978 entra nel seminario del Pime di Monza, riprendendo da capo, per sua volonta', gli studi teologici, perche' e' passato troppo tempo da quelli precedenti. E' una bella prova di umilta' e disponibilita': a trentadue anni torna sui banchi di scuola, per ripetere quei corsi che aveva gia' quasi terminato otto anni prima. E il 6 giugno 1981 diventa sacerdote missionario. Viene subito destinato alla nuova missione che il Pime ha aperto in Papua Nuova Guinea. E' entusiasta di questa destinazione, contento di essere uno dei primi missionari in una missione nuova.
Nell'ottobre dello stesso anno va negli Stati Uniti per studiare l'inglese e vi rimane fino all'estate dell'anno seguente. Tornato in Italia, apprende che ci sono difficolta' per andare in Papua e, nell'attesa, si stabilisce a Sotto il Monte (Bg), nel seminario minore del Pime. Vi rimane un anno: i confratelli lo ricordano semplice e umile, disponibile a tutto, riservato, ma continuamente desideroso di incontri autentici con la gente. Va volentieri in montagna e spesso sale sul vicino monte Canto, a trovare un vecchio eremita che vive solo, lassù, da anni: gli porta formaggio, pane e una bottiglia di vino.
Alla fine, stanco di aspettare una partenza che sembra non arrivare mai, prega i superiori di cambiargli destinazione. Dichiara la sua disponibilita' a partire per qualsiasi missione, tranne gli Stati Uniti che l'hanno colpito per le dimensioni gigantesche: «Grande il paese, grandi le citta' - scrive alla sua amica Letizia - e anche la gente, che sembra aver assimilato questo gigantismo, fa tutto in grande». Tullio, invece, vuole una missione fra la gente comune, con la quale si puo' parlare con semplicita', come ai suoi compaesani di Mantova. Sogna, una missione rurale, i campi, le foreste, il contatto con la natura e i contadini, umili lavoratori della terra. Le difficolta' e le sofferenze non lo spaventano.
Viene destinato alle Filippine, dove i missionari del Pime lavorano nei posti piu'isolati e poveri dell'isola di Mindanao, la meno evangelizzata e con una forte presenza di musulmani e tribali animisti. Il 12 giugno p. Tullio arriva a Tulunan, cittadina definita «capitale del terrore, in quanto alla "guerra per le terre" e alla guerriglia comunista, si aggiungono torture e cannibalismo». E' qui che Favali e' chiamato a far missione, unendosi a p. Peter Geremia: «La zona in cui operiamo e' pianeggiante, coltivata a riso, si estende per un raggio di dieci chilometri, fino a raggiungere le colline circostanti, coltivate a granoturco e canna da zucchero. Il terreno appartiene a piccoli agricoltori che riescono a sopravvivere senza grossi introiti da spartire. La gente e' prevalentemente impegnata nella campagna. I sistemi di produzione sono rudimentali: non ci sono trattori ne' macchinari. Sulle colline manca l'irrigazione, per cui il raccolto e' condizionato dal tempo. Le strade sono percorribili con la moto. La canonica e' in legno, fornita di corrente elettrica, che funziona solo di giorno. Cosi', la sera, quando ce n'e' bisogno, usiamo le lanterne».
L'inserimento e' difficile soprattutto per la situazione delle Filippine, e in particolare dell'isola di Mindanao: «segnata da crisi economica, forte tensione politica fra opposizione e classe al potere, malcontento generale per il sistema dittatoriale, paura diffusa nella gente comune dovuta alle ispezioni militari a domicilio, con conseguenti arresti di persone sospettate di appartenere ai ribelli o di parteggiare per essi; imprigionamenti, deportazioni e frequenti casi di uccisioni dopo l'arresto, senza previo processo; incolumita' dei militari giustizieri, che compiono soprusi con la protezione governativa, a dispetto della legge civile e dei piu'elementari diritti umani. La Chiesa si fa solidale con tutti questi casi pietosi ed alza la voce di protesta, in difesa degli oppressi. Spesso i poveri e gli indifesi trovano unico appoggio e sostegno nella Chiesa, che si muove tra molte difficolta' e con poco risultato, dovendo affrontare un potere troppo forte e corrotto. Siamo dunque un segno di speranza e promotori della giustizia... C'e' bisogno di un risanamento generale, che richiede molto tempo, attraverso un'educazione ai valori umani, ai diritti fondamentali dell'uomo, alla giustizia. Senz'altro questo e' uno dei nostri intenti, come preti».
Tullio scopre, cosi', il suo ruolo di sacerdote; lui, che si e' interrogato e tormentato per anni, riscopre il valore della presenza fondamentale del missionario, per la crescita del popolo di Dio: «Le zone assegnate al Pime sono povere, prevalentemente rurali, isolate per la difficolta' dei mezzi di trasporto e di comunicazione. Il nostro lavoro pastorale si svolge tra la gente di condizioni piu'umili e il nostro stile di vita tende a uniformarsi allo stile semplice ed essenziale della gente comune. Per un occidentale cio' costituisce una forte testimonianza evangelica che sara' preziosa per gli stessi filippini... come scelta di vita e non semplicemente condizione sofferta e subita. Mi accorgo che il prete gioca un ruolo importante e che la gente si aspetta molto da lui. E' una persona a cui fanno riferimento per ogni bisogno e necessita'. Auguro a me stesso di potermi sentire sempre piu'partecipe e coinvolto nel cammino di questo popolo duramente provato dalla sofferenza. Ringrazio tutte le persone che il Signore mi ha messo a fianco e che mi aiutano nel mio inserimento».
Oltre che con la difficile situazione socio-politica, p. Tullio si deve scontrare anche con le difficolta' di lingua e di mentalita': «Sto abituandomi al ritmo della vita filippina, - scrive in una lettera del 17 dicembre 1984 - che spesso mette a dura prova la mia pazienza. Gli orari non vengono rispettati, le attivita' non cominciano mai all'ora stabilita. Non c'e' la minima ansia per il tempo che scorre. Puo' darsi che la lentezza dei tempi filippini dipenda dal caldo o dall'insufficiente alimentazione, dalla mancanza di stimoli o dall'isolamento in cui vivono. Mi riferisco al mio ambiente prevalentemente rurale, povero e sottosviluppato. Essendo io un tipo sbrigativo, devo continuamente rivedere la mia disponibilita'. Quando conversi con loro fanno lunghi discorsi prima di arrivare al nocciolo della questione. Capire quello che pensano su certi argomenti e' alquanto complicato. Certe zone della loro vita rimangono a noi nascoste... Difficilmente si espongono per manifestare la loro opinione. Mi trovo in una fase di stordimento generale, dovuto all'impatto con una realta' nuda e cruda e con un mondo che non possiedo ancora, ma che sto appena sfiorando».
Cio' che piu'lo tormenta e' vedere la malnutrizione dei bambini che gli corrono incontro, quando arriva nei villaggi, chiamandolo "padre". Gli ricordano, continuamente, che troppi muoiono senza aver vissuto: «La prima volta che ho fatto il funerale ad un bambino di pochi mesi, mi sono "immagonato" e a fatica ho terminato la messa, dalla commozione». Con il tempo, la riflessione sulla morte diventa piu'profonda: «Non dico di averci fatto il callo, ma l'accettazione della morte, cosi' di casa fra i filippini, diventa meno drammatica che da noi: un evento normale, parte della vicenda umana, di cui bisogna essere coscienti e a cui bisogna prepararsi. La vita e la morte si intrecciano, come esperienza quotidiana e ci danno una concezione piu'realistica e piu'vera di noi esseri mortali. Ci ridimensiona dalle nostre pretese e dalle nostre vanaglorie e ci educa al senso del limite e della gratuita'. La nostra vita e' un dono, che ci e' dato da amministrare, ma non da possedere».
E in una delle ultime lettere all'amico p. Gilberto Orioli, il 27 marzo 1985, Tullio scrive: «... non mi resta che immergermi in questo mondo e camminare a fianco di questa gente, nella comunione fraterna e condivisione. Il lavoro e' tanto e il compito affidatoci e' grande: pero' non siamo soli, un Altro ci sorregge e viene incontro alla nostra debolezza. Coraggio, dunque. Diciamocelo reciprocamente».
La situazione, intanto, e' sempre piu'difficile. Fin dal suo arrivo nell'isola di Mindanao, p. Favali s'accorge della tensione che la gente vive e si chiede fin quando potra' sopportare con rassegnazione: «La pazienza ha un limite e la reazione che ne verra', quando il popolo prendera' coscienza dei propri diritti, non si puo' prevedere. La situazione e' critica. Tutto urge un cambiamento. Ma in quale direzione, in che modo? Chi auspica un cambiamento radicale, attraverso la rivoluzione armata, con innegabile spargimento di sangue, a un prezzo troppo alto di vite umane. Chi vorrebbe un cambiamento graduale, attraverso vie costituzionali e diplomatiche in un modo meno violento e piu'pacifico. Il futuro e' incerto. Speriamo che tutto avvenga rispettando i ritmi di crescita della gente. Dio ci aiuti e ci benedica».
Intanto, pero', la gente di Tulunan vive nel terrore. Tutto e' iniziato con la "guerra per il possesso delle terre" nel 1972, guerra feroce, crudele, che ha spopolato la regione. Nel 1980 non ci sono piu'case, tutte distrutte, bruciate. Proprio in questo periodo avviene la fondazione degli Ilaga, che rendono Tulunan la zona piu'pericolosa della diocesi di Kidapawan. Gli Ilaga si armano contro i musulmani che uccidono i cristiani come topi (da qui la scelta del nome, che significa, appunto, "topo"). Inizialmente difendono i villaggi e le terre dei cristiani, ma poi alcuni gruppi cominciano a commettere atrocita' e torture; per farsi credere coraggiosi e invincibili compiono anche atti di cannibalismo. Questi gruppi diventano sempre piu'incontrollabili, soprattutto quando l'esercito li rende forze civili integrate (ICHDF) per difendere la popolazione non piu'dai musulmani, ma dalla guerriglia comunista. Questa gente, armata e protetta dall'esercito stesso, continua a spadroneggiare, ma, dato che i guerriglieri comunisti non sono facili da prendere perche' si rifugiano sui monti e nelle foreste, cominciano ad attaccare i "sospetti di comunismo", cioe' preti, suore e cattolici impegnati, che hanno sempre difeso i poveri e in passato anche i musulmani, quando erano vittime di ingiustizie.
L'atmosfera, quindi, e' carica di odio, di violenza, ci vuol poco perche' succedano tragedie. A Tulunan il clan dei fratelli Manero, ex Ilaga, che decidono il buono e il cattivo tempo nella zona, minaccia i "preti comunisti", parla di "italiani da uccidere". L'esercito si serve di questi individui per i lavori piu'sporchi: intimidazioni, torture e soprattutto esecuzioni sommarie e spartizione degli avversari politici. I missionari e i cristiani vivono in questa quotidiana paura, ma la fede permette loro di andare avanti, nonostante tutto, e di stare accanto alla gente, nella quale riscoprono ogni giorno di piu'il volto di Cristo. In questo contesto p. Peter Geremia, sacerdote italo americano del Pime, compagno di Tullio, si distingue per l'incisivita' dell'azione e la capacita' di rendere penetrante il suo messaggio. Per questo da' fastidio.
Intanto aumentano gli uccisi e gli scomparsi, ma a cavallo della sua Honda, Tullio si reca assiduo e sorridente, sempre disponibile e pronto ad aiutare, in ogni villaggio a lui affidato per il lavoro pastorale. La settimana santa del 1985 trascorre ricca di celebrazioni e incontri, a cui i cristiani partecipano con devozione. Finche' l'11 aprile, un gruppo paramilitare si raduna sulla strada principale di La Speranza, una borgata di Tulunan. Sono una cinquantina, armati fino ai denti e guidati dagli stessi Manero, che abitano proprio li'. Anche quel giorno, come loro abitudine, per un paio d'ore gridano e schiamazzano indisturbati. Bevono, anche, come e' usuale nei loro raduni. Poi appendono un manifesto con un elenco di nomi: sono quelli delle persone accusate, da loro, di sostenere la guerriglia comunista. Fra gli altri c'e' anche il nome di p. Geremia, compagno di missione di p. Tullio, e di un certo Rufino Robles, che si trova a passare per la via proprio in quel momento. Gli sparano e Robles cerca rifugio in una casa vicina. La marmaglia armata circonda la casa, urlando e sparando in aria. Qualcuno chiede aiuto in parrocchia con un biglietto: «Padre, aiuto, a La Speranza».
P. Tullio e' appena rientrato da una festa di battesimo, e' solo perche' p. Geremia e' andato a visitare altri barrios. Senza pensarci un attimo, inforca la moto e corre sul posto. Riesce a entrare in casa, esamina per pochi istanti il ferito. Poi, all'improvviso, si sente una nuova sparatoria all'esterno. Tullio si affaccia alla finestra e vede uno dei Manero appiccare il fuoco alla sua moto. Esce allora di casa, anche se gli altri cercano di trattenerlo: «A me non faranno niente», dice convinto.
Edilberto Manero lo accoglie in strada con una risata: «Padre - urla - vuoi fare la lotta con me?». Tullio alza entrambe le braccia con le palme protese in segno di resa e di pace. Inerme, alla ricerca del dialogo, come ha sempre fatto in tutta la sua vita, il sacerdote si avvia verso l'uomo con il fucile spianato. Edilberto lo guarda fisso, poi gli spara al torace. Tullio cade sulle ginocchia, l'altro spara ancora. Il missionario e' gia' morto, ma gli altri continuano a sparargli addosso, ridendo e fischiando, calpestandolo ripetutamente, cantando e ballando. Al tramonto p. Geremia torna a casa. Alcuni fedeli lo supplicano di cambiare strada senza spiegargli il motivo, ma sanno bene che le milizie paramilitari cercavano proprio lui per eseguire la loro precisa sentenza di morte. In parrocchia trova il biglietto con la richiesta d'aiuto, ma Tullio non c'e'. Corre allora alla stazione della polizia cercando di trascinare con se' due poliziotti anch'essi terrorizzati. Mezz'ora dopo raggiunge il corpo massacrato del confratello, nella strada deserta. Si inginocchia e comincia a pregare piangendo.
Benche' i Manero, fuori di se', abbiano ucciso Tullio per dare una lezione ai preti e per intimidire i cristiani dell'intera diocesi di Kidapawan, sono tremila le persone che partecipano ai funerali di p. Tullio Favali. Testimoniano ancora una volta che in Cristo la morte genera vita, che l'odio non uccide l'amore.

PADRE SALVATORE CARZEDDA
(20 dicembre 1943 - 20 maggio 1992)

«Scoprire la via che Lui ci indica a volte e' molto difficile ed enigmatico. Ora viviamo proprio come Abramo... andremo in una terra che noi non conosciamo. Non conosciamo neanche il nome di questa terra: Thailandia, Africa, Giappone, Filippine, Hong Kong...? Adesso non voglio neanche saperlo. Quando arriveremo vi manderemo una cartolina con l'indirizzo».
E' il 19 ottobre del 1975: padre Salvatore Carzedda (Battore per gli amici) sta scrivendo da Oxford al gruppo di giovani che ha lasciato a Mascalucia. E' forte il legame che li unisce, cosi' come e' profonda l'amicizia che lo lega agli altri due confratelli che sono con lui a studiare l'inglese prima di partire per la missione. Sebastiano D'Ambra, Antimo Villano e lui, sono un trio inseparabile. Durante i quattro anni che hanno vissuto insieme hanno imparato a volersi bene, a stimarsi e rispettarsi.
Infatti, dopo l'ordinazione sacerdotale avvenuta il 15 luglio 1971, p. Salvatore e' stato assegnato, con p. Antimo suo compagno di classe, alla casa di Mascalucia, in Sicilia, dove ad attenderli c'e' p. Sebastiano. E qui i tre missionari, che avvertono tutta l'urgenza del problema giovanile esploso con particolare violenza dagli anni della contestazione, si dedicano con passione alla progettazione e alla cura di una comunita' vocazionale, attraverso la quale riavvicinare i ragazzi alla bellezza della fede e dell'ideale missionario. P. Salvatore si rivela una figura carismatica: sa ascoltare, infondere fiducia, condividere speranze profonde. Il lavoro non manca e neppure gli esiti positivi. Tuttavia, dopo appena tre anni chiedono ai superiori di poter partire perche' si rendono conto che per vivere pienamente il loro ideale devono lasciare tutto, anche cio' che li riempie di soddisfazioni.
Il primo a lasciare Mascalucia e' proprio Salvatore, che si reca in Inghilterra per lo studio dell'inglese. Ed e' il primo a sperimentare la solitudine. Il 6 novembre del 1974 e' gia' sera inoltrata quando si lascia trasportare dalla malinconia, ricordando i suoi amici siciliani: «Sento molto la vostra mancanza - scrive a un'amica. - Mi sento svuotare giorno per giorno e penso con nostalgia ai momenti di grazia vissuti insieme. Sto vivendo il mio "deserto". Lo studio dell'inglese, per quanto intenso, non da' molte soddisfazioni. Io sono impaziente di poter parlare, ma ci vuole tempo perche' si possa capire e dialogare con facilita'. Vado a scuola tutti i giorni. E' una grande sfacchinata, mi auguro pero' che tutto possa servire per il Regno di Dio dentro di me». E due giorni prima aveva scritto ai suoi amici: «Mi trovo a volte veramente come Abramo, solo e inconsapevole di cio' che sara' la mia vita». Questa e' la piu'grande "tortura". Dopo un anno di permanenza in Inghilterra, Salvatore viene raggiunto da Antimo e Sebastiano. Ma la loro destinazione definitiva e' ancora avvolta nel mistero. Poi, finalmente, nel gennaio del 1977 la decisione dei superiori: i tre amici sono destinati alle Filippine.
Salvatore e Sebastiano vengono assegnati alla missione di Siocon: «Siocon e' una vera desolazione! - scrive Battore, due mesi dopo l'arrivo nelle isole - E' una municipalita' a nord di Zamboanga, citta' di Mindanao, con un'estensione parrocchiale di 4000 chilometri quadrati. Puo' essere raggiunta solo via mare, poiche' non ci sono strade. Si prende una specie di barcone e se tutto va bene, dopo 10-15 ore di oceano si sbarca ancora in mare in altre piccole barche che raggiungono la riva. Ricordate il film di p. Damiano? Esattamente lo stesso! Ma, mentre vedere il film di Molokai e' entusiasmante, non lo e' altrettanto vivere una situazione del genere! Per raggiungere i venti villaggi attorno, si usano i piedi o, alle volte, piccole barche! Non c'e' elettricita' e nemmeno il telefono. La posta arriva circa una volta la settimana, quando parte da Zamboanga la famosa "Lancia". Pero' a Siocon siamo davvero fortunati perche' la posta ci arriva direttamente in camera: il postino, infatti, quando e' libero dal suo lavoro (molto poco per dir la verita') e' sempre a casa nostra. Siocon mi fa una certa paura per l'isolamento, pero' la gente e' povera, buona, cordiale, non ancora toccata dalla societa' dei consumi. Dopo molta preghiera e riflessione abbiamo scelto come nostro campo di lavoro proprio questo posto... cosi' una piccola barca a motore ha portato me e Sebastiano al "centro del mondo"».
A Siocon p. Salvatore arriva con il sogno di dedicarsi ai giovani, come ha fatto in Sicilia. Si deve occupare, invece, soprattutto della formazione dei catechisti e dei leader ecclesiali. La parrocchia, molto vasta, ha bisogno di laici preparati, capaci di animare la liturgia e la vita comunitaria nei villaggi: «Man mano che il tempo passa - scrive il 4 dicembre 1978 - tutto diventa piu'familiare: il volto di tante persone, i problemi della povera gente, la lingua, i costumi, le tradizioni. Capiamo sempre piu'che, nonostante le apparenze, viviamo in un mondo diverso! La situazione politica ed economica delle Filippine e' ormai nota a tutti. Continuiamo a vivere sotto il regime militare con la legge marziale dal 1972 e sembra che il sistema si rafforzi sempre più! Insomma, la gente ha paura, tace e continua a soffrire e a essere sfruttata. Nella nostra zona pensare a uno sviluppo di strade, di elettricita', di qualche piccola industria, e' ancora un sogno. Questa e' Siocon: tagliata fuori dal resto del mondo e dai centri commerciali e amministrativi di Mindanao. La gente vive per lo piu'di piccoli espedienti. Mangia riso, vegetali e pesce, quando c'e'; tutti i giorni... e tutti i giorni e' lo stesso. Il tempo qui corre veloce e chiarisce sempre piu'a noi stessi il motivo della nostra presenza in mezzo a questa gente. Ci sarebbero molte cose da fare, ma essenzialmente noi siamo qui per testimoniare i valori evangelici e annunciare il messaggio di liberazione da ogni forma di schiavitù!».
Nel 1979 anche padre Antimo giunge a Siocon per sostituire Sebastiano che inizia un lavoro piu'diretto tra i musulmani. Il momento e' critico e ricco di tensione. La guerriglia musulmana e' particolarmente attiva nella sua lotta per l'indipendenza di Mindanao dal potere centrale di Manila: «La situazione sta diventando sempre piu'critica e rischia di sfuggire dalle mani di Marcos, che domina il paese con la forza dei militari e con i "decreti presidenziali". Tutta la vita di questa gente, il frutto dei loro campi e del loro lavoro, il loro tempo libero, l'educazione, il tipo di sviluppo socio-economico, persino l'uso della piccola proprieta' dipendono dai... "decreti presidenziali"! Il terrore regna sovrano e di fronte agli abusi militari si tace per paura di rappresaglie».
I tre amici si dedicano ad attivita' diverse, ma sempre in uno stile di condivisione. Spesso si incontrano e con grande fiducia e sincerita' si scambiano i loro punti di vista e si comunicano le loro impressioni: «Ho conosciuto tanti giovani musulmani che parlavano con determinazione di lotta, violenza e rivoluzione come l'unica soluzione per rivendicare i loro diritti», racconta spesso, amaramente, Sebastiano. Salvatore ascolta, si lascia affascinare da quel mondo che il suo amico sta esplorando: «Quante volte - continua - ho ascoltato le loro storie in silenzio, specialmente quando, dopo un certo periodo di missione, ho deciso di andare ad abitare in un villaggio musulmano, vicino al mare. La sera infatti, vicino alla mia capanna, si riunivano i ragazzi che giocavano tra loro, e gli anziani che raccontavano le loro storie. Erano tanti i giovani che dicevano di sentire il dovere di difendere le loro famiglie, le tradizioni, la dignita' e la terra. Avevano assistito a tanti atti di violenza, parecchi dei loro parenti erano rimasti vittime di massacri da parte dei militari o di vendette tra cristiani e musulmani. Sapevano che erano obbligati, secondo la loro cultura, a vendicarsi. Diventava quasi un impegno morale... Sai, Battore, l'altro giorno, l'ho vista proprio brutta! Mi trovavo con una sessantina di ribelli e alcuni dei loro familiari in un posto vicino al mare, lontano dagli occhi di tutti, per portare a termine difficili trattative e fare da mediatore di pace. Lo splendido paesaggio marittimo faceva da cornice alla tensione, alla mancanza di cibo e altri disagi. Restammo li' una settimana... poi all'improvviso l'allarme: erano stati avvistati i militari nelle vicinanze. Eravamo quasi circondati. Restava solo una via di salvezza: inoltrarci nella foresta scalando una montagna. Il comandante dei ribelli si avvicino' a me, mostrando la sua preoccupazione mi disse: "Padre, siamo stati traditi, i militari si stanno avvicinando, bisogna andare via subito da quel posto. Tu potresti raggiungere il villaggio vicino e noi andremo nella foresta". Ma non me la sentivo di lasciarli proprio in quella situazione e dissi: "Vengo con voi". Commosso, mi abbraccio' e mi disse: "Padre, se i militari ci attaccheranno noi ti difenderemo, tu sarai l'ultimo a morire"».
Salvatore resta vicino all'amico e incoraggia i suoi sforzi. Sebastiano non e' tipo da lasciarsi intimorire e poi, in un anno di "avventure", ha quasi completato la sua missione di pace. Nelle tranquille serate della stagione secca, mentre la fresca brezza spazza via la calura del giorno e fa ondeggiare le ampie foglie dei banani e il sole ha lasciato il posto a una miriade di stelle, i due missionari inforcano la moto e vanno a trovare le famiglie dei tribali dispersi nella foresta. Sfrecciando sulla mulattiera di fango hanno tempo per raccontarsi le vicende del giorno, per ricordare, discutere il da farsi e aggiornarsi, prima di raggiungere le palafitte di legno di cocco. La notte del 9 febbraio del 1981 sono ormai nella piazzuola del villaggio. E' buio, solo qualche fioca luce delle lampade a paraffina proveniente dalle finestre e il timido riflesso azzurrognolo della luna, aiutano a riconoscere i volti. All'improvviso, mentre un gruppo di persone circonda la moto, parte un colpo di pistola. E' un attentato, o forse un ribelle musulmano in cerca di vendetta. Un tribale, che sta parlando con Sebastiano, rimane a terra. Ma il bersaglio e' proprio lui, "il prete". E' l'inizio di una situazione insostenibile. P. Salvatore continua la sua attivita' pastorale, ma p. Sebastiano deve lasciare Siocon e rientrare in Italia. Hanno toccato con mano che nel dialogo non basta parlare e parlare bene, essere simpatici, avere tanti amici... e' necessario anche pagare di persona, portare la croce, saper aspettare.
Cosi', mentre Salvatore consolida il suo impegno per creare buoni rapporti tra musulmani e tribali, Sebastiano si mette a studiare islamologia e arabo al PISAI (Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'Islamistica) di Roma, non perdendo mai la speranza di ritornare nelle Filippine. L'attesa non e' vana. Nel 1983 puo' rimettere piede nell'isola di Mindanao e realizzare il suo sogno: fonda, a Zamboanga City, un movimento di dialogo islamo-cristiano chiamato Silsilah (catena); un gruppo di musulmani e cristiani che cominciano a incontrarsi per approfondire un cammino di fede e fraternita' attraverso la preghiera, la riflessione, lo scambio d'idee e i gesti di solidarieta'. Poco alla volta l'esperienza s'allarga, coinvolgendo tante persone interessate a questo progetto.
P. Salvatore, da Siocon, continua a sostenere spiritualmente l'iniziativa del suo amico e ne segue con interesse i primi passi. Ma nel 1986 gli viene affidato un altro incarico: «Ho avuto una chiamata urgente da Roma e una nuova destinazione nel Pime degli USA per lavoro di formazione e animazione... Cosi', nel momento piu'bello della mia missione, con il cuore infranto, devo lasciare tutto, partire e ricominciare di nuovo! Che ne dici Sebastiano?». Ancora una volta chiede consiglio al suo amico, che nel frattempo e' stato nominato superiore regionale delle Filippine. Sebastiano, che sa quanto e' duro inserirsi in un ambiente nuovo dopo aver abbandonando affetti e progetti, e quanto e' preziosa la presenza di Battore nelle Filippine, potrebbe trattenerlo. Ma capisce altrettanto bene che non sarebbe giusto fermarsi a considerazioni di carattere puramente umano e lo incoraggia a partire, proponendogli di approfittare della permanenza negli USA per approfondire il tema del dialogo: «E, chissa', quando tornerai qui, potremo condividere meglio l'attivita' del Silsilah! Non sarebbe bello lavorare ancora insieme, io e te?».
Tra il gruppo di filippini da seguire, gli impegni pastorali, la tesi, i tre anni a Chicago volano. E in men che non si dica si ritrova nuovamente a fianco di Sebastiano, proprio mentre Cory Aquino, il nuovo presidente delle Filippine succeduto a Marcos, consegna al Silsilah il premio nazionale per la pace, nel settembre del 1990. Padre Salvatore e' frastornato dagli applausi e dai discorsi ufficiali, ma il suo cuore e' stracolmo di felicita'. E' dall'aprile del medesimo anno che, finalmente, lavora a tempo pieno nel movimento come responsabile del settore editoriale: una rivista mensile e una collana di libri formativi.
Intanto la situazione politica e sociale delle Filippine continua ad essere difficile: «Di fronte all'"indifferenza" dei politici e alla violenza armata dei detentori del potere - scrive Salvatore il giorno di Natale del '90 - i sogni dei poveri si trasformano in incubi di sopravvivenza! In mezzo a tanta confusione e lotta per la vita, noi continuiamo a lavorare per la pace attraverso il processo penoso del dialogo... E' solo nel dialogo che diventiamo noi stessi piu'ricchi e arricchiamo gli altri della nostra esperienza religiosa». E un anno dopo: «Noi continuiamo a proclamare la speranza convinti che la trasformazione nostra e del mondo non e' l'effetto immediato di una decisione o di un evento storico, ma l'impegno di tutti i giorni per la vita. Anche l'esperienza di dialogo si pone in questa dimensione di speranza che va al di la' delle frustrazioni di tutti i giorni. Se cessassimo di dialogare perderemmo l'abilita' di immaginare un mondo diverso da quello presente: perderemmo l'abilita' di immaginare metodi di resistenza e modi di sostenersi a vicenda nella lunga lotta per la giustizia e la verita'; perderemmo l'abilita' di sperare e amare in tutte le forme. Credo che il nostro resistere sia un atto di gioia, perche' e' un atto di speranza in Colui che ha vinto la morte». Quindi, nonostante le difficolta', il lavoro del Silsilah prosegue e Salvatore si impegna in corsi estivi sul dialogo tra musulmani e cristiani.
E' la sera del 20 maggio del 1992. Dopo il successo dell'anno precedente, Salvatore e Sebastiano stanno riproponendo il summer course (corso estivo) a un gruppo di musulmani e cristiani. Il primo giorno di corso si e' appena concluso e i due missionari, che fino al giorno prima erano incerti sull'esito dell'iniziativa, sono soddisfatti e si complimentano a vicenda. Si scambiano ancora qualche battuta e poi, mentre Sebastiano si ferma ancora un po' per organizzare le attivita' del giorno dopo, Salvatore rientra a casa in macchina. «A domani!».
Riecheggiano ancora le ultime parole, quando l'auto di Salvatore, giunta ormai vicino alla residenza del Pime, e' superata da uno dei due motorini che da tempo lo stanno seguendo. Si affianca e il giovane che lo guida esplode contro il missionario alcuni colpi d'arma da fuoco. «Chiamato subito sul posto del delitto, - racconta p. Sebastiano - ho visto Battore in un bagno di sangue. Era gia' morto. Quanti sentimenti sono passati nella mia mente e nel mio cuore. Ero li', senza parole, accanto al mio piu'caro amico, martire del dialogo. Non mi sembrava vero. Non mi parlava più... sembrava quasi che tutto fosse finito. Spesso mi ripeteva che il vero dialogo e' ascolto e silenzio. Lo prendevo in giro perche' lui era un chiacchierone. Ora per lui tutto e' silenzio. Il silenzio, pero', eloquente, del martirio. I cristiani e musulmani che a centinaia hanno pregato accanto alla sua bara, hanno espresso la volonta' di continuare il cammino del dialogo, con piu'impegno, sicuri che p. Salvatore dal cielo avrebbe guidato i nostri passi. E cosi' e'».
Ma chi ha ucciso p. Salvatore? «Da quel maggio - continua p. Sebastiano - tante volte mi e' stata rivolta questa domanda. La situazione e' complicata e ancor oggi e' difficile fare un'analisi completa di cio' che e' accaduto. C'e' chi dice che siano stati i fondamentalisti islamici, altri i militari, altri ancora persone o gruppi che vogliono fermare il cammino della pace e del dialogo tra cristiani e musulmani. Dove sta la verita'? Me lo chiedo anch'io. Di sicuro, so una cosa soltanto: che dobbiamo andare avanti. Si e' formata una nuova catena d'impegno, un patto di sangue, che nessuno potra' mai strappare dal mio cuore. Davanti a questo mistero, c'e' la sfida di trovare insieme la via dell'armonia e della pace».



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