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I Martiri Saveriani




Guido Maria Conforti

"Guarda o Signore a tanti milioni di fratelli
che soffrono sete di giustizia, di verita', di pace, di amore".
Guido Maria Conforti,
in "L'Eucarestia e le missioni cattoliche", Palermo 6 settembre 1924

La forza del missionario sta nella convinzione che il Vangelo e' proposta di vita pienamente umana. Accogliendo il Vangelo, l'uomo non mortifica, ma esalta ed espande il suo essere, le sue potenzialita', le sue prospettive, secondo le dimensioni di Dio stesso che ci invita alla comunione con Lui. Diventare umani e' una vocazione ed un traguardo, non un dato; e' un compito, non un processo naturale. E per di piu', inevitabilmente segnato da limiti e contrasti.

Anzi, il missionario stesso esperimenta in se' la resistenza al Vangelo, poiche' anch'egli e' chiamato ad una pienezza di umanita' che lo supera costantemente, lo attira ma gli costa anche. Anche a lui difatti puo' sorgere nel cuore la tentazione ad andare per la sua strada, a farsi gli affari suoi, a prendere la vita con filosofia, poiche' si vive una volta sola ed e' bene sfruttarla questa occasione. Oppure, l'altra tentazione, piu' subdola, di prendersi come punto di riferimento nell'esercizio stesso del suo ministero, con la ricerca di se stesso, la strumentalizzazione del suo potereÂ… Per il missionario stesso, accogliere la proposta del Vangelo significa aprire la sua umanita' a Dio e aprirsi con umilta' all'umanita' dell'altro. E' superamento della propria idolatria e quindi apertura alla solidarieta'. E a questo egli deve convertirsi e in questo cammino impegna la sua fede, la sua speranza e la sua capacita' di amare.

Ma il Vangelo entra in un mondo che non e' umano; un mondo che non conosce il Padre e non riconosce percio' i fratelli. Un mondo nel quale ognuno va per la sua strada, preoccupato di se' e del suo benessere: da conservare, se ce l'ha e da conquistare, se non ce l'ha. E' quindi impossibile evitare lo scontro tra Vangelo e disumanita', tanto piu' quando questa assume le forme dell'arbitrio violento che non sopporta l'annuncio disarmato e mite del Vangelo.

In passato c'era almeno un'alta considerazione per le persone che si sacrificavano per qualcosa. Costoro, erano degli eroi, sia che si fossero sacrificati per la liberta' o per la giustizia, sia per la scienza o per la culturaÂ… Anche se non erano molti a seguirli, per lo meno venivano apprezzati e magnificati. Oggi, apertamente vengono o ignorati o derisi: sono considerati, a dirla con tutta schiettezza, stupidi. L'unica cosa sapiente e furba e' godersi la vita. Ma esattamente questo principio e' la sorgente della disumanita' del nostro tempo, poiche' misconosce la propria ed altrui umanita'. Difatti, quel principio legittima ogni cosa contro gli altri, pur di salvaguardare se stessi: il sopruso, la violenza, la falsita'Â… Che il piu' forte si affermi e il piu' debole venga eliminato: a questo conduce il prendere se stessi come criterio e fine.

Aprendoci a tutto l'umano e a tutti gli umani, il Vangelo ci introduce in un cammino di crescita umile al quale ognuno di noi fa fatica ad adeguarsi. Il missionario, uomo del Vangelo, si scontra cosi' inevitabilmente con la resistenza interiore e con l'opposizione esteriore. E nella misura in cui resiste nella sua lotta diventa testimone, martire: nello stesso tempo testimone di una umanita' piu' piena e della fede che ne e' la sorgente.

Il beato Conforti aveva espresso con lucidita' questa caratteristica martiriale della consacrazione alla missione, "cui se manca l'intensita' dello spasimo supplisce la continuita' di tutta la vita" (Lettera Testamento). I testimoni Saveriani qui presentati sono espressione sicura di questa fedelta' nella dedizione, che per loro e' arrivata anche alla effusione del sangue. Non e' da pensare che essi siano andati volentieri verso questa conclusione: non e' stato sempre cosi', ne' era necessario che lo fosse. Cio' che essi hanno avuto e mostrano chiaramente e' la fedelta' disponibile, che non cerca ma non esclude neanche il sacrificio supremo. E' da un atteggiamento di dedizione che nasce l'atto della donazione; dall'impegno a vivere per il Vangelo, la conseguenza di morire per esso.

I martiri Saveriani non sono che un piccolo drappello all'interno della grande massa di martiri di questo secolo, ma hanno punteggiato questo tempo con costanza, quasi a ricordarci che la missione e' inseparabile dal martirio.

Il secolo che si sta concludendo ha visto al suo inizio la persecuzione dei Boxer che solo nell'anno 1900 fece in Cina almeno 30.000 vittime: il P. Rastelli rappresenta l'inizio della missione saveriana, all'interno di quella bufera. E questo secolo si sta chiudendo con i non conclusi drammi dell'Africa centrale dove solo qualche anno fa, nel 1995, p. Maule, p. Marchiol e Catina Guber hanno unito il loro sangue a quello di centinaia di migliaia di vittime del Rwanda e del Burundi. Ma tutto il secolo, cosi' comela nostra piccola storia saveriana, e' stato segnato dal sangue dei martiri. La persecuzione infatti ha accompagnato le due guerre mondiali e le altre grandi e piccole guerre o guerriglie che hanno riempito questi 100 anni, in tutti i continenti; senza contare le numerosissime vittime delle grandi religioni politiche, ossia il comunismo, il nazismo, i vari fascismi. Basti pensare - per ricordare anche i moltissimi martiri non cattolici - che solo in Russia in poco piu' di 20 anni sono stati fucilati 130.000 sacerdoti ortodossi, compresi 250 vescovi dei 300 che formavano la gerarchia russa.

Questo secolo che si sta chiudendo, mentre ha aperto nuove impensabili vie al progresso e quindi alla crescita dell'uomo, ha mostrato anche, con una sfrontatezza egualmente nuova, un grande disprezzo verso la persona umana. E proprio questa disumanita' mostra, per negazione, la necessita' e la urgenza del Vangelo. Se l'uomo elimina cosi' facilmente e frequentemente questi annunciatori del Vangelo, vuol dire che ha urgente bisogno di riscoprire la vera sua ed altrui umanita'.
Presentando questi martiri, vorremmo evitare di cadere nella "retorica" del martirio. La sua esaltazione rischia di presentare al non credente un'immagine falsa della fede, quasi che questa comportasse l'esaltazione del sacrifico in quanto tale. In realta', cio' che si magnifica e' la forza del bene. Ed e' cosi' difatti che il martirio diventa segno di speranza; esso mostra che la resistenza del bene e' piu' tenace della violenza aggressiva del male.

Questi nostri fratelli testimoni sono stati miti e decisi; non hanno scelto la loro fine, ma avevano scelto le premesse che l'hanno resa inevitabile. Erano stati presi difatti dal Vangelo del Regno cosi' che hanno alla fine conquistato il Regno. Ed oggi, sulla stessa strada della carita' missionaria, sono a noi stimolo e compagni.

padre Francesco Marini sx,
superiore generale dei missionari saveriani
Roma, 20 agosto 2000




GIOVANNI BOTTON
Carmignano (Vi) 9.5.1908 - Hsuchang (Cina) 30.4.1944




E' ARRIVATA LA POSTA
Era una mattina d'estate del 1934. Il postino busso' alla porta d'un casolare di campagna dicendo ad alta voce: "Posta!" Si affaccio' una donna anziana, saluto', ricevette la lettera e rientro'.
In casa c'era lei, settantenne, con il marito di poco piu' vecchio. Era la casa dei Botton. I figli avevano tutti sciamato, disperdendosi per varie parti d'Italia. La donna si chiamava Margherita e suo marito Pio.
"Pio, disse Margherita andando verso di lui, una lettera da Gino". Pio sedeva su una poltrona a braccioli, prese la lettera, inforco' gli occhiali e lesse a voce alta. Il figlio Gino era missionario a Parma, nell'Istituto fondato dal Beato Guido Conforti, ed era prete da qualche anno. La lettera cominciava con delle scuse, perche' i vecchi genitori avevano saputo da altri che lui, padre Gino, era in partenza per la Cina: "Che volete? - spiegava - L'ho saputo con certezza solo questa mattina e poi... non avevo proprio fretta di dirvelo. Non c'era nessun vantaggio a farvelo sapere presto. Vi dico soltanto che la partenza non sara' prima di settembre". La lettera era datata al 22 di giugno.
Proseguiva:
"E' inutile che vi dica di essere contenti: siete stati voi che mi avete insegnato che non siamo nati per questa terra, ma per il paradiso; e per il paradiso merita bene che si faccia qualche sacrificio. E da voi ho anche imparato come ci si deve sacrificare: e qualche scena della vostra vita non potro' mai dimenticarla. Mi sarete un modello cosi' alto, che io, apostolo, non so se potro' raggiungerlo".
Possiamo pensare che, a questo punto, Margherita si sia asciugata una lagrima col grembiule:
"Il nostro Gino... - commento' - Che sentimenti cristiani! Ma partira' davvero?".
Pio continuo' a leggere:
"Anche questa mia partenza sara' un nuovo sacrificio per voi; ma voi gia' mi avete dato tutto al Signore:
non vi sara' strano e intollerabile che il Signore mi voglia ora portare lontano da voi...".
Anche Pio era commosso: "Si', ma cosi' lontano e tra tanti pericoli... E noi siamo vecchi...".
Tacquero tutti e due per qualche istante e poi Pio continuo' la lettura:
"Sappiamo del resto che i nostri cuori saranno sempre vicini, molto vicini".
I due vecchi assentirono col capo e mandarono giu' la saliva.
"Io non ho bisogno di niente - continuava Gino nella sua lettera - solo voglio che siate contenti".
Essere contenti, proprio non era possibile. Rassegnati si', perche' questa era la volonta' di Dio.
Pio e Margherita si erano incontrati molti anni prima in circostanze particolari.
Margherita era figlia di un "Carbonaro" milanese dei tempi in cui i patrioti si univano in societa' segrete per
l'indipendenza dell'Italia, allora sotto il dominio dell'Austria: appunto la Carboneria.
Si chiamava Mattia Gabardo ed era stato amico di Silvio Pellico. Ricercato dalla Polizia si era rifugiato nel Veneto, in un paese della Valsugana.
Qui si era sposato ed era nata una bimba, Margherita.
La famiglia versava in condizioni difficili e Margherita, ancora giovinetta, era stata costretta ad "andare a servizio". Fu cosi' che arrivo' a Carmignano, un grosso paese sul Brenta, a non molti chilometri da Vicenza.
Serviva in un'osteria, l'osteria del Moretto, portando vino ai clienti e riscuotendo i conti. In quell'osteria si recava anche il giovane Pio Botton a bere un bicchiere con gli amici, alla domenica, e forse a giocare una partita a carte.
Fu cosi' che incontro' Margherita Gabardo e se ne innamoro'. Si sposarono ed ebbero dieci figli: l'ultimo fu il nostro Giovanni, che in casa chiamavano Gino.
Nacque il 9 maggio 1908, quando mamma Margherita aveva gia' 44 anni.
Ora, in quello scorcio dell'anno 1934, la famiglia contava tre figli dati al Signore: Luigi, il fratello maggiore si era fatto religioso filippino, in tempi gia' lontani, e si trovava a Roma, dove San Filippo Neri, nel 1500, aveva fondato la Congregazione dell'Oratorio; la sorella Maria, quando Gino aveva circa dodici anni, era entrata dalle Suore Dorotee di Vicenza, e il nostro Gino era missionario a Parma. Gli altri fratelli e le sorelle Elisa e Gilda, si erano sposati. I vecchi genitori erano rimasti soli nella vecchia casa di campagna, divenuta troppo grande dopo tanti esodi.
Quando arrivo' il giorno segnato per la partenza, padre Gino era a casa da qualche settimana a salutare parenti e amici. La nave era il "Conte Verde" e sarebbe partita proprio da Venezia. Ma nessuno dei genitori pote' accompagnare Gino fino al porto: Pio era a letto con la febbre e mamma Margherita doveva attendere a lui o, forse, non si sentiva di veder partire il figlio.
Il mattino del 7 settembre, Gino saluto' i genitori, sforzandosi di mostrarsi allegro, e si avvio' al porto accompagnato da fratelli e sorelle. Margherita lo accompagno' fin sulla soglia, gli diede un bacio e scoppio' in singhiozzi.
Quasi vergognosa del suo pianto chiuse l'uscio e si avvio' verso il vecchio Pio, febbricitante in poltrona. Pio commento' con un sospiro: "Mora mia, non lo vedremo piu'...".

LA CHIAMATA DI DIO

"Gino era un ragazzo come gli altri" - dira' tanti anni dopo la sorella Suor Maria ripensando ai tempi in cui vivevano insieme, frequentando le scuole elementari.
Come gli altri, ma era stato coccolato dalle sorelle quand'era piccino e poteva crescere capriccioso ed egoista; invece non fu cosi'.
L'educazione materna e la vita in famiglia con tanti fratelli e sorelle con cui condividere tutto, lo aveva reso generoso e buono con tutti.
Una volta corse pericolo di morire, travolto dal carretto di suo padre: "Madonna, go copa' el pute'lo!" aveva esclamato con spavento il padre: Ho ucciso il piccolo! Invece, Gino era sgattaiolato fuori da sotto il carro senza nemmeno una graffiatura. Qualche Angelo l'aveva salvato.
Fece la prima comunione a sei anni.
In quaresima gli piaceva appartarsi nei campi, sotto un grosso fico, a cantare i versi dello Stabat Mater che aveva udito alla Via Crucis.
Sentiva nel cuore il desiderio di fare qualche cosa per il Signore: pensava di farsi prete, ma chi sa perche', non come il fratello filippino. Non gli piacevano neanche i frati francescani e nemmeno quelli di Monte Berico, i Serviti... Fu suo fratello a indirizzarlo all'Istituto dei Missionario saveriani di Vicenza, dopo di avere incontrato in treno - per caso - il padre Pietro Uccelli, Rettore di quella casa. Ma ci sara' veramente "il caso"?
Nell'autunno del 1920, condotto da suo padre con il biroccio, Gino entro' nell'Istituto di Vicenza. Pio torno' a casa entusiasta. Consolo' Margherita dicendo: "E' un bel collegio: Gino si trovera' bene".
Si trovo' bene davvero. Studio, giochi e perfino passeggiate in barca, sul canale che passava davanti alla villa.
Padre Uccelli parlava con entusiasmo delle missioni di Cina e i ragazzi non sognavano che di andare in quel misterioso paese, nel quale il loro Rettore aveva perfino sentito parlare il diavolo...
C'era poi la statuina di san Giuseppe davanti alla quale il Rettore poneva un pezzettino di pane o una minuscola bottiglietta d'olio per far sapere al suo celeste Patrono che in casa c'era bisogno di quelle cose...
Ed era meraviglioso sentire che San Giuseppe aveva ascoltato la preghiera, che era arrivato un carro di legna, o un sacco di pane, o una damigiana d'olio.
Erano 50 bocche da sfamare e la Provvidenza faceva pervenire ogni giorno quanto occorreva.
Una volta, il piccolo irrequieto Gino vide arrivare uno strano visitatore: era vestito da prete, ma non si capiva se fosse un prete o un seminarista; Gino cioe' non sapeva dire se era giovane o se era vecchio. Quello che gli era saltato agli occhi era la magrezza: una magrezza da far paura.
Vide padre Uccelli accompagnarlo alla porta e salutarlo con un gran sorriso. Gino ebbe un sospetto: "Che quel brutto "coso" voglia entrare da noi?".
Non pote' tenere in corpo la sua curiosita' e corse verso il Rettore e - sfacciato - gli chiese: "Padre, quel brutto uomo la', non vorra' mica venire da noi, noh? Ma anche se lo vuole, non lo accetti eh!". Padre Uccelli sorrise e non disse nulla. "E intanto Galvan, che non era ancora Padre - continua p. Botton da cui apprendiamo la storia - se ne tornava a casa felice perche' era stato accettato nell'Istituto e certo non pensava che una canaglia di un ragazzo gli aveva detto dietro quelle cose..." (Lett. 6.3.1936).
Padre Andrea Galvan divenne poi quel santo missionario di cui tutti sanno.
Da Vicenza Gino passo' a Parma per il noviziato, ossia per il tempo di prova, nel settembre 1924. La grande casa di Parma era il "Quartiere generale" dell'Istituto di San Francesco Saverio per le Missioni Estere, fondato dal giovane Guido Maria Conforti nel 1895, quando era ancora un semplice prete. Poi il Fondatore divenne vescovo di Ravenna e, non molto dopo, di Parma, mentre il suo Istituto si sviluppava e i giovani aspiranti divenivano preti e partivano per la Cina.
Quando Gino arrivo' a Parma, il Beato Conforti era ancora vivo e, dall'episcopio, si recava all'Istituto almeno una volta alla settimana, per prendere contatto con i suoi figli prediletti, che aveva dovuto affidare alle mani premurose di qualche collaboratore.
Gino lo incontro' piu' volte e fu spesso chiamato in camera per un colloquio.
Nel settembre del 1928, mentre Gino frequentava i corsi teologici, il Fondatore si reco' in visita in Cina e torno' entusiasta: "Ho visto proprio un campo fiorito! - disse ai suoi figli nel primo incontro. - Forse fra i popoli della terra quello cinese e' il piu' ben disposto... Oh, se vi fossero piu' missionari, piu' catechisti...".
I voti del Padre si imprimevano profondamente nel cuore dei giovani aspiranti missionari che quasi mordevano il freno per non poter subito partire.
Nel settembre 1929 Gino dovette interrompere il corso di teologia per andare a Vicenza a fare da assistente ai piccoli ginnasiali.
Cordiale, vivace, era l'anima delle ricreazioni; ma esigeva l'osservanza della disciplina e l'impegno nello studio: per divenire buoni missionari, oltre alla preghiera, bisognava essere allenati al sacrificio e preparati culturalmente.
Quando torno' a Parma, nel giugno dell'anno seguente, riprese gli studi interrotti e fu ordinato sacerdote dallo stesso Fondatore il 4 aprile 1931.
Fu l'ultima ordinazione compiuta dal santo vescovo: nello stesso anno, il 5 di novembre, egli lasciava la terra per il Cielo. Padre Giovanni (egli si firmava con il nome di battesimo) partecipo' al dolore dell'intera famiglia saveriana e della diocesi, e fu testimone dell'omaggio che tutta Parma tributo' al suo vescovo, dicendo a voce sommessa o gridando forte: "E' morto un Santo!".
Il vescovo di Cremona, Giovanni Cazzani, richiesto del discorso funebre, comincio' dicendo stupito: "E' un funerale questo o e' un trionfo?".
Dopo la sua ordinazione sacerdotale p. Giovanni fu mandato vice rettore nella casa di ginnasio superiore a Grumone, in provincia di Cremona, e dopo un anno ritorno' a Parma addetto all'animazione missionaria. Finalmente, dopo circa tre anni di attesa, gli fu data via libera per la Cina.

IN CINA

Partirono in sette con la nave italiana "Conte Verde": sei Padri e un Fratello. A salutare i partenti c'era, tra gli altri, anche il p. Uccelli, rettore della casa di Vicenza da oltre trent'anni: colui che l'aveva accolto studente e l'aveva preparato alla vita missionaria raccomandandogli soprattutto l'amore di Dio e la preghiera. Forse, quando stava per salire in nave, gli avra' detto: "Salutami i cristiani di Xuchang..., quelli di Xiang-xian, di Zhengzhou e specialmente quelli di Pezhoan, la mia prima missione". Padre Uccelli era stato in Cina dal 1906 al 1919.
Arrivarono a Shanghai la sera del 3 dicembre, festa di San Francesco Saverio, apostolo dell'Oriente e patrono dell'Istituto. Non dovettero cambiare vestiti e mettersi alla cinese con una treccia di capelli posticcia, come avevano fatto ai tempi dell'impero i primi saveriani.
Da Shanghai si recarono nel Henan, a Zhengzhou, dove c'era la Casa Religiosa saveriana. Qui si misero di buona lena a studiare la lingua sotto la guida di alcuni maestri cinesi. Dovevano imparare a leggere e scrivere i segni ideografici con cui fin dagli antichi tempi i cinesi trasmettevano il loro pensiero.
I caratteri erano moltissimi e avevano pronunce a volte simili, ma con significati diversi secondo la tonalita'; che se la pronuncia non era esatta, poteva succedere - come era realmente capitato - che si chiedesse da bere e gli venisse portata, ad esempio, una manciata di... fieno! A lui capitera' di raccomandare ai suoi cristiani di portarsi a casa il catino e leggerlo ogni giorno, mentre voleva dire di portarsi a casa il catechismo... Aveva usato siliempeul invece di tsienkimpeul. I cristiani ascoltavano con tutta serieta', domandandosi forse come si potesse leggere il catino (E. Zulian, Ho amato i Cinesi, p. 56). La missione affidata ai saveriani si trovava nella provincia del Henan e comprendeva la zona occidentale, in gran parte montuosa. Si estendeva per 32.000 chilometri quadrati e aveva una popolazione calcolata sui sette/otto milioni di abitanti. I primi missionari vi si erano recati nel 1904 e vi avevano trovato non piu' di 600 cristiani.
Dopo trent'anni i cristiani avevano superato i 20.000 e la missione era stata divisa in due Vicariati apostolici: Zhengzhou e Luoyang. Di Zhengzhou era vescovo mons. Luigi Calza, uno dei primi quattro arrivati in Cina, a Luoyang era vescovo mons.
Assuero Bassi. P. Botton era stato destinato a Zhengzhou.
Il cristianesimo era entrato in Cina fin dal secolo VII per mezzo di un gruppo di monaci provenienti dalla Persia e appartenenti alla comunita' nestoriana.
Com'e' noto, tale comunita' era sorta dopo il Concilio di Nicea (325) per diversa interpretazione sulla persona di Cristo.
In Cina la comunita', dopo qualche secolo, si era estinta per mancanza di contatti con le cristianita' dell'Occidente e per avvenute persecuzioni.
Nel secolo XIII era giunto in Cina il frate francescano Giovanni da Montecorvino, divenuto vescovo di Kambalik, la capitale del tempo, e seguito da alcuni altri frati; ma anche questa missione non ebbe effetti duraturi.
Alla fine del 1500 entrarono in Cina alcuni gesuiti, guidati da p. Matteo Ricci, e fu iniziato uno scambio culturale tra Oriente e Occidente. Cambio di dinastie, guerre e persecuzioni resero difficile la permanenza dei missionari in Cina, finche' i governi europei, nella seconda meta' dell'800, non imposero alla Cina la cessione di alcuni porti al libero commercio e l'autorizzazione ai missionari di predicare il Vangelo in tutto l'impero. Da allora si ebbero molte conversioni tra il popolo della campagna, mentre il ceto colto era rimasto piuttosto ostile, anche per la commistione della politica con la religione.
Una reazione violenta contro la penetrazione europea in Cina, avvenne nel 1900 con l'insurrezione dei boxer, soffocata nel sangue dalle nazioni alleate, andate in soccorso agli europei assediati nelle Legazioni e minacciati di sterminio. Molti cristiani cinesi pagarono con la vita il fatto di aver abbracciato la fede degli stranieri e un certo numero di missionari cattolici e protestanti furono uccisi in odio alla fede o per semplice xenofobia.
Dal 1900 molti missionari entrarono in Cina e le conversioni si moltiplicarono, tanto che negli anni '30 i cattolici cinesi erano circa tre milioni e i protestanti quasi un milione. Inoltre, il movimento di conversioni era in continua crescita, anche per le opere benefiche che avevano accompagnato l'evangelizzazione: scuole, ospedali, orfanotrofi, ricoveri per anziani ecc.
Anche la missione di Zhengzhou era organizzata in tale modo: i missionari italiani erano 23, i sacerdoti cinesi 11,
le suore erano 93, di cui 18 straniere e 75 cinesi.
Erano state costruite 14 chiese grandi e numerose cappelle, un ospedale, 2 orfanotrofi, 2 ricoveri per anziani e 3 scuole primarie.
Dopo un anno di studio p. Giovanni Botton fu mandato a Juzhou, in aiuto al p. Giovanni Tonetto. Juzhou era il distretto piu' dislocato del Vicariato.
Si trovava infatti verso i monti dell'ovest, distante da Xiang-xian, la piu' vicina cristianita', ben 90 chilometri. Ora ha cambiato nome: si chiama Linru; ha cambiato nome anche il fiume che le scorre accanto: Ju-ho, ora Beiru-he.
La citta' si trovava nel mezzo di una fertile campagna, mentre a pochi chilometri si elevavano i monti che la lasciavano come in una conca.
Juzhou era capitale del distretto (prefettura di secondo grado) e aveva sotto di se' quattro sottoprefetture: Lushan, Xian, Paofong e Y-yang.
Le cristianita' erano una ventina e si trovavano tutte in montagna. Si potevano raggiungere con gravi difficolta' per mancanza di strade; spesso sentieri da capre congiungevano le une con le altre: le lunghe distanze dovevano essere coperte camminando a piedi per strade o viottoli di montagna, o a dorso d'asino. Solo una parte poteva essere percorsa in bicicletta.
Tuttavia il distretto di Juzhou godeva buona fama tra i missionari. C'erano 1330 cristiani, montanari forti e decisi, e molti catecumeni. Ben 180 famiglie erano completamente cristiane e 232 lo erano in parte. La pratica della vita cristiana era generalmente buona, tanto che i missionari definivano quei fedeli "i cristianissimi". Cio' malgrado la zona fosse famosa per covi di briganti.
La cristianita' fu fondata dal saveriano p. Antonio Sartori
nel 1906, per interessamento del solo cristiano che vi si trovava per ragioni di commercio.
La presenza del missionario fu molto contrastata agli inizi, ma poi le ostilita' vennero meno e la Chiesa fu guardata con rispetto. Il direttore del distretto, p. Tonetto, era in Cina da nove anni e si poteva definire un veterano; il suo aiutante, p. Amadio Calligaro, per la sua malferma salute trovava difficolta' a visitare frequentemente cristianita' cosi' dislocate ed era stato trasferito. Al suo posto era stato nominato il nostro p. Giovanni che aveva una costituzione robusta e molto entusiasmo. Tre giorni dopo l'arrivo trovarono un bambino abbandonato nei pressi della residenza: era appena nato e stava per morire. Tocco' a p. Giovanni versare l'acqua del battesimo su quell'esserino morente e farne un angelo.
Di solito si abbandonavano le bambine, in tempo di carestia, e non i bambini: forse questo era stato abbandonato perche' giudicato troppo gracile per poter sopravvivere. Poi p. Tonetto condusse il suo aiutante a fare il primo giro di missione.
Arrivarono a Zhetakie, sui monti, e si fermarono due giorni. Qualche settimana dopo p. Botton era gia' in giro da solo. Le cronache della missione segnalano ogni mese le puntate di p. Giovanni a quattro o cinque cristianita'. Si puo' dire che meta' mese o piu' lo passava fuori residenza, con quali disagi lo possiamo immaginare: anzi, no, non lo possiamo immaginare.
Ecco quanto scrive in una sua lettera (13. 9. 1935).
E' indirizzata a un confratello che non siamo riusciti a identificare perche' comincia con un "Caro te": certo un confratello intimo di Botton. Gli scrive: "C'e' davvero da ridere. Voi in Italia potete pensare fin che volete, ma non arriverete a immaginare, nemmeno press'a poco, che cosa sia questa Cina. Il mio principale (titolo ufficiale: Rettore)
mi dice che e' una grazia, una provvidenza, altrimenti ben pochi verrebbero. Quando non si e' qui, la si sospira la Cina, anche perche' ignota; quando si e' qui, ci si sta bene per l'abbondante grazia di stato, e poi ci si mette anche il cuore. Alla casa religiosa qualcuno mi ha detto: Ti verrei a trovare, ma... siete in capo al mondo! Ed e' vero".
Si sente umiliato perche', prima, trovava che tutti i cibi erano buoni, mentre ora non c'e' roba che riesca a mandar giu': "Tutto e' fatto con olio di sesamo che per i cinesi piu' e' puzzolente piu' e' shian, profumato, e quindi buono. Quando sono libero di farmi da mangiare, come in questi giorni, mi vendico col miglio cotto in acqua pura, senza nemmeno il sale; vi aggiungo un po' di farina di frumento mescolata e cotta nell'acqua: colla. Dirai che non e' un cibo squisito, ma... almeno passa!
Oggi ho dato ordine al cuoco di comperarmi una o due pollastrelle (costano 30 o 40 centesimi di lira), ma e' un lusso e bisognera' che non ne abusi.
C'e' da tribolare, sai! Che viaggi, che letti, che cibi, che sporcizia!... Pero' credi che il Signore ci da' anche tanta gioia. Non puoi immaginare, per esempio, quanto fossi contento giorni fa quando dormivo sopra la porta della mia camera (svelta dai cardini e collocata per terra), senza materasso s'intende, e bagnato perche' per respirare mi ero messo fuori casa e mi aveva sorpreso un acquazzone. Zanzare, pulci, ecc. facevano da contorno. Ma quanta gioia a pensare alle anime buone di quei miei poveri straccioni puzzolenti. Oh, le puzze della Cina! Ma in paradiso avremo i profumi...".
Il giorno di San Giovanni Battista (29 giugno) p. Giovanni battezzo' 12 adulti, bene preparati dai catechisti: ecco le consolazioni. Altrove lamenta la grande pazienza che gli fanno portare quei suoi cristiani che non hanno il senso del tempo: li attende per le confessioni ed essi se ne stanno beatamente a conversare sul sagrato. E lui ha fretta! Ma che cos'e' mai la fretta per un cinese? "Per noi, - scrive -questa lentezza e questa imperturbabilita' piu' o meno coscienti, sono terribilmente irritanti; per i cinesi, assolutamente naturali. Essi raramente perdono la calma... A me, per tenerla stretta la pazienza, ci vuole piu' fatica che non per tutti i miei viaggi e piu' sforzo che per adattarmi alle esigenze di questo bel mondo cinese. Pazienza!" (aprile 1937).

LA FAME

Ai familiari bisogna scrivere lettere rassicuranti:
"La mia abitazione e' magnifica. Noi due preti abbiamo due stanze per ciascuno: lo studio e la camera da letto; senza contare le stanze di uso comune e per gli ospiti.
I muri sono di fango, ma con l'intonaco di calce e ben imbiancati. Pavimento di mattoni e finestre con vetri e imposte: tutto bene.
Abbiamo poi, dentro lo stesso recinto, stanze per uomini e per donne, quando vengono da lontano per le feste e devono fermarsi, o quando sono qui per un certo periodo a studiare il catechismo. Sono stanzoni per piu' di 400 persone.
Ci sono poi cortili, cortiletti, "ortese'li", giardinetti, "vise'le" e alberi per far ombra.
Due pozzi con acqua fresca e buona; una chiesa e una grotta per tener freschi i viveri. Che cosa volete di piu'? Questo in citta'. Sparse per le campagne abbiamo poi una decina di altre case piu' piccole.
La citta' e' in pianura. A sette-otto chilometri ci sono i monti, non molto alti, e un fiume piu' grande del nostro Brenta.
Non ci sono boschi: dove c'e' un po' di terra, e' tutta coperta di frumento o di miglio, e dove son tutti sassi, non ci crescono nemmeno le piante" (2.6.1936).
Ma Juzhou e' anche il paese dei briganti. Padre Gino ne accenna quando venne a sapere che la sorella Suor Maria era stata mandata a Gerusalemme, "il paese di Gesu'", mentre lui - lo scavezzacollo - era in Cina "nel paese dei briganti". "Sui monti - scrive - quella brava gente e' gia' in movimento. Giorni fa un gruppo di 500 si sono fermati a passare la notte fuori di una porta della citta', tranquilli e indisturbati.
In citta' non c'e' pericolo: siamo sicuri; e fuori, quando si esce, con un po' di attenzione si puo' essere tranquilli, perche' si sa dove sono se sono molti; e se sono pochi non hanno il coraggio di affrontare un europeo, per quanto grande possa essere la voglia"(18. 8. 1936).
Ma il problema piu' grave e' la fame. Ha cominciato a farsi sentire negli ultimi mesi del 1936 e si e' poi aggravata tanto che il governo ha sentito il bisogno, nell'anno seguente, di inviare 40.000 dollari (cinesi) per soccorrere la popolazione. La gestione fu affidata a due uomini del governo e alla Chiesa cattolica, cioe' a p. Botton.
Non era possibile fare tutto. Botton chiese al Vescovo di mandargli in aiuto un Padre cinese, che fu il p. Wang; ma p. Giovanni si logorava egualmente il cuore a veder soffrire tanta gente e a veder partire intere famiglie per mete lontane, in cerca di un tozzo di pane che forse non troveranno: "Molti, anche cristiani, partono con tutta la famiglia. Un po' di roba e i bambini su una carriola spinta dal babbo, mentre la mamma lo segue saltellando sui suoi piedini aiutati da un bastone.
Vanno, non sanno dove; vanno lontano. Qui morirebbero di fame; altrove puo' darsi che trovino da vivere. Vanno lontano dalla loro casetta, misera e cadente, ma che pure amano. Lontano dal briciolo di terra , piccolo e ingeneroso, ma che e' cosa loro e nel quale stanno sepolti i loro cari; lontano dai loro parenti, ai quali, anche se non molto amati, potrebbero aspettarsi nella necessita' qualche piccolo aiuto". (novembre 1936, Missioni Illustrate, 3.3.1937).
"Dovranno fare centinaia di chilometri a piedi, domandare in carita' un po' di miglio o di pane, dormiranno all'aperto, soffriranno la fame... Mi pare di rivederli fra un mese: dimagriti, sparuti, laceri, affamati; le spose sfinite, i bimbi piangenti, e sento anche a me le lacrime che vogliono uscire, ma le trattengo e cerco di dire una parola di conforto e di speranza" (Almanacco 1938, p. 69).
Il suo timore e' che, costretto dalla fame, anche qualche suo cristiano si dia ai monti e si unisca alle bande dei briganti.
Intanto attorno alla chiesa si raccoglievano bambine abbandonate... A settembre, sette; a ottobre altre sette. "In questo mese (novembre) altre 14 boccucce rosee son venute ad aprirsi alla nostra porta. Qualcuna ha fatto sentire un gemito, ma nessuna ha accampato diritti, nessuna ha cercato argomenti convincenti o espressioni toccanti per commuoverci; eppure tutte, raccolte nude e affamate, hanno trovato il vestitino imbottito e il latte caldo.
Ieri mi vedo comparire in camera il cuoco che porta tra le mani, in alto, una nuova padroncina, trovata proprio allora. Non sembrava accorgersi del freddo quell'esserino nudo nudo, ne' sembrava aver aria di estranea nella casa del missionario. Guardava tutti e tutto come fosse roba sua, e protesto' quando il cuoco la poso' per terra: non voleva i mattoni freddi, ma qualche cosa di meno freddo e di meno duro... Se continuano ad arrivare - come e' inevitabile e a ritmo sempre crescente - non so dove andremo a finire".
Non si creda che venissero abbandonate per crudelta': era solo la fame. Riportiamo una pagina del p. Mario Frassineti per far capire come a volte fosse straziante l'abbandono.
"Sul mezzogiorno sono per caso in portineria. Vedo entrare una donna con in braccio una bambina di circa due anni. Mi guarda senza fiatare. Si stacca la piccola dal seno e l'adagia per terra, per benino, come se fosse per un momento, per abbottonarsi, penso, il giubbone sul petto.
Si volta in fretta, senza riguardarmi e scompare radendo la porta.
Aspetto un momento, mi affaccio sulla strada: non c'e' piu'.
Sono rimasto solo con quella pupa che piange e sbatte le gambine per aria.
E' finito tutto in un momento. Il trapasso di proprieta' e' avvenuto cosi', tacitamente: la mamma non la reclamera' piu'. Questa cosetta di carne e' nostra, e' della Chiesa.
Penso a quella donna che l'ha lasciata qui. E' partita che gia' la piccola abbandonata piangeva e quel pianto le sara' rimasto nelle orecchie e nel cuore: ultimo ricordo della sua creatura. ... Mi ha fatto una grande pena quel suo sguardo vuoto, senza pianto. I grandi infelici non sanno piangere. La fame, la fame vera, abbrutisce. Il seno non da' piu' latte e il cuore non da' piu' lacrime" (Missioni Illustrate, marzo 1937, p. 98).

LA GUERRA

Ad aggravare la miseria si aggiunse la guerra. Una guerra illogica, disumana, cattiva. Un paese straniero voleva impossessarsi di un altro paese, senza alcun diritto, se non quello del piu' forte.
Il Giappone gia' dal 1931 aveva dimostrato le sue mire imperialiste: aveva occupato la Manciuria, regione della Cina nord-orientale, e vi aveva posto un governo fantoccio per dare un'apparenza di legalita' a quello che legale non era.
Dalla Manciuria attacchi sporadici si erano riversati su una o su un'altra zona della Cina del nord.
Le intenzioni aggressive del Giappone militarista si erano fatte piu' evidenti verso la fine del 1936. I prodromi di una guerra erano gia' stati notati a Juzhou da p. Botton: in previsione di una guerra, il governo cinese aveva cominciato a reclutare soldati: "Vogliono portarmi via anche il cuoco - scriveva p. Botton - . Prima andavano soldati i volontari: i delinquenti o gli affamati... Ora che vogliono far baruffa con i giapponesi, obbligano ogni paese a dare un certo numero di soldati..." (1.3.1936).
Di fatto, Chang Kaishek aveva dislocato 450.000 uomini nella zona di Pechino per resistere a un eventuale attacco. I Giapponesi avevano sul luogo circa 200.000 soldati bene armati e disponevano di molti carri armati e di aerei.
Il 7 luglio 1937, in seguito a una sparatoria fra truppe di confine, i giapponesi presero pretesto per muovere i propri eserciti verso Pechino e l'intera Cina.
E' "l'incidente di Lukuchao" che segna l'inizio della terza Guerra mondiale. Noi occidentali segnamo l'inizio della guerra che travolse il mondo, nel settembre 1939, con l'invasione della Polonia da parte della Germania; ma in realta' l'apocalisse era gia' cominciata in Oriente con l'invasione della Cina, alla quale segui' la conquista dell'intero scacchiere del Pacifico. La guerra in Oriente si presento' con le medesime caratteristiche di quella che scoppiera' in occidente e cioe' una guerra nella quale le stragi non si fermeranno alle truppe combattenti, ma mireranno alle popolazioni civili, distruggendo citta' e villaggi con bombardamenti indiscriminati e con lo sterminio di innumerevoli persone inermi. Forse non si era piu' veduta una simile tattica di guerra dai tempi di Gengis Khan e di Tamerlano. Il Giappone, dunque, invase la piana di Pechino; l'8 agosto la citta' fu conquistata. Poi, con una tattica di guerra studiata nei minimi particolari e con strumenti bellici moderni di grande potenza, l'esercito giapponese avanzo' su tre colonne: una verso occidente fino a Datong nello Shanxi, una seconda diretta a sud verso Paoting e una terza, pure a sud verso Tsinan.
L'armata giapponese trovo' una accanita resistenza a Paoting e quando la citta' cadde fu abbandonata per sette giorni al saccheggio di 30.000 soldati esasperati e furibondi. Quello che accadde a Paoting si ripetera' in tutte le citta' conquistate: quando i giapponesi vi entravano, uccidevano, violentavano, incendiavano, distruggevano.
Il terrore invase la Cina e getto' in fuga disperata le popolazioni delle citta'.
Quasi contemporaneamente all'avanzata nel nord, il Giappone sbarco' 80.000 uomini sulle coste del Jianxu, col programma di conquistare Shanghai e di dirigersi su Nanchino. La battaglia per Shanghai duro' piu' di due mesi, poi la citta' fu abbandonata al saccheggio (13.10.1937).
Verso la fine dell'anno, i giapponesi da Datong erano scesi nello Shanxi fino a conquistare la capitale Taiyuan e raggiungere la riva sinistra del Fiume Giallo. Nel settore orientale il 10 dicembre era caduta Nanchino, dopo una difesa disperata delle armate cinesi. Il saccheggio di Nanchino si concluse con il massacro di 300.000 persone e con atti di crudelta' difficilmente immaginabili.
Piu' a nord i giapponesi avevano iniziato l'invasione dello Shantung, ma gli eserciti cinesi, ritirandosi, fecero terra bruciata per togliere al nemico ogni mezzo di sussistenza.
Malgrado la resistenza eroica delle armate cinesi, ben addestrate da anni di guerra interna e disciplinate, il 1938 vide l'avanzata giapponese progredire verso il sud, da Tsinan a Xuzhou (Suchou). Qui si svolse la piu' grande battaglia di tutta la guerra per numero di combattenti: i cinesi, infatti, vi avevano fatto affluire 21 divisioni. Xuzhou cadde il 10 maggio 1938. Xuzhou apriva il passo verso il Henan, lungo la ferrovia Lunghai che congiunge Xuzhou con Zhengzhou, Luoyang nel Henan, e Sian nello Shaanxi.
Percio' dall'inizio dell'anno cominciarono i bombardamenti delle maggiori citta' che l'avanzata avrebbe incontrato sul suo cammino. Il 14 febbraio ci fu un primo bombardamento a Zhengzhou, portando sconvolgimento nella citta'; il 9 marzo un secondo bombardamento piu' massiccio. Una bomba cadde nel recinto della missione: si ebbero due bambini morti sotto le macerie e 11 adulti feriti.
Il 13 maggio, sul fare dell'alba, nuova incursione, nuovo stormo di aerei si avvicina alla citta' a scaricarvi il proprio carico di morte. Nella cattedrale il vescovo e i missionari avevano appena terminato di celebrare l'eucaristia che suonarono le sirene; in fretta corsero ai rifugi.
Appena in tempo: sulla cattedrale caddero sei o sette bombe che fecero crollare i muri e il tetto della Chiesa. Quando il vescovo e i missionari uscirono dai rifugi, la cattedrale era un mucchio di rovine: il lavoro di trent'anni distrutto in pochi minuti. Grazie a Dio nessuna vittima tra i Padri e tra il personale della missione.
La caduta delle bombe era il segno che gli eserciti corazzati stavano per arrivare. Lo sgombero di Zhengzhou, gia' cominciato al principio dell'anno, continuo' a ritmo accelerato: gli uffici statali, l'ospedale cittadino e le altre opere pubbliche vennero traslocate in localita' sui monti. In citta', per i soccorsi urgenti, rimase solo l'ospedale della missione. Si attendevano gli eserciti nemici di giorno in giorno, con paura sempre crescente; invece, nel mese di giugno, giunse nella zona di Zhengzhou una processione interminabile di profughi: affamati, stanchi, con il terrore negli occhi. Un disastro di dimensioni apocalittiche si era abbattuto sulla popolazione che abitava la campagna al sud del Fume Giallo: per arrestare l'avanzata dei giapponesi, Chang Kaishek aveva fatto rompere gli argini del Fiume Giallo - largo cinque o sei chilometri
a Huayuankou (24 km. a nord di Zhengzhou) ed esso si era riversato, con la potenza di milioni di tonnellate d'acqua, sulla pianura circostante, allagando per centinaia di chilometri quadrati e sommergendo 300.000 persone (27. 6. 1938). I senza tetto furono circa 11 milioni e formarono un'immensa folla di infelici che cercavano scampo su terreno non allagato.
Fu cosi' che la nostra missione si riempi' di profughi.
Il nostro ospedale rigurgitava di malati e di feriti. I Padri e il personale lavoravano giorno e notte, fino all'inverosimile.
Una suora canossiana italiana, per il superlavoro e l'orrore, diede evidenti segni di pazzia. Il vescovo fece appello al Generale che presidiava la zona per l'autorizzazione a trasportarla d'urgenza a Shanghai attraversando il Fiume Giallo. La risposta fu negativa e fu giocoforza condurla per vie lunghe e interminabili fino nella zona dei grandi ospedali, ormai in mano agli invasori.

IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO

Durante il primo anno di guerra p. Botton aveva scritto piu' volte ai parenti per rassicurarli che la guerra era lontana e che non sarebbe mai giunta lassu'; ma agli inizi del 1938, quando cominciarono i bombardamenti di Zhengzhou, le suore di Juzhou cucirono una grande bandiera tricolore da stendere sul tetto della chiesa; dopo l'inondazione del Fiume Giallo ci fu un periodo di quiete dalle parti del Henan; ma nell'anno seguente ricominciarono a farsi vedere gli aerei. Un primo bombardamento avvenne a Juzhou agli inizi del 1939: in chiesa, rottura di vetri e calcinacci. Padre Botton usci' fuori, tutto impolverato, e si precipito' subito verso il centro della citta' a soccorrere i feriti (Chiarelli in Le Missioni Illustrate, 1944, p. 121). La guerra dei giapponesi proseguiva sulle coste orientali della Cina che vennero sistematicamente occupate per impedire l'afflusso di armi ai cinesi, mentre altri eserciti occupavano la Tailandia e la Birmania, per impedire aiuti dal sud. Anche Hongkong, malgrado fosse zona di dominio inglese, fu occupata dai giapponesi. Poiche' l'opera di soccorso dei profughi continuava senza posa, il vescovo mons. Luigi Calza nel settembre del 1940 chiamo' p. Botton a Zhengzhou e gli diede il compito di Procuratore della Missione. Egli dovette percio' abbandonare la sua Juzhou con grande rincrescimento. Scrive: "Addio, Juzhou! Il mio primo amore... ". A Zhengzhou grandi preoccupazioni. Dopo lunghi, noiosi preparativi presso le autorita' (lettere, raccomandazioni ecc.), finalmente p. Mario Frassineti, direttore dell'ospedale, ottiene il permesso di potersi recare in un giro di qualche mese; partito anche p. Capra, direttore dei lavori, lasciando alle cure di p. Botton sei squadre di muratori; e cosi' via... Il solo ospedale, scrive, con tutte le sue complicazioni, sarebbe piu' che abbastanza per stancarmi. Nella parte opposta della citta' stanno mettendo su una filanda, con telai per tessere: pensa cosi' di poter dare lavoro a 400 profughi.
Questa apparente calma e' turbata da oscure nubi che preannunciano la tempesta. L'Italia e' entrata in guerra con la Germania: l'una e l'altra sono amiche del Giappone, quindi nemiche della Cina. Sospetti e accuse circolano tra le alte sfere. I Padri dell'ospedale di Zhengzhou vengono persino sospettati di essere in comunicazione radio con il nemico. Con fatica si riesce a far capire quanto infondato fosse tale sospetto. Ma il clima delle autorita' cinesi, specialmente quelle militari, non e' piu' di benevolenza verso la missione come era in passato. I missionari sono sotto accusa per la loro nazionalita' e si aspettano da un momento all'altro un qualche grave provvedimento.
La sentenza arriva il 6 maggio 1942: entro un mese gli italiani dovranno recarsi in concentramento a Neixiang, nei pressi della citta' di Nanyang, nel Henan meridionale.
Il 2 giugno partirono su carrette trainate da uomini, perche' non c'erano piu' animali, e scortati dalla polizia. Percorsero 400 km, con 40 gradi all'ombra. Le strade erano coperte di uno strato di polvere che si levava smosso dalle ruote o sollevato dal vento; altre volte le ruote affondavano nel fango e si doveva procedere lentamente. Mangiavano nelle locande che incontravano lungo la strada i soliti cibi cinesi.
Giunsero a Neixiang dopo 15 giorni di viaggio e furono alloggiati in una vecchia pagoda mancante di tutto. Mancavano perfino le finestre e le porte e vi erano alcuni buchi sul tetto che avrebbero lasciato passare la pioggia.
Erano sfiniti dal viaggio, ma chi mostrava le maggiori sofferenze era il vescovo che era malandato in salute e piu' di tutti amareggiato per le sorti della missione.
Il mandarino locale fece sapere che non si trattava di concentramento, ma di semplice allontanamento dal fronte per ragioni di sicurezza; percio' le autorita' non erano tenute a mantenerli. Qui porto' il suo contributo p. Botton, come Procuratore, adoperandosi per provvedere il necessario ai confratelli. Per procurare il cibo misero in pratica le nozioni di medicina e specialmente offrirono medicine e cure per le malattie degli occhi. Cosi', in qualche maniera, provvedevano al magro sostentamento.
Di quel periodo c'e' solo una lettera a suo padre, su un foglio stampato delle Croce Rossa, nel quale appare che egli era il n. 35 di matricola e che il Campo di concentramento era il terzo. Poche righe scritte a macchina sul ristretto spazio destinato alle notizie: "Sto sempre benissimo, in buona numerosa compagnia. Penso, prego per voi tutti. Mandatemi notizie. Con grande affetto. Vostro Giovanni".
La data e' del 6 agosto 1943.
Sappiamo da altre fonti che il vescovo si ammalo' piuttosto seriamente e che si fecero pratiche perche' potesse ritornare nel suo ospedale di Zhengzhou a curarsi. I primi di ottobre 1942 arrivo' a Xuchang con p. Giovanni Castelli.
Fu ricoverato all'ospedale di quella citta' dove il p. Ermanno Zulian aveva ottenuto di rimanere per dirigere l'ospedale.
Il vescovo si riprese alquanto e la polizia, nel gennaio del 1943, voleva farlo ritornare a Neixiang.
Parti' invece il p. Zulian con le suore canossiane, anch'esse condannate al concentramento. Il vescovo rimase solo.
Nel novembre 1943 furono rilasciati dal concentramento i padri Zulian e Botton.
Verso la meta' di aprile 1944 mons. Calza decise di allontanarsi dalla citta' perche' i giapponesi stavano per arrivare. Il vescovo si ritiro' sui monti conducendo con se' alcune suore cinesi della congregazione religiosa da lui fondata. I padri Botton e Zulian rimasero in citta' per attendere all'ospedale.

PER SALVARE GLI ALTRI

Il seguito del racconto e' tolto dal diario di padre Ermanno Zulian:
29 aprile 1944 - I giapponesi avanzano. P. Botton mi fa coraggio. In residenza, nel cortile delle suore, abbiamo un sacco di gente, specialmente donne. Botton gira a rincuorare tutti, particolarmente suor Hung che ha gli occhi fuori dalle orbite per lo spavento.
Verso mezzogiorno entra nel cortile un sergente che punta la pistola sui Padri, gridando: "Voi siete spie!" In quel momento arriva il colonnello Ly con tutto il suo seguito. Vede il sergente con la pistola spianata e si mette di mezzo. Dice: "Questo e' il dottor Zulian e questo e' il direttore dell'ospedale Botton. Sono buoni amici e ti raccomando di dire a tutti i sodati di rispettarli".
30 aprile 1944 - All'alba torno dall'ospedale dopo di aver celebrato per i cristiani del quartiere. Chiamo subito p. Botton che e' in chiesa e ha appena finito la Messa: "Padre, sparano. Venga fuori."
Subito arrivano gli aerei: pochi ma a bassa quota in un cielo limpido. Dal cielo fuoco di mitraglia, da terra l'antiaerea. Scendiamo nella cantina rifugio sotto la mia cameretta. Tutti: suore, donne, maestri e cristiani.
Giornata di fuoco: il nostro orto e' bersaglio dell'artiglieria e degli aerei giapponesi. I soldati cinesi resistono accanitamente.
Noi, dentro il rifugio con la corona in mano, preghiamo. Una bomba cade poco lontano da noi: volano vetri, mattoni e tegole. Le mitraglie giapponesi cantano sempre piu' vicine.
Piu' tardi, - potevano esser le 17.00 - si sente nel nostro cortile uno scalpitio di scarponi che si avvicinano: arrivano i giapponesi!
Botton dice: "Vengono! Io esco, se no ci gettano qualche bomba e si muore tutti".
Sale svelto la scaletta di legno, con un fazzoletto bianco in mano. Sulla porta ci sono due giapponesi con la baionetta innestata. Botton grida: "Italia! Italia!", poi getta un grido e rotola per le scale. I soldati gli hanno piantato la baionetta in corpo. Uno dei soldati scende sparando. Io grido: "Italia! Chiesa cattolica! Non ci sono soldati!"
Il soldato grida arrabbiato e spara di nuovo, poi si ritira.
Padre Botton versa sangue in abbondanza. In cinese egli dice ai cristiani: "Non piangete. Sono contento cosi'".
Poi con un sospiro: "Signore, vieni a prendermi... Soffro tanto... Offro la mia vita per la Cina...".
Io gli dico: "Coraggio! Il Signore l'aiutera'".
Lui risponde: "Non c'e' nulla da fare con due coltellate nella pancia e quattro pallottole in petto... Non importa. Io muoio. Lei si faccia coraggio".
Dopo un po' scalpitio di cavalli e rumore di carretti in cortile. Una voce grida in cinese: "C'e' gente la' dentro?". "Si', gridiamo noi, Chiesa cattolica".
La voce traduce in giapponese e poi grida: "Fuori!"
Usciamo. C'e' un ufficiale giapponese e un giovane interprete cinese; dietro di loro soldati sporchi e pieni di polvere, armati fino ai denti.
Mi domandano la nazionalita'. Dico che un altro italiano, dentro, sta morendo. L'ufficiale e l'interprete scendono con noi. Botton sta veramente morendo. L'ufficiale si scusa dicendo: "Sono gli errori della guerra".
Di nuovo mi conducono fuori. Arriva un Comandante superiore, l'ufficiale di prima gli parla e quegli mi fa segno di scendere con lui. Botton spasima. Con un filo di voce prega: "Signore, vieni a prendermi. Soffro molto. Oh, mamma mia!"
Gli suggerisco una giaculatoria. Dice: "Offro la mia vita perche' il Signore salvi la Cina".
Esco col Comandante che mi fa chiudere in stanza e non mi lascia piu' uscire. Seppi poi che p. Botton aveva cessato di vivere verso mezzanotte. Dico ai cristiani: "Ha dato la vita per salvarvi!" Essi accennano di si' e qualcuno piange.
Cosi' e' morto il nostro caro padre Botton: come il buon Pastore che da' la vita per le sue pecore.

Fu sepolto nell'orto.
A Carmignano gli hanno messo una lapide nella cappella dei sacerdoti defunti, in cimitero:

P.GIOVANNI BOTTON
Missionario Saveriano in Cina dal 1934 al 1944 morto per salvare la vita ai suoi cristiani
Aveva scritto ai suoi: "Stiamo allegri che presto andremo a far sagra in Paradiso!".




CAIO RASTELLI
Ghiara di Fontanellato (Pr) 25.3.1872
Tai-yen-fu (Cina) 28.2.1901




UN'AMBASCIATA DALLA CINA

Alla stazione di Parma il mercoledi' 9 marzo 1898 alle 16.25, si videro scendere dal treno cinque curiosi personaggi.
Erano vestiti goffamente con lunghe sottane e giacche grigie, avevano il viso brunastro, gli zigomi sporgenti e gli occhi a mandorla. Oltre al vestito faceva specie una lunga treccia di capelli che ciascuno portava pendente sulla schiena.
Erano cinesi. Li conduceva un vecchio missionario dalla maestosa bianca barba fluente che lo rendeva venerando. Vecchio, per se', non era poiche' aveva solo 58 anni, ma le fatiche apostoliche, gli strapazzi della missione lo avevano invecchiato anzitempo. Era Fra Francesco Fogolla dei frati francescani della SS.ma Annunziata. Era nato a Montereggio, nel Pontremolese, nel 1840, ma si era trasferito a Parma fin dall'infanzia con la famiglia, e si era fatto frate nel convento dell'Annunziata nell'Oltre Torrente fin da giovinetto. Era partito per la Cina nel 1866 a 26 anni e non era piu' tornato. Rientrava ora in Italia, dopo 32 anni, per partecipare a una Mostra Missionaria organizzata a Torino dall'Associazione per aiutare i Missionari italiani all'estero, e soprattutto per reclutare qualche giovane missionario per la sua missione dello Shanxi settentrionale, in Cina, tanto vasta e tanto povera di uomini.
Lo accompagnavano quattro giovani seminaristi cinesi e un uomo piu' attempato che gli faceva da segretario.
La missione dello Shanxi settentrionale era a ridosso della Grande muraglia, anzi ne era attraversata nella parte settentrionale. Quella muraglia, lunga seimila chilometri, avrebbe dovuto tenere al di la' dei confini le orde mongole sempre inquiete; ma i cavalli mongoli e i feroci cavalieri avevano superato ogni ostacolo nel lontano 1200 e avevano instaurato in Cina la dinastia mongola degli Yuan, durata circa un secolo; ed ora, mentre i missionari costruivano chiese e diffondevano la fede tra i cinesi, un'altra dinastia mongola regnava sulla Cina gia' da due secoli e mezzo, erano i Qing della Manciuria (leggi: Cing).

DON CAIO VUOLE PARTIRE

Qualche giorno dopo il padre Francesco tenne una conferenza sulla Cina alle cinque del pomeriggio, nella chiesa dell'Annunziata. Una folla enorme stipava la chiesa: ascolto' con grande attenzione quanto il missionario raccontava della Cina, sugli usi e costumi e sul progresso della fede. Il frate disse che i suoi cristiani amavano tanto Cristo che se fosse avvenuta una persecuzione avrebbero dato volentieri la vita per Lui: non sapeva di fare una profezia. Tra gli uditori c'era un giovane canonico, attorniato da un gruppo di 29 ragazzi in veste talare che li designava come seminaristi. Il giovane prete, Don Guido Conforti, aveva fondato, due anni prima, il 3 dicembre 1895, il piccolo "Seminario Emiliano per le Missioni Estere" con l'intento di raccogliere ragazzi che aspirassero a dedicarsi alle missioni tra gli infedeli. La parola "infedele", in quei tempi, non aveva un senso negativo, ed era usata per indicare chi non aveva la fede cristiana. ragazzi ascoltarono incantati il missionario dalla lunga barba e pensavano: "Forse, un giorno andremo anche noi in Cina...". Ma c'era qualcuno che lo pensava davvero: era il giovane Vice rettore, don Caio Rastelli, entrato nel Seminario di Conforti fin dagli inizi, quasi appena ordinato prete. Era nato a Ghiara di Fontanellato (Parma-Italia) il 25 marzo 1872.
Qualche giorno dopo la conferenza, verso la meta' di marzo 1898, il padre Fogolla si reco' in Borgo Leon d'oro n. 12 (oggi Via Bruno Longhi), nel piccolo Seminario di Conforti. Don Caio gli ando' a parlare: gli chiese semplicemente, "Padre, potrei venire con Lei?..."
La risposta fu quanto mai incoraggiante; ma quando Rastelli ne parlo' a Conforti, una piccola doccia fredda gli piombo' sul capo: "Ma don Caio, come posso fare senza di te? Non vedi quanto sono occupato in Curia dopo che il Vescovo mi ha nominato Vicario Generale?"
Il vescovo era mons. Francesco Magani. Venuto a Parma nel settembre del 1894, non aveva esitato e scegliersi come collaboratore di fiducia il canonico Conforti e lo aveva nominato prima Pro Vicario e poi Vicario Generale, malgrado la giovane eta': non aveva ancora trent'anni.
La stessa sera un altro alunno del Seminario, unico studente del corso teologico, il suddiacono Odoardo Manini, si reco' dal Conforti per dirgli: "Voglio partire anch'io...". Manini era "prefetto", ossia assistente della piccola comunita': nemmeno di lui si poteva far senza. E poi... non aveva nemmeno vent'anni ed era figlio unico... No: era impossibile!
Il Fondatore si tormentava dentro, nella gioia di vedere l'ardore missionario dei suoi figli e nella impossibilita' di poter aderire alle loro richieste.
Se non che l'incontro che Conforti ebbe con Fogolla in quei giorni fece piegare la bilancia a favore dei due aspiranti alla Cina: quando mai Conforti avrebbe avuto la sorte di poter affidare i suoi primi missionari a una guida piu' sicura che i Frati francescani e particolarmente quel padre Francesco che prometteva di averne cura come di figli?

LA CITTA' SI COMMUOVE

Durante l'estate, nella villa di campagna che don Guido aveva preso in affitto a Vigatto per i suoi ragazzi, il giovane Vice rettore spingeva sull'altalena i piu' piccoli (ma erano tutti piccoli) e a ogni falcata del gioco gridava: "Aden!...Colombo!... Singapore!... Manila!... Hongkong!... Shanghai!... " Insomma, tutti i porti in cui immaginava che lo avrebbe portato la nave. Il 4 marzo dell'anno seguente, il 1899, fu il giorno degli addii. Il grande salone dell'episcopio era stato convertito in cappella; l'immagine di San Francesco Saverio, patrono dell'Istituto, dominava la parete di fondo dove era stato preparato un altare. La gente era numerosa. In prima fila i genitori dei partenti, in lagrime, e i famigliari tutti. Celebro' la Messa il canonico Conforti, mentre il Vescovo assisteva in veste rossa e cotta bianca; ma fu lui, il Vescovo, a imporre il crocifisso sul petto ai giovani partenti e a rivolgere paterne parole di addio. La sua voce era commossa, come quella di un padre che vede partire i suoi figli e che sa che non li vedra' piu'... Perche' in quei tempi i missionari partivano per non piu' tornare e, inoltre, si sapeva che la Cina era inquieta, che manifestazioni contro gli europei avvenivano qua e la', e che alcuni missionari erano stati uccisi. Il Vescovo accenno' al dolore dei genitori, ai duri sacrifici della vita apostolica e anche alla possibilita' di incontrare il martirio. Si rivolse poi a ciascuno dei partenti, salutandoli con la voce rotta dai singhiozzi e baciandoli con paterno affetto: "Vi affido all'arcangelo Raffaele la cui immagine dorata risplende sulla torre campanaria - disse - : che egli vi accompagni nel vostro cammino".
Poi vennero gli addii dei genitori e dei famigliari; la gente li attorniava commossa. Alla fine dovettero staccarsi e salire su un lando' ornato a festa e trainato da due cavalli, mentre altre nove carrozze seguivano in corteo, come scolta d'onore. Partirono dalla stazione alla volta di Genova alle 12.24, seguiti da un applauso della gente e dai singhiozzi repressi dei famigliari.

DIVENTARE CINESI...

Partirono da due diversi porti e in date differenti: Rastelli parti' da Genova il 7 marzo sul piroscafo tedesco "Prinz Heinrich", insieme ai quattro seminaristi cinesi e il francescano laico Fra Andrea Bauer, alsaziano; Manini parti' da Marsiglia il 12 marzo con mons. Fogolla, divenuto vescovo coadiutore del vicario apostolico della Missione mons. Gregorio Grassi. Con loro viaggiavano due giovani Padri e quattro studenti francescani non ancora ordinati; vi erano pure dieci Suore Francescane Missionarie di Maria, di cui sette destinate alla missione dello Shanxi.
Mons. Conforti, affidando Rastelli e Manini al vescovo Fogolla aveva scritto: "Voglia considerarli suoi figli in Gesu' Cristo ed essere loro largo di carita' e di benigno compatimento". Al Vicario apostolico mons. Grassi aveva inviato lettera a mezzo Rastelli: "Le affido i due primi missionari che l'umile Congregazione di San Francesco Saverio puo' offrire all'apostolato cattolico... Le protesto che mi sono cari quanto l'anima mia e reputero' fatto a me stesso tutto quel bene che Vostra Eccellenza nella sua grande carita' si compiacera' di fare loro".
Toccarono i porti scanditi sui prati di Vigatto spingendo l'altalena; ed ebbero anche l'emozione e la paura di una tempesta piuttosto violenta. Manini, piu' emotivo, la descrisse come se la nave fosse stata piu' volte per affondare; Rastelli la nomina appena.
Giunsero a Shanghai il 15 aprile.
Qui comincio' la trasformazione: bisognava diventare cinesi! Un abile sarto prese le misure e in poche ore confeziono' i vestiti adatti, poi fu dato loro un berrettino nero rotondo, che oltre a coprire il capo aveva la funzione di tenere agganciata alla capigliatura naturale una treccia di capelli comprati che doveva sporgere, discreta o spavalda, sulla schiena del nuovo figlio adottivo della Cina. Figlio adottivo non e' una parola di troppo, perche' quei giovani missionari si erano scelta veramente la Cina come nuova patria per sempre. Si erano dunque trasformati in cinesi; ma cinesi come bambini appena nati che non sanno parlare e non capiscono quelli che parlano. Sotto, dunque, con lo studio della lingua, fin dal primo giorno.
Arrivarono il 1° maggio a Taiyuan, la capitale della provincia dello Shanxi e del Vicariato apostolico; furono accolti nella grande residenza dove dimorava il Vescovo e dove operavano un orfanotrofio per bambine abbandonate, una scuola e un incipiente ambulatorio per le cure di prima necessita'. Qui si mettera' al lavoro Odoardo Manini, costretto a trascurare alquanto lo studio della lingua per le urgenze dell'arte medica. Rastelli, invece, si mise con tutte le forze a immagazzinare caratteri ideografici e a cimentarsi con i molteplici toni con i quali i medesimi caratteri vengono pronunciati.
Non e' che gli entrassero ben bene nella testa, ma le urgenze erano molte, tanto che mons. Fogolla scriveva al Fondatore:"Appena padre Caio sapra' esprimersi sufficientemente, probabilmente sara' inviato in qualche distretto ove e' necessaria la presenza di un missionario europeo che solo viene riconosciuto dai Mandarini...".

SUI MONTI OCCIDENTALI

Non passarono sei mesi che padre Caio fu destinato a una missione sui monti occidentali. A piu' di 300 chilometri dalla capitale si elevava un altopiano dominato dai monti Luliang. L'altezza si aggirava sui 1500 metri con alcune vette che superavano i 2500. A ovest il Fiume Giallo segnava i confini con la vicina provincia dello Shaanxi. La missione comprendeva la prefettura di Fenzhou e otto sottoprefetture e si estendeva per 150 chilometri in lunghezza e poco meno in larghezza, con una superficie di circa 20.000 chilometri quadrati. Padre Caio parti' il 1° novembre, pieno di entusiasmo e di giubilo, malgrado il Vicario apostolico gli avesse detto che avrebbe trovato molto da soffrire per il clima e per il cibo e soprattutto per la solitudine, le ansie e i patimenti spirituali.
Scriveva al Fondatore: "Partiro' per... per il Paradiso!"
Il nome della localita' gli resta sulla penna.
Spiega: "Troppo e' pieno di gioia l'animo mio, e dove, se non alle porte del Paradiso approdera' il mio viaggio?... Oh, quanto e' dolce servire il Signore! Oh, come riempie i voti di chi in Lui confida!"
Si era addossato quattro pianete, un messale, il breviario e un piccolo libro, compendio di morale e di dogmatica. Nient'altro. Lo accompagnava il padre cinese Gabriele Suen e un giovane di 22 anni che doveva fargli da maestro e da catechista. Impiegarono cinque o sei giorni per giungere a Sie-kou, il paese cristiano che doveva divenire la sua sede centrale.
Appena ambientato un poco, scrisse le prime lettere alla famiglia e al Fondatore.
Abita in una grotta, probabilmente una casa scavata nel loess, e ci sta benissimo; del resto anche la gente del luogo abita nelle grotte. Per mangiare ammette che non si mangia molto bene: tutti si nutrono di miglio, melica scopaiola e avena; per condimento, fagioli, zucche, lenticchie, rape, peperoni e una specie di cavolo o verza. Il riso lo si vede raramente. Anche la carne e' rara: molti muoiono senza averla mai assaggiata...
Questo e' anche il suo regime: "Ma basta non soffrir la fame e che il cibo non faccia male, scriveva, - cosi' diceva il papa' e cosi' dico anch'io".
La lingua divenne un incubo: da un paese all'altro la pronuncia era diversa e non riusciva a raccapezzarsi. Eppure quella lingua gli piaceva: "E' di una delicatezza e di una nobilta' di eloquio straordinaria". Peccato non poterla parlare: " Soffro non poco di non potermi slanciare tra la massa che mi circonda... Mi basterebbe poter parlare, per consolare Gesu' e salvare le anime".
Guarda con simpatia i suoi figli spirituali: sono buoni, docili, animati da una sincera pieta'. Li vede lavorare con mezzi rudimentali, ma con una industriosita' e una tenacia che lo riempie di ammirazione. Peccato che ci sia la carestia...
Quali drammi dolorosi sottende questa parola! Padre Caio imparo' a vedere la miseria, a sentire la fame nelle sue viscere quasi un riflesso di quella degli altri, a logorarsi dal dolore per non poter far nulla o assai poco per salvare delle vite.
"La carestia, egli scrive, si e' presentata nelle forme piu' orribili. L'altr'anno si raccolse una meta', l'anno scorso un terzo; quest'anno non si e' seminato nulla, perche' nulla si puo' seminare. Nessuna industria, nessun lavoro da guadagnare qualche soldo, nessuna erba mangiabile. I lupi cominciano a girare qua e la' in cerca di preda; torme di uomini si aggirano ovunque in cerca di un po' di cibo per scampare alla morte vicina; assalgono qualche famiglia benestante e portano via quanto trovano di commestibile; ma anche di questi pagani coraggiosi, una gran parte muore sulla via; i pagani piu' timidi aspettano la morte nelle loro case. I cristiani che gia' molte volte sono ricorsi al Padre, ora vengono definitivamente alla chiesa, anche di lontano con stenti inauditi, per prepararsi alla morte. Poi, rassegnati, si rintanano nelle loro case, aspettando che la fame, come una fiamma venga finalmente a consumarli..."

LA MORTE ARRIVA A TAIYUAN

Intanto all'orizzonte si profilava l'uragano.
Era come se il cielo si fosse riempito di nubi scure e un diluvio stesse per abbattersi sulla terra.
A Pechino era scoppiata la guerra: numerosi rivoluzionari fanatici si erano scatenati contro i bianchi, che ritenevano invasori della loro terra. Erano i boxer.
Procedevano come orde selvagge, brandendo spade e fucili, la fronte legata con un fazzoletto rosso. Si erano preparati con incantesimi che avrebbero dovuto renderli invulnerabili.
Il 20 giugno 1900 l'ambasciatore della Germania, barone Von Ketteler, era stato assassinato per strada; nello stesso giorno una massa inferocita di boxer aveva assediato il Quartiere delle Legazioni straniere e la chiesa cattolica del Pe'tang. Avendo avvertito la tempesta tutti gli stranieri si erano rifugiati nell'ambasciata d'Inghilterra, come la piu' sicura, perche' circondata di mura. Alla missione si era recato un piccolo presidio francese per difendere i Padri
e i cristiani la' rifugiati. Nei giorni successivi, ai boxer si uni' l'esercito regolare, istigato dall'Imperatrice madre Cixi. Sulle mura e all'interno cominciarono a piovere palle di fucile e a cadere bombe di cannone.
Messaggeri erano stati inviati di nascosto a Tientsin a chiedere soccorsi. Una prima spedizione fu intercettata e i soldati europei furono costretti a ritirarsi. Questa vittoria aveva esaltato gli assedianti; il grido di "Morte agli europei" risuonava terribile per l'aria.
Mentre a Pechino venivano moltiplicati gli assalti alla Legazione e alla chiesa, a Taiyuan si consumava la tragedia.
Da qualche mese era arrivato alla capitale della Provincia il nuovo Governatore, il generale mancese Yushien, noto per il suo odio contro gli europei e contro i cristiani. Aveva subito fatto affiggere manifesti contro i missionari, accusandoli di avere irritato gli de'i, predicando una nuova religione, e di essere percio' causa della grave carestia che affliggeva la Provincia. Si ordinava quindi ai cristiani di ritornare alle antiche divinita' e di non essere partigiani degli stranieri.
Ai primi di luglio, eccitati dalla lotta che si svolgeva a Pechino e dalla notizia della sconfitta di un primo esercito straniero, nella citta' di Datong, a nord della provincia, i boxer avevano bruciato la chiesa e catturato il padre cinese che vi si trovava. Fu poi fatto morire tra i piu' atroci tormenti con altri due cristiani.

GLOBI DI LUCE VERSO IL CIELO

La notizia non era ancora giunta a Taiyuan che anche la' una turba di facinorosi diede alle fiamme la residenza dei pastori protestanti. Questi, con le loro famiglie, furono fatti alloggiare in un vecchio tempio al centro della citta'.
I francescani, in seguito alla morte per tifo del Superiore, si trovavano riuniti per la nomina del successore. Mons Grassi, rendendosi conto della gravita' del momento, diede ordine ai missionari di mettersi in salvo: le porte erano sorvegliate e non era possibile passare, percio' i Padri si fecero calare dalle mura della citta' durante la notte; rimasero in citta' i due vescovi, due missionari anziani e il fratello Andrea Bauer. Si sperava di far uscire dalla citta' le suore il giorno dopo, travestite da contadine; ma esse non vollero per non abbandonare le orfane.
Per prima cosa il Governatore fece sequestrare le orfane, tra cui varie erano adolescenti. Di notte arrivarono dei carri ed esse furono portate via tra lagrime e pianti.
Il giorno dopo, con il pretesto di metterli a sicuro dagli assalti dei boxer, il Governatore diede ordine di condurre i missionari e le suore nella medesima pagoda dove gia' si trovavano i protestanti.
Nel pomeriggio del 9 luglio un forte contingente di soldati circondo' l'edificio dove erano i prigionieri. Un drappello entro' armi alla mano. I protestanti reagirono con qualche colpo di arma da fuoco, ma furono subito ridotti all'impotenza. I padri e le suore si erano raccolti attorno a mons. Grassi che diede loro l'assoluzione. Mons. Grassi fu colpito alle reni con il calcio di un fucile e faceva fatica a camminare; mons. Fogolla aveva ricevuto due piattonate sul collo con una sciabola: sia lui che fratel Andrea versavano sangue. I soldati li legarono con prepotenza e li condussero tra una folla inferocita fino al tribunale del Governatore.
Giunti sul luogo, Yushien si avvicino' a Fogolla e gli chiese: " Da quanto tempo sei in Cina e quanto male hai fatto al mio popolo?" Il Vescovo rispose dolcemente:"Sono qui da 34 anni e ai cinesi non ho fatto che del bene".
"Tu menti - rispose irritato Yushien - ed ora ti uccido".
Lo colpi' con due pugnalate, ma non in modo da farlo cadere. Subito ordino':"Portateli fuori e uccideteli tutti".
Segui' una confusione enorme. Nel cortile antistante i due vescovi, i due padri, il fratello e le sette suore furono massacrati. Ad alcuni fu tagliata la testa, altri furono sgozzati, altri ebbero trapassato il cuore con la spada. Morirono con loro cinque seminaristi e nove servi della missione: in tutto 26 martiri. Anche i pastori protestanti con le loro famiglie furono massacrati: altri 32 martiri per il Regno di Dio.
Lontano, a duecento chilometri, nella citta' di Zhengding, i cristiani narrarono di aver veduto in direzione di Taiyuan, proprio nell'ora del martirio, globi di luce salire verso il Cielo.

IN FUGA SUI MONTI

Conforti e la citta' di Parma gia' piangevano i loro figli, perche' la stampa internazionale aveva dato notizie catastrofiche: un telegramma da Shanghai aveva annunciato l'uccisione a Taiyuan dei vescovi Grassi e Fogolla e di altri 42 europei, tra cui tutti i missionari. La cifra corrispondeva esattamente al numero degli europei uccisi: 32 protestanti e 10 cattolici (i due vescovi, tre missionari e sette suore); ma per vicende provvidenziali gli altri missionari cattolici del Vicariato si erano messi in salvo. I piu' giovani si erano rifugiati sui monti; Manini si trovava nel convento di Tong-el-kou a trenta chilometri dalla citta' e pote' fuggire insieme con padre Barnaba Nanetti, superiore del convento. Quando giunsero nei pressi della missione di p. Rastelli, gli mandarono messaggi perche' si mettesse in salvo. Padre Caio, vestito da contadino, con un gran cappello in testa e un sacco sulle spalle usci' di notte dalla residenza e marcio' verso ovest. Arrivato al Fiume Giallo non lo riconobbero e lo lasciarono passare. Si reco' nella residenza di un missionario al di la' del fiume, ma si fermo' un solo giorno; e fu fortuna perche' il mandarino che gli era nemico gli aveva mandato dietro dieci soldati, promettendo un premio se lo catturavano. Ma lasciamo a lui stesso raccontare la sua avventura: "Il Signore manifestamente mi protesse poiche' potei viaggiare di notte e di giorno, pernottare negli alberghi e nelle case dei pagani; fui in spelonche abbandonate da belve o da pecore ed in piazze popolate, ma sempre non riconosciuto... Mi ero cosi' camuffato alla cinese che Ella pure non so se mi avrebbe conosciuto. Manifestamente Dio mi protesse, perche' in una casa, dove dimorai due giorni e mezzo, solo dopo altri due giorni fu bruciato un mio sacerdote cinese e tre cristiani che vi si erano rifugiati" (10.12.1900, a Conforti).
"Mandarini, popolo, ribelli, tutti davano orribile caccia agli europei e ai cristiani. Fui inseguito da dieci soldati con una taglia, ma il Signore che mi protesse fece si' che, nei dieci giorni in cui fuggivo, da nessuno fossi conosciuto come europeo. Quel che mi spaventava era passare il Fiume Giallo. Ivi furono poi martirizzati tre sacerdoti cinesi, due proprio nel luogo dove io passai: ebbene con 15 centesimi potei passare e senza noie; mentre Manini e il nostro Vicario generale dovettero puntare il fucile per spaventare i barcaioli, che poi cedettero al ricevere 18.000 sapeche" (22.01.1901, al Vescovo di Parma).
Padre Barnaba e Manini giunsero primi in Mongolia, a Xiao-kiao-ban, la residenza fortificata dei padri Belgi di Scheut. Era il 29 luglio: avevano viaggiato 22 giorni tra immense fatiche e timori. Qualche giorno dopo giunse anche Rastelli: era irriconoscibile per il travestimento e piu' ancora per la magrezza a cui si era ridotto per le strettezze della sua missione e gli strapazzi del viaggio.
Pochi giorni dopo scoppio' la persecuzione anche in Mongolia: il Vescovo e alcuni Padri furono uccisi, mentre gli altri si rifugiarono a Xiao-kiao-ban.

ASSEDIATI NEL FORTE

La residenza fortificata era stata costruita dai Padri belgi solo cinque anni prima per difendersi dalle orde dei mongoli o dai musulmani, sempre inquieti nella vicina provincia del Kansu. Comprendeva la chiesa, la residenza dei Padri, l'orfanotrofio, alcune dipendenze e un po' d'orto. Una muraglia alta sette metri circondava l'abitato per un perimetro di circa 500 metri. Le mura erano fortificate da bastioni con merli, mentre cinque torrette servivano alla difesa. Intorno alle mura scorreva un fossato pieno d'acqua. Fuori, dalla parte sud, si estendeva il villaggio dei cristiani, fondato dai padri 25 anni prima.
Ai primi movimenti sospetti, i Padri fecero affluire nella zona fortificata i cristiani del villaggio: circa 500 persone.
Alle dieci di sera del 9 agosto una moltitudine di boxer circondarono la residenza; ad essi si uni' un'orda di mongoli avidi di bottino. Avanzavano portando fiaccole e facendo un rumore pauroso. Gridavano a gran voce: "Morte agli europei! Vogliamo mangiare la vostra carne".
Gli assediati si difendevano dalle mura sparando sugli assalitori e a volte facevano delle sortite per sgominare le avanguardie; con i Padri combattevano anche i cristiani.
I boxer si ritenevano invulnerabili, ma quando una quarantina di assediati decisero di uscirgli incontro sparando e menando le spade, sei boxer caddero, malgrado la loro invulnerabilita', e gli altri si diedero alla fuga.
Il giorno dopo ritornarono; e cosi' mattina e sera e perfino alla notte. I Padri e i cristiani sparavano dalle feritoie. "Piu' volte, scrisse il p. Rastelli, si presentarono a portata dei nostri fucili a gruppi di una decina di persone, sfidandoci a sparare su di loro, dichiarando di essere invulnerabili. Ci piangeva il cuore ma dovemmo sparare per difendere noi stessi e le 500 persone che erano con noi. Ci meravigliavamo di tanta cecita' che li faceva credere invulnerabili".
"Eravamo assediati dai ribelli e poi da 400 soldati mongoli. Noi, con soli trenta fucili, battendo il nemico dalle mura e in sortite, riuscimmo a spaventarlo e a farlo fuggire". Per un giorno intero e per tutta la notte Rastelli era rimasto sugli spalti, mentre i boxer si presentavano a ondate di una ventina di persone alla volta, sparando all'impazzata: "Finalmente stanco, fatto segno di un orribile fischiare di palle, chiamo in aiuto un Padre olandese; dopo un'ora circa una palla lo stende morto al mio fianco. Mi piego su di lui e poi distrattamente alzo la testa dal mio riparo: il nemico pronto spara e la palla mi sfiora il cappello".
Dovettero anche scavare una contro-galleria per contrastare quella che i mongoli stavano scavando per entrare sotto le torri e porvi le mine.
"Quando udivamo l'orribile fischio delle palle di fucile e da cannone, o sentivamo il sordo rumore dei mongoli che scavavano sotto le torri per farle saltare, pensavamo a voi, alle vostre preghiere, e ci sentivamo rianimati al coraggio, alla consolazione, alla piu' illimitata fiducia" (Lettera al Vescovo di Parma).
Rastelli era stato congedato dal servizio militare col diploma di tiratore scelto e avrebbe potuto uccidere ad ogni colpo, ma deve aver cercato di colpire alle gambe o alle braccia se ci furono molti feriti tra gli assalitori e pochi morti.
Il 15 settembre, dopo trentasette giorni di assedio, Rastelli non ne pote' piu': si mise a letto divorato dalla febbre.
Alla fine di settembre una notizia circolo' tra gli assedianti: le armate straniere erano entrate a Pechino, l'imperatrice si era data alla fuga e i soldati europei facevano strage dei cinesi. Forse da qualche parte era anche giunto l'ordine di ritirarsi: i boxer lasciarono l'assedio e i mongoli, con i loro carri, si avviarono verso Ovest.

LA VIGNA DESOLATA

Qualche giorno dopo, padre Barnaba si avvio' verso lo Shaanxi (Shenxi), la provincia a sud della loro missione. Non si fidava ad entrare direttamente nella provincia dello Shanxi, fatta oggetto di tanta persecuzione.
I due Saveriani dovettero attendere ancora quindici giorni perche' Rastelli, non ancora ristabilito, non era in grado di intraprendere il viaggio. Partirono a meta' ottobre; la guida, per non farli passare per le strade usuali forse pericolose, li condusse attraverso i monti, per sentieri impervii in una marcia che non finiva mai.
Dopo quindici giorni, giunsero sfiniti a Xi'an, la capitale della Provincia dello Shaanxi. Padre Rastelli pareva piu' malato di prima. Furono accolti amorevolmente da mons. Amato Pagnucci, Vicario apostolico di quella missione.
Dovettero fermarsi per circa due mesi in attesa di un lasciapassare: solo il 10 dicembre lo ebbero nelle mani e il giorno dopo partirono. Viaggio' con loro anche il padre Barnaba che era pure stato costretto ad attendere.
Cio' che trovarono appena entrati nel territorio della missione li colpi' al cuore: sette sacerdoti cinesi uccisi tra i tormenti, 1.500 o 2.000 cristiani massacrati; le chiese e le residenze distrutte o gravemente danneggiate; le case dei cristiani date alle fiamme e interi villaggi completamente rasi al suolo."I due distretti di padre Rastelli che avevamo attraversato nella fuga - scrive Manini - furono completamente distrutti: non rimangono piu' che un centinaio di persone". Rastelli piangeva i suoi morti, quelli che aveva amato come figli e che non erano piu'.
Fece grande impressione il racconto dell'eccidio compiuto a Taiyuan cinque giorni dopo l'uccisione dei vescovi: una cinquantina di cristiani si erano radunati in una chiesa a pregare; i boxer circondarono l'edificio e si gettarono sui cristiani come belve feroci, urlando e menando strage. Si videro le madri offrire i loro bambini, nel timore che venissero preservati per essere pervertiti. Il racconto dell'eroismo dei cristiani commuoveva Rastelli fino alle lagrime, ma nello stesso tempo lodava Dio che aveva dato a creature inermi la forza del martirio.
Gli eccidi erano stati compiuti paese per paese e i sopravvissuti erano nella piu' squallida miseria.
La sera del 24 dicembre, vigilia di Natale, giunsero al convento di Tong-el-kou. I cristiani accolsero i Padri con grandi manifestazioni di gioia. Era gia' l'imbrunire e, dopo tanti mesi di silenzio, la campana della chiesa comincio' a suonare per chiamare i fedeli alla celebrazione del Natale.
Padre Barnaba, Superiore del convento e Vicario generale della missione, costrinse affettuosamente Rastelli a celebrare la Messa di mezzanotte, rinunciando a celebrarla lui stesso, come sarebbe stato suo diritto.

UNA GRAVE SVENTURA

Nei giorni seguenti padre Rastelli fu nominato Procuratore della missione. Inizio' subito un disagiato viaggio, per la vasta pianura, per valli e per monti, di paese in paese a riscontrare le rovine, a consolare i superstiti, a soccorrere gli indigenti. Un compito forse troppo pesante per il suo fisico indebolito e piu' per il suo cuore angosciato. Per l'ultima volta vide i luoghi delle montagne dell'ovest, dove aveva tanto pregato e sofferto.
"Il lavoro e' cresciuto, scrive al Vescovo di Parma, perche' mancano dodici valenti operai ( uccisi o morti di malattia) e io sono il terzo fra gli anziani europei. Ed ora mi tocca fare da Maestro di filosofia con quattro seminaristi, da curatore di 200 orfane e 40 vergini, oltre che da Procuratore generale in un periodo in cui tutte le cose furono sconvolte dalla persecuzione".
Dovette anche presentarsi al tribunale come rappresentante della Chiesa per chiedere la restituzione degli oggetti rubati durante i saccheggi e soprattutto per chiedere l'intervento dell'autorita' per la riconsegna alla missione delle orfane che i pagani avevano rapito: di qualcuna non si ebbe piu' notizia.
Duro' un mese questo suo peregrinare tra le miserie: si sentiva stanco da morire; tornato a casa ai primi di febbraio da un'ultima visita ai luoghi del dolore, si senti' male. Lo prese la febbre e la diarrea. Fu chiamato il medico cinese che diagnostico' il tifo.
Furono tentati rimedi di ogni specie, si chiamarono dottori sempre piu' bravi, ma inutilmente. Odoardo Manini gli era sempre a fianco con affetto fraterno. Padre Barnaba era andato a Pechino a implorare aiuti per i cristiani affamati e in convento rimaneva il padre Francesco Saccani di Parma che non abbandono' mai il malato.
Il 10 febbraio Rastelli volle alzarsi per far riposare le ossa rotte dal durissimo tavolato in cui giaceva. Il giorno 13 si accinse a scrivere una lettera al Fondatore e ai genitori, ma la sospese alle prime righe perche' si senti' mancare. Lo riportarono a letto, madido di sudor freddo e preso da tremiti in tutto il corpo. Riconobbe Manini ma non riusci' a parlare: gli strinse la mano affettuosamente. Padre Francesco gli amministro' l'Unzione degli Infermi.
Fu chiamato un vecchio medico di fama: diede qualche speranza, forse per non far brutta figura, scrisse una ricetta e se ne ando'. Da quel momento si noto' un cambiamento strano nel carattere di padre Caio: prima coraggioso, sprezzante dei pericoli, ora timido, pauroso, bisognoso che qualcuno gli stesse sempre vicino.

LA NOTTE DELLO SPIRITO

Gli ultimi giorni, al male fisico si aggiunse l'angoscia morale: lo avevano preso gli scrupoli. Si angustiava per ogni piccola cosa, temendo di commettere o di aver commesso peccato. Faceva spesso chiamare Padre Francesco Saccani per ripetere le sue confessioni e non si dava pace. Era penoso vederlo in tali angustie. Finalmente, dopo qualche giorno, il padre Francesco ebbe l'ispirazione di imporsi con l'autorita' del confessore: gli comando' di non pensare piu' ai peccati e di abbandonarsi nelle braccia misericordiose del Padre celeste. Rastelli era tanto abituato a obbedire che, come per incanto, si calmo' e passo' tranquillo gli ultimi giorni.
Trascorsero venti giorni. Padre Caio era debolissimo; non prendeva piu' che un po' di brodo di miglio ed era diventato di una magrezza spaventosa; passava continuamente dagli ardori della febbre a brividi di freddo.
Il 27 Il 27 febbraio ebbe un po' di miglioramento, tanto che padre Francesco penso' di potersi assentare per affari urgenti. Alla sera sembrava assopito e il polso era abbastanza regolare, ma Manini era preoccupato; verso mezzanotte ritorno' al capezzale dell'infermo. Alle quattro padre Caio entro' in agonia. Venne un sacerdote cinese per una nuova assoluzione e per le preghiere dei moribondi. Alle sei e un quarto ebbe un colpo di tosse e spiro'. Era il 28 febbraio; aveva 29 anni meno un mese. "Cosi' ebbe fine quella tanto amata e preziosa esistenza", scrisse Odoardo Manini dando minuta relazione degli ultimi giorni di padre Rastelli.
Quando, due mesi dopo, alla fine di aprile, mons. Conforti seppe da una lettera di padre Barnaba dell'irreparabile perdita, raduno' i suoi alunni attorno all'altare e, con voce rotta dall'emozione, annuncio': "Miei cari, ci e' accaduta una grave disgrazia, la piu' grave che umanamente ci potesse capitare: e' morto Don Caio". Padre Bonardi, allora presente, affermo': "Forse il piu' grande dolore che una morte gli abbia provocato...".

CONFORTI PIANGE IL SUO FIGLIO

Per quali circostanze mons. Conforti non fu subito informato della morte del suo figlio primogenito? Si era prospettata l'ipotesi che Manini avesse inviato un telegramma a Pechino al padre Barnaba perche', a sua volta, egli telegrafasse in Italia; ma in una lettera del 1° aprile Manini dice chiaramente di avere spedito un telegramma a Conforti subito dopo la morte del Confratello, e forse anche padre Barnaba lo fece da Pechino; ma erano tempi di guerra e si puo' pensare che i telegrammi per l'estero fossero sospettati di comunicare in linguaggio cifrato chi sa quali diavolerie e che percio' non siano stati inoltrati. La lettera di padre Barnaba rimpiange la dolorosa perdita e ha parole di elogio per il Padre Caio; ma piu' che tutte le altre testimonianze vale il profilo che lo stesso mons. Guido Maria Conforti scrisse in occasione dei solenni funerali celebrati a Parma il 9 maggio 1901.
Lo ricorda seminarista, "indefesso nello studio, fervoroso nella pieta', osservantissimo delle Regole, di una modestia verginale; abbelliva tutte queste rare doti con si' schietta e profonda umilta' da rendersi caro a quanti l'avvicinavano. Non deve percio' recar meraviglia se il Signore destinava quest'anima eletta ad operare e a patire grandi cose per la gloria del suo nome". "Infatti, non appena ordinato sacerdote chiedeva di entrare nel Seminario Emiliano di San Francesco Saverio... Vi entro' con quel trasporto di santa gioia che e' piu' facile immaginare che descrivere e da quel primo istante in poi non ebbe che un solo pensiero, una sola aspirazione: perfezionarsi nella virtu' del suo stato e fornirsi di quel corredo di cognizioni che dovevano formarne uno strenuo banditore del Vangelo".
Ne ricorda poi lo spirito di mortificazione che il Superiore doveva moderare perche' non ne pregiudicasse la salute. Non era austero nel suo comportamento, ma sereno e giocondo, per cui era cara la sua compagnia e gli alunni, di cui era vice rettore, nutrivano per lui affetto e venerazione. "Con queste disposizioni si preparava a bere l'amaro calice che il Signore suole apprestare ai suoi Apostoli che rende a Se' conformi alla scuola dei patimenti". Il 3 dicembre 1898, festa di San Francesco Saverio, apostolo delle Indie, "si consacro' a Dio con voto, assieme al confratello Odoardo Manini, per la conversione di tanti infedeli, giacenti ognora nelle tenebre dell'errore e nelle ombre di morte. Il sacrificio era ormai compiuto e il Signore l'aveva accolto in odore di soavita'".
Del suo apostolato in Cina il Fondatore dice che la missione affidatagli era vasta come le diocesi di Parma, Piacenza e Reggio unite insieme, posta fra monti scoscesi e sterili, ed egli doveva viaggiare di continuo dall'una all'altra cristianita' per predicare, battezzare, cresimare... Abitava in misere stamberghe e umide spelonche, ne' altro cibo poteva procacciarsi all'infuori di un po' di miglio e di erbaggi cotti nell'acqua. Riporta una lettera di mons. Fogolla in data 12 marzo 1900: "Don Rastelli trovasi sui monti occidentali di questa provincia, a cinque o sei giornate da Taiyuan. Lassu' vi e' una grande quantita' di neofiti e catecumeni e vi e' anche molto da lavorare e da patire, non essendovi nessun comodo per la vita; ma per chi ha virtu' come Don Rastelli, vi sta bene ed e' contento, perche' vi si possono acquistare molti meriti". "La perdita immatura di cosi' strenuo banditore del Vangelo ha gettato nel lutto piu' profondo questo Seminario Parmense per le Missioni Estere, ma ora Superiori e alunni, mentre piangono il caro Estinto e lo desiderano, si confortano non poco col ricordo delle sue virtu' e colla dolce speranza d'avere acquistato in Cielo un protettore che presso Dio intercedera' anche per essi e per quest'umile Istituto che tende unicamente alla propagazione di quella Fede per la quale egli ha sacrificato con generoso distacco la famiglia, la patria, la vita".

DEFUNCTUS ADHUC LOQUITUR

I sentimenti che illuminarono la vita di padre Caio Rastelli sono bene espressi dalla formula di rinnovazione della sua consacrazione, scritta il 30 novembre 1900 a Tung yangfang, nello Shaanxi, per pronunciarla il 3 dicembre, festa di San Francesco Saverio. Ne riportiamo qualche passo: "Dio eterno e onnipotente, Padre, Figliolo e Spirito Santo, io vostra indegna creatura..., in unione con l'Ostia accettevolissima che or ora vi ho sacrificata e percio' rivestito delle sue perfezioni, virtu' e meriti, Vi offro l'anima mia, il mio corpo e quanto ha e avra' con me relazione. ...Rinnovo i voti di osservare un'intera castita' e perfetta continenza; di una pronta esatta, cieca, allegra, generosa obbedienza; di una vera e religiosa poverta'; di una totale dedicazione di tutte le mie forze a quelle opere di Missione o di Congregazione a cui i miei Superiori mi vorranno impiegato". Si rivolge quindi alla Vergine Maria, a San Francesco Saverio, agli Angeli e Santi della Corte celeste perche' gli ottengano dal Signore Gesu' Cristo illibatezza e santita' di pensieri, di parole, di opere, di desideri che lo rendano sempre piu' accettevole alla Divina Maesta', alla quale interamente si dedica e si consacra.
A consolazione del Fondatore giunsero dalla Cina belle testimonianze, tra cui la seguente: "I cristiani lo ricordano quale modello, vorrei dire non mai visto, di santo missionario. Splendeva per la poverta', l'umilta', la mansuetudine e la pieta'. Al vederlo pregare non si poteva non sentirsi stimolati a imitarne gli esempi. Se non riporto' la corona del martirio, ne ebbe certamente il merito". E tra i martiri viene considerato anche ai nostri giorni. Il Fondatore nutriva per lui un'ammirazione singolare e piu' volte scrisse a padre Luigi Calza, poi vescovo, di far trasportare "le ossa del povero indimenticabile Don Caio" (dove "povero" sta per defunto) da Taiyuan alla missione dei nostri nel Henan occidentale: "Niente di piu' conveniente e pietoso che le sue spoglie mortali riposino in mezzo ai nostri, ai quali ha lasciato in eredita' tanti luminosi esempi di virtu' apostoliche.
Mortuus adhuc loquitur!"
L'idea era di trasportarne le reliquie in "Campo di Marte", cioe' nella sede dell'Istituto sorta nella zona con quel nome (ora Viale San Martino). Conforti voleva che i resti mortali fossero deposti nella chiesa che aveva in mente di costruire e che fu sempre rimandata per mancanza di mezzi: "chiesa annessa a questo Istituto per le Missioni, ove conto di avere io pure un giorno la mia tomba. Questo non per sentimento di vanita', ma per ottenere qualche Requiem aeternam di piu' da coloro che verranno ad abitare in questi paraggi e per la soddisfazione santa di riposare vicino al mio primo missionario che ha sacrificato generosamente la vita per Cristo e che consumatus in brevi, explevit tempora multa". Queste richieste risalgono al 1907 e al 1910 (Lettere a L. Calza), ma la richiesta si fa piu' urgente nel 1919, quando spera che ai due missionari in procinto di tornare dalla Cina potessero essere consegnate le ceneri di padre Caio Rastelli: "Mi farebbe un favore senza pari. Conterei di porre le ossa benedette del primo nostro Missionario in questa cappella dell'Istituto, ove gli farei erigere un conveniente monumento, che in perpetuo lo ricordi ai posteri, assieme agli esempi santi lasciati in eredita'. Il caro ricordo servirebbe di stimolo continuo a generosi propositi pei giovani che si preparano all'apostolato. Affretto il desiderio, l'istante di veder appagato questo mio voto" (Ivi, 30.04.19).
Il voto fu realizzato solo dopo la morte del Fondatore.
Nel 1933 padre Faustino Tissot, tornando dalla Cina, porto' alla casa Madre i resti del venerato Caio Rastelli.
Nel 1942, quando la salma del Beato Conforti, fu trasportata dalla Cattedrale alla Casa Madre, le ossa del padre Rastelli furono murate dietro il sarcofago del Fondatore. Ora riposano accanto al Padre, sotto il Crocefisso che "parlo'" al Beato Guido Conforti nella sua innocente fanciullezza.

AUGUSTO LUCA




GIOVANNI DIDONE'
Cittadella (Pd) 18.3.1930 - Fizi (Congo) 28.11.1964




LA VOCAZIONE PIU' BELLA E GRANDE

"Ognuno di noi sia intimamente persuaso che la vocazione alla quale siamo stati chiamati, non potrebbe essere piu' nobile e grande, come quella che ci avvicina a Cristo autore e consumatore della nostra fede ed agli Apostoli che, abbandonando ogni cosa, si diedero intieramente senza alcuna riserva alla sequela di Lui, e che noi dobbiamo considerare come i nostri migliori maestri. Il Signore non poteva essere piu' buono con noi. La vita apostolica infatti, congiunta alla professione dei voti religiosi, costituisce per se' quanto di piu' perfetto secondo il Vangelo, si possa concepire". Questo brano della Lettera Testamento del fondatore dei Saveriani, Guido Maria Conforti (1865-1931), e' la sintesi mirabile della piu' eccellente delle vocazioni: quella missionaria.
Per rispondere appieno a questa vocazione - fortemente connotata d'amore verso il Salvatore e verso il prossimo bisognoso di salvezza - ha dato la vita Giovanni Didone', uno dei piu' illustri figli spirituali di Conforti. Nelle pagine che seguono tracceremo il profilo biografico di questo generoso religioso, ucciso da un insignificante ribelle, il 28 novembre 1964 nella missione di Fizi (Repubblica Democratica del Congo), con un altro religioso, l'abbe' Atanasio Joubert.
Giovanni Didone', quarto di undici figli, nasce il 18 marzo 1930 a Cusinati di Rosa' (Vicenza). Nel 1941 la famiglia si e' trasferita a Ca' Onorai di Cittadella (Padova). Con il latte materno sugge i valori - profondamente cristiani - di quelle famiglie patriarcali che con il lavoro hanno reso fertile la campagna veneta.
In quell'ambiente di fede tanto semplice quanto robusta sono germogliate migliaia di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa.
Nella famiglia Didone', quattro figlie su cinque si faranno suore e tre figli su sei entreranno in un istituto religioso. Tecla diventera' figlia spirituale di san Camillo; Annamaria, figlia spirituale di san Giuseppe, Palma, vestira' l'abito delle Dorotee di Vicenza e Amabile, quello delle Missionarie di Maria. Tra i figli Didone', oltre a Giovanni, si fara' saveriano Camillo, mentre Severino sceglie di farsi religioso nell'Opera di Don Orione.
Le testimonianze di alcuni famigliari hanno consentito di ricostruire la fanciullezza e l'adolescenza di padre Giovanni.
In particolare, grazie ad esse, e' stato possibile avere un'immagine, molto attendibile, dei primi anni di vita trascorsi dal religioso nella vecchia casa di Ca' Onorai. Le sue giornate, in quella fattoria della campagna veneta, erano scandite da momenti ben definiti: al mattino, a scuola come tutti gli altri ragazzi; nel pomeriggio, dopo i compiti, quattro salti in cortile assieme ai fratelli, alle sorelle e a qualche compagno.
In casa Didone' si viveva con semplicita' e con parsimonia, anche se il necessario non e' mai mancato.
Una vita patriarcale dove c'erano grande considerazione per i genitori e affetto tra i fratelli.
Papa' Angelo e mamma Maria sapevano farsi rispettare e non avevano bisogno di alzare la voce per ottenere obbedienza.

VIVERE E' BELLO

Avevano un grande ascendente sui figli, soprattutto in forza del loro esempio, sia per quanto riguardava i doveri religiosi, sia per quelli familiari. In casa Didone' si pregava con fede, anche se il lavoro febbrile, specialmente in certi periodi dell'anno, non lasciava un attimo di respiro.
Era proprio in quei frangenti che si pregava con maggior devozione Dio, perche' benedicesse le campagne e proteggesse i raccolti. La domenica, poi, tutti andavano a Messa, in orari diversi.
Mamma Maria andava sempre alla prima Messa per essere a disposizione del marito e dei figli, che si alzavano piu' tardi. Durante la settimana, mentre i ragazzi erano a scuola, il papa' lavorava nei campi. In qualche occasione egli chiamava ad aiutarlo anche i figli che, crescendo, erano in grado di maneggiare gli arnesi di lavoro. La famiglia era numerosa e per sostenerla occorreva grande senso di responsabilita'. A quell'epoca non c'erano tutte quelle preziose macchine che oggi rendono meno faticoso il lavoro agricolo: mietitrebbia, falciatrice automatica, seminatrice, ecc.
Allora, con il solo aiuto delle mani, si falciava, si seminava e si mieteva. Quante volte al mattino papa' Angelo era gia' nel campo quando i piccoli si alzavano e quante volte, alla sera, quando rientrava dal campo, li trovava gia' a letto addormentati. In quella casa si viveva sul serio il motto di san Benedetto ora et labora. Sul binomio "prega e lavora" si fondavano la pace e la serenita' della famiglia Didone'. I genitori erano persone di grande buon senso.
Non avevano alle spalle studi teologici, ma vivevano da buoni e ferventi cristiani. Erano favorevoli all'istruzione catechistica dei propri figli. Consideravano la conoscenza e la pratica della religione cattolica un elemento utile per la buona riuscita nella vita. La loro visione del mondo puo' sembrare anacronistica alle tante coppie di giovani genitori che, per i propri figli, esigono oggi, non un approfondimento della fede cattolica, ma al piu' uno studio comparato delle diverse religioni. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, e' che abbiamo una percentuale altissima di ragazzi italiani in "crisi d'identita'" che, tradotto in parole semplici, significa giovani spostati incapaci di dare un senso alla propria esistenza e, in non pochi casi, disposti persino ad autodistruggerla. Esattamente l'opposto di Giovanni, una persona entusiasta della vita e, ancor piu', della sua scelta di seguire Cristo. Vivere e' bello, vivere dietro a Cristo ancora piu' bello! Non c'e' lettera o biglietto a fratelli, sorelle, genitori e amici nei quali egli non parli, con trasporto, della sua vocazione. Suor Tecla, sorella maggiore di padre Giovanni, ha lasciato un ampio scritto con numerosi particolari che tracciano molto bene la figura del fratello. "Era assiduo al catechismo e vi prestava molta attenzione", si legge nella testimonianza della religiosa, "perche' quando tornava a casa ripeteva per bene la lezione imparata e raccontava volentieri soprattutto i fatti del Vangelo e della Bibbia. Leggeva spesso il Nuovo Testamento che portava quasi sempre con se'. A undici anni si consacro' alla Madonna. Questa sua devozione a Maria crebbe di giorno in giorno, fino a quando, a 22 anni, nella notte del Natale 1952, si lego' a lei nello spirito del santo Grignon de Monfort". Suor Tecla aggiunge poi la descrizione di un episodio singolare che merita d'essere citato. "Un giorno, dopo pranzo, mentre i nostri cari erano a riposare", racconta la religiosa, "noi due ci intrattenevamo parlando delle nostre piccole cose quotidiane. Ad un certo punto il discorso cadde sul tema delle missioni... della necessita' dei missionari... della bellezza di dare la vita per la salvezza dei nostri fratelli lontani. In quel momento Giovanni, tutto rosso in viso, come se fosse stato sopra pensiero, molto serio, mi disse: "Preghiamo, preghiamo molto e facciamo qualche fioretto". Questo fatto avvenne nell'estate del 1941, durante la guerra. Poco tempo dopo Giovanni svelo' ai nostri genitori il proposito di farsi sacerdote missionario".

HO DECISO: MI FACCIO MISSIONARIO

Il papa' di Giovanni non aveva preclusioni sulla scelta del figlio di farsi prete, purche' si facesse secolare, cioe' un sacerdote impegnato in una parrocchia della diocesi.
L'idea di un figlio missionario, invece, gli creava forti apprensioni. Fu per questa ragione che Giovanni entro' nel seminario di Padova; la famiglia risiedeva in un paese della diocesi patavina. Il futuro missionario dovra' attendere l'eta' di 20 anni per ottenere l'assenso, sofferto, del papa' sulla sua scelta. L'episodio e' stato ricostruito cosi' dal fratello Severino, all'epoca studente di seconda media nel seminario minore, mentre Giovanni frequentava il ginnasio. "Un pomeriggio di luglio del 1950, durante una breve vacanza in famiglia, eravamo tutti a riposare", ricorda il fratello. "Giovanni ed io dormivamo nella stessa stanza. Verso le 15 Giovanni all'udire il rumore della porta della stanza del papa', balza dal letto e scende in fretta le scale. Fra i due c'e' uno scambio di poche parole e subito entrambi s'incamminano verso la nostra stanza.
Mentre entrano, faccio per uscire, ma Giovanni con un cenno della mano mi invita a restare e con voce tremante sussurra: "Stai qui, ti voglio presente". A queste parole mi ridesto improvvisamente dalla sonnolenza e mi siedo nell'angolo piu' remoto della stanza. Trascorrono alcuni momenti di profondo silenzio. Il papa', visto che mio fratello non si decide a parlare: "Non mi hai chiamato? Che cosa vuoi allora?", gli chiede con voce incerta.
"Vedi, papa'", incomincia con voce tremante Giovanni, "so di recarti un grande dispiacere, tuttavia ho deciso: devo farmi missionario. Anche se tu ti opponessi, non faresti che ritardare la mia decisione di qualche mese. Infatti, fra qualche mese compio 21 anni. Tuttavia, anche se ti costa, desidero avere il tuo consenso e la tua benedizione.
In questi anni ti ho assecondato, frequentando il seminario diocesano, ora non posso piu' aspettare". Dagli occhi del papa' scesero due lacrimoni grossi grossi; era la prima volta che vedevo il papa' piangere. Seguirono alcuni istanti di profondo silenzio, poi con la voce rotta dal pianto il papa' concluse: "Mi ero illuso di averti distolto da quella idea. Comunque segui pure la tua strada"; e usci'. Questo fatto mi sembra il punto chiave di tutta la vita di padre Giovanni. Si spiega cosi' il suo carattere docile, buono e, nello stesso tempo, indomito, coraggioso, spinto a grandi ideali".

MAI ABITUARSI AD ESSERE PRETE

La biografia di Giovanni Didone' ci dice che egli, dopo un anno d'intensa preparazione, emette la professione religiosa nella congregazione saveriana, il 12 ottobre 1951, in San Pietro in Vincoli, allora sede del Noviziato. Subito dopo, per iniziare gli studi liceali, si trasferisce con i compagni a Desio, grosso centro alle porte di Milano, nella maestosa villa Tittoni, adattata a sede del liceo. Agli inizi del 1958 ritroviamo Giovanni a Piacenza, nella casa saveriana di santa Chiara, sullo stradone Farnese. Li' i saveriani hanno trasferito, dal 1949, la sede degli studi di teologia, che in origine era presso la casa madre di Parma. Il 20 settembre dello stesso anno, presenti i genitori e i fratelli, Giovanni Didone' riceve il diaconato dalle mani di monsignor Battaglierin. Il 9 novembre e' ordinato prete. Qualche giorno dopo scrive alla sorella: "Cio' che provo al mattino salendo l'altare non te lo posso dire, non riesco a descriverlo. Prega perche' non mi abitui mai a celebrare la santa Messa, non mi abitui mai ad essere prete. Mai mi sono convinto, come in questi giorni, che solo per l'infinita bonta' e misericordia di Dio oggi sono quello che sono. E se sono quello che sono e' per Maria, a Lei ogni onore e gloria".

UN PO' MARINAIO, UN PO' ALPINISTA

Padre Didone' parte per la missione il 3 dicembre 1959, festa di san Francesco Saverio, patrono dell'Istituto Saveriano. Una coincidenza - letta con la conoscenza dei fatti che abbiamo noi oggi - carica di significati per quella che sara' la sua opera apostolica.
Per avere un'idea della vastita' del luogo in cui il giovane missionario e' chiamato a vivere il suo ministero occorre sapere che, dopo avere percorso - in circa un mese - 400 chilometri gliene restavano altri 1.200 per completare il "giro" della parrocchia. Padre Didone', in cinque anni d'attivita' all'interno della diocesi di Uvira (provincia congolese del Kivu) verra' assegnato a diverse missioni: Uvira, Baraka, Fizi, Kiliba. Si tratta di luoghi non distanti dal confine con il Burundi e sulla sponda occidentale del lago Tanganika.
Il territorio della diocesi comprendeva zone pianeggianti, montuose (alcune vette raggiungono i 3.000 metri d'altezza) e rivierasche, quelle, appunto, affacciate sul Tanganika. L'area di Baraka - una delle prime affidate a padre Didone', ad un altro saveriano e a due Padri Bianchi, d'origini francesi -, e' una specie di quadrato dove i lati (di circa 100 chilometri ciascuno) corrono, tre lungo la terra e il quarto, lungo la costa occidentale del Tanganika.
Per raggiungere i villaggi della missione occorre essere un po' marinaio, per navigare lungo il lago, e un po' alpinista, per inerpicarsi su sentieri aspri fino a 2.500 metri di quota. Annota in una lettera padre Giovanni: "Cio' che mi parla dell'Africa e' soprattutto la vastita', l'immensita' di questi luoghi. La lingua non si presenta difficile.
Ha qualche parola veneta. Per esempio: "mayai", che non significa maiali, ma uova, si pronuncia come si legge.
Chi parla il veneto non fa fatica a pronunciare questi vocaboli; la loro comprensione verra' con il tempo. A parte i "mayai" resta la preoccupazione di apprendere bene la lingua locale - il Kishwahili - senza la quale si e' come morti e non si puo' comunicare agli altri cio' che si e' ricevuto. Spero, tra qualche mese, di essere in grado di pronunciare i primi discorsi e, soprattutto, di poter cominciare a confessare. La flora e' lussureggiante: fiori moltissimi e di colori vivacissimi. Impera la banana.
Ho visto che coltivano anche mais, la manioca, i fagioli e perfino la zucca. Vi e' la coltivazione del caffe', del cotone e della canna da zucchero. Sembra che i neri di qui siano ricchi, in confronto ad altri, ma gli europei fanno sempre la parte del leone".
Nelle zone pianeggianti del Kivu il clima e' favorevole agli europei: il termometro, di giorno, non sale oltre i 28 gradi all'ombra e, di notte, si mantiene attorno ai 25-26 gradi. Per quanto riguarda il cibo, almeno fino alla vigilia della rivoluzione del 1964, i missionari non avranno quasi mai problemi: tutti i giorni potranno contare su carne e pesce di buona qualita'. Sulla loro mensa appariranno anche fagiolini, insalata, porri, cipolle rosse, sedano, finocchi e altre specie di legumi, grazie ad un italiano che aveva introdotto la coltivazione di ortaggi e residente in zona fino al 1960, anno dell'indipendenza dal Belgio.

BELLO, QUANDO NON PIOVE!

Nella missione di Baraka sono presenti, tra le altre etnie, i Banyarwanda, rwandesi rifugiati in Congo e insediati sulle montagne intorno ad Uvira. Allevatori di bestiame.
Fra loro vi sono persone di alta statura che colpiscono la fantasia degli europei. Ironicamente P. Giovanni parlera' di "scala" per poterli battezzare! Diversi gruppi vivono in villaggi a 2.500 metri d'altezza, sulle montagne che fiancheggiano il lago Tanganica. Padre Didone', periodicamente, si reca lassu' per evangelizzare. Da una delle sue lettere cogliamo uno spaccato della sua esperienza in mezzo ai "giganti". E' un testo, carico d'umanita', da cui traspare la pienezza di un'anima che vibra alla luce divina. "E' stato un mese di villeggiatura", scrive padre Giovanni. "Durante la giornata due maglie erano poche, durante la notte non bastavano tre coperte.
Per dieci notti ho dormito in un "trinomio", o meglio, nel mio "trinomio", costruito proprio per me. E' composto cosi': canne di bambu', liane e sterco di vacca. Se ti provi ad immaginare tale trinomio il risultato e' una splendida capanna rotonda di tre metri e mezzo di diametro. Come si stava? Benissimo! Con un piccolo accorgimento: non bisognava essere a letto quando pioveva. Perfortuna lassu' pioveva tutti i giorni dalle 13 alle 16 circa e allora il mio impermeabile proteggeva per bene il lettino dall'acqua grondante da tutti i fori del tetto. A venti metri dalla mia capanna iniziava la grande foresta vergine.
Si puo' bene immaginare che impressione facesse, specialmente sull'imbrunire, a chi non ha mai visto foreste del genere in vita sua. Con queste immagini mi mettevo a letto e per di piu' giungevano al mio orecchio dei suoni stranissimi, che sembravano, a me inesperto, urla di leoni, di tigri o di altre bestie feroci. Non facevo in tempo ad addormentarmi che subito sognavo leoni, tigri, animali di ogni sorta. Passai la prima notte, in quel villaggio di Banyarwanda, agitato e senza chiudere occhio. La mattina, dopo quell'indimenticabile prima notte, per tempo perlustrai la capanna e i suoi dintorni. Mi inoltrai un pochino nella foresta e vidi una mandria di mucche.
Di tigri e di leoni nemmeno l'ombra! Temo che dovro' tornare in Italia senza vederne nemmeno una. Le altre nove notti ho dormito veramente bene. In quell'occasione sono stati amministrati novanta battesimi di adulti.
Li ha amministrati il mio superiore che e' alto un metro e ottantacinque centimetri e quindi non fa molta fatica a "lavare" quelle teste. A me e' toccato battezzare una quarantina di bambini dai due ai sei anni, lavoro proporzionato alla mia statura, ma la prossima volta possedero' pure una scala!... Naturalmente contiamo degli apostati. L'etica della vita matrimoniale e' la piu' minacciata. Tendono ad una poligamia moderata, che e', pero', pur sempre, poligamia. V'e' tuttavia un numero considerevole di cristiani che si mantiene coerente e fervoroso e fa anche grandi sacrifici per vivere nella dignita' di figlio di Dio. E' posta in costoro la speranza della Chiesa".

CI SALVERA' LA BELLA SIGNORA

Dalle montagne alla pianura: quando il vescovo, monsignor Danilo Catarzi, decide di fondare una missione a Kiliba, localita' lungo la strada che collega Uvira a Usumbura, capitale del Burundi, padre Giovanni e' tra i primi religiosi ad esservi inviato. La missione di Kiliba era nata per assistere spiritualmente le migliaia di persone attratte nel luogo dall'apertura del grande zuccherificio Sucraf.
In pochissimo tempo, attorno allo stabilimento, era sorto un grande villaggio abitato dalle maestranze e dalle loro famiglie. Era una specie di alveare attorno al quale ronzavano migliaia di persone, che cercavano di sbarcare il lunario come potevano. Da qui la fondazione della missione con scuole e dispensario.
Ecco come spiega il suo nuovo incarico padre Giovanni: "Ho lasciato la missione di Baraka, che dista 110 chilometri, per venire qui a Kiliba, luogo meno poetico, ma dove c'e' un lavoro immenso da svolgere.
La missione e' stata aperta da un Padre Bianco e da un religioso Saveriano. Ora il Padre Bianco e' stato chiamato altrove ed io sono venuto a sostituirlo. In piu' c'e' con noi un altro padre Saveriano, venuto di recente dall'Italia. Abbiamo anche qui una zona montagnosa, ma non come a Baraka.
Gli abitanti sono oltre 35.000 e sono molto meno dispersi sul territorio rispetto a quelli di Baraka. Anche se si trova nel Congo, il centro di Kiliba e' molto legato ad Usumbura, perche' questa citta'non e' molto distante e perche' gli occidentali che lavorano come tecnici nello zuccherificio Sucraf, sono molto legati agli europei di Usumbura.
Purtroppo, pero', i prezzi sono saliti. Inoltre, tra i commercianti e i dipendenti occidentali dello Sucraf regna una certa apprensione.
Dopo l'indipendenza del Paese qui sono nati tre diversi governi, ognuno con la pretesa d'essere legittimo; ed e' difficile sapere come andra' a finire. Speriamo solo che il comunismo (d'importazione) non abbia il sopravvento, altrimenti se non ci taglieranno la testa prima, noi missionari saremo costretti a rientrare in Italia.
Ma la bella Signora, che e' la Regina del Congo, ci salvera' dal diavolo rosso.
Con il mio confratello, padre Viotti, mi trovo benissimo: e' pieno di santo zelo; e' un'anima di fuoco. Paragonandomi a lui posso solo vantarmi di dargli della polvere da mangiare quando andiamo in bicicletta.
Con noi v'e' pure un terzo confratello, padre Alvisi, che e' appena arrivato e non conosce ancora la lingua e non puo' quindi sostenerci appieno nell'attivita' apostolica. Il lavoro e' intenso, ma meraviglioso: catecumeni, confessioni, malati, Legio Mariae, ragazzi dell'associazione "Gioventu' saveriana" (Xaveri), oltre alle visite nei villaggi.
Mi sento molto bene e non avrei mai creduto di avere tanta energia e resistenza nei miei spostamenti e nella mia attivita'. Nel mese di ottobre, qui a Kiliba, abbiamo tenuto la "peregrinatio Mariae". Siamo arrivati alla fine molto stanchi, ma che belle consolazioni! Quanta gente intorno alla statua della Madonna! Cattolici e protestanti, animisti e musulmani. Anche qui la Mamma del cielo sa farsi amare. Quante confessioni e quante comunioni!
Ora stiamo preparando un centinaio e piu' di catecumeni al battesimo e molti ragazzi alla Cresima e alla prima Comunione".

DIAMANTI E MISERIA

La realta' in cui si e' calato padre Didone' e' molto complessa. Il Congo, come tutto il Continente nero, e' in ebollizione da decenni e segnato da secoli di sofferenza; di sicuro, da quando i primi colonizzatori europei hanno cominciato ad avere contatti con gli indigeni.
Quando il missionario saveriano approda nel tumultuoso Paese africano, il cristianesimo, almeno in alcuni territori, e' stato annunciato da quasi cinque secoli.
Infatti, nel 1483, quando i primi portoghesi comparvero in quella regione d'Africa si preoccuparono innanzi tutto di evangelizzare le popolazioni, cominciando dalla dinastia regnante che divenne cristiana nel 1491.
Sul finire del secolo XVI, quando la tratta degli schiavi diventa una vera e propria industria (e i portoghesi riforniscono quantita' sempre piu' crescenti di uomini per le piantagioni del Brasile), il regno del Congo si trasforma in un campo di selvaggia caccia nella quale si combattono ferocemente tutte le tribu'.
Nel 1660, dopo un inutile tentativo di cacciare i portoghesi, il regno del Congo e' praticamente distrutto come entita' politica e come aggregato sociale.
Le vicende del Paese e dell'Africa in genere, nei secoli successivi, in particolare a partire dalla seconda meta' del secolo XIX, si identificano sostanzialmente con quelle della colonizzazione europea.
Alla fine dell'Ottocento il Congo diventa un territorio coloniale per iniziativa personale del re dei Belgi Leopoldo II, che seppe valersi dell'opera di uno dei piu' grandi esploratori africani del tempo, Henry Stanley.
Al congresso di Berlino del 1884 Leopoldo II veniva riconosciuto sovrano dello Stato indipendente del Congo.
Nel 1908 il nuovo Paese diventa colonia belga.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, il Congo diventa il centro delle operazioni anglo-belghe che portano prima alla conquista del Camerun e poi alla difesa della Rhodesia. Dopo la prima guerra mondiale a questo dominio e' aggregato, sotto la forma di mandato, il doppio territorio di Rwanda e di Urundi, a Est della linea dei laghi, fra Kivu e Tanganika.
Durante la seconda guerra mondiale il territorio congolese, rimasto fedele al Belgio, fu l'unica base della sovranita' belga dopo l'occupazione tedesca, e alla vigilia del riconoscimento del gabinetto belga in esilio, fu oggetto di un accordo con l'Inghilterra (febbraio 1941) per la messa in comune dei ricchi giacimenti minerari.
Nel 1960 il Congo arrivera' a produrre il 75 per cento dei diamanti industriali del mondo, il 75 per cento del radio, il 60 per cento del cobalto, il 15 per cento dei diamanti per gioielleria, il 15 per cento dello stagno, l'8 per cento del rame, il 3 per cento dello zinco, il 2 per cento dell'oro. Malgradoquesta ricchezza - concentrata soprattutto nella regione del Katanga - l'80 per cento della popolazione (circa 11 milioni di persone), viveva in condizioni di estrema poverta'.
Per avere un parametro di riferimento, oggi la Repubblica Democratica del Congo conta circa 49 milioni di abitanti ed un reddito nazionale lordo, pro capite, di 130 dollari statunitensi, mentre l'Italia, con 57 milioni e mezzo di abitanti, ha un reddito pro capite lordo di 19.880 dollari. Il 1960 sara' anche l'anno dell'indipendenza del Congo, raggiunta due anni dopo la nascita della Comunita' franco-africana del 1958, la quale favori' le istanze indipendentiste del Paese.

INCIDENTE MISTERIOSO, MASSACRO PALESE

All'indipendenza, pero', il Congo giungeva del tutto impreparato, senza quadri politici, amministrativi, tecnici ed economici; il tessuto connettivo del Paese era dato solo dai legami tribali. A base tribale, infatti, erano i partiti politici, salvo il Movimento nazionale congolese (Mnc), capeggiato da Patrice Emery Lumumba. Pochi giorni dopo l'indipendenza ci fu una rivolta del raccogliticcio esercito congolese guidato da J-D. Mobutu. Cio' fu pretesto per un ritorno armato dei Belgi, i quali favorirono la secessione della ricca regione del Katanga, feudo della compagnia mineraria Union Minie're, per mantenerne ancora il controllo e sfruttarne le risorse. Poco dopo anche la provincia del Kasaiproclamava la secessione. Al tempo stesso il capo dello stato, Kasavubu, e il presidente del Consiglio, Lumumba venivano a conflitto aperto e il Paese precipitava nel disordine piu' completo. Fu quindi richiesto un intervento delle Nazioni Unite, le quali inviarono un contingente di forze armate, che si rivelo' comunque inadeguato a ristabilire la pace. Un accordo di fatto tra Kasavubu, Mobutu e M. Ciombe, leader del Katanga, porto' all'esautoramento del capo del governo, Lumumba, acceso sostenitore dell'indipendenza e dell'unita' del Congo.
Nel febbraio 1961 fu resa nota la morte di Lumumba, ucciso, a quanto risulta, da uomini di Ciombe. Nell'agosto dello stesso anno si giunse alla formazione di un governo guidato da C. Adula, sul quale le Nazioni Unite puntarono per ristabilire l'ordine nel Paese.
Il segretario generale dell'ONU, D. Hammarskjöld, si reco' personalmente nel Congo, ma il viaggio gli costo' la vita, perduta in un misterioso incidente aereo il 17 novembre del 1961.
E' dello stesso mese la tragedia di Kindu, provincia del Kivu, dove tredici aviatori italiani in missione per l'ONU furono massacrati dai ribelli congolesi. Dopo avere scaricato viveri e generi di sussistenza, l'intero equipaggio fu assalito e trucidato all'interno dell'aeroporto.
Un monumento, nell'area antistante l'aeroporto Leonardo da Vinci a Roma, ricorda l'episodio e gli sfortunati aviatori. Nonostante le barbare uccisionil'iniziativa dell'ONU non si arresto'. Anzi, fu intensificata l'azione diplomatica con il governo illegale di Ciombe, senza raggiungere pero' risultati apprezzabili.
Alla fine la situazione fu sbloccata dal corpo di spedizione internazionale (Onuc) che pose termine alla secessione del Katanga occupando, nel gennaio 1963, il capoluogo Elisabethville e l'intera provincia. I diciotto mesi che seguono sono cruciali per la crisi congolese. E' questo, infatti, il periodo in cui il nuovo primo ministro Adula, che uscira' di scena nel giugno 1964 all'atto del ritiro del contingente ONU, tenta di risolvere i problemi piu' urgenti: la pacificazione interna, la stabilita' del governo, il risanamento economico. Per rilanciare l'economia Adula apre trattative per ottenere prestiti e assistenza con la Nigeria, con la Comunita' economica europea e con vari Paesi occidentali. Nonostante i suoi sforzi il nuovo primo ministro non riesce ad impedire che l'opposizione di ispirazione lumumbista si trasformi in guerriglia endemica in vaste zone nordorientali del Paese.

KINDU, PRESAGIO DI ALTRE TRAGEDIE

L'attivita' apostolica di padre Giovanni Didone' si svolge in questo periodo e in questo contesto. Gli eventi di cui sara' protagonista vanno letti e interpretati sullo sfondo di questo scenario storico locale e internazionale.
Nel Congo in cui il padre saveriano si immerge con tanto entusiasmo (lo abbiamo in parte gia' visto), sono molto vistose le differenze culturali: quasi quattrocento tribu'.
La gran parte sono di ceppo Bantu'. L'organizzazione politica sembra rudimentale agli occhi dell'europeo, corrisponde pero' alla corretta convivenza sociale delle tribu'. Predomina l'organizzazione a clan, come pure - in alcune culture - la discendenza patrilineare, con eredita' al fratello minore, anziche' alfiglio del defunto. Molto evolute sono le societa' segrete, alcune delle quali dedite al culto dei morti. Diffuso e di grande valore per la vita del gruppo familiare e' il ricordo degli antenati, come coloro che hanno lasciato alle nuove generazioni la scienza del vivere e insieme, dall'oltretomba possono difendere dagli spiriti del male.
Gia', la credenza negli spiriti del male determina in tutti il senso di una grande paura che spiega la diffusione di pratiche magiche.
Anche per questo la religione cattolica fatica ad essere annunciata.
Malgrado le aree fertili raggiungano il 21 per cento dell'intero territorio, solo l'1 per cento di esso e' coltivato. L'agricoltura, primitiva, e' rivolta soprattutto a far fronte ai bisogni alimentari locali. I principali prodotti sono: sorgo, miglio, mais, manioca, patate dolci, banane, arachidi, sesamo, riso. Alla donna sono affidati tutti i lavori nei campi, salvo il dissodamento; l'allevamento per ragioni climatico-ambientali, e' limitato alla capra e al maiale.
Le mandrie di bovini si trovano, infatti, in poche zone di montagna. Tracce di vita vissuta del popolo congolese ci sono gia' state descritte da padre Giovanni. Il missionario saveriano, al di la' delle pur necessarie conoscenze antropologiche, sociologiche e storiche, opera in un contesto molto reale che e' quello di gente di basso livello di scolarizzazione anche se in una cultura ancestrale suggestiva e ricca di valori antropologici e sociali.
Se con le persone umili e' facile l'intesa, con i capi e i capetti, per di piu' poco istruiti, diventa complicata e, in qualche caso, persino pericolosa, la piu' banale comunicazione. Il Congo che conosce padre Didone' (la provincia del Kivu) non e' quellacartolina oleografica e rassicurante in cui campeggia la bonaria figura del missionario in veste bianca e casco coloniale, attorniato da un nugolo di festanti bambini dalla pelle lucida e nerissima con occhi dolci e penetranti. Il Congo di padre Didone' e' un Paese in cui covano risentimenti tribali e in cui la pelle bianca e' sinonimo di oppressione.
Uno dei tanti problemi che affronta il missionario saveriano e' quasi irrisolvibile: si tratta di far superare i desideri di vendetta tra clan indigeni e, nel contempo, far cadere i giudizi negativi dei congolesi nei confronti dei bianchi.
Il fatto e' che le vendette si fondano su ataviche rivalita' e l'astio verso i bianchi su reali ingiustizie subite nel passato. E non solo! Nonostante il contesto difficile padre Didone' non si perde d'animo. Non e' stato egli preparato per annunciare il Vangelo, proprio la' dove non e' mai arrivato? Allora, avanti a seminare la Parola di Dio, soprattutto con la testimonianza operosa.

UNA PASQUA D'ORO

Nella tarda primavera del 1962 padre Didone' e' a Fizi con un compito preciso: costruire una chiesa per la sua comunita'. Il vescovo monsignor Danilo Catarzi lo sostiene con affetto e con aiuti concreti. Quasi tutto il materiale per la chiesa - lamiere, stipiti per porte e finestre e persino varie suppellettili - viene da Uvira, la citta' dove risiede il vescovo. L'11 febbraio 1963 la chiesa e' consacrata.
E' un edificio (di 18 metri per 8), povero, ma decoroso, in grado di ospitare 500 persone. Padre Didone' non aveva voluto una struttura imponente dal momento che i fedeli della sua missione vivevano in modeste capanne di fango e paglia. Aveva desiderato, pero', mettere a disposizione della sua gente un luogo per il culto che non avesse nulla da invidiare a quelli dicui usufruivano i cristiani di altre missioni.
I riti della Settimana Santa del 1963 rappresentano per l'intraprendente missionario uno dei momenti piu' entusiasmanti del suo apostolato. In una lettera di quell'anno, datata 28 aprile e indirizzata ai famigliari, scrive: "Ho passato una Pasqua d'oro, meravigliosa. Non credo che ci sia stato un prete piu' stanco di me in quella notte santa di Risurrezione e credo pure che non ce ne sia stato uno piu' felice. Per tre settimane ho preparato una settantina di catecumeni al Battesimo, con due lezioni al giorno; nella notte del Sabato Santo ben ottantasei nuovi fedeli hanno ricevuto il Battesimo.
Che spettacolo vedere la nostra chiesetta, che ancora sa di calce fresca, illuminata a giorno con lampadine da 100 volt l'una! La chiesina era zeppa di gente. I battezzandi, disposti su dieci file, attendevano ansiosi il Battesimo. Era veramente bello e commovente vedere la loro fede. Foste stati presenti anche voi! Ho incominciato alle 10 di sera: benedizione del fuoco, del cero pasquale, canto dell'Exultet, litanie dei Santi, quindi benedizione dell'acqua battesimale e battesimi solenni. Si arriva giusto a mezzanotte. Benedizione di due matrimoni e canto della Messa di Risurrezione. All'una e mezza sembra tutto finito, ma non e' cosi'. I nuovi cristiani approfittano della luna piena per iniziare, nel grande piazzale della missione, tutta una festa di canti, di danze, accompagnate dal rullo di decine di tamburi. Il mattino di Pasqua la chiesa si riempie ancora due volte di cristiani. Il Lunedi' di Pasqua il vescovo, per la prima volta, arriva a Fizi in aereo, pilotato da fratel Pirani. Anche questo fatto entusiasma i nostri cristiani, che vedono il loro pastore arrivare sulla ali del vento...". Sono disarmanti, per non dire sconcertanti, il candore ela forza spirituale espressi in questa lettera di padre Didone'. Il missionario saveriano non ignora la situazione d'instabilita' politica e sociale in cui, comunque, e' costretto ad operare; cio'nonostante i suoi pensieri, incentrati sulla fede, sull'opera evangelizzatrice, seminano fiducia e mostrano speranza per il futuro. Padre Didone' e' compreso - e' divorato - dalla sua missione. Non e' uno sprovveduto o un temerario, e' un cristiano vero. Sempre da Fizi, scrive infatti alla sorella, suor Amabile: "Con la presenza di alcune religiose, qui le cose andrebbero meglio. Sembra comunque che tutto non vada poi cosi' storto. Politicamente tutto e' a terra, non c'e' niente che marci. Possiamo dire che non c'e' alcuna autorita' e nello stesso tempo possiamo dire che ce ne sono troppe. Tutti vogliono comandare. I soldati - ringraziamo il Signore - cominciano ad essere piu' disciplinati e stare al loro posto e questo ci rende piu' tranquilli e ci fa ben sperare. Da parte della popolazione c'e' chi ci vede di malocchio, ma costoro parlano male di noi quando sono ubriachi! Nei momenti di lucidita' certe cose non le dicono, anche per prudenza umana. La maggior parte della gente ci vuole bene, soprattutto perche' vede che vogliamo bene ai loro bambini. La cristianita' si sta riprendendo. Non tutti ancora vengono alla Messa o si accostano ai sacramenti, ma si nota una ripresa, con rabbia dei protestanti e di chi non ci vuol vedere".

MISSIONE, TESTIMONIANZA E MARTIRIO

Per capire il messaggio che la vicenda umana di padre Didone' ci ha lasciato (messaggio comune a tutti i martiri della fede) dobbiamo qui aprire una parentesi, relativamente ampia, sul significato di martirio. Il lettore non ce ne voglia, ma, se non si spendono due parole per approfondire questo argomento, diventa pressoche' impossibile comprendere perche' ancora oggi vi siano persone disposte (come Didone') a dare la vita per seguire Cristo. Facciamo questo excursus in compagnia del teologo Bruno Maggioni, da cui prendiamo alcune penetranti riflessioni. Tenendo costantemente il pensiero rivolto alla morte violenta di padre Didone'- sui particolari ci soffermeremo piu' avanti - ci riesce allora piu' facile capire perche' il martirio si inserisca con naturalezza nell'esistenza cristiana. Eccezionale puo' apparire la forma in cui il martirio avviene, ma non la sua sostanza insita in chi sceglie di seguire Gesu'. Certo non ogni vita cristiana si conclude, di fatto, con il martirio, ma ogni autentico seguace di Cristo ne contempla la possibilita'.
Il martirio e' una richiesta che Dio fa ad alcuni. La disponibilita' a testimoniare fino alle ultime conseguenze, pero', fa parte del bagaglio personale di ogni discepolo. Vivere la sequela di Cristo comporta, in ogni caso, il rinnegamento di se', l'accettazione della croce e il capovolgimento dei valori terreni: non l'ansia di conservarsi, ma la scelta di donarsi. "La beatitudine della persecuzione", ricorda Bruno Maggioni, "e' la sola ripetuta due volte, e gia' questo ne dice l'importanza (Mt 5,10-12)". La stessa parola testimonianza, del resto, implica una direzione missionaria: la testimonianza avviene sempre non soltanto davanti a qualcuno, ma in direzione di qualcuno. Ai suoi discepoli missionari, Gesu' dice: "In testimonianza verso di loro e verso i pagani".
Il terreno privilegiato della testimonianza e del martirio e' la missione, il proiettarsi della Chiesa all'esterno. Proprio cio' che ha fatto padre Giovanni Didone'. I missionari, da sempre, sanno di essere la fanteria della Chiesa.
Anzi, il loro ruolo e' quello che negli esercitisvolgono gli esploratori, ai quali - sempre in testa a qualsiasi reparto -spetta di saggiare la consistenza del piombo nemico.
Ecco perche' il "corpo" dei missionari conta cosi' tanti caduti e cosi' tante medaglie d'oro (leggi "santi", nella dimensione della fede). Padre Didone' (come gli altri religiosi morti durante le ricorrenti ondate rivoluzionarie in Congo e nelle altre regioni dell'Africa e del mondo) non era un esaltato, un passionario votato all'eroismo.
Era un prete cattolico che aveva risposto, con grande convinzione e determinazione, alla chiamata di Dio.
Gli studi teologici gli erano serviti per rafforzare, sul piano intellettuale, cio' che il cuore gli aveva gia' suggerito: seguire Dio, senza condizioni. A Parma nessuno gli aveva nascosto le difficolta' dell'apostolato cui si sarebbe dedicato.
I superiori, nelle lezioni di storia della Chiesa e in quelle, piu' circostanziate, sulle origini dell'Istituto cui apparteneva, gli avevano raccontato dei tanti preti e missionari uccisi per annunciare il Verbo.Padre Didone' era consapevole del legame che esiste tra la missione e il martirio. "Quest'ultimo e' il segno dell'efficacia della missione, non semplicemente della sua verita', ne' soltanto della santita' del missionario", le parole sono ancora di Bruno Maggioni che prosegue: "E' perche' "non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui egli parlava", che decisero di lapidare il diacono Stefano (At 6,10).
Ed e' perche' compiva "molti segni" che Caifa prese la decisione di condannare Gesu' (Gv 11,47). Cio' che spinge allo scontro decisivo non e', dunque, una missione fallita, ma riuscita; non la sua debolezza, ma la sua forza; non parole prive di verita' e di convincimento, ma parole convincenti. Il martirio e' il destino della verita', non della menzogna; della mitezza, non della violenza".
Gli altri aspetti di padre Didone', che si colgono dai suoi scritti gia' citati, sono la pacatezza che egli mostra nel giudicare gli eventi e la serenita' interiore che guida le sue scelte.
Le categorie della psicanalisi e della psicologia, probabilmente, definirebbero padre Didone' "un soggetto realizzato e ben integrato". Piu' semplicemente noi crediamo che, dentro la dimensione della fede cristiana, egli e' un uomo colmo di Spirito Santo. A questa conclusione ci porta lo stesso missionario il quale, pochi mesi prima della morte, scrive testualmente: "Speravo avere vostre notizie (il testo e' indirizzato ai famigliari), ma niente. Si vede che qualcuno si e' messo le vostre lettere in tasca e non le trova piu'. Pazienza! Riguardo a quello che dicono i giornali e la radio su Uvira, in questi giorni, e' molto esagerato. Anche qui ci sono delle manifestazioni,ma finora a Fizi, c'e' calma e speriamo duri a lungo... Vi abbraccio tutti e accompagnatemi con la preghiera". Padre Didone' tranquillizza tutti, infonde fiducia, ma in cuor suo sa che la situazione, proprio per i missionari, non e' affatto serena, anzi e' inquietante.
Dove trova allora tanto coraggio? Nello Spirito Santo che si assume il compito di preservare il discepolo dallo scandalo nel momento in cui la sua fede e' pericolosamente messa alla prova.
Lo Spirito - spiega la teologia - crea nell'animo del discepolo perseguitato l'intima sicurezza che il Crocifisso e' il vincitore. Non necessariamente lo sottrae al turbamento e alla paura, ma gli dona una serenita' che rimane salda anche nel turbamento. Per tutto questo si comprende che il martirio e' un dono dello Spirito, quello stesso Spirito di cui era colmo il missionario saveriano.
La Chiesa annuncia la morte del Signore con la verita' e la concretezza delle sue opere. La Chiesa, pero', deve anche essere visibile; e il martirio e' la memoria piu' visibile del Crocifisso, la forma piu' vicina possibile dell'evento storico di Gesu'. E' alla luce di questi pensieri che possiamo ora comprendere gli atti finali compiuti da padre Didone' davanti ai suoi assassini. La ricostruzione delle ultime ore di vita del missionario saveriano si deve a padre Palmiro Cima che, tornato nei luoghi dell'eccidio nel gennaio 1966, pote' raccogliere informazioni da testimoni oculari.

FEDELTA' FINO ALLA MORTE

Il 28 novembre 1964 un capo periferico della guerriglia, tal Abedi' Masanga, autoproclamatosi colonnello, uccide nella missione di Baraka padre Luigi Carrara e fratel Vittorio Faccin. Lo stesso giorno il sanguinario rivoluzionario risale a Fizi. Percorre 29 chilometri di strada sinuosa e tormentata, lungo la quale egli ha il tempo di rinfocolare nell'animo l'odio contro i padri della missione di Fizi. Si dirige dapprima alla casa che serve da quartier generale al generale Shabani, comandante in capo di tutte le forze dell'Armata popolare di liberazione dell'Est. Masanga informa il generale sull'eccidio che ha compiuto a Baraka e gli manifesta l'intenzione di completare l'opera con l'uccisione anche dei religiosi che risiedono a Fizi. Shabani si mostra contrariato per l'assassinio dei padri di Baraka e mette in guardia Masanga dal ripetere un simile gesto a Fizi. Qualcuno ha raccolto le battute dell'acceso diverbio tra i capi dei ribelli. "Se uccidi i padri che vantaggio ne ricavi?", chiede il generale a Masanga.
E questi, di rimando: "Ormai che sono morti quelli di Baraka, perche' devono restare vivi quelli di Fizi?". E' la logica della violenza che regge un rozzo capetto della rivoluzione. La decisione, comunque, e' presa. Sono circa le sei del pomeriggio quando la jeep di Masanga con il sedile anteriore intriso del sangue di fratel Faccin, si arresta davanti alla grande statua dell'Immacolata che domina l'entrata della missione di Fizi, a pochi passi dalla chiesa. Masanga scende dalla vettura e chiama ad alta voce padre Didone'. Il missionario non haneppure il tempo di uscire che un proiettile lo colpisce in fronte. Cade senza un lamento. L'abbe' Atanasio Joubert, che seguiva padre Didone', ha appena il tempo di afferrare la tragicita' dell'evento. Dopo un attimo d'incertezza si lancia verso una scarpata a pochi passi dalla casa dei religiosi.
Troppo tardi: un proiettile lo raggiunge al cuore. Si accascia morente fra l'erba di un folto cespuglio. Masanga, accertata la morte dei due religiosi, riguadagna la strada da cui era arrivato. Perche' tanta ferocia contro uomini inermi?
Per non perdere il controllo dei seguaci da parte di un capetto della rivoluzione tanto rozzo quanto sprovveduto.
Tre giorni prima, infatti, nel corso di una fallita imboscata a forze regolari spalleggiate da mercenari di grande esperienza militare, il gruppo di Masanga aveva perso settecento Simba su mille. Simba, i leoni, cosi' si era autodefinito quel gruppo di ribelli. Dovendo giustificare il clamoroso insuccesso, il capetto rivoluzionario non aveva saputo trovare miglior giustificazione che accusare di spionaggio (attraverso la famosa quanto inesistente "foni'", la ricetrasmittente) i missionari saveriani. E' una storia vecchia quanto l'umanita': uccidendo il capro espiatorio si placano gli animi e ogni cosa torna al suo posto. Ma c'e' una risposta piu' vera, piu' profonda: oltre la materialita' storica della cronaca scopriamo un atto di fede e di fedelta', la fedelta' di un missionario alla sua vocazione, la fedelta' di un consacrato a Dio per la missione al suo Signore, la fedelta' di un presbitero alla sua gente. Padre Giovanni Didone' muore dunque, nel turbine di una guerriglia, quale vittima innocente dell'odio razziale disseminato contro i bianchi da una propaganda estremista. Il suo sangue, pero', non e' sparso invano.
E' grazie al suo sacrificio e a quello di numerosi altri missionari se oggi, infatti, il cristianesimo - attraverso il cosiddetto processo d'inculturazione - e' vivo in tanti Paesi dell'Africa.
Alcuni mesi dopo la morte del p. Giovanni, il suo confratello, ora defunto, p. Victor Ghirardi, trovo' questo suo significativo autografo indirizzato ad un catechista:
Ecco alcuni stralci, tradotti dal kishwahili:
Fizi 9/11/64
Caro Maestro Raphael, Ti saluto.
Grazie per la tua lettera e per il lavoro che svolgi. Ora a Roma, con il Concilio, hanno dato il permesso ai vescovi delle missioni di mettere a fianco a Padri i Diaconi, cioe': il Vescovo puo' scegliere catechisti che hanno dato prova di vita onesta, di fedelta' e di zelo, e di dar loro il grande permesso di battezzare come i Padri e di distribuire la comunione ai cristiani. Questi diaconi possono essere anche sposati, e il loro potere e' un po' inferiore a quello dei Padri. Abbiate ancora un po' di pazienza e tra un po' avrete un Diacono e se saro' ancora nelle difficolta' come ai tempi dell'Indipendenza, e come lo sono pure adesso, non avrete piu' ragione di preoccuparvi. Pregate Dio e la Vergine Maria, nostra madre, affinche' abbiamo un po' di pace, e che ci vada tutto bene. Ti scrivo queste cose per darti un po' di speranza per i tempi che stanno per venire.
...
Noi Padri siamo qui a Fizi, molto lontani dai nostri paesi, pero' Dio e' dappertutto e ci vede. Restiamo forti! Non pensiate che i Padri ritornino a casa loro, sappiate che essi piuttosto di abbandonarvi preferiscono morire. Non date retta alle menzogne. Noi siamo stati inviati per restare qui nella missione di Fizi. Non sono ancora venuto da voi perche' non posso, e voi lo sapete bene, pero' mi vedrete, non so quando, ma mi vedrete.

ALBERTO COMUZZI




LUIGI CARRARA
Cornale (Bg) 3.3.1933 - Baraka Kivu (Congo) 28.11.1964




OL RUSI'

"Padre Luigi Carrara missionario saveriano martire della fede nel Congo (Cornale - Bergamo, Italia 3.3.1933 - Baraka - Kivu, Congo 28.11.1964)". Questi sintetici dati biografici racchiudono l'esistenza, breve, ma intensa, di un testimone autentico del Vangelo. Sono scolpiti sulla colonna che regge un busto in bronzo a lui dedicato.
E' un monumento, discreto nelle dimensioni e appartato: e' ubicato di fianco alla chiesa parrocchiale. Lo hanno voluto cosi' ed eretto proprio li', in quel luogo, i concittadini di padre Carrara per testimoniargli stima e affetto imperituri.
In paese c'e' ancora chi lo ricorda con il nomignolo affettuoso 'ol Rusi'', che gli era stato affibbiato per il colore rossiccio dei capelli. "Ricordo che gli piaceva molto giocare al pallone ed era bravo come suo fratello Marco", ha detto in un'intervista Alberto Carrobbio, compagno di giochi del religioso.

La Bergamasca e' terra di forti passioni calcistiche. Cornale di Pradalunga dista una manciata di chilometri daBergamo (citta' della gloriosa Atalanta) e ancor meno da Alzano Lombardo, un centro di dodicimila abitanti che ha espresso una squadra arrivata nella seconda divisione calcistica. Nulla di strano, quindi, che 'ol Rusi'', (per i suoi capelli color rame) come tanti ragazzi bergamaschi, si divertisse con una palla tra i piedi. La Bergamasca, pero', e' soprattutto generosa terra di credenti e fertilissimo luogo di vocazioni sacerdotali. In rapporto alla popolazione la Chiesa di Bergamo ha la piu' alta percentuale di seminaristi in Italia.
La diocesi ha alla sua origine un laico, Alessandro, soldato della Legione Tebea, il quale, accettando la morte (avvenuta tra il 303-305) pur di non abiurare la propria fede, e' stato davvero seme fecondo di cristianesimo. La Chiesa di sant'Alessandro vanta inoltre un altro primato difficilmente eguagliabile: centocinquanta santuari mariani. La devozione alla Madonna sembra appartenere al patrimonio genetico dei bergamaschi.

Il giovane Luigi e' cresciuto in una famiglia nella quale "e' stata sempre una bella consuetudine raccoglierci la sera in cucina per la recita del Santo Rosario" (le parole sono del fratello Mario). Quando diventera' prete, padre Luigi affidera' il suo sacerdozio alla Madonna, alla quale aveva gia' consacrato la sua vita di missionario. Fara' anche un pellegrinaggio alla Madonna di Fontanellato, santuario poco lontano da Parma, dove i Saveriani sono soliti affidare alla Madre di Gesu' la propria vita apostolica.
A Fontanellato lo stesso fondatore della Famiglia missionaria, il beato Guido Maria Conforti (1865-1931), offri' il suo ministero a Maria e li' ottenne una grazia particolare riguardante la sua salute.

Per capire chi e' stato e che cosa ha fatto padre Luigi Carrara dobbiamo immergerci - seppur brevemente - nell'Italia degli anni Trenta.
Dobbiamo cioe' rifarci a quello spaccato di societa' rurale che popolava la bassa Valle Seriana ai piedi delle Orobie Orientali.

QUEL FATIDICO 1933

Luigi (detto piu' sbrigativamente Gino) Carrara nasce venerdi mattina 3 marzo 1933. Tre giorni piu' tardi e' battezzato dal parroco, don Luigi Minelli, nella chiesa parrocchiale. E' il settimo di dieci figli, tre dei quali morti a pochi mesi dalla nascita, come sovente capitava a quell'epoca. La mamma Elisabetta aveva l'onere della casa, il papa' Giuseppe si guadagnava il pane sudando nei campi, alcuni situati in pianura, la maggior parte sugli aspri pendii delle montagne circostanti. In epoca di alta tecnologia (e di consumismo) ci e' difficile immaginare quanto faticosa fosse la vita in quel periodo.
In Italia, nel 1933, sull'onda della crisi mondiale del 1929, i disoccupati erano oltre un milione. Moltissimi operai lavoravano solo 30 ore alla settimana. Fallivano industrie, banche, aziende commerciali, rovinando milioni di risparmiatori e di lavoratori. I poteri pubblici cercarono d'intervenire; gli Stati si fecero anche imprenditori, mentre in vari luoghi si registrarono casi di fame collettiva ed esplosioni di furore. Anno gravido di avvenimenti e di funesti presagi quel 1933 in cui Luigi venne alla luce.
Due giorni dopo la sua nascita, il 5 marzo, si svolgono le elezioni in Germania e i nazisti ottengono il 44 per cento dei voti, aiutati anche dalla cupa depressione in cui versa il Paese. Il 27 dello stesso mese diviene effettivo il ritiro del Giappone dalla Societa' delle Nazioni. Qualche tempo dopo Albert Einstein e' tra i primi ebrei ad emigrare negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali inaugurate dai nazisti. Il 1933 e' pero' anche anno di Giubileo straordinario, dopo quello del 1929. Si tratta di date che, al di la' delle celebrazioni, ricordano momenti cruciali della storia, legati a vicende epocali, nella loro tragicita'. Si era infatti in una fase molto delicata: la Chiesa doveva districarsi tra mille difficolta', facendo i conti con formidabili apparati di potere sostenuti da ideologie (nazifascismo e comunismo) in dirompente ascesa. Pio XI, in particolare, cercava la via della mediazione nei confronti della novita' che piu' da vicino investiva il papato e cioe' il fascismo, rispetto al quale si trovava nella delicata condizione di ospite. E' in questo clima che l'innocente Luigi muove i primi passi. A diciotto mesi il piccolo e' colpito da una polmonite. Ricorda la mamma: "Sembrava che volesse partire anche lui per il Paradiso. Allora salii in camera a prendere il vestito bianco del suo battesimo, mentre alcune amiche vegliavano su di lui e pregavano ad alta voce. Anch'io pregavo il Buon Dio nel mio cuore e gli dicevo che, se me lo avesse salvato, l'avrei donato a Lui". Il Signore - oggi lo sappiamo - ha accettato l'offerta di quella mamma.

UN VISPO ANGELO CUSTODE

Luigi ha un'infanzia serena. Come un comunissimo bambino, gioca e cresce con i coetanei. Nelle stagioni calde corre sui prati erbosi che circondano il paese; nei lunghi e freddi inverni s'ingegna a confezionare rudimentali slitte e sci con i quali si lancia lungo innevati ripidi pendii. Stando ai ricordi materni pare che, in quegli anni, l'Angelo Custode di Luigi avesse fatto parecchi straordinari, visto che, a differenza di altri suoi compagni, rientro' a casa sempre con ossa e muscoli sani. All'eta' di quattordici anni Luigi e' pronto per entrare nel mondo del lavoro. I bergamaschi prediligono le attivita' industriali. Non a caso sono tra i migliori operai e tecnici in campo edile. Cosi' i genitori di Luigi si rivolgono ad amici, residenti nella zona, perche' prendano con se' il figliolo al quale insegnare un mestiere. In quegli anni, senza l'apprendistato in una bottega d'artigiano, in una fabbrica, in un ufficio, o in un negozio non si entrava nel mondo del lavoro. Quando un'occupazione per Luigi sembrava ormai trovata, capita in casa Carrara il curato, don Ercole Ferri. "Guardate che vostro figlio vuol farsi missionario", confida senza giri di parole il sacerdote. I genitori, piu' increduli che perplessi, vanno a chiedere consiglio al parroco, don Davide Brugnetti. La notizia li aveva colti di sorpresa perche' Luigi non aveva mai manifestato un simile desiderio. Ricorda ancora la mamma: "Luigi non ci aveva mai accennato nulla, non aveva mai dato segni di tale intenzione. Non c'erano in lui dei segni di una pieta' particolare, all'infuori di quella devozione comune a tanti bravi ragazzi della sua eta'".
In sintonia con don Brugnetti i genitori stabiliscono di suggerire a Luigi di farsi pure prete, ma diocesano. In altri termini lo invitano ad entrare nel Seminario di Bergamo. La risposta di Luigi e' determinata e non lascia margini di trattativa: se fosse anche costretto ad ubbidire, appena possibile, lui lascera' il seminario diocesano e si fara' missionario. Che fare?
Si chiedono papa' e mamma Carrara. Non senza qualche apprensione decidono di assecondare la richiesta di Luigi. Vengono riposti qualche indumento e un po' di cancelleria in una piccola valigia che e' consegnata nelle mani del risoluto figlio. Luigi e' accompagnato a Pedrengo, dove i Saveriani hanno un Istituto proprio per i ragazzi desiderosi di diventare missionari. Quei ragazzotti, futuri missionari, che cantano 'laggiu' del martirio la palme gloriosa noi sospiriam', nella zona sono conosciuti come gli 'apostolini'. Attualmente l'Istituto e' stato trasferito in una piu' ampia sede nel comune di Alzano Lombardo.
"Proprio li' a Pedrengo affidai il mio piccolo a padre Eugenio Morazzoni, un missionario che s'imponeva con la sua alta figura e la barba bianca", e' ancora la mamma Elisabetta che ricorda. "Naturalmente il distacco mi fu doloroso, e' inutile nasconderlo. Mi ricordo che dopo averlo baciato per l'ultima volta, uscita dal cancello, mi fermai a spiare tra le sbarre le mosse di Luigi, fino a quando, circondato da altri ragazzi entro' in casa. Ripresi la via del ritorno, pensando che in fondo avrei potuto rivederlo spesso perche' Pedrengo non era poi in capo al mondo. In effetti, or uno or l'altro della famiglia non mancava di andarlo a trovare. Adagio adagio, anche con l'aiuto delle mie figlie e del parroco, mi persuasi che, forse, Luigi aveva scelto la parte migliore e che io avrei dovuto aiutarlo in tutti i modi a vivere santamente la sua vocazione".

LA GLORIA DI DON DAVIDE

Quando Luigi giunge a Pedrengo, la scuola apostolica (cosi' e' chiamato dai saveriani il seminario minore per sottolineare l'addestramento all'apostolato fra i non cristiani) e' frequentata da un'ottantina di ragazzi.
E' l'autunno del 1947 e l'aspirante missionario ha poco meno di quindici anni. Il giovane fa un'ottima impressione ai superiori, "anche se faceva un po' d'ombra agli altri apostolini, per la sua altezza e robustezza", come testimoniera' qualche anno piu' tardi, padre Eugenio Morazzoni, rettore nella comunita' saveriana a Pedrengo. Luigi si adatta alla disciplina della casa e anche al ritmo dello studio, per lui particolarmente duro, agli inizi, avendo dovuto abbandonare i libri dopo le scuole elementari.
Sia per l'eta', superiore a quella di molti altri ragazzi, sia per le capacita' e' subito nominato sacrista e cerimoniere della comunita'.
Uffici che accoglie con diligenza e passione nonostante gli impongano di sacrificare buona parte del tempo libero. Luigi non e' di molte parole, appare piuttosto timido sia in comunita' sia a scuola. A tu per tu con il rettore si mostra invece spigliato: parla, fa domande, mostra grande interesse e volonta' d'apprendimento. Insomma e' davvero un ragazzo assennato. Quanto alla sua tensione verso la vita contemplativa e' confermata da varie testimonianze di compagni, familiari e insegnanti. Di lui ha detto padre Giulio Brugnetti, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere: " Ho avuto modo di vedere Luigi, da chierico e da sacerdote: era veramente edificante. Era la soddisfazione e la gloria di don Davide, il suo parroco. In chiesa sembrava assorto: in ginocchio, con le mani congiunte appena appoggiate al banco, diritto come un fusto nella sua statura longilinea. Qualche volta, e, solo dopo la Comunione, o da sacerdote, dopo la santa Messa, con i gomiti appoggiati al banco e la testa tra le mani. Sembrava che vedesse Gesu'. Io lo ammiravo e ne gioivo. Quante ore di adorazione nel pomeriggio dei suoi giorni di vacanza!". Sulla stessa linea d'onda sono le parole del rettore, padre Eugenio Morazzoni. "Era gia' abituato alla preghiera", ha sottolineato il missionario. "Spesso si ritirava in chiesa a pregare, a fare pulizia, a riordinare i vasi di fiori. Quello sembrava il suo luogo ideale". Luigi non amava le chiacchiere e il baccano. Mentre rifuggiva certe ricreazioni rumorose, partecipava quasi sempre alle partite di calcio, come arbitro. In questo ruolo mostrava autorevolezza, tanto che i compagni se lo contendevano. Era deciso e attento: studiava le norme del gioco, come studiava il libro sulla Liturgia che gli era stata affidata. Era ben voluto da tutti, anche perche' si prestava volentieri a piccoli servizi tanto frequenti nella vita degli istituti religiosi. Piu' volte fu notato in cucina a pulire la verdura o mentre aiutava i compagni a sbrigare qualche lavoretto loro affidato. Non perdeva tempo. Al termine della scuola media, pero', Luigi, ha un momento di perplessita': sarebbe stato capace di superare gli studi ginnasiali e liceali?
Il dubbio lo porta a confidarsi con padre Eugenio Morazzoni. Il discorso si svolge, piu' o meno, in questi termini. "Reverendo Padre, lei sa quanto sia deciso a donarmi alle missioni per tutta la vita", dice Luigi. "Temo, pero', di non riuscire nello studio del greco. Forse e' opportuno che non insista negli studi per diventare prete, ma mi limiti alla vocazione di fratello missionario". Padre Morazzoni, che vede in lui ottime qualita' spirituali, sufficienti capacita' intellettive e, soprattutto, buona volonta', lo rassicura sulle sue indiscusse qualita'. D'accordo con il Padre generale, il superiore di Pedrengo invia Luigi nella comunita' delle vocazioni adulte, che allora si trovava a Poggio San Marcello. Li', come scrivera' piu' tardi padre Morazzoni, "lo rividi piu' volte, come pure lo rividi in Liceo, a Desio, e sempre lo trovai sereno e contento". Come tra gli apostolini di Pedrengo, prima, e nella comunita' delle vocazioni adulte, poi, Luigi si fa notare nello Studentato teologico di Parma per la sua serenita' e mitezza, oltre che per l'intenso spirito di pieta'. "Si era offerto spontaneamente per la cura della chiesa interna dell'Istituto", le parole sono di padre Martino Cavalca, superiore dello Studentato, "e metteva tanta diligenza e amore perche' le suppellettili sacre fossero sempre in buon ordine. A questo compito particolare dedicava volentieri buona parte del suo tempo libero.
Piu' volte, passando per la chiesa, lo vedevo inginocchiato davanti all'altare del SS. Sacramento, con espressione di grande fede". Un episodio emblematico descrive bene Luigi negli anni degli studi superiori a Parma, dove gli era stato affidato il duplice incarico di prefetto e di caposagrestano. Lo racconta cosi' padre Giovanni Castelli, all'epoca Superiore generale dei Saveriani.

AFFIDATO ALLE MIGLIORI MANI

"Un giorno mi capita in camera e mi dice: "Padre Generale, chiesa nuova, candelabri nuovi, marmi e bronzi... tutto bello, ma abbiamo un leggio che fa pieta'". Lo presi subito in macchina con me e andammo difilato dal signor Orcesi in citta'. Entrati in negozio, gli dissi: "Ora scegliti il leggio piu' bello che trovi". Scelse quello che gli sembrava il piu' bello e prezioso. Era felice come una pasqua. Sembrava che gli avessi fatto un regalo personale!". A Luigi non e' stato fatto alcuno sconto: quattordici anni doveva durare la sua preparazione al sacerdozio e quattordici anni duro'. I giorni che precedono la data dell'ordinazione sono da lui vissuti con grande serenita'. "Mi trovo a Bassano del Grappa per gli Esercizi Ignaziani", scrive Luigi in una lettera ai famigliari, un mese prima di essere consacrato. "Questa mattina, dopo colazione, in pullman, siamo andati a Riese, paese natale di san Pio X. Questa sera riprenderemo gli Esercizi fino al 18 settembre. Io sto benissimo. Sono giorni molto belli, di tranquillita' e di pace. Non pensate che siano chissa' che cosa, perche' sbagliereste tutto; comunque continuate a pregare perche' la preghiera e' sempre grandemente utile". Luigi e' ordinato sacerdote il 15 ottobre 1961 da monsignor Dante Battaglierin, missionario saveriano, prima in Cina e poi vescovo di Khulna nel Pakistan Orientale.
La cerimonia si svolge nella cappella della Casa madre di Parma, presenti genitori, parenti e amici. Come altri saveriani sacerdoti novelli, padre Luigi - l'abbiamo gia' ricordato - si reca subito in pellegrinaggio alla Madonna di Fontanellato, poco lontano da Parma, per affidare il suo sacerdozio alla Vergine. Ad informarci di questo suo atto e' lui stesso in un altro scritto alla famiglia: "Questa mattina, 16 ottobre, sono stato a celebrare la mia prima Messa al santuario della Madonna di Fontanellato. Con questa prima Messa ho messo sotto la protezione della Madonna tutta la mia vita di sacerdote-missionario e con me tutti voi di famiglia. Mi pare che non ci si potesse affidare a mani migliori". Nella medesima missiva v'e' poi un passo rivelatore dell'animo del giovane missionario.
E' interessante sottolinearlo per la sua sconcertante trasparenza. "Prima di terminare voglio dirvi (il "vi" si riferisce ai genitori) una cosetta che avevo fissato di dirvi ieri, ma che poi ho dimenticato. Riguarda i libri.
Se li avete gia' comperati, amen. Altrimenti potendolo, comperatemi quelli che avete segnati sul foglietto coi numeri 1 e 2. Gli altri non comperateli, perche' sono piu' per studiosi che per i pastori, mentre noi dobbiamo essere dei veri pastori. Se pero' li avete gia' acquistati, o qualche buona persona li volesse regalare, lasciate stare.
Vorra' dire che se non serviranno a me, potranno servire ai miei confratelli missionari". "Noi dobbiamo essere dei veri pastori", afferma, dunque, il novello missionario.
Questo significa che in padre Luigi la consapevolezza di essere prete viene prima di quella d'essere un prete "speciale", interamente votato all'evangelizzazione dei popoli lontani. L'insegnamento dell'evangelista Giovanni era stato sicuramente assimilato da lui: "Cosi' la Chiesa e' l'ovile, la cui porta unica e necessaria e' Cristo.
E' pure il gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che sarebbe il pastore e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono pero' incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il Pastore buono e il Principe dei pastori, il quale ha dato la sua vita per le pecore". Nel mese di ottobre del 1961 e nel mese di settembre del 1962 gli abitanti di Cornale di Pradalunga festeggiano il loro illustre concittadino due volte. In ottobre per la celebrazione della prima Messa solenne; in settembre per l'imminente partenza verso la terra di missione. In entrambe le circostanze non ci fu famiglia del paese che non si fosse fatta rappresentare da almeno un membro. La festa d'addio fu ancor piu' calorosa e preparata nei minimi particolari dai sacerdoti della parrocchia e dalle religiose che sovrintendevano alla scuola materna. Per salutare il missionario la gente si raduno' nel teatro dell'oratorio, rivelatosi, in quella occasione, insufficiente a contenerla tutta. Fu cosi' che padre Luigi e gli invitati furono fatti salire sul palco da una porta laterale. Operazione, questa, che, se privo' il festeggiato del tripudio della folla, ebbe almeno il vantaggio di preservargli le spalle da confidenziali quanto pesanti manate di amici e conoscenti.

FINALMENTE SI PARTE!

"Rallegratevi, gioite, esultate con me poiche' una grande notizia ed un grande dono devo comunicarvi !!!
Le destinazione e' finalmente arrivata! Il Congo mi attende! Il 1961 mi ha visto sacerdote, il 1962 mi vedra' in missione! Chiamato a dissodare la vigna del Signore, a lavorare direttamente sul campo piu' bello, piu' promettente, piu' bisognoso". E' con queste parole che il 1° gennaio 1962 padre Luigi comunica ai famigliari la notizia della sua destinazione. Passeranno pero' altri otto mesi prima della partenza: le ordinazioni sacerdotali venivano celebrate durante l'ultimo anno di teologia; bisognava terminare l'anno scolastico, sostenere gli ultimi esami... Padre Luigi raggiungera' il luogo della missione, nella diocesi di Uvira, solo il 12 settembre 1962.
Quando giunge in Congo, il giovane missionario trova un Paese in cui il cristianesimo, almeno in alcuni territori, e' stato annunciato da quasi cinque secoli. Infatti, nel 1483, quando i primi portoghesi comparvero in quella regione d'Africa si preoccuparono innanzi tutto di evangelizzare lo popolazioni, cominciando dalla dinastia regnante che divenne cristiana nel 1491. Sul finire del secolo XVI, quando la tratta degli schiavi diventa una vera e propria industria (e i portoghesi riforniscono quantita' sempre piu' crescenti di uomini per le piantagioni del Brasile), il regno del Congo si trasforma in un campo di selvaggia caccia nella quale si combattono ferocemente tutte le tribu'.
Nel 1660, dopo un inutile tentativo di cacciare i portoghesi, il regno del Congo e' praticamente distrutto come entita' politica e come aggregato sociale. Le vicende del Paese e dell'Africa in genere, nei secoli successivi, in particolare a partire dalla seconda meta' del secolo XIX, si identificano sostanzialmente con quelle della colonizzazione europea. Alla fine dell'Ottocento il Congo diventa un territorio coloniale per iniziativa personale del re dei Belgi Leopoldo II, che seppe valersi dell'opera di uno dei piu' grandi esploratori africani del tempo, Henry Stanley. Al congresso di Berlino del 1884 Leopoldo II veniva riconosciuto sovrano dello Stato indipendente del Congo. Nel 1908 il nuovo Paese diventa colonia belga. Allo scoppio della prima guerra mondiale, il Congo e' il centro delle operazioni anglo-belghe che portano prima alla conquista del Camerun e poi alla difesa della Rhodesia. Dopo la prima guerra mondiale a questo dominio e' aggregato, sotto la forma di mandato, il doppio territorio di Ruanda e di Urundi, a Ovest della linea dei laghi, fra Kivu e Tanganica. Durante la seconda guerra mondiale il territorio congolese, rimasto fedele al Belgio, fu l'unica base della sovranita' belga dopo l'occupazione tedesca, e alla vigilia del riconoscimento del gabinetto belga in esilio, fu oggetto di un accordo con l'Inghilterra (febbraio 1941) per la messa in comune dei ricchi giacimenti minerari.
Nel 1960 il Congo arrivera' a produrre il 75 per cento dei diamanti industriali del mondo, il 75 per cento del radio, il 60 per cento del cobalto, il 15 per cento dei diamanti per gioielleria, il 15 per cento delo stagno, l'8 per cento del rame, il 3 per cento dello zinco, il 2 per cento dell'oro. Malgrado questa ricchezza - concentrata soprattutto nella regione del Katanga - l'80 per cento della popolazione (circa 11 milioni di persone), viveva in condizioni di estrema poverta'. Per avere un parametro di riferimento, oggi la Repubblica Democratica del Congo conta circa 49 milioni di abitanti ed un reddito nazionale lordo, pro capite, di 130 dollari statunitensi, mentre l'Italia, con 57 milioni e mezzo di abitanti, ha un reddito pro capite lordo di 19.880 dollari. Il 1960 sara' anche l'anno dell'indipendenza del Congo, raggiunta due anni dopo la nascita della Comunita' franco-africana del 1958, la quale favori' le istanze indipendentiste del Paese. All'indipendenza, pero', il Congo giungeva del tutto impreparato, senza quadri politici, amministrativi, tecnici ed economici; il tessuto connettivo del Paese era dato solo dai legami tribali.
A base tribale, infatti, erano i partiti politici, salvo il Movimento nazionale congolese (Mnc), capeggiato da Patrice Emery Lumumba. Pochi giorni dopo l'indipendenza ci fu una rivolta del raccogliticcio esercito congolese guidato da J-D. Mobutu. Cio' fu pretesto per un ritorno armato dei Belgi, i quali favorirono la secessione della ricca regione del Katanga, feudo della compagnia mineraria Union Minie're, per mantenerne ancora il controllo e sfruttarne le risorse. Poco dopo anche la provincia del Kasai proclamava la secessione. Al tempo stesso il capo dello stato, Kasavubu, e il presidente del Consiglio, Lumumba venivano a conflitto aperto e il Paese precipitava nel disordine piu' completo. Fu quindi richiesto un intervento delle Nazioni Unite, le quali inviarono un contingente di forze armate, che si rivelo' comunque inadeguato a ristabilire la pace. Un accordo di fatto tra Kasavubu, Mobutu e M. Ciombe, leader del Katanga, porto' all'esautoramento del capo del governo, Lumumba, acceso sostenitore dell'indipendenza e dell'unita' del Congo. Nel febbraio 1961 fu resa nota la morte di Lumumba, ucciso, a quanto risulta, da uomini di Ciombe. Nell'agosto dello stesso anno si giunse alla formazione di un governo guidato da C. Adula, sul quale le Nazioni Unite puntarono per ristabilire l'ordine nel paese.
Il Segratario generale dell'ONU,
D. Hammarskjöld, si reco' personalmente nel Congo, ma il viaggio gli costo' la vita, perduta in un misterioso incidente aereo il 17 novembre del 1961. E' dello stesso mese la tragedia di Kindu, provincia del Kivu, dove tredici aviatori italiani in missione per l'ONU furono massacrati dai ribelli congolesi. Dopo avere scaricato viveri e generi di sussistenza, l'intero equipaggio fu assalito e trucidato all'interno dell'aeroporto. Si e' insinuato che parte dei corpi di alcuni sventurati militari furono poi vendute al mercato della citta'. Un monumento, nell'area antistante l'aeroporto Leonardo da Vinci a Roma, ricorda l'episodio e gli sfortunati aviatori. Nonostante le barbare uccisioni l'iniziativa dell'ONU non si arresto'. Anzi, fu intensificata l'azione diplomatica con il governo illegale di Ciombe, senza raggiungere pero' risultati apprezzabili. Alla fine la situazione fu sbloccata dal corpo di spedizione internazionale (Onuc) che pose termine alla secessione del Katanga occupando, nel gennaio 1963, il capoluogo Elisabethville e l'intera provincia.
I diciotto mesi che seguono sono cruciali per la crisi congolese.
E' questo, infatti, il periodo in cui il nuovo primo ministro Adula, che uscira' di scena nel giugno 1964 all'atto del ritiro del contingente ONU, tenta di risolvere i problemi piu' urgenti: la pacificazione interna, la stabilita' del governo, il risanamento economico. Per rilanciare l'economia Adula apre trattative per ottenere prestiti e assistenza con la Nigeria, con la Comunita' economica europea e con vari Paesi occidentali. Nonostante i suoi sforzi il nuovo primo ministro non riesce ad impedire che l'opposizione di ispirazione lumumbista si trasformi in guerriglia endemica in vaste zone nordorientali del Paese.
L'attivita' apostolica di padre Luigi Carrara si svolge in questo periodo e in questo contesto. Gli eventi di cui sara' protagonista vanno letti e interpretati sullo sfondo di questo scenario storico locale e internazionale.

IMMERSO NELLA NUOVA CULTURA

Nel Congo in cui il padre saveriano si immerge con tanto entusiasmo (lo vedremo tra poco), sono molto vistose le differenze culturali: quasi quattrocento tribu'.
La gran parte sono del ceppo Bantu'. Nei territori affidati ai Missionari saveriani sono numerosi i Banyarwanda tra cui i Banyamulenge divenuti tristemente famosi con la guerra del Congo del 1996 e con l'attuale guerra.
Sono rwandesi emigrati in Congo a partire dal secolo scorso. L'organizzazione politica non corrisponde certo ai canoni delle nostre strutture ma non per questo meno omogenea; anzi e' rispondente ai bisogni e alla convivenza della tribu'. Predomina, invece, l'organizzazione a clan, come pure la discendenza patrilineare, con eredita' al fratello minore, anziche' al figlio del defunto. Molto evolute sono le societa' segrete, alcune delle quali dedite al culto dei morti. Gli antenati sono ricordati e venerati come coloro che hanno lasciato alle giovani generazioni la scienza del vivere e possono difendere dagli spiriti del male. La credenza in questi spiriti e' ragione della paura e insieme delle pratiche magiche diffuse fra la gente. Anche per questo la religione cattolica fatica ad essere annunciata.
Malgrado le aree fertili raggiungano il 21 per cento dell'intero territorio, solo l'1 per cento di esso e' coltivato. L'agricoltura, non ancora sostenuta da mezzi meccanici, e' rivolta soprattutto a far fronte ai bisogni alimentari locali. I principali prodotti sono: sorgo, miglio, mais, manioca, patate dolci, banane, arachidi, sesamo, riso. Alla donna sono affidati tutti i lavori nei campi, salvo il dissodamento; l'allevamento per ragioni climatico-ambientali, e' limitato alla capra e al maiale.
Le mandrie di bovini, scarsissime, si trovano, infatti, in poche zone di montagna.
Perche' padre Luigi Carrara viene mandato proprio in quella zona del Congo? All'interrogativo risponde lo stesso missionario in una delle tante lettere scritte ai genitori. "Mi e' stato detto che ben venticinquemila Banyarwanda stanno entrando nella diocesi di Uvira, perche' cacciati dalla loro patria, ed il vescovo monsignor Danilo Catarzi aspetta proprio noi, non avendo chi mandare tra di loro. Anche al Sud, da sei anni, chiedono missionari. Fu sempre risposto di no, ma ora sembra che uno di noi venga mandato ad aiutare quei nostri missionari, schiacciati da tanto lavoro apostolico. Si lavorera' con un padre piu' anziano e pratico della vita missionaria e cosi' il nostro inserimento nell'apostolato sara' piu' facile e sicuro".
Nel viaggio in aereo verso il Congo, con scalo ad Atene e arrivo a Usumbura (ora Bujumbura, capitale del Burundi) via Nairobi, padre Luigi ha come compagni di viaggio i confratelli Giuseppe Veniero della diocesi di Sorrento (Napoli) e Giuseppe Arrigoni di Civitella di Romagna, diocesi di Sarsina (Forli'), i quali erano stati ordinati sacerdoti con lui e destinati alla stessa missione.
A Usumbura - che dista pochi chilometri dal confine con il Congo e dalla regione del Kivu, nella quale e' situata la diocesi di Uvira - i Saveriani hanno un recapito presso l'economato generale dei Padri Bianchi. La descrizione dell'ultimo tratto di volo da Nairobi a Usumbura sembra tratta da un manuale di cronaca giornalistica, tanto e' ricca di informazioni. "L'aereo questa volta e' ad elica poiche' quelli a reazione non hanno ancora il campo adatto per l'atterraggio", scrive padre Luigi. "Andiamo a 350 chilometri orari, altezza 4.000 metri circa. Attraversiamo tutto il lago Vittoria, il lago piu' grande del mondo. Sulla sponda opposta giace Entebbe. Ci fermiamo 44-45 minuti (e' lo scalo tecnico previsto dalle norme di sicurezza del volo). Fra un'ora saremo finalmente ad Usumbura.
Sono le 11.15; il nostro volo e' terminato. Qui appena scesi troviamo tre dei nostri Padri pronti per portarci ad Uvira, centro della nostra Missione e sede del nostro vescovo, monsignor Danilo Catarzi, che attualmente si trova in Italia per il Concilio. Saliamo sulle due macchine pronte e dopo una breve visita a un nostro padre, degente da alcuni giorni nell'ospedale della citta', lo prendiamo a bordo e passate le due frontiere senza grane, quella del Burundi e del Congo, arriviamo ad Uvira".
Finalmente padre Luigi realizza di essere in Africa.
Il lettore non si stupisca: dall'aeroporto di Fiumicino il missionario e i due confratelli erano partiti due giorni prima.
Il loro viaggio era durato poco meno di 48 ore e, tra gli addii della partenza, gli scali e le attese negli aereoporti, i cambiamenti di pressione atmosferica, di clima e passaggi vari di frontiera, era costato, certamente, piu' di qualche emozione. Oggi lo stesso viaggio non durerebbe piu' di sette ore da Milano. Quali sono le prime impressioni di padre Luigi? Le leggiamo in una delle sue prime lettere scritte dall'Africa: "Caldo discreto ma non eccessivo (credevo molto peggio); neri lustri, non eccessivamente vestiti, come da noi del resto nei mesi caldi, capanne numerose anche nella stessa Uvira che vanta il titolo di citta'. Pranzo con i fiocchi, banane in abbondanza, alla fine, si capisce, non come piatto principale". Con l'evidente scopo di farlo acclimatare, i superiori fanno vivere i primi mesi d'Africa a padre Carrara in diverse missioni: Uvira, Usumbura (Burundi), Kalambo, per citarne alcune dalle quali inviera' la corrispondenza alla famiglia. Intanto al giovane missionario vengono impartite altre lezioni di francese (approfondendo quelle seguite sui banchi di scuola in Seminario a Parma) e di swahili, le lingue parlate nel Congo (escludendo, naturalmente, la miriade di dialetti locali).
Il missionario e' anche sottoposto ad una dieta robusta: "Continuano a farmi mangiare, perche', dicono, sono troppo magro ed in Africa bisogna essere robusti". L'alimentazione abbondante per un occidentale, in Africa, ha una sua ragion d'essere. Se questi non si nutre, per quanto il clima sia buono, non e' mai quello respirato in Europa. La carenza di cibo o la qualita' inadatta di sostanze porta all'indebolimento organico, e da qui alla malaria il passo e' breve. Ecco perche' tra i missionari in Africa era proibito fare mortificazioni di cibo. Il rischio di ammalarsi, infatti, era alto; e un missionario malato era destinato, dopo tanti sacrifici, a fallire il suo obiettivo: annunciare la Parola di Dio a chi non l'aveva mai udita.
Sempre dalla corrispondenza con la famiglia si e' potuto ricostruire l'attivita' missionaria che padre Carrara e' riuscito a svolgere dal dicembre 1962 al giorno della sua uccisione il 28 novembre 1964. I due anni trascorsi tra i congolesi sono stati per il missionario estremamente impegnativi. Accanto alla gioia, profonda, sincera che gli dava il suo essere missionario, dagli scritti di padre Carrara traspare in modo evidente la consapevolezza che il compito affidatogli non era agevole.
In lui e' costante la richiesta di preghiera perche' Dio gli sia sempre vicino. Sereno, ma lucido, lascia percepire cio' che lo preoccupa: "Qui c'e' tutto un mondo da rifare. Tutti coloro che non hanno vissuto almeno un po' nel mondo pagano non sanno che cosa sia il paganesimo per quanto l'abbiano studiato. Solo qui si puo' comprendere, per quanto e' a noi comprensibile, la grazia che il Signore ci ha fatto facendoci nascere in un paese cristiano". Vediamo allora - sacrificando l'ordine cronologico degli eventi - l'esperienza viva di padre Carrara in Africa. Il 9 dicembre 1962 , finalmente, e' nella sua prima missione a Baraka. Oltre a padre Luigi, compongono la comunita' i padri Mario Giavarini, superiore, Giuseppe Veniero (giunto in Africa con padre Luigi) e quattro fratelli laici. Guardando dalla finestra padre Carrara abbraccia con lo sguardo Baraka che si stende lungo il grande lago Tanganika. Posizione incantevole quella della missione cattolica. La casa e' situata su una collina a tre chilometri dal lago e dal villaggio. E' pero' un po' isolata dal centro e dall'area commerciale. Uniche costruzioni vicine sono le scuole primarie e due classi di secondarie. Sono gestite dalla comunita' cattolica, ma accolgono tutti: nelle classi secondarie prevalgono alunni cattolici, nelle primarie scolari protestanti, musulmani e soprattutto animisti.
Tutte le mattine i ragazzi salgono la collina e parecchi dopo avere percorso gia' 6-7 chilometri a piedi.
Mangiano al mattino e alla sera quando rincasano.
Nelle scuole secondarie insegnano quattro fratelli Josefiti, membri di una giovane congregazione rwandese: essi fanno compagnia ai padri italiani. La temperatura a Baraka oscilla tra i 22-23 gradi della notte ai 30 delle ore diurne piu' calde. In media il sole si alza alle 5 e tramonta alle 18.30, concedendo quindi poco meno di quattordici ore di luce al giorno. Contro le zanzare, specialmente di notte, l'unico rimedio efficace sono le zanzariere alle finestre. Di giorno, gli insetti non destano problemi. I villaggi attorno alla missione vivono prevalentemente di pesca: le acque del Tanganika, infatti, specialmente nella parte prospiciente Baraka, sono ricche di una infinita varieta' di pesci, alcuni dei quali raggiungono il peso di 1 chilogrammo.
Nella zona non vi sono foreste; il terreno e' fertile, "pero' - questa l'impressione dell'europeo - la gente non ama molto lavorare", le parole sono di padre Carrara.
Il ritmo e' diverso, la temperatura e' diversa e diverso, molti diverso il salario! I ritmi dei campi e, piu' ancora, i ritmi della foresta non sono i frenetici ritmi della nostra cultura che mette il lavoro e il denaro prima dell'uomo.
Il missionario saveriano racconta di avventurosi e logoranti spostamenti in battello, in automobile e persino a piedi, proprio per l'assoluta mancanza di mezzi, di disciplina negli orari: il tempo e' nostro e non noi schiavi del tempo. Quando dovra' affrontare la costruzione di alcune semplici casette in muratura a Fizi, la seconda missione affidatagli a 40 chilometri da Baraka, dovendo rallentare i lavori per mancanza, prima del cemento e poi dei mattoni, padre Carrara non si alterera' avendo ben presente l'adagio congolese che consiglia: "Quel che puoi fare domani non farlo oggi". Naturalmente a questa mentalita' non si adeguera', anzi, cerchera' di contrastarla con esempi concreti. Proprio a Fizi i Saveriani monteranno in tre giorni una casa prefabbricata, con tanto di generatore di corrente elettrica, suscitando ammirazione e stupore tra gli indigeni.

AGGIUSTANDO PALLONI STRAVECCHI

A Fizi, per vincere la diffidenza di numerose famiglie animiste, padre Carrara si sforza di accelerare lo studio dello swahili. Per creare occasioni di socializzazione sistema anche un terreno facendogli prendere la forma di campo di calcio. "Ho passato tutta la giornata di ieri", informa la famiglia, "aggiustando due stravecchi palloni che non stavano piu' insieme, ma ci sono riuscito con due aghi da lana ed un po' di spago senza pece; spero che durino un po' di tempo; del resto il pallone qui e' un ottimo mezzo per avvicinare la gente, non essendoci che il nostro campo e nessun altro divertimento, specialmente la domenica, ma anche tutte le sere, molti si riversano nel nostro campo. Questo e' un modo di farci degli amici sul piano umano, sperando cosi' che quando il Signore vorra', si possa innestare la vita divina anche nei piu' restii". Sappiamo che amici di Cornale di Pradalunga invieranno un paio di palloni di cuoio, per la gioia di tanti ragazzi della missione.
Padre Carrara e' anche un osservatore attento della realta' che lo circonda e sulla quale s'interroga. Ne e' un esempio la sua analisi sul cosiddetto 'mal d'Africa'. "Il clima e' sempre ottimo e se voi pure foste qui (il voi e' riferito ai famigliari) credo che avreste gia' avuto il mal d'Africa. Tutti gli europei sentono questo male, il quale ci lascia sempre, a differenza delle vostre malattie, senza febbre. Ad Uvira ho conosciuto un italiano che da trent'anni, se non sbaglio, si trova qui in Congo e dice che ha provato a ritornare in Italia per farselo passare ma non vi e' riuscito ed ha dovuto ritornare qui quanto prima. Consiste in questo: desiderio di rimanere sempre qui! Strano vero? Eppure e' cosi'. E mi diceva come non sentiva nessun desiderio di ritornare e voleva morire qui. Sempre caldo, sempre bello; ci potrebbe essere di tutto senza molti sforzi; una natura rigogliosissima, un terreno ricco di ogni cosa, una vita priva di tante esigenze, ridotta alla semplicita'..., un incanto!".

I LAVORI PIU' PESANTI

Negli scritti di padre Carrara si trovano pure considerazioni di natura antropologica. "Gente semplice", definisce i congolesi, "con numerosi difetti ed anche virtu', la quale si meraviglia di fronte ad ogni cosa, ad ogni novita' e sono tante. Sono quasi tutti pagani e quei pochi che sono cristiani conservano tanto della vita precedente pagana che non vi dico. Mettono d'accordo le cose piu' disparate: il diavolo e l'acqua santa che e' una meraviglia. Tutto questo pero' non e' colpa loro, ma del primo annuncio del cristianesimo". Quanto al lavoro del missionario, "quando veramente e' efficiente", sottolinea padre Carrara, "puo' essere molto, ma si arrivera' sempre a fare troppo poco. Siamo circondati da una marea di pagani che, per di piu', non desiderano un gran che convertirsi". Nonostante cio' nel missionario saveriano non c'e' rassegnazione ne' sconforto. A Fizi, nella Settimana Santa, ha confessato per non piu' di tre ore, dato, questo, che sottolinea uno scarso numero di fedeli. La notte di Pasqua pero' "la nostra chiesina era zeppa. Una settantina di catecumeni venivano battezzati. Due lunghe file partivano dal presbiterio ed arrivavano fino alla porta centrale. Dopo i battesimi abbiamo celebrato alcuni matrimoni e impartito diverse benedizioni matrimoniali.
Abbiamo cantato tutto il cantabile per dare piu' solennita'.
Alcuni catecumeni venivano da 30 chilometri, e speriamo che dopodomani ritornando al loro villaggio abbiano a portare un po' di entusiasmo ed accendere in altri il desiderio di farsi cattolici. Sono rimasti qui a Fizi per tre settimane per una serie di istruzioni".
Le soddisfazioni piu' grandi sotto il profilo dell'evangelizzazione a padre Carrara vengono dai villaggi dell'entroterra. "C'e' una fede che non vi dico. Tutti i cristiani non ammalati sono presenti, alcuni hanno fatto quattro, cinque e anche sei ore di strada; mamme con i loro bambini sulla groppa, vecchi con il loro bastone, una sciancata che mi faceva pieta' vederla camminare e' venuta dalla missione piu' lontana per fare l'esame di ammissione al battesimo.(...) giovani e vecchi non hanno mai visto un padre nel loro villaggio. Mai nessun padre ha percorso quei sentieri, visitato i loro villaggi. Passo quasi in trionfo, tutti mi seguono, mi accompagnano per un lungo tratto: uomini, donne con in braccio o sul dorso i piccoli..., piove, mi arresto, poi continuo, finalmente alle 17 arrivo". Un'annotazione merita infine questo appunto del missionario sulla condizione della donna congolese; condizione che, a distanza di oltre quarant'anni, appare sostanzialmente immutata. "Qui, tutti i lavori pesanti, come quello di zappare, spaccare e raccogliere legna nei boschi , portare pesi sulle spalle, sono riservati alla donna.
E gli uomini? Un po' di pesca e molto far niente.
Purtroppo non si concepisce la donna diversamente: ci vorra' molto tempo e fatica prima di far loro comprendere la dignita' della donna. Non alle donne, il che puo' essere piu' facile, ma agli uomini. La donna qui nasce e cresce nella convinzione di dover fare sempre cosi' e per gli uomini e' molto comodo tutto questo".
I principali attori della tragedia dei padri Saveriani in Congo si chiamano Bufalero. Si tratta di una tribu' particolarmente discriminata rispetto alle altre e quindi con una grande voglia di riscatto cercato anche in modo violento. Nel Natale 1963 elementi di questa tribu' insorgono contro il proprio capo (Mwami) e le autorita' dell'amministrazione instaurata dai Belgi. Il loro tentativo fallisce; alcuni degli insorti sono bastonati, altri ammoniti, ma tutti rispediti a casa. Decisi a proseguire la lotta molti si danno alla macchia sui monti. Superstiziosi, questi guerriglieri (conosciuti poi come Simba) si sottopongono volentieri a pratiche magiche convincendosi che, in virtu' di queste, rimarranno invulnerabili di fronte alle armi del nemico. Avendo giurato di riprendere le ostilita' il 15 aprile, in quella data scatenano una furibonda offensiva. In 10 giorni i rivoltosi uccidono tutti i poliziotti e le autorita' civili, mozzando teste, scannando e squartando corpi. Affrontati dall'Armata nazionale congolese subiscono alcune sconfitte, ma non tali da renderli inoffensivi. L'insurrezione dei Bufalero, sorta come movimento locale per regolare conti tribali, viene pero' presto fagocitata da forze esterne e inserita in un piu' ampio disegno bellico. Si assiste cosi' alla progressiva amplificazione del movimento che, partito come "Jeunesse" sotto le insegne del Movimento congolese di Lumumba, diventa poi sostenitore di Pierre Mulele ("mulelisti"), per trasformarsi infine in Movimento nazionale di liberazione. Da movimento spontaneo finiscono cosi' per votarsi alla causa del comunismo internazionale prendendo ordini ora dal governo congolese di Brazzaville, ora dall'ambasciata cinese, presente a Usumbura (oggi Bujumbura), capitale del Burundi.
La diocesi di Uvira che confina con il Ruanda e con il Burundi e' investita in pieno dalla guerriglia.
I guerriglieri si assicurano, in particolare, il controllo degli 80 chilometri di strada asfaltata (interamente costruita da ditte italiane) che collegano Bukavu con Uvira e quel tratto della costa occidentale del lago Tanganika, su cui si affacciano le missioni di Baraka e Fizi. Il 5 maggio 1964 e' occupata la missione di Mulenge (a meta' strada tra Bukavu e Uvira) e il 15 maggio quella di Uvira.
Sia i Saveriani di Mulenge, sia quelli di Uvira furono risparmiati; a sei di loro fu addirittura concesso di riparare - via lago - a Bujumbura. Le missioni piu' a Sud, Baraka e Fizi rimasero invece isolate.

UNA FONI' INESISTENTE

Per circa tre mesi i guerriglieri Simba riuscirono a controllare il territorio, ma in agosto, dopo un paio di attacchi a Bukavu, dovettero registrare i primi clamorosi rovesci. In pratica le forze armate del generale Mobutu, ostili a Lumumba e numerosi bianchi espropriati dei propri beni con mercenari appoggiati da alcuni aerei T28 e B26 da bombardamento, inflissero le prime sconfitte ai ribelli Simba. Un nervosismo acuito dalla paura comincio' a serpeggiare fra i Simba anche nelle retrovie. Le missioni di Baraka e di Fizi entrarono nel mirino. Padre Carrara decise quindi di trasferirsi da Fizi a Baraka per non lasciare isolato fratel Faccin. Nella missione i due religiosi Saveriani avevano dovuto inoltre abbandonare la casa sulla collina per risiedere in quella piu' vicina alla riva del lago. La decisione era stata presa sotto le minacce dei Simba i quali avevano cominciato ad accusare i missionari di tenere contatti segreti con i soldati di Mobutu attraverso una fantomatica radiotrasmittente (foni'). In realta' i guerriglieri volevano depredare la sede della missione sulla collina. Fratel Faccin s'impegno' subito nell'edificazione di una residenza un pochino piu' confortevole poco lontano dalla chiesa nuova, vicino alla riva. Il clima verso i religiosi si faceva sempre piu' ostile. Le accuse piu' inverosimili erano state costruite ad arte contro di loro per convincere anche i piu' semplici che i missionari erano persone infide e pericolose. La fobia della foni' tormentava tutti, capi e semplici ribelli. A poco a poco nella testa dei guerriglieri si consolido' il convincimento che i loro rovesci militari erano causati dal sapiente uso che i Saveriani facevano della foni'. Soprattutto al passaggio degli aerei il nervosismo dei Simba esplodeva in minacce, in rinnovate, minuziose perquisizioni e relativi estenuanti interrogatori.
Padre Carrara trascorreva l'intera giornata in preghiera nella chiesa che fratel Faccin tentava di completare. L'altare era provvisorio, il pavimento era ancora in terra battuta e il muro di facciata era stato appena abbozzato, cosi' che l'interno era completamente aperto e visibile anche da lontano, per chi transitava lungo la strada adiacente. Ai primi di settembre del 1964 una famiglia cristiana del vicino villaggio di Matara accolse i religiosi nella propria capanna, riservando ad essi un'ampia stanza centrale per trascorrervi almeno la notte. Padre Carrara e fratel Faccin non ritenevano ormai prudente dormire soli, per non insospettire ancor piu' i ribelli e per non dar occasione a qualche fanatico di compiere uno sproposito nei loro confronti. Ai primi di ottobre la fobia della foni' si riaccese. Gli unici stranieri rimasti nella regione erano i missionari. Anche i commercianti arabi, all'inizio conniventi con la ribellione, erano gia' riusciti a prendere il largo, non senza avere prima dovuto sborsare ingenti somme di denaro. I religiosi dunque erano la causa delle loro disfatte. Il 24 novembre 1964 una colonna militare proveniente da Albertville giunge in prossimita' di Lulimba, sulla strada verso la missione di Fizi. Un migliaio di ribelli attende la colonna per tenderle un'imboscata, prima che essa possa raggiungere Fizi e Baraka. I Babembe di Baraka si erano affiancati ai Simba della regione convinti di sopraffare facilmente i militari governativi. I ribelli erano guidati da Abedi' Masanga, un Babembe del clan dei Balala (il piu' ostile ai bianchi e ai religiosi Saveriani) il quale abitava con le sue tre mogli a Katanga, un villaggio a 9 chilometri da Baraka, sulla strada di Fizi. Prima di darsi alla politica e d'imporsi per la condotta estremista e violenta, Masanga aveva lavorato anche per la Missione. Fin dai primi giorni dell'insurrezione s'era imposto per le ruberie e per gli arbitri ai danni di famiglie inermi. Organizzo' una piccola, ma feroce banda e con essa si diede a spadroneggiare, indisturbato, nella regione. In poche settimane si autoproclamo' tenente, poi capitano, infine colonnello. Accanito fumatore di canapa e insuperabile bevitore di kanyanka, distillato alcoolico a base di manioca. Anche quel famoso 24 novembre, come tutti quelli del suo seguito, si era ubriacato. All'arrivo della colonna militare nel luogo prestabilito per tendere l'imboscata, Masanga lancio' i suoi uomini ubriachi contro le autoblindo in testa alla colonna. Fu un massacro. Le autoblindo, guidate da esperti mercenari, crearono vuoti spaventosi tra i ribelli, subito seguite dal preciso tiro dei mortai. In quella occasione i ribelli uccisi furono oltre settecento. Fu l'ultima vera e grande battaglia combattuta dai ribelli. Masanga si salvo' nascondendosi tra i corpi dei suoi seguaci. Il grande e barbuto mercenario, che dalla torretta dell'autoblindo di testa guidava il tiro preciso delle mitragliatrici deve avere suggestionato non poco Masanga. Quella barba, quel volto, nel delirio folle della paura e dell'ubriachezza, gli avranno certo richiamato altre barbe ed altri volti ugualmente odiati perche' gli rimproveravano con la loro disarmante serenita' gli eccessi della sua violenza e della sua crudelta'.

MORIRE ACCANTO AL FRATELLO

Masanga vago' come un automa tutto il 25 ottobre nei dintorni, insieme ai pochi superstiti che gli si raggruppavano intorno. Verso sera arrivo' a Fizi dove, con le minacce, estorse del denaro da padre Giovanni Didone', che era rimasto con l'abbe' Atanasio Joubert a presidiare la missione. Per tutta la notte con i suoi seguaci Masanga rimase a gozzovigliare a Fizi. Il mattino seguente, in preda ai fumi dell'alcool e percio' pericoloso persino ai suoi, discese verso la missione di Baraka. Lungo la strada fece sosta nel suo villaggio di Katanga. Che cosa puo' essere accaduto da quel momento e' intuibile. Molti devono essersi stretti attorno alla sua persona per conoscere le gesta compiute a Lulimba. Per non perdere il prestigio deve essere stato costretto a nascondere la disfatta, a tacere ai congiunti la sorte toccata ai loro cari. Un capro espiatorio doveva essere trovato al piu' presto. Una qualche giustificazione plausibile al drammatico insuccesso andava inventata. Chi meglio dei missionari e della loro diabolica foni' poteva prestarsi all'operazione depistaggio di Masanga? Le parole convincenti del 'Colonnello' furono molto efficaci tanto che la sua jeep (bottino di guerra di una precedente imboscata) fu subito stipata di Simba. Erano circa le nove del mattino quando, con un forte stridore di freni, la jeep si arresto' davanti alla casetta dei padri Saveriani, a fianco della chiesa. Fratel Faccin apparve sull'uscio: come gia' accaduto in passato, il religioso era convinto di riuscire a far ragionare i guerriglieri. Masanga se ne stava in disparte accanto alla vettura, mentre gli altri sette o otto Simba avevano circondato fratel Faccin. Il 'Colonnello' comincio' a tirar fuori la storia della foni', della politica contraria alla Rivoluzione popolare. Il religioso lo lasciava dire preparandosi a consegnare del denaro, secondo una odiosa quanto meschina prassi consolidata tra i 'nobili' guerriglieri Simba, i quali si sentivano in diritto di estorcere soldi a coloro che essi consideravano traditori o oppositori della rivoluzione del popolo.
Questa volta, pero', Masanga non si accontento' del denaro. Ingiunse, infatti, a fratel Faccin di salire sulla jeep.
Il religioso ubbidi' pensando che sarebbero passati davanti alla chiesa dove si trovava padre Carrara, il quale avrebbe potuto mettersi cosi' in allarme. Il conducente mette allora in moto la vettura. Il Colonnello segue a piedi con i suoi. La distanza e' breve. Arrivati davanti alla chiesa, fratel Faccin cerca di guadagnare tempo. E' solo nella vettura; tutti gli altri sono scesi. Masanga gli dice che proseguiranno fino a Fizi.
Il religioso comprende che il Colonnello sta per compiere l'irreparabile. "Non posso lasciare solo il Padre a Baraka": sono le sue ultime parole. Tenta di aprire la portiera per scendere. Anche i Simba intuiscono le intenzioni del capo e gli si parano davanti quasi per convincerlo a desistere. Masanga ha gia' in mano una pistola che punta dritto verso fratel Faccin. Il 'Colonnello' e' accecato dall'odio, minaccia anche i suoi che si tirano in disparte. Fratel Faccin ha messo un piede a terra e sta alzandosi per abbandonare la vettura. Tre colpi in rapida successione gli perforano il torace e si vanno a conficcare nella portiera.
Fratel Faccin cade sul sedile con un gemito soffocato. Padre Carrara, intento a confessare alcune anziane, ha visto e sentito tutto. Il Padre Saveriano si avvia verso Masanga. Ha ancora al collo la stola violacea.
Vedendolo arrivare con passo sicuro verso di se' e i suoi uomini, Masanga si irrita ancor di piu'. "Ti porto a Fizi per ucciderti con gli altri Padri", grida il 'Colonnello'. Padre Carrara gli risponde calmo: "Se mi vuoi uccidere, preferisco morire qui vicino al Fratello". Furono le sue ultime parole, non aggiunse altro, non attese risposta. Si inginocchio' per pregare sul corpo esanime di fratel Faccin. Masanga gli sparo' un solo colpo, al petto.
Padre Carrara si accascio' a terra e il suo sangue amplio' l'aureola vermiglia formatasi pochi istanti prima con il sangue del suo confratello Vittorio Faccin. Degli oggetti personali di padre Carrara e' rimasto il Breviario, recuperato qualche mese dopo la morte dal padre saveriano De Zen.
Il segnalibro e' fissato al Vespri del 28 novembre 1964. Venti mesi prima di morire, in una lettera inviata alla famiglia in data martedi' 12 marzo 1963, padre Carrara aveva scritto. "Pregate! Fate pregare! Poiche' come il vostro cristianesimo e' frutto di tante altre vite, cosi' questo raggiunga la pienezza della perfezione cristiana quanto prima possibile, trovando le vite e vittime richieste". Parole, queste, che oggi appaiono con tutta la loro forza profetica, scolpite nel testamento di un martire per la fede.

ALBERTO COMUZZI




VITTORIO FACCIN
Villaverla (Vi) 7.1.1934 - Baraka Kivu (Congo) 28.11.1964




MEGLIO SACRIFICARSI CHE SACRIFICARE

"Miei cari genitori, non potete immaginare quale sia la gioia del mio cuore nel trovarmi qui, per poter dare qualche cosa di mio a coloro che non sanno quale sia il dono che il Signore ha fatto a noi nel farci cristiani. A voi che mi avete sempre assistito nei miei anni di formazione e soprattutto per avermi lasciato seguire la mia vocazione, un grazie con tutto il cuore". E' questo il primo pensiero che un ragazzo (ma solo per l'anagrafe) di 25 anni manda in Italia, dal Congo dove si trova in missione. Questo ragazzo, la cui esemplare vita non sara' mai raccontata nei libri di scuola, si chiamava Vittorio Faccin. Se non fosse stato assassinato da un insignificante quanto violento capobanda, oggi (nel 2000) avrebbe 66 anni, essendo nato il 7 gennaio 1934. Fratel Vittorio era originario di Villaverla (Vicenza), ma aveva vissuto gli anni della fanciullezza nella campagna modenese dove i genitori, Giuseppe e Giuditta Zanin, si erano trasferiti. Entrato, sedicenne, nella casa saveriana di Cremona, aveva proseguito la formazione a Desio (Milano).
Nel 1952 emette la prima professione religiosa e, nel giorno dell'Immacolata del 1962, quella perpetua. Da oltre tre anni - esattamente dal dicembre del 1959, mese in cui, appunto, scrive il pensiero sopra citato - era gia' in missione nella diocesi di Uvira (Congo Belga, ora "Repubblica Democratica del Congo"). Avrebbe desiderato diventare prete, ma avendo abbandonato gli studi troppo presto, gli fu consigliato di continuare la vita missionaria come fratello laico.
Accetto', ma gli rimasesempre la nostalgia del sacerdozio. Alla vigilia della professione perpetua, mosso da un'illuminazione che oggi ha il sapore della profezia, si confido' con il Superiore Generale in questi termini: "Nella preghiera, Gesu' mi ha fatto comprendere come sia meglio che io venga sacrificato a Lui piuttosto che Lui si immoli nelle mie mani". Aveva compreso il senso piu' profondo del carisma dei Missionari Saveriani: famiglia missionaria fondata dal beato Guido Maria Conforti quando ancora era giovane prete con lo scopo unico ed esclusivo dell'annuncio della buona notizia del Vangelo ai non cristiani fuori dal proprio ambiente, cultura e chiesa di origine.
Se fosse possibile porre un prima e un poi nel dono di se' per il Vangelo, affermerei che prima d'essere prete il saveriano e' religioso - fa voto di celibato, poverta' e obbedienza - , ma prima di essere religioso e' un consacrato a Dio per la missione e dalla missione 'ad Gentes'.
Anche cronologicamente il missionario saveriano prima emette il voto di missione, poi "per vivere ed esprimere piu' radicalmente la nostra consacrazione alla missione, ci mettiamo alla sequela di Cristo con i voti di castita', poverta' e obbedienza". Cosi' recitano le costituzioni dei Missionari Saveriani. Fratel Faccin fu ucciso - piu' avanti ne spiegheremo circostanze e ragioni - il 28 novembre 1964, nella missione congolese di Baraka (provincia del Kivu, diocesi di Uvira).

DALLE LETTERE, UN DIARIO

Per comodita' del lettore racconteremo la sua storia come se egli l'avesse scritta in un diario. E' un artificio che, ci auguriamo, ci sara' perdonato,perche' ha come unico scopo quello di rendere fluida la lettura. Quanto alle notizie, tutte, sono tratte da lettere inviate dal missionario a parenti e ad amici. Iniziamo, allora a leggere il diario di fratel Faccin, a partire dal giorno del suo arrivo in Congo, lunedi' 14 dicembre 1959.
Da qualche settimana sono a Baraka. I confratelli piu' vicini sono in una missione a 90 chilometri, i piu' lontani a 360. Ho gia' fatto conoscenza con i ragazzi delle scuole che mi hanno accolto con grande gioia perche' mi attendevano da molto. Tutte le sere converso con loro e ci facciamo delle grandi risate: non possiedo la loro lingua, ma con il francese riusciamo ad intenderci. Qualche giorno fa, assieme al padre Superiore, padre Knittel (un francese che appartiene alla congregazione dei Padri Bianchi), sono andato a visitare un malato. Quando siamo arrivati, pero', era gia' morto.
Era un uomo di circa 40 anni che era stato battezzato da un suo compagno due giorni prima. Il funerale e' stato celebrato nella Missione. La salma, avvolta in un semplice lenzuolo, e' arrivata su un camion. Questa mattina ho diretto i primi lavori per la costruzione di una casetta, nell'area della missione. Il clima non e' malvagio. Siamo nel tempo delle piogge e tutte le notti l'acqua scroscia abbondante.
Il cibo e' povero, ma sufficiente e, soprattutto, sano. Il pesce abbonda: siamo a tre chilometri dal lago Tanganika. Abbiamo latte in polvere e caffe' - che qui si produce -, ma poca verdura, che arriva da 300 chilometri di distanza. Alla Missione, non essendoci acqua, non crescono ortaggi. Come carne, quando capita, c'e' quella di coniglio, oppure quella di montone che comperiamo dai pastori della montagna. Abbiamo anche nove galline e un gallo, che sara' ben duro da far cuocere! L'acqua che beviamo e' quella del Tanganika, naturalmente filtrata. Quella che usiamo per cucinare e' presa da un fosso che scende dalle montagne. Quando piove, a guardarla, scappa la voglia di lavarcisi i piedi! Siamo, pero', fortunati: la legna non manca e il fuoco sistema tutto. Trovarmi nel cuore dell'Africa, mi sembra un sogno. Il luogo e' stupendo. In mezzo a questa natura si vede piu' manifesta la potenza di Dio.


MANCA L'AMORE

L'Africa ha bisogno d'essere amata. Il popolo qui sta cercando una cosa che fa fatica a trovare e soprattutto a comprendere: l'amore. Credo che non conoscano il verbo "amare" o il sostantivo "amore".
Qui conoscono molto bene la giustizia: occhio per occhio, dente per dente. Il nostro lavoro e' impostato in modo tale da far conoscere l'amore e nel saper perdonare: questo e' il comandamento di Gesu'. Domenica scorsa i ragazzi erano senz'acqua per cucinare, due di loro sono andati a prenderla e al ritorno mi hanno detto: "Leonardo, che non ci ha aiutati, viene a mangiare con noi questa sera?". Alla mia risposta affermativa, hanno obiettato: "Non ha lavorato, non ne ha diritto". L'Africa deve essere amata, ma dall'amore di Cristo; deve essere amata non perche' ha molto oro o altre ricchezze.
Solo in mezzo ai pagani si puo' comprendere come Dio ci abbia amato facendoci nascere in un Paese cristiano, dove la stessa aria che respiriamo ha lo stesso profumo del cristianesimo; e noi che vivevamo in mezzo, non sapevamo valutarlo fino in fondo, attribuendogli il giusto valore.
Dopodomani parto con il mio superiore. Visitero' alcuni villaggi dove incontrero' i ragazzi dell'associazione "Giovinezza saveriana". Dovro' esprimermi in Kishwahili: non so che cosa saltera' fuori! Questo giro non e' lungo, poiche' il villaggio piu' lontano e' solo a 50 chilometri. Una sola cosa mi preoccupa costantemente: formare dei buoni giovani.Essendo cosi' lontani non posso fare piu' di tanto e cosi' lascio fare un po' a san Francesco Saverio e alla Madonna. Dopo Pasqua ho in programma altri due viaggi. Cerco di avvicinare il piu' possibile i giovani per prepararli alla promessa di fedelta' che devono fare all'Associazione.
La scorsa settimana ho visitato una scuola - che sta letteralmente crollando - e che si trova nella penisola del lago Tanganika. Per raggiungerla dalla nostra riva ci sono volute due ore di viaggio su una piccola imbarcazione.
Il maestro si e' lamentato perche' i genitori (pescatori di fede musulmana) non apprezzano il lavoro che egli svolge, con tanto impegno, per educare i loro figli. L'edificio, si fa per dire, e' costruito con canne e fango. E' talmente mal ridotto che saremo costretti ad abbandonarlo. L'assurdo e' che basterebbero pochi giorni di lavoro per costruire una scuola ancor piu' accogliente e sicura.


LA FEDE, GRANDE DONO DIVINO

La sera del Sabato Santo (lo scorso aprile 1960) mentre ero nella nostra chiesa, ho pensato a voi che siete in un Paese cristiano, dove le campane suonano a festa per annunciare la Risurrezione di Cristo. Questo fatto mi ha richiamato il pensiero dei primi cristiani della Roma pagana, che si rifugiavano nelle catacombe per pregare il Signore per la conversione della loro citta'. Pure qui c'erano pochi cristiani che pregavano il Signore per la conversione dell'Africa; poiche' intorno a noi c'e' il regno di Satana. Il mese di marzo e' stato piuttosto pieno. Abbiamo cominciato le istruzioni per il battesimo: sono piu' di 80 quelli che saranno battezzati il 5 giugno. Sono tutti adulti, pochi i ragazzi.
La maggioranza ha un'eta' compresa tra i 20 e i 35 anni; e c'e' anche un bel gruppetto di anziani. Invito tutti - in particolare voi che mi seguite dall'Italia - a pregare per loro affinche' possano essere sempre dei buoni cristiani, soprattutto in questi momentimolto difficili per loro.
I congolesi stanno per ottenere l'indipendenza e si trovano come in un crocicchio di tante strade senza sapere quale imboccare. La tribu' dei Wabembe, con la quale abbiamo maggiori contatti, fino a qualche anno fa praticava il cannibalismo. L'ultimo caso si e' avuto nel 1953. Si capisce anche da questi fatti perche' sia difficile evangelizzare. Quando mi sposto per incontrare i fedeli nei villaggi, mentre il Padre li confessa, il mio compito e' di istruirli o di interrogarli sul catechismo.
Per organizzare le associazioni dei ragazzi faccio camminate lunghissime. Con un pezzo di pane nella borsa per il pranzo, un giorno ho percorso 24 chilometri: 12 per raggiungere il villaggio ed altrettanti per tornare alla missione. La vita non puo' che essere ridotta all'essenziale. Quando ho fatto il campeggio con i ragazzi, anch'io dormivo sul pavimento di cemento, con una stuoia di 90 centimetri e una coperta.
Gli altri, che non avevano spazio sulla stuoia o sotto la coperta, giacevano sul cemento. Dormire cosi', per loro, e' come dormire su un bel materasso di lana soffice. Normalmente dormono sulla terra con la stuoia, anche senza coperta. Solo adesso gli impiegati e i maestri hanno cominciato a comperarsi dei letti, ma sono fatti in un modo che ci si stanca invece di riposare. Infatti sono fatti con quattro stecche messe insieme e senza materasso.
Presto riprendo ad insegnare il catechismo ai bambini delle prime tre classi elementari. La sera diciamo il Rosario che si conclude con la Benedizione. Insistiamo molto nell'onorare la Madonna e spieghiamo che Lei, avendo vinto il demonio, vincera' anche le cattiverie del mondo.


PARENTESI SUGLI AVVENIMENTI DEL CONGO

Prima di inoltrarci nel diario di fratel Faccin dobbiamo aprire una parentesi - piuttosto ampia - sulle vicende del Congo. L'esperienza umana e religiosa del missionario saveriano diventera' cosi' piu' comprensibile. Soprattutto, il lettore avra' elementi di riflessione e di giudizio che gli consentiranno di percepire maestosa la figura di questo giovane traboccante di letizia cristiana e d'amore per i cosiddetti lontani. Quando fratel Vittorio giunge nel Paese africano i colonizzatori vi erano arrivati gia' da quasi cinque secoli. Infatti i primi portoghesi comparvero in quella regione d'Africa nel 1483 e si preoccuparono anche di evangelizzare le popolazioni, cominciando dalla dinastia regnante che divenne cristiana nel 1491. Sul finire del secolo XVI, quando la tratta degli schiavi diventa una vera e propria industria, il regno del Congo si trasforma in un campo di caccia finalizzata a rifornire quantita' sempre piu' crescenti di uomini per le piantagioni del Brasile. Nel 1660, dopo un inutile tentativo di liberarsi dai portoghesi, il regno del Congo e' praticamente distrutto come entita' politica e come aggregato sociale. Le vicende del Paese e dell'Africa in genere, nei secoli successivi, in particolare a partire dalla seconda meta' del secolo XIX, si identificano sostanzialmente con quelle della colonizzazione europea. Alla fine dell'Ottocento il Congo diventa un territorio coloniale per iniziativa personale del re dei Belgi Leopoldo II, che seppe valersi dell'opera di uno dei piu' grandi esploratori africani del tempo, Henry Stanley. Al congresso di Berlino del 1884 Leopoldo II veniva riconosciuto sovrano dello Stato indipendente del Congo. Nel 1908 il nuovo Paese diventa colonia belga. Allo scoppio della prima guerra mondiale, il Congo e' al centro delle operazioni anglo-belghe cheportano prima alla conquista del Camerun e poi alla difesa della Rhodesia. Dopo la prima guerra mondiale a questo dominio e' aggregato, sotto la forma di mandato, il doppio territorio di Ruanda e di Urundi, a Est della linea dei laghi, fra Kivu e Tanganika. Durante la seconda guerra mondiale il territorio congolese, rimasto fedele al Belgio, fu l'unica base della sovranita' belga dopo l'occupazione tedesca, e alla vigilia del riconoscimento del gabinetto belga in esilio, fu oggetto di un accordo con l'Inghilterra (febbraio 1941) per la messa in comune dei ricchi giacimenti minerari. Nel 1960, il Congo (nel quale fratel Faccin opera gia' da un anno) arriva a produrre il 75 per cento dei diamanti industriali del mondo, il 75 per cento del radio, il 60 per cento del cobalto, il 15 per cento dei diamanti per gioielleria, il 15 per cento dello stagno, l'8 per cento del rame, il 3 per cento dello zinco, il 2 per cento dell'oro.
Malgrado questa ricchezza - concentrata soprattutto nella regione del Katanga - l'80 per cento della popolazione (circa 11 milioni di persone), vive in condizioni di estrema poverta'. Per avere un parametro di riferimento, oggi la Repubblica Democratica del Congo conta circa 49 milioni di abitanti ed un reddito nazionale lordo, pro capite, di 130 dollari statunitensi, mentre l'Italia, con 57 milioni e mezzo di abitanti, ha un reddito pro capite lordo di 19.880 dollari.
Il 1960 e' anche l'anno dell'indipendenza del Congo, raggiunta due anni dopo la nascita della Comunita' franco-africana del 1958, la quale ha, senza dubbio, contribuito a spianare la strada alle istanze indipendentiste del Paese.

CI PROVA ANCHE L'ONU

All'indipendenza, pero', il Congo giungera' del tutto impreparato, senza quadri politici, amministrativi, tecnici ed economici; il tessuto connettivo del Paese, infatti, e' dato solo dai legami tribali. A base tribale erano i partiti politici, salvo il Movimento nazionale congolese (Mnc), capeggiato da Patrice Emery Lumumba. Pochi giorni dopo l'indipendenza ci sara' una rivolta del raccogliticcio esercito congoleseguidato da J-D. Mobutu. Cio' sara' pretesto per un ritorno armato dei Belgi, i quali favoriranno la secessione della ricca regione del Katanga, feudo della compagnia mineraria Union Minie're, per mantenerne ancora il controllo e sfruttarne le risorse. Poco dopo anche la provincia del Kasai proclamera' la secessione. Al tempo stesso il capo dello stato, Kasavubu, e il presidente del Consiglio, Lumumba verranno a conflitto aperto e il Paese precipitera' nel disordine piu' completo. Sara' quindi richiesto un intervento delle Nazioni Unite, le quali invieranno un contingente di forze armate, che si rivelera' comunque inadeguato a ristabilire la pace. Un accordo di fatto tra Kasavubu, Mobutu
e M. Ciombe, leader del Katanga, portera' all'esautoramento del capo del governo, Lumumba, acceso sostenitore dell'indipendenza e dell'unita' del Congo.
Nel febbraio 1961 sara' resa nota la morte di Lumumba, ucciso, a quanto risulta, da uomini di Ciombe. Nell'agosto dello stesso anno si giungera' alla formazione di un governo guidato da C. Adula, sul quale le Nazioni Unite punteranno per ristabilire l'ordine nel Paese. Il segretario generale dell'ONU, D. Hammarskjöld, si rechera' personalmente nel Congo, ma il viaggio gli costera' la vita, perduta in un misterioso incidente aereo il 17 novembre del 1961. E' dello stesso mese la tragedia di Kindu, provincia del Kivu, dove tredici aviatori italiani in missione per l'ONU saranno massacrati dai ribelli congolesi. Dopo avere scaricato viveri e generi di sussistenza, l'intero equipaggio viene assalito e trucidato all'interno dell'aeroporto. Un monumento, nell'area antistante l'aeroporto Leonardo da Vinci a Roma, ricorda l'episodio e gli sfortunati aviatori. Nonostante lebarbare uccisioni l'iniziativa dell'ONU non si arrestera'. Anzi, sara' intensificata l'azione diplomatica con il governo illegale di Ciombe, senza raggiungere pero' risultati apprezzabili. Alla fine la situazione sara' sbloccata dal corpo di spedizione internazionale (Onuc) che porra' termine alla secessione del Katanga occupando, nel gennaio 1963, il capoluogo Elisabethville e l'intera provincia. I diciotto mesi che seguono saranno cruciali per la crisi congolese.
E' questo, infatti, il periodo in cui il nuovo primo ministro Adula, che uscira' di scena nel giugno 1964 all'atto del ritiro del contingente ONU, tenta di risolvere i problemi piu' urgenti: la pacificazione interna, la stabilita' del governo, il risanamento economico. Per rilanciare l'economia Adula aprira' trattative per ottenere prestiti e assistenza con la Nigeria, con la Comunita' economica europea e con vari Paesi occidentali. Nonostante i suoi sforzi il nuovo primo ministro non riuscira' ad impedire che l'opposizione di ispirazione lumumbista si trasformi in guerriglia endemica in vaste zone nordorientali del Paese. L'attivita' apostolica di fratel Vittorio Faccin si svolge in questo periodo e in questo contesto. Gli eventi di cui sara' protagonista vanno letti e interpretati sullo sfondo di questo scenario storico locale e internazionale. Nel Congo in cui il giovane missionario saveriano si immerge con tanto entusiasmo (lo leggeremo nelle pagine del suo diario), sono molto vistose le differenze culturali: quasi quattrocento tribu'. La gran parte sono di ceppo Bantu'. Nei territori affidati ai Missionari saveriani sono numerosi i Banyarwanda tra cui i Banyamulenge divenuti tristementefamosi con la guerra del Congo del 1996 e con l'attuale guerra. Sono rwandesi emigrati in Congo a partire dal secolo scorso. L'organizzazione politica non corrisponde certo ai canoni delle nostre strutture ma non per questo meno omogenea; anzi e' rispondente ai bisogni e alla convivenza della tribu'. Predomina, invece, l'organizzazione a clan, come pure la discendenza patrilineare, in alcuni casi, con eredita' al fratello minore, anziche' al figlio del defunto. Molto evolute sono le societa' segrete, alcune delle quali dedite al culto dei morti. Gli antenati sono ricordati e venerati come coloro che hanno lasciato alle giovani generazioni la scienza del vivere e possono difendere dagli spiriti del male. La credenza in questi spiriti e' ragione della paura e insieme delle pratiche magiche diffuse fra la gente. Anche per questo la religione cattolica fatica ad essere annunciata. Malgrado le aree fertili raggiungano il 21 per cento dell'intero territorio, solo l'1 per cento di esso e' coltivato. L'agricoltura, primitiva, e' rivolta soprattutto a far fronte ai bisogni alimentari locali. I principali prodotti sono: sorgo, miglio, mais, manioca, patate dolci, banane, arachidi, sesamo, riso. Alla donna sono affidati tutti i lavori nei campi, salvo il dissodamento; l'allevamento per ragioni climatico-ambientali, e' limitato alla capra e al maiale.
Le mandrie di bovini, scarsissime, si trovano, infatti, in poche zone di montagna. Inquadrato il contesto storico e ambientale in cui si muove il giovane religioso saveriano possiamo ora riprendere la lettura del suo diario.

BARAKA, 24.1.1961

Qui le cose non vanno troppo bene. Quando alla radio parlano di Kivu, e' proprio la nostra zona, quando parlano di Bukavu, e' il nostro capoluogo di Provincia. Fino ad oggi non abbiamo patito la fame, ma procurarsi il cibo sta diventando difficile. Latte, farina, tutto costa molto caro. Consumiamo riso con pesce e qualche pezzo di carne con pastasciutta. A proposito di pasta, un giorno il nostro cuoco ha domandato a padre Didone' come e' fatta la pianta che fa i maccheroni. Ai nostri mori piace molto il "tumbo tumbo", le budella degli animali. Cio' che a noi piu' manca, come al solito, e' la verdura.
Molti fatti sono accaduti in questo mio primo anno di permanenza in Africa; ben pochi, purtroppo, sono stati positivi per il Congo. Il comunismo dilaga. Sulla sua natura non dobbiamo farci illusioni, a meno che la Provvidenza Divina non ci venga incontro in formastraordinaria.
Voi che siete in Italia, pregate per la pace di questo Congo. I soldati girano continuamente e sono il terrore di tutti i civili. Le lettere cominciano ad essere censurate. Fino ad oggi noi missionari siamo stati rispettati. La nostra attivita', pero', e' limitata. Non ci possiamo esporre, per prudenza. Cosi', io economo e addetto alla cucina, attendo al pollaio. Padre Adriano ripara i motori: quello della camionetta e quello della barca con cui ci spostiamo sul lago. Padre Angelo Costalonga tenta di fare l'ortolano. Questi disordini ci fanno male. Avremmo molto da fare qui per i cristiani, soprattutto per quelli - e non sono pochi - sperduti in mezzo alla campagna senza assistenza religiosa, confortati solo dalla corona e dalla recita del Rosario. Qui a Baraka, l'altra notte, per questioni di terreno, sono scoppiati disordini fra tribu'. Due uomini sono stati uccisi a colpi di lancia. E' inconcepibile; e pensare che e' cosi' bello quando si parla amichevolmente con loro!


LA GIOIA DI SOFFRIRE PER CRISTO

Stendo queste righe a Bukavu, dove mi trovo, dopo avere vissuto un'avventura che mi ha consentito di raggiungere un traguardo da altri difficilmente eguagliabile: in una settimana ho passato tutte le prigioni da Fizi a Bukavu (che distano 250 km. l'una dall'altra). Ecco la cronaca dei fatti. Giovedi' 2 febbraio 1961, a mezzo giorno, un elicottero delle Nazioni Unite atterra davanti alla finestra della mia camera a Baraka. Ne esce un militare che si dirige subito verso padre Adriano.
In inglese gli chiede se vogliamo seguirlo per fuggire dal Congo. Naturalmente la nostra risposta e' negativa. Nel frattempo tutti i ragazzi della scuola circondano l'elicottero per osservarlo da vicino.
Il militare, preso atto delle nostre ragioni, si congeda e torna a bordo del velivolo, che pochi istanti dopo scompare dal nostro orizzonte.
Verso le 15.30 giungono alla Missione un paio di vetture. Da esse scendono alcuni soldati che vengono a chiederci spiegazioni dell'elicottero e della lettera. I ragazzi della scuola avevano riferito a imprecisati informatori che il militare dell'ONU ci aveva lasciato un documento. La nostra casa e' ispezionata in ogni angolo. Vengono trovati 160 litri di benzina, che sono immediatamente confiscati (ma la parola corretta e' rubati). I soldati ci ordinano di salire su una camionetta. Ci fanno fare un giro per Baraka. Dopo un'ora ci riportano alla Missione.
Entro in casa e il mio primo pensiero e' di lavarmi.
Non faccio in tempo ad uscire dal bagno che vedo un camion arrestarsi davanti alla nostra casa. Questa volta i soldati sono una ventina e piazzano mitragliatrici in vari punti strategici. Mi sto cambiando quando due militari aprono la porta della camera e mi fanno cenno d'uscire. Resisto, spiegando che devo vestirmi; e questo per ben tre volte, finche' non mi danno il tempo di completare l'operazione. Rimontiamo, io e gli altri confratelli, sul camion che si dirige dritto verso il carcere. La prigione era larga 5 metri per 10, tutta buia. La luce veniva da quattordici feritoie larghe 7 centimetri per 10.
Prima d'entrare dobbiamo subire una meticolosa ispezione personale. Nella prigione c'erano due muretti, alti circa 50 centimetri; sopra abbiamo posto delle tavole ed il letto e' risultato subito "confortevole". In mezzo c'era un corridoio e nel fondo un bidone per i bisogni comuni.
La' hanno dormito i tre padri: Knittel (superiore), Adriano e Costalonga. Faceva loro da guanciale una coperta ricevuta dagli altri prigionieri (quattordici, nella circostanza); era evidente che puzzava! Versole 19 sono venuti a prendermi e mi hanno portato in una cella di 4 metri quadrati, tutta per me. Due tavole, che affiancate non arrivavano a mezzo metro di larghezza, sono state il mio materasso, mentre per guanciale ho usato il casco. Verso le 22 mi hanno fatto rientrare nella stanza con gli altri e hanno messo un altro al mio posto. Si sono pero' subito pentiti e dopo un paio di minuti ognuno e' tornato al suo posto: io nella cella angusta e l'altro nella stanza comune. Nell'occasione mi hanno ritirato il casco; cosi' le mani messe sotto la testa hanno fatto da cuscino per tutta la notte. Nel cuore avevo una grande gioia, perche' mi sentivo di far parte (ultimo dell'ultima fila) dei confessori della fede.


L'UOMO CATTIVO

Alle 6 del mattino vengono a prendermi e mi conducono al lago: i miei guardiani mi ordinano di aiutarli a pulire la camionetta. Alcuni ragazzi della scuola, intenti a lavarsi, mi lanciano sguardi inquisitori, molto eloquenti. Non parlano, ma e' come se mi chiedessero: "Perche' sei prigioniero e, soprattutto, perche' ti obbligano a lavare la loro macchina?". Pulita la camionetta mi riportano alla prigione dove apprendo che i padri sono rientrati alla Missione. Chiedo di seguirli per poter fare la Comunione. Mi rispondono di no "perche' sono un uomo cattivo". Dopo circa un'ora, mi fanno uscire dalla cella e con la camionetta mi riportano alla Missione. Chiedo di mangiare. La prima risposta e' un "no" secco; poi, pero', un paio di guardie va a preparare un piatto e me lo serve in tavola. Mangio, mi cambio, do' alcune istruzioni ad un collaboratore della Missione, monto in vettura e mi riportano in cella. Verso mezzogiorno con gli altri padri mi ricaricano sulla camionetta: si parte per Uvira, destinazione Bukavu. Verso le 17 arriviamo alla Missione di Uvira, che dista una quarantina di metri dalla prigione. Ci danno il permesso di mangiare nella nostra casa, ma la notte dobbiamo passarla in carcere. Alle 20.30 entriamo in cella: e' larga 1 metro e 45 centimetri ed e' lunga 4 metri; non ha la finestra e non c'e' neppure un bidone per eventuali bisogni fisiologici. Le guardie hanno compassione e ci lasciano la porta aperta. Quella notte, per tutti,ci sono stati messi a disposizione una lamiera come materasso, una stuoia e una coperta. Luogo e oggetti erano pieni d'insetti tanto che al mattino io sono uscito con mani, piedi e un occhio gonfi.
Il mattino seguente ci autorizzano ad entrare nella nostra casa per consumare un po' di cibo. Li' celebriamo la Messa e ho la possibilita' di fare la Comunione. Alle 10.30, dopo un'ora di permesso, rientriamo in cella. Ci restiamo fino a mezzogiorno, ora in cui ci fanno risalire sulla camionetta con destinazione Bukavu. Nel capoluogo di provincia arriviamo attorno alle 6 del pomeriggio, dopo un viaggio pieno di sgradevoli episodi su cui non mi trattengo.
A Bukavu il commissario ci conduce a parlare con il grande capo Kashamura, che non c'e'. Allora ci portano dritto in prigione dove rimaniamo due giorni: da sabato a lunedi' 6 febbraio. La prigione era un paradiso. Abbiamo trovato due materassi, senza lenzuola o coperta; ma verso le 22.30 un soldato dell'ONU ci ha portato da mangiare e due coperte per ciascuno. Li' abbiamo trovato guardie cristiane, d'animo buono. La domenica abbiamo fatto conoscenza con i prigionieri - una decina in tutto - delle celle vicine
Erano persone altolocate: direttori ecc...In questi giorni le persone per bene sono dentro e i delinquenti fuori! Il nostro caso e' stato portato al Consiglio provinciale e deciso dal gran capo Kashamura. A trattare con noi e' sempre venuto il ministro degli Interni. Lunedi', alle 9.30, la sua vettura e' venuta a prelevarci dalla prigione e ci haportato nel suo ufficio. Dopo mezz'ora ci ha lasciati liberi di andare alla missione di Bukavu, meno padre Adriano, espulso dal Paese perche' persona indesiderata. Padre Knittel restera' a Bukavu per qualche giorno e poi rientrera' in Europa per un periodo di riposo. Padre Costalonga ed io, per il momento siamo autorizzati a restare ad Uvira, in attesa che ci venga concesso un documento di libera circolazione. Per il momento, quindi, la Missione di Baraka resta chiusa, in attesa di tempi migliori. Addio a tanto lavoro fatto e a tante speranze! Dopo tante peripezie, pero', noi non siamo stati picchiati come altri nostri confratelli.


UNA CISTERNA PER LA MISSIONE

Baraka, 3 settembre 1961.
Qui per il momento tutto e' calmo. Anche i soldati non danno piu' noia. Il 23 agosto sono arrivati altri tre padri e un fratello. Il Vescovo ha deciso di fondare una seconda missione a Fizi, che dista circa 40 chilometri da Baraka. A noi restera' la parte del lago e a Fizi la parte della montagna. Padre Didone' che era qui a Baraka, ora si trova a Fizi per fondare la nuova Missione. Cosi' Baraka sara' divisa in due e noi potremo intensificare il lavoro nell'area a noi piu' prossima. I confratelli di Fizi assisteranno i fedeli dei villaggi di montagna, mentre noi provvederemo a quelli che vivono lungo la costa del lago Tanganika, dove risiedono diversi protestanti e molti musulmani. A Katanga, villaggio a 12 chilometri da Baraka, stiamo costruendo una chiesetta di 6 metri per quindici. Stiamo usando mattoni cotti al sole e se i risparmi dei cristiani saranno sufficienti, la chiesetta verra' ricoperta con delle lamiere, altrimenti useremo delle erbe. In questo secondo caso, Gesu' sara' il povero in mezzo ai poveri. Quando arrivera' la camionetta (gia' ordinata: ma ancora non pagata) potremo andare la' piu' spesso a celebrare la S. Messa. Intanto, qui a Baraka, sono dieci giorni che cavo pietre dal cortile davanti al refettorio per poter fare una cisterna che possa raccogliere una abbondante quantita' d'acqua piovana. Ho un solo aiutante, un operaio ventenne che si professa protestante. Dice che vuole farsi cattolico,perche' i protestanti, qui in Congo, proibiscono di fumare e lui fuma. Una volta c'era sempre un uomo che pensava a portare la legna e l'acqua ai padri, ma da quando il Congo ha raggiunto l'indipendenza non c'e' piu' nessuno disposto a fare questo servizio, retribuito, s'intende. Io mi sono stancato di scendere al lago due volte alla settimana (nella stagione secca) per fare rifornimenti d'acqua. Dove sto scavando e' tutta roccia che si spacca a pezzi. Quando si cammina per strada non si sente piu' gridare "P.n.p" (Partito nazionale del progresso), che i lumumbisti avevano soprannominato "Partito dei Paesi neri". Era una grande offesa che rivolgevano ai bianchi e ai neri amici dei bianchi. Qualche mese fa quando volevano espellermi dal Paese, dopo la settimana di carcere, accanto al mio nome avevano posto la sigla "P.n.p".
Anche gli scout e i giovani saveriani ("xaveri") sono stati minacciati piu' volte di finire in prigione se proseguivano nelle loro attivita'. Il mese scorso i soldati volevano imprigionare il loro capo perche' vestiva l'uniforme kaki.
Ho dovuto incontrare il vice amministratore della Provincia per sistemare la cosa. Mi ha domandato se non poteva cambiare l'uniforme. Gli ho risposto che non ero autorizzato, ma che poteva mettersi in contatto con il segretario generale dell'organizzazione a Bukavu o a Leopoldville.
Ha avuto da ridire anche sui colori della bandiera, che sono bianco, giallo e rosso. A suo giudizio richiamano quelli della bandiera belga. A Baraka, comunque, tutto e' calmo e noi possiamo continuare il nostro lavoro. Ogni tanto, quando passano i soldati, c'e' un po' d'agitazione. Cio' dipende dal fatto che Baraka confina con il Katanga (regione congolese controllata da Tchombe) e con il Burundi, Paese sotto la protezione belga
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NOSTRA SIGNORA DEL TANGANIKA

Marzo 1962.
So che in questo tempo di disordine il pensiero dei miei cari e dei confratelli che stanno in Italia e' sovente a Baraka, in modo particolare per le notiziediramate dalla radio e dai giornali sulla morte di 22 missionari europei. Sono stati uccisi perche' avevano la pelle bianca. In tutta la zona del Manyema e' sempre stato cosi', anche al tempo della schiavitu'. Se ci sono dei disordini e' sempre dove si trovano dei Baluba o dei Bakusu. Le citta' di queste tribu' sono Kindu, Kasongo e Kongolo. Kindu dista 1000 chilometri da Baraka, Kasongo 500, e Kongolo oltre 400. Qui e' tutto calmo e il nostro lavoro e' ripreso. La vettura che attendevamo e' arrivata; questo ci permettera' maggiori e piu' rapidi spostamenti. Da quando abbiamo cominciato a celebrare la Messa vicino al Centro commerciale, molta gente si e' avvicinata. Abbiamo trovato cosi' il coraggio di chiedere un pezzo di terreno su cui costruire una casa per i Padri e una chiesa. Non sappiamo se riusciremo a superare le difficolta' che si presentano. Noi cerchiamo di fare del nostro meglio; cio' che non riuscira' a noi lo fara' il Buon Gesu'.
I confratelli che hanno avviato la Missione a Fizi sono soddisfatti, anche se vivono nella piu' grande poverta'.
In questi giorni di Quaresima facciamo il pellegrinaggio mariano e in ogni villaggio in cui esiste una scuola mettiamo una piccola statua della Madonna. A meta' maggio ci saranno le Prime comunioni e ibattesimi degli adulti con la conclusione del pellegrinaggio e la benedizione di una statua, alta due metri, che sono riuscito a prelevare da Uvira. Sara' collocata nel luogo dove dovrebbe sorgere la casa dei Padri. L'edificio in cui abitiamo attualmente diventera' la sede del collegio, inaugurato dal Ministro dell'Istruzione il 21 febbraio scorso. Il collegio e' stato intitolato a Nostra Signora del Tanganika. Attualmente i ragazzi iscritti sono una quarantina. Il giorno dell'inaugurazione i nostri scolari hanno fatto una bella figura nel saggio ginnico.


I COCCODRILLI

In questi ultimi tempi, girando per i villaggi, ho potuto verificare qual e' la situazione del Kivu. Nella nostra area e' tutto calmo. Gli europei cominciano a rientrare. I soldati sono gentili e anche la popolazione e' rispettosa. Negli uffici si parla con molta cordialita' e tutti si preoccupano di venire incontro alle nostre esigenze. Se si aspetta qualche minuto c'e' subito chi domanda di che cosa abbiamo bisogno.
Per strada salutano. I magazzini cominciano ad essere riforniti, la benzina si trova senza difficolta'. Solo verso l'interno (Kasongo, Kabale) la situazione permane instabile. La' mancano benzina, nafta, acqua, luce; macchine e camion sono fermi ai bordi delle strade. I Padri, prima di rientrare nelle Missioni di quelle zone, attendono che ci siano maggiori garanzie di sicurezza. Il Signore ha voluto provare loro e noi: ha provato loro per far capire che hanno ancora bisogno dei bianchi; ha provato noi perche' ci impegniamo con piu' amore (aldila' del profitto) ad aiutarli nello sviluppo, creando cosi' uno spirito di famiglia e di cristiana carita'. Se ci amiamo anche Lui ci amera'. Intanto anche i coccodrilli hanno incominciato a farsi vedere dopo anni che non si vedevano piu'. Come primo avviso si sono mangiati un uomo a 5 chilometri da dove vado sempre a nuotare io; dopo tre giorni a 7 chilometri verso Sud, hanno preso una donna, di cui si e' trovato lo scheletro dopo tre giorni. Dopo questi fatti, tutti vanno anuotare vicino al mercato dove c'e' molta gente. I coccodrilli seguono gli uomini e si sono spostati verso il centro.
Ieri sono andato a nuotare insieme a tre ragazzi: non ci si fida piu' ad andare da soli. Mi trovavo ad una decina di metri dalla riva, quando i ragazzi hanno cominciato a gridare: "Frera, kuna mamba, mamba, mamba...". ("Fratello, c'e' il coccodrillo!"). Mi sono mancate le forze. Il coccodrillo o un grosso pesce era a pochi metri da me... Anche in bocca ad un coccodrillo e' una morte di carita': sfamare una bestia! Tra non molto ci sara' la processione delle Palme. Qui le palme non mancano. Prevediamo di dover dire la Messa all'aperto perche' non abbiamo una chiesa degna di tale nome: i cristiani che vi parteciperanno saranno molti. Per la Settimana Santa e la Pasqua si faranno tutte le cerimonie: credo che questa sia la prima volta in tredici anni di storia della Missione di Baraka. Le stazioni della Via Crucis il Venerdi' Santo saranno commentate da alcuni fedeli: ognuno di questi portera' la croce sulle spalle, come Gesu'. Mercoledi' partiro' per Uvira per il ritiro spirituale del mese, poi mi trasferiro' ad Usumbura dove acquistero' le divise per i ragazzi, scout e xaveri. Dopo Pasqua dovranno fare l'esame e la promessa per essere ammessi tra gli scout e l'associazione dei Giovani saveriani. Le difficolta' non mancano: calare il Vangelo nelle coscienze non e' facile. Sono comunque persuaso che e' valsa la pena di lasciare l'Italia per venire qui ad arricchire i fratelli neri della Grazia di Dio. Noi missionari siamo esigenti, qualche volta, forse, anche troppo. A ben pensarci non so quale italiano sarebbe disposto a rinunciare a tutto: vizi, abitudini, costumi, perfino alla propria religione, a non ascoltare i consigli dei propri genitori per seguire la fede di uno straniero, che per loro, non ha quasi mai amato gli uomini di pelle nera. Sento indispensabile la preghiera, di tutti i credenti del mondo, perche' in questo tempo di risurrezione, la Mamma celeste interceda presso suo Figlio risorto affinche' anche a Baraka, vi sia la vera risurrezione di Cristo Gesu'.


TUTTO E SEMPRE, PER LA MISSIONE

Murhesa, settembre 1962.
Mi trovo qui a Murhesa nel grande seminario diteologia a fare l'economo. Il padre superiore e' partito per il Belgio, per un intervento chirurgico che, grazie a Dio, e' riuscito.
La sua convalescenza durera' un paio di mesi. Il Padre economo fa da superiore e io lo aiuto. L'8 dicembre faro' la professione perpetua. Qui non ci sara' modo di solennizzarla come a Parma, ma la sostanza e' la stessa. Questa professione e' la mia consacrazione al Signore per tutti i giorni che mi restano ancora da vivere. Miei cari, pensate a questo passo ormai vicino, e' una cosa seria. Solo Colui che mi ha chiamato a seguirlo, puo' darmi la grazia di seguirlo fino in fondo. A Baraka, intanto, sono arrivati quattro fratelli religiosi rwandesi per gestire le scuole del Collegio. Il prossimo mese dovremmo iniziare i lavori per la costruzione della chiesa. Il nostro vescovo e' partito oggi per partecipare al Concilio Ecumenico Vaticano II.
Questo mese ho scritto al Padre generale alcuni pensieri che riassumo brevemente. Dopo lunga riflessione e preghiera - gli ho confidato - ho deciso di fare la mia domanda per essere ammesso alla professione perpetua, sicuro che questa e' la volonta' di Dio, al quale ho consacrato la mia vita. Desidero che venga presto questo giorno per offrirmi a Gesu' quale vittima di salvezza per le anime.
Totalmente e irrevocabilmente di Dio per la missione, direbbe il nostro Fondatore, Mons. Guido Maria Conforti.
Nella preghiera Gesu' mi ha fatto capire che e' meglio che sia io sacrificato a Lui, che Lui immolarsi nelle mie mani.
Mai come oggi ho potuto capire la frase di Gesu': "Chi ha posto mano all'aratro, non si volga piu' indietro"
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UNA CASA PER LE SUORE

Kiringye, novembre 1962.
Dopo tanti progetti e nomine sono stato mandato qui a Kiringye, in pianura. Anche se non c'e' il lagoTanganika e' una delle zone piu' belle della diocesi. Che cosa faccio qui? E' semplice: sto costruendo una casa per le suore.
Ho piu' di 30 operai che mi aiutano, ma qualche volta e' difficile farli lavorare, anche se fra loro c'e' qualcuno che si impegna ed e' responsabile.
E' in auge anche qui, come in molte parti del mondo il proverbio che consiglia: "Non fare oggi tu quello che un altro puo' fare domani". La maggior parte degli operai si dichiara protestante. Dalle 7 del mattino alle 4 del pomeriggio sono sul trattore per trasportare pietre, sassi, mattoni, sabbia, terra. Alcuni giorni arrivo a fare undici viaggi. Per fortuna il fiume non e' distante. La terra serve per fare il fango ("poto-poto", in Kishwaili), che viene usato al posto della calce o del cemento, per la costruzione dei muri con i mattoni.
I congolesi lo chiamano "il cemento del Signore" ("ciment ya Mungu"). Quando ho detto che costruivo con il "poto-poto", uno degli ultimi missionari arrivati dall'Italia mi ha lanciato un'occhiata di commiserazione quasi fossi stato uno squilibrato. Per diverse settimane la pioggia ha rallentato i lavori che comunque ormai volgono al termine. Entro febbraio, comunque, le religiose potranno occupare la casa e questo ha fatto ricredere il mio confratello sulla tenuta del "poto-poto". L'11 ottobre, giorno dell'apertura del Concilio, abbiamo seguito, via radio, i vari momenti della cerimonia: la S. Messa, il canto del "Veni Creator", le litanie di tutti i Santi. La stessa voce del Papa si sentiva molto chiara. Ci siamo commossi nell'udire le parole di Giovanni XXIII ad una distanza di oltre 8.000 chilometri. Alle 10 del mattino dello stesso giorno, anche noi, assieme alle campane di tutte le cattedrali del mondo, abbiamo fatto rintoccare la nostra, sostenuta da due robusti pali che fungono da campanile. Felici auguri di un santo Natale a voi che siete in Italia e grazie per tutti gli aiuti che mandate in Missione (compresi gli indumenti, nuovi e vecchi).


L'"EBREZZA" DEL NAUFRAGIO

Baraka, giugno 1963.
Da poco piu' di quattro mesi sono di nuovo a Baraka con un compito preciso: assistere ai lavori di costruzione della chiesa e della casa dei padri. In pratica il vescovo mi ha nominato capomastro. Il mio ultimo atto a Kiringye, il 23 febbraio scorso, e' stata la consegna delle chiavi della casa in cui hanno preso alloggio le suore. In questi mesi ho fatto spesso la spola tra Baraka e Uvira per procurarmi il materiale necessario alle costruzioni edilizie. Negli ultimi tempi il lago Tanganika e' salito di un paio di metri e ha mangiato buona parte della strada lungo la costa tra Uvira e Baraka, percio' l'unica via di comunicazione e' il lago. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, durante uno di questi spostamenti, ho provato l' "ebbrezza" del naufragio. Verso le 15 di martedi' 18 mi sono imbarcato ad Uvira (per raggiungere Baraka), proprio nel momento in cui le onde del lago cominciavano ad incresparsi.
Finche' c'e' stata luce abbiamo potuto navigare, ma quando e' scesa l'oscurita', neppure con il faro riuscivamo a vedere le onde. All'improvviso siamo stati colti da piogge battenti dai quattro punti cardinali. La barca ha cominciato a non tenere piu': beccheggiava e rullava; e il timoniere ha perso l'equilibrio. Per fortuna eravamo vicini alla riva. Il capitano (e proprietario del natante) ha preso il timone e in dieci minuti ci ha portato tra le erbe (matete), che sono simili a canne di bambu' acquatiche. Verso le nove della sera abbiamo tentato di riprendere la navigazione, ma il temporale ce lo ha impedito. Cosi' abbiamo trascorso la notte in mezzo al lago, riparati da un tetto di lamiera, mentre l'acqua entrava da ogni parte. Bagnati fino al midollo siamo arrivati al pontile di Baraka il giorno dopo,mercoledi', attorno a mezzogiorno.
In condizioni normali la navigazione non sarebbe durata piu' di quattro ore. Se siamo salvi dobbiamo ringraziare la Madonna e l'Angelo Custode. Per quanto riguarda la chiesa di Baraka - che, in base al progetto, sara' lunga 32 metri, larga 14 e alta 6, al centro e 5 ai lati - il 23 maggio scorso, ne abbiamo benedetto la prima pietra. Nelle scorse settimane, sempre in qualita' di capomastro, ho pure provveduto a completare la casa di alcuni maestri che insegnano in un villaggio di montagna. Per due giorni abbiamo dovuto lavorare per aprire un varco alla camionetta, carica di materiale, la quale doveva avanzare su un terreno accidentato e coperto da una fitta vegetazione. Abbiamo fatto il possibile, ma ci siamo dovuti arrendere ad una distanza di circa 30 minuti a piedi dal villaggio. Da quel luogo, infatti, la natura del terreno non consentiva proprio piu' di procedere con la jeep. Di la', quindi, gli operai partivano chi con una tavola, chi con due lamiere (manjanje), chi con altro sulla testa e portavano il tutto fino all'erigenda casa nei pressi della scuola. Ogni giorno si dovevano fare almeno cinque viaggi, le donne d'ogni eta' portavano sulla schiena, nei loro cesti, un sacco di cemento di 50 chilogrammi e ogni sacco era retribuito con 700 grammi di sale. Povere donne! Per avere il sale si contendevano i sacchi. In Congo gli uomini non lavorano tanto, ma le donne fanno delle vere vitacce.


FRA TIMORI E SPERANZE

Baraka, 25 dicembre 1963.
Oggi e' il santo Natale. Come e' bella la festa della nascita di Gesu'. Anche qui i cristiani sono venuti un po' da tutte le parti: c'e' chi ha percorso 100 chilometri per passare questa importante giornata assieme ai cristiani di Baraka, i quali per l'occasione offrono sempre da mangiare agli ospiti. In questi ultimi giorni il lavoro e' stato molto, ma nel vedere i cristiani che venivano da tanto lontano non si e' pensato alla stanchezza. Abbiamo fatto anche il presepio: qualche statua e qualche montagna. Una cosa molto semplice perche' mancava anche la grotta: abbiamo messo Gesu' in una insenatura di una vallata. Il 4 di questo mese ho fatto un viaggio fino ad Albertville, con la barca a motore recentemente acquistata. Sono stati tre giorni di andata e tre di ritorno, sempre in barca: acqua, acqua, acqua. Abbiamo sempre costeggiato. Baraka-Albertville sono 34 ore di navigazione senza sosta. Come viaggio e' stato magnifico, grazie al bel tempo. Lungo quelle coste e' tutto montagna e foreste; e, di tanto in tanto, qualche capanna, che ha per strada l'acqua del Tanganika e per vettura, la piroga. La gente che abita lungo le coste e' semplice e basta poco per renderla contenta. A noi religiosi fa male vederla cosi' dispersa in luoghi dove non c'e' mezzo d'insegnare loro ad amare di piu' Gesu'. Ci sono anche dei cristiani, ma poche volte hanno modo d'incontrare un Padre e di sentire la Parola di Dio. Certo che il Signore usera' per loro un'altra misura rispetto alla nostra. Ultimamenteho ricevuto 15 tonnellate di cemento (300 sacchi), per la costruzione della chiesa. Con questo materiale spero proprio di arrivare a buon punto.
Uvira, 7 maggio 1964.
Mi trovo qui di passaggio: erano gia' cinque mesi che non venivo nella citta' sede vescovile. Qui ho trovato l'occorrente per il prossimo mese. Forse in Italia giungono, via radio, notizie di questi luoghi e dei disordini provocati dal Movimento dei giovani mulelisti. Non ci si deve impressionare poiche' hanno promesso che ai Padri delle Missioni e ai bianchi non faranno niente. Stanno lavorando per instaurare un vero sistema comunista. Quello che impressiona e' quando si ubriacano perche' perdono la ragione. I Padri della Missione di Mulenge, centro dei rivoluzionari, sono scappati l'altra notte. Hanno percorso i 100 chilometri a piedi attraverso montagne. I due Padri che sono andati alla ricerca dei fuggiaschi sono stati bloccati dal Movimento e da due giorni non si hanno piu' notizie di loro.
Non si e' preoccupati delle percosse che possono essere state inflitte loro, ma del fatto che non hanno provviste di cibo con loro. Si nutrono speranze che siano stati riportati alla Missione di Mulenge, perche' i rivoluzionari non vogliono che i padri lascino la Missione vuota. Che parenti e amici a casa, in Italia, si ricordino, nelle loro preghiere, di noi che viviamo con il cuore sospeso in questo tempo di crisi. Da noi a Baraka, e' tutto calmo, anche se ci aspettiamo, da un momento all'altro, l'arrivo dei rivoluzionari. Speriamo che riescano a smorzare in fretta i disordini. A me sembra che sia tutta questione d'invidia e di potere. I Mulelisti non sono arrabbiati contro di noi; sappiamo, pero', che cosa ci aspetta una volta che raggiungessero il potere: fare le valige e partire. La loro ignoranza e' tale da renderli paurosi; hanno sempre paura d'essere imbrogliati. Anche la gente piu' semplice e buona ci casca dentro innocentemente. I lavori della chiesa proseguono lentamente. Se al Buon Dio piacera', verra' il giorno in cui sara' finita. La citta' di Usumbura ha cambiato nome, ora si chiama Bujumbura. Mi auguro che per tutte le notizie che giungono in Italia via radio o per posta i nostri cari non piangano; confido solo che ci ricordino nelle preghiere, affinche' Dio sia glorificato e dia a noi la forza di testimoniare la sua gloria. Il Padre Superiore, in attesa degli avvenimenti, si ritirera' nel vicino Burundi per 15 giorni. Si ha buona speranza che tutto si risolva in bene, ma abbiamo molti interrogativi in proposito.


TEMPI DI ALTA TENSIONE

A questo punto il diario di fratel Faccin si fa piu' fitto. Riporta una serie di lettere incalzanti - tutte indirizzate ai famigliari - le quali documentano una situazione ogni giorno sempre piu' difficile per i Missionari Saveriani.
Baraka, 10 giugno 1964.
Carissimi, spero che questa mia vi arrivi. I "bravi" sono arrivati; noi non siamo stati toccati. Hanno preso, pero', tutto: dalle macchine, compresa la bici (ora restituita), alla barca. Hanno promesso che ci verra' restituita ogni cosa. In questi giorni ci mandano delle guardie notturne per la nostra protezione. E' un segno di delicatezza. Una cosa e' chiara: tra di loro si sgozzano come capre. La tensione e' sempre alta. Pregate affinche' il nome di Gesu' sia glorificato e la Mamma celeste ci protegga.
Baraka, 19 giugno 1964.
Carissimi, qui si vive. Da qualche giorno hanno terminato di sgozzare, ma continuano dalle parti di Albertville e di Bukavu. Mentre vi scrivo fuori dalla porta ci sono undici guardie che conversano fra di loro. Sono tutti bravi ragazzi: peccato che siano ingannati dalla dottrina cinese. Sono rimasto solo con il Padre Sartorio. Mai come in questi giorni ci siamo sentiti soli. Cio' che ci fa pensare di piu' e' che non si vede una via di scampo per un futuro prossimo miglioramento. Pregate per noi e per questi poveri cristiani che si perdono per essere ingannati.
Baraka, 30 giugno 1964.
Carissimi, i nostri guardiani sono sempre fedeli, varia il numero: sette, sei, cinque, tre. (...) L'atmosfera e' sempre tesa. Per il momento non sembra che ci sia molto pericolo per noi. Una cosa e' certa: che e' molto difficile conoscere le loro intenzioni.
Il grande capo e' passato da Baraka la scorsa settimana e nel discorso ha detto che tutti i missionari possono restare al loro posto per il bene delle scuole ad una condizione: che non si mettano nei loro affari interni. Non si sa che cosa intendano con questa frase dato che il V e il VII comandamento sono completamente sconosciuti a loro. La chiesa non e' finita, ma e' comunque accogliente e idonea al raccoglimento e ad una certa devozione. (...) All'inizio del mese anche l'acqua e' arrivata alla Missione attraverso una tubazione di 2.300 metri. E' un lavoro che mi e' costato sudori e critiche, ma, una volta terminato, tutti si sono complimentati. (...) Ieri abbiamo cominciato a fare dei grossi mattoni cotti al sole per la costruzione di una piccola casa (la casetta piccolina in Canada') vicino alla chiesa in riva al lago Tanganika. (...) Pregate per i nostri cristiani che sono provati fortemente nella loro fede a causa di certe pratiche pagane.


SETE DI LIBERTA'

Baraka, 5 agosto 1964
Carissimi, qui siamo calmi, io continuo la costruzione della casa cominciata 15 giorni fa e fatta con mattoni crudi. (...) I rivoluzionari continuano a guadagnare terreno: quando finira'? La nostra vita e' nelle mani della Mamma celeste. Pregate per noi e per i nostri cristiani che sono in una dura prova. A voi tutti il mio abbraccio a Gesu' e Maria.
Baraka, 22 novembre 1964.
Carissimi, abbiamo sete di liberta', ma questa quando sara'? (...) Io sono assieme al Padre Luigi. Tutti i miei compagni, uno alla volta, sono partiti e sembra che siano in Italia. La Mamma celeste che fino ad oggi ci ha assistiti in una forma miracolosa continuera' ad assisterci. Sono certo che usciremo salvi.
Le vostre preghiere sono bene accette in Cielo. Continuate a pregare per questa povera gente.Versate le vostre lacrime ai piedi della Mamma celeste, madre degli Apostoli. Pregate. Un abbraccio a tutti: babbo, mamma, fratelli, sorella, nipoti, cognati. Vostro in Gesu' e Maria
.

NON LASCIO SOLO MIO FRATELLO

Dopo questa lettera, il silenzio: diario e corrispondenza tacciono. Arrivera' la cruda notizia della morte. I particolari si conosceranno solo molti mesi piu' tardi, grazie al rinvenimento della salma, nel gennaio 1966, ad opera di padre Palmiro Cima. Gli ultimi attimi di vita del giovane missionario sono stati ricostruiti sulla base di testimonianze rese da alcuni abitanti del luogo.
Sono circa le nove del mattino del 28 novembre quando, con un forte stridore di freni, una jeep guidata da un capo guerrigliero, tal Abedi' Masanga, si arresta davanti alla casetta dei Padri, a fianco della chiesa.
Fratel Faccin, gia' al lavoro da due ore, e' nella sua stanza, ancora senza vetri e senza pavimento, quando ode il vociare confuso e sguaiato di alcuni Simba avanti all'uscio. Convinto di riuscire ad allontanarli, come aveva fatto altre volte in passato, egli esce.
Masanga se ne sta in disparte accanto alla vettura, mentre sette o otto Simba lo circondano. In modo pretestuoso il capo guerrigliero gli contesta l'uso della "foni'", la fantomatica radio con cui i Missionari informerebbero le truppe regolari sugli spostamenti dei rivoluzionari.
Fratel Faccin lo lascia sfogare presumendo che la sceneggiata si sarebbe conclusa, come le precedenti, con una richiesta di denaro. Questa volta, invece, Masanga non si placa; anzi, con un'ira mai mostrata in precedenza, ingiunge al religioso di salire con lui sulla jeep. Fratel Faccin ubbidisce pensando fra se' e se' che, dovendo passare davanti alla chiesa, avrebbe potuto avvertire padre Luigi Carrara di cio' che stava accadendo.
Il conducente avvia la jeep e Masanga segue a piedi con gli altri guerriglieri. Giunti davanti alla chiesa fratel Faccin cerca di guadagnare tempo e comincia a tergiversare. I guerriglieri scendono dalla vettura lasciandolo solo. Il capo guerrigliero dice che proseguira' con lui fino alla Missione di Fizi.
Fratel Faccin comprende allora che l'irreparabile sta per accadere. "Non posso lasciare solo padre Carrara a Baraka" risponde, mentre tenta di aprire la porta per scendere. Sono le sue ultime parole. Ha gia' messo il piede destro sul terreno quando Masanga gli punta la pistola al petto e lascia partire tre colpi in rapida successione. Fratel Faccin cade riverso sul sedile, rantolando. Masanga si accanisce nuovamente sull'indifeso missionario e gli scarica addosso altri colpi,convulsamente. Poi ordina ai suoi uomini di trascinare sul terreno il corpo della vittima e comanda al conducente di rimettere in marcia la vettura.
Padre Carrara, intento a confessare alcune anziane, ha visto e sentito tutto. Si avvia verso il capo guerrigliero con addosso la stola violacea in uso per le confessioni. "Ti porto a Fizi per ucciderti con gli altri Padri", gli grida colmo d'ira, Masanga. "Se mi vuoi uccidere, preferisco morire qui accanto al mio Fratello", gli risponde sereno il missionario che s'inginocchia accanto al cadavere di fratel Faccin.
Altra esplosione di colpi a bruciapelo e il secondo omicidio e' compiuto. Perche' tanta ferocia contro uomini inermi?
Per non perdere il controllo dei seguaci da parte di un capetto della rivoluzione tanto rozzo quanto sprovveduto. Tre giorni prima, infatti, nel corso di una fallita imboscata a forze regolari spalleggiate da mercenari di grande esperienza militare, il gruppo di Masanga aveva perso settecento Simba su mille. Dovendo giustificare il clamoroso insuccesso, il capetto rivoluzionario non aveva saputo trovare miglior giustificazione che accusare di spionaggio (attraverso la famosa quanto inesistente "foni'") i missionari saveriani. E' una storia vecchia quanto l'umanita': uccidendo il capro espiatorio si placano gli animi e ogni cosa torna al suo posto. Ha scritto il cardinale Ersilio Tonini che "i missionari sono folli perche' c'e' dentro di essi la follia dell'amore di Dio. Quella follia che ha portato il Padre a mandare il Figlio per prendere in prestito delle mani da lasciare inchiodare, un capo da lasciare penetrare dalle spine e delle ossa da lasciar triturare". Fratel Faccin e' uno di quei folli che ha avuto il petto e le ossa triturate.

ALBERTO COMUZZI




MARIO VERONESI
Rovereto (Tn) 10.11.1912 - Jessore (Bangladesh) 4.4.1971




I CANNONI E LA CAMPANA

Ci sono quelli che parlano di promozione umana. E quelli che la fanno. Con piccoli gesti quotidiani. Sulle trincee piu' avanzate.
Il missionario saveriano padre Mario Veronesi non ha teorizzato. Ha fatto.
La sua prima linea e' stato il Bangladesh, uno dei Paesi piu' poveri della terra, flagellato dalla natura e dagli uomini. Li' e' caduto, vittima dell'odio, colpito al cuore da qualcuno di quegli ultimi per i qualisi era speso. Lo hanno trovato a terra, le braccia spalancate, come Cristo in croce. Cosi' e' finita la vita terrena di padre Mario Veronesi. Crocifisso per amore.
Ma, si sa, il sangue dei martiri non e' mai versato invano. Il bene fatto non va perduto. E altri continuano.
10 novembre 1912: a Rovereto, provincia di Trento, nasce Mario Veronesi, figlio di Germano e di Albina Passamani. In famiglia ci sono altri quattro fratelli e una sorella: Valerio, Giuseppe, Tullio, Nino e Anna. Rovereto e' terra di santi. Vi e' nato - il 24 marzo 1797 - un grande filosofo cristiano dell'Ottocento, fondatore della congregazione religiosa chiamata Istituto della Carita': l'abate Antonio Rosmini. Rosminiani sono detti i suoi figli spirituali che ancoraoggi ne vivono e testimoniano l'ideale. Adesso vogliono farlo beato, ma ai suoi giorni non ha avuto vita facile, dovendo subire l'incomprensione della Chiesa per le sue teorie in anticipo sui tempi. Tutto in citta' parla di lui: c'e' anche un oratorio Rosmini. Li' respirera' aria di santita' il piccolo Mario Veronesi.
Tra il 1915 e il 1918 si combatte la prima guerra mondiale, la prima grande carneficina del secolo, 65 milioni di partecipanti, la meta' morti o feriti. Rovereto non e' lontana dal fronte, vi arrivano i rumori delle battaglie, le notizie delle vittorie e delle disfatte dell'esercito italiano contro gli austriaci. Il Brenta, il Pasubio, il Monte Grappa, il Piave e l'Isonzo, Caporetto e Vittorio Veneto, i luoghi simbolo del conflitto sono nomi che il piccolo Mario ha sentito certamente pronunciare in famiglia. L'Italia vince, ma a quale prezzo. Nel 1924 il prete roveretano don Antonio Rossaro fa costruire la campana piu' grande del mondo, fusa col bronzo dei cannoni delle nazioni combattenti, e la intitola a Maria dolens. Da allora, ogni sera, nel cielo di Rovereto, si odono i suoi cento rintocchi lenti e solenni. Dal colle di Miravalle sopra la citta', il suo suono ricorda i caduti di quella e di tutte le guerre, chiede pace per il mondo intero. Anche il ragazzo Mario Veronesi ha udito la campana. E ha compreso che suonava per lui, lo chiamava alla sfida della fratellanza tra i popoli della terra.
Ogni guerra porta lutti, poverta', fame. Tempi duri per chiunque. La famiglia Veronesi non fa eccezione.
Il papa' e' il custode del macello pubblico, la mamma si occupa della famiglia. Lavorano sodo, ma c'e' bisogno di qualche soldo in piu'. Mario va alla scuola elementare di Rovereto, fino alla settima classe.
Comincia la prima nel 1918, alla fine della guerra.
I suoi fratelli continueranno gli studi: Giuseppe sara' ingegnere aeronautico, sindaco di Rovereto e deputato democristiano, Nino architetto, Valerio impiegato e Tullio maestro. Lui, invece, dopo la scuola trova lavoro presso una drogheria. Il titolare Alberto Farinati testimoniera': "Dichiaro che Mario Veronesi fu alle mie dipendenze dal 1° agosto 1926 al 31 ottobre 1933 in qualita' di commesso di banco. In questo tempo fui sempre soddisfatto del suo operato perche' fedele, onesto, intelligente e molto attivo".
Ricevuta la cresima dodicenne, eccolo nel tempo libero all'oratorio Rosmini. A 15 anni e' capo aspiranti, a 19 presidente dei giovani di Azione Cattolica.
Ha la stoffa del leader. Gli amici lo ricordano deciso, grintoso, coraggioso. Durante una gita in montagna, dopo quattro ore di marcia, un ragazzo si sloga una caviglia.
Se lo carica a spalle e lo riporta a casa. Il Rosmini, l'Azione Cattolica, la parrocchia sono la seconda famiglia di Mario. Li' la sua fede si irrobustisce, tanto che un giorno, gia' missionario in Bangladesh, scrivera' agli antichi compagni: "Amici carissimi in Gesu' Cristo, ho qui sul tavolo il foglio che porta molte delle vostre firme; da ognuna mi balza una figura nella memoria. Vi ricordo: chi nel piazzale dell'Oratorio; chi sul palcoscenico; chi pedalare per le strade polverose di quei tempi; chi per ripidi sentieri verso le cime; nelle adunanze, nei congressini... tutti! Grazie del vostro ricordo! Grazie per tutto quello che mi avete richiamato. Sento che tutti ci vogliamo veramente tanto bene, perche' il Signore ne ha voluto tanto, tanto, a noi tutti. L'aver potuto passare qualche anno della nostra giovinezza nel clima dell'oratorio Rosmini e' stato un grande privilegio, una grande grazia. Grazie che non si pagano con la presenza ad una celebrazione commemorativa, ma con una testimonianza di vita: ricordiamolo sempre".

SUL MONTE STIVO, LA CROCE

Nel 1931 Mario Veronesi diventa presidente della Gioventu' di Azione Cattolica, proprio quando il regime fascista di Mussolini al potere dal 1922 si accanisce contro quell'associazione, l'unica non "allineata" alla dittatura. Perche' lui, "un commesso di negozio con una cultura elementare" - si chiede un amico - "nell'ambiente giovanile cattolico non c'erano forse universitari, laureati o professionisti degnissimi?". La risposta: "Mario era un capo nato e amato. Non l'ho mai sentito fare un discorso presidenziale. Non l'ho mai visto dare ordini.
Ma egli presiedeva, guidava, precedeva, tirava dappertutto: nelle ore della preghiera, dello studio, del gioco, del lavoro con lo spirito dell'apostolo, sorridendo e tacendo".
Fedele alla regola dell'Azione Cattolica Preghiera, azione, sacrificio e al suo motto Cristo regni!
Il 17 settembre 1933 quattrocento giovani di Rovereto portano sulla cima del monte Stivo, 2059 metri sulla citta', una grande croce di ferro, per celebrare il diciannovesimo centenario dellaredenzione. Tra i portatori c'e' il ventenne Mario Veronesi. Forse non lo sa. Ma quello sara' il suo compito: portare la croce con gli altri e per gli altri, scalare la montagna della poverta', della fame, dell'egoismo.
In citta' era nato nel 1924 il giornalino missionario Lacrime e sorrisi di bimbi, fondato da don Cesare Tommasini. Mario e' tra i redattori. E Rovereto comincia a non bastargli piu'. Probabilmente e' allora che sente la chiamata alla missione.
Di certo fa due cose. Riprende gli studi in privato, come puo'.
E il 27 aprile 1940 - ventisettenne - scrive al superiore dei missionari Saveriani di Parma. Sono i figli spirituali del beato Guido Maria Conforti, che ha fondato la congregazione il 3 dicembre 1895, festa di san Francesco Saverio, apostolo delle Indie.
Oltre ai tre voti di poverta', castita' e obbedienza il Conforti ne chiede un quarto: quello della missione. I suoi figli, cioe', dovranno conquistare il mondo a Cristo, "non con la forza delle armi, ma con la persuasione e l'amore".
"A questo ideale - aggiunge il fondatore - il missionario saveriano sacrifica la sua famiglia, la sua patria, i suoi beni piu' cari e piu' legittimi".

MARIO PERO' CI RIPROVA

Dunque Mario Veronesi manda a dire ai Saveriani: "Sentendo in me la chiamata del Signore alla vocazione missionaria, mi rivolgo fiducioso alla Signoria Vostra reverendissima perche' mi voglia accogliere in codesta Pia Societa'. Ho fiducia che la mia domanda verra' accolta malgrado l'eta'. A questa difficolta' cerchero' di supplire con la buona volonta' per poter avere, nel minor tempo possibile, quelle cognizioni necessarie a un buon missionario. Fin d'ora prometto di seguire docilmente la volonta' deimiei futuri Superiori, qualunque essa sia, accogliendola come la volonta' del Signore. Con i sensi della piu' profonda venerazione, devotissimo Mario Veronesi".
L'arciprete di Rovereto e il professor Mario Ferrari, l'insegnante che l'aiuta negli studi ginnasiali privati, allegano entusiastiche raccomandazioni: scrive il primo che il giovane Mario Veronesi "ha pieta' sempre diligentissimamente coltivata, una vita interiore intensamente vissuta e un apostolato sempre esercitato con zelo nell'associazione di Azione Cattolica"; aggiunge il secondo che "la sua buona volonta' (ammirevole, se si pensa che allo studio deve dedicare le poche ore libere dal suo lavoro e dalle sue mansioni direttive nell'Azione Cattolica) da' completo affidamento di ottima riuscita".
Niente da fare. Il superiore dei Saveriani risponde di provare altrove, magari dai Salesiani. Spiega padre Silvano Garello, biografo di Mario Veronesi: "Forse l'eta' del candidato aveva destato il sospetto di una vocazione problematica".
Lui si consiglia con il suo padre spirituale don Ridolfi. Poi scrive di nuovo ai Saveriani: "Riguardo alla proposta di rivolgermi ai Salesiani, non mi sento di accoglierla, perche' non sento nessuna inclinazione verso quella societa'. Mi sono rivolto al suo istituto e in codesto vorrei un giorno venire, se il Signore lo vorra', e cosi' far parte di quella schiera di missionari che in Cina diffondono il Vangelo".
Testardo e determinato, il giovane roveretano.
Stavolta i Saveriani rispondono di si'. E' fatta. Ma ci si mette di mezzo la guerra. Mussolini chiama alle armi e lancia il Paese nella folle avventura della seconda guerra mondiale. Mario Veronesi vienerichiamato nel 20° Corpo d'Armata e spedito in Libia per qualche mese.
In realta' avrebbe potuto evitarlo, perche' i ranghi erano al completo. Ma lui chiede di prendere il posto di un soldato che ha famiglia. E confida ad un amico di voler andare in Africa non per fare la guerra ma "per portare ai poveri indigeni il conforto dell'amicizia, della carita' cristiana e la luce della fede". Secondo un commilitone, in Libia vuole anche provare il suo fisico in vista della missione.

VERSO IL SI' DEFINITIVO

14 agosto 1941: Mario Veronesi entra nel noviziato saveriano di San Pietro in Vincoli di Ravenna. Lo accoglie il maestro dei novizi padre Giuseppe Gitti, reduce dalla Cina, che lo descrive cosi': "Dimostra un carattere forte, buono e docile, pieta' convinta e vissuta, ottimo spirito religioso e volonta' decisa a superare ogni difficolta' per raggiungere la meta". Non lo imbarazza la differenza di eta' dei compagni, si affiata subito, gioiosamente, senza traumi. Quando serve intona un canto di montagna.
Li' Mario approfondisce la conoscenza dei Saveriani e del loro fondatore, il beato Guido Maria Conforti. E' morto da dieci anni, nel 1931, mentre lui diventava presidente dei giovani di Azione Cattolica a Rovereto.
Lasciando ai suoi figli una lettera-testamento, nella quale scrive tra l'altro: "Dobbiamo sforzarci di attuare le finalita' sublimi che si propone di raggiungere l'istituto nostro, lavorando con sempre crescente ardore alla dilatazione del Vangelo nelle terre infedeli, portando cosi' il nostro povero contributo all'avveramento del vaticinio di Cristo, auspicante la formazione di una sola famiglia cristiana che abbracci l'umanita'. Ognuno di noi quindi sia intimamente persuaso che la vocazione alla quale siamo stati chiamati non potrebbe essere piu' nobile e grande, come quella che ci avvicina a Cristoautore e consumatore della nostra fede ed agli apostoli, che, abbandonata ogni cosa, si diedero interamente senza alcuna riserva alla sequela di Lui".
Mario Veronesi si mette alla sequela di Gesu' e l'8 settembre 1942, in un mondo sconvolto dalla guerra, dice il suo primo si' ufficiale con la professione religiosa e missionaria. Poi va a studiare teologia a Parma, la culla dei Saveriani. A luglio del 1945, si sente pronto e lo comunica al superiore generale: "I tre anni di vita religiosa trascorsi mi hanno confermato in questo proposito gia' implicito all'emissione della prima professione. Pienamente conscio della gravita' dell'impegno che mi assumo, sono pero' certo che vi potro' rimanere fedele con la grazia del buon Dio, che mai mi e' mancata nel superare le difficolta' passate. So bene, Padre, che non ho ne' titoli ne' meriti da accampare per ottenere tanta grazia, ma voglia tener presente il mio sincero desiderio di bene e la mia volonta' decisa a voler vivere sempre piu' totalitariamente la vita religiosa-missionaria".
Due mesi dopo, il 12 settembre 1945, Mario Veronesi dice il si' definitivo, la professione perpetua. Adesso e' pronto. E il 7 marzo 1948 e' ordinato sacerdote nella cattedrale di Parma da monsignor Evasio Colli.
Unico assente, il papa' del neo saveriano: Germano Veronesi e' morto un anno e mezzo prima, l'11 novembre 1946, a Rovereto, senza poter vedere il figlio prete.

"PREDICARTI A TUTTI E SEMPRE"

La sera dell'ordinazione padre Mario Veronesi scrive una sorta di manifesto programmatico del suo ministero: "Ti offro, o Signore, questa mia prima messa per le mani purissime di Maria, onde io pure possa essere in tutti i giorni della mia vita, assieme all'Ostia divina, una vittima per la salvezza del mondo infedele. Ti chiedo ancora, o Signore, di formare in me un cuore sacerdotale, di avere una tenera devozione verso lo Spirito Santo onde siano abbondanti i suoi doni per l'anima mia, e verso la Vergine Santa, che possa farla amare da tutti coloro che accostero' nel mio ministero; di far si' che possa andare sempre, con la gioia dell'anima almeno, nel confessionale a distribuire la tua misericordia. Fa' soprattutto, o mio Dio, che possa comprendere subito la situazione delle anime e possa dare loro i consigli e le esortazioni che tocchino il loro cuore e le porti a Te. Ti prego ancora, o Signore, di poter predicarti a tutti, sempre, con la mia parola e con il mio esempio, predicare pero' solo Te!". E poi una frase, forse posteriore: "Signore, che possa partire presto per il campo missionario".
A 35 anni, padre Mario Veronesi e' pronto alla missione e anche alla morte per il Vangelo.
Dopo una gran festa a Rovereto, il superiore generale gli affida una missione inattesa: economo della casa madre di Parma. Non si sente all'altezza, forse e' un po' deluso, ma obbedisce "visto che questa e' la volonta' di Dio".
Dopo due anni di grande lavoro, nel luglio del 1950, viene mandato ad Ancona come rettore della scuola apostolica. Si tratta di sensibilizzare i ragazzi alla vocazione missionaria.
In quello stesso anno, il 4 novembre, un altro lutto familiare: muore quarantacinquenne il fratello Nino. Padre Mario scrive sul suo diario: "Fiat voluntas tua... anche per lo strazio della morte di Nino".
Passano ancora due anni. Nel 1952 succedono quattro fatti importanti nella vita di padre Mario Veronesi.
Il 15 agosto e' pellegrino a Lourdes.
Poi si dimette da rettore.
I Saveriani vanno in missione nel Pakistan Orientale. E stavolta partira' anche lui. Il 24 novembre, alla stazione di Rovereto, c'e' il commiato dalla famiglia.
Padre Mario si mette in ginocchio davanti alla madre: "Mamma, benedicimi". E' l'addio, sulla terra non s'incontreranno piu'.
A quarant'anni, Mario Veronesi lascia i suoi monti trentini per una terra lontana e sconosciuta. Un luogo misterioso, noto come teatro delle avventure dei personaggi di Emilio Salgari. Il "Bengala dorato" cantato dal poeta bengalese Rabindranath Tagore, premio Nobel per la letteratura nel 1913.
E' accaduto che in Cina sono andati al potere i comunisti di Mao Tse Tung, perseguitando e cacciando i missionari da quel grande Paese-continente. I Saveriani - seguendo l'ispirazione del fondatore che li ha invitati alla scelta preferenziale dell'Asia come luogo di missione, sulle tracce di san Francesco Saverio - si spostano in Giappone, Indonesia e Bengala Orientale, chiamato allora East Pakistan (Pakistan Orientale), oggi Bangladesh. Nel 1947 finisce la dominazione inglese dell'India. Il mahatma Gandhi, protagonista della lotta pacifica di liberazione del suo popolo, sogna un unico grande stato, patria di tutte le religioni. Ma i musulmani non ci stanno: guidati da Mohammed Ali Jinnah fondano il Pakistan, uno stato diviso in due dall'India.
La parte occidentale, piu' vasta, con capitale Karachi; quella orientale, il Bengala Orientale, sul delta del Gange, piu' piccola con capitale Dhaka.

UN PARADISO TERRESTRE!

Qui arrivano nel 1952 i Saveriani, con l'amministratore apostolico monsignor Dante Battaglierin, a prendersi cura della diocesi di Jessore. I primi figli del Conforti che arrivano nel Pakistan Orientale sono padre Albino Tessaro, padre Antonio Alberton, padre Mario Chiofi, padre Vittorino Dalla Valle. E, soprattutto, l'ex superiore generale padre Amatore Dagnino, reduce dalla Cina. Poi e' la volta di fratel Leonardo Scalet, padre Marino Rigon e altri tre espulsi da Mao: padre Giuseppe Gitti, padre Francesco Spagnolo, padre Aldo Guarniero. E padre Mario Veronesi, che arriva il 14 gennaio 1953. Partito con il mercantile Timavo dal porto di Trieste il 20 dicembre 1952, insiemea fratel Leonardo Scalet, arrivano a Bombay, in India, venti giorni dopo. Altri 2000 chilometri in treno e sono a Calcutta e da li' raggiungono finalmente Jessore nel Pakistan Orientale.
"Sembra un paradiso terrestre!", dicono di quei luoghi i visitatori. Clima caldo umido, piogge abbondanti che ogni tanto, pero', seminano morte e distruzione. Banane, palma di datteri, canna da zucchero, riso, juta i principali prodotti della terra. Poi la pesca, sui fiumi, sui canali, nelle paludi, in mare. Alla foce del Gange c'e' l'immensa distesa verde della foresta del Sunderbans, regno della celeberrima tigre del Bengala mangiatrice di uomini. Ma l'altra faccia del paradiso terrestre sono le malattie, la fame, la poverta', l'analfabetismo, le calamita' naturali e le violenze dell'uomo.
Presto si fanno sentire le differenze tra i due Pakistan: non basta la religione comune a farli sentire una nazione.
Presto il governo occidentale prende il sopravvento e i bengalesi si sentono di nuovo una colonia. Il potere e i soldi sono a Karachi, a loro non restano che le briciole. Nascono partiti politici che puntano all'indipendenza. Presto scorrera' il sangue.
Padre Mario Veronesi appenaarrivato a Jessore e' alle prese con la lingua bengalese. Ma poi comincia subito a battezzare, a confessare, a visitare villaggi. Monsignor Battaglierin scrive, in una relazione, di aver trovato in diocesi tre piccoli orfanotrofi, una scuola media in locali inadeguati, tre chiese. Nient'altro. Padre Veronesi va nella parrocchia piu' grande, Khulna, in seguito divisa in due comunita', Shelabunia e Baniarchok. Da li' scrive al suo Superiore generale il 1° febbraio 1953: "Il mio distretto comprende quasi mezza diocesi.
Siamo in due padri, ma padre Aldo Guarniero e' sempre impegnato per la scuola. Un anno fa circa, l'11 febbraio 1952, in nome della Mamma del Cielo ho fatto domanda di andare in missione. Venni esaudito. Sono felice di esserci e ne ringrazio la Madonna e lei, reverendissimo padre, che mi ha detto di andare in questa terra, dove domando di potervi morire".

UNA PARROCCHIA: 3 MILIONI, 1500 CRISTIANI

Il 27 marzo, in un'altra lettera al Superiore generale spiega: "Ho visitato in questi giorni scorsi alcune delle nostre comunita' che quando c'erano i padri del PIME erano fiorenti. Da tre mesi non vedevano un padre, da una quindicina di anni non vedevano una suora. Per di piu' gli stessi legami con i protestanti li hanno raffreddati molto. Aspettano da tempo che le promesse fatte di mandare un padre stabile e di fare altre scuole si mantengano. E veramente il bisogno c'e', non foss'altro per salvare quello che e' rimasto. Ma come e' possibile fare questo finche' rimango solo? Il 25 febbraio, dopo il ritiro spirituale a Jessore, monsignor Battaglierin ha distribuito i vari padri alle residenze. A Khulna, come gia' sapra', ci sono io e padre Guarniero che dovra' prendere il posto di preside della scuola. Per cui a me tocca il ministero (e ne sono felice!) in un distretto che conta tre milioni e diecimila animecon 1.500 cattolici. E' mezza diocesi! E' tre volte la missione di Sierra Leone!
Non le sembra che con ragione reclami e che lei dovrebbe sentire compassione della mia... fame? Io faro' tutto quello che le mie forze mi permettono, ma non mi posso moltiplicare. Di fede mi sembra di averne anche, ma non tanta quale forse il Signore vorrebbe, per cui non ottengo quello che domando, ne' so rendermi strumento dei prodigi che il Signore farebbe se vi fosse qui un san Francesco Saverio. Mi sento umiliato e prego il Signore che mi faccia piu' buono per poter fare un po' piu' di bene a queste anime che Lui ha affidato al mio zelo".
Si sente piccolo e debole, padre Mario, di fronte a una sfida del genere. Ma gia' scrivendo alla mamma il 29 giugno le confida che, per tirarsi su, "quando si presenta l'occasione faccio anche una bella cantata. La nostalgia non mi ha ancora preso e credo che difficilmente mi prendera'. Amo questa terra e tutti coloro che l'abitano, perche' qui mi ha mandato il Signore! Non importa se sono poveri, sporchi, alle volte noiosi e poco riconoscenti.
Sono difetti che si trovano dappertutto. Un po' alla volta, con la grazia di Dio, eleveranno il loro tenore di vita e anche loro saranno capaci di dare esempi di vita cristiana. Io sono abbastanza contento dei miei cristiani".
Di ritorno da un villaggio dove aveva partecipato a una processione eucaristica, dice: "Peccato chesiano tanto pochi questi cristiani! Speriamo che un po' alla volta la grazia tocchi il cuore anche dei pagani".
Non gli basta il piccolo gregge gia' nell'ovile, vuol essere missionario di tutti e per tutti.
Padre Mario Veronesi diventa il primo parroco di Khulna.
Qualche tempo dopo confida in una lettera a un fratello a Rovereto: "Da alcuni mesi sono arrivato nel distretto che il mio reverendissimo Ordinario mi ha affidato. Io lo voglio considerare, e lo e' in realta', un'unica famiglia, la famiglia che il Signore mi ha voluto dare. Varie citta' e moltissimi villaggi formano questa mia immensa parrocchia che conta 1.500 cattolici e piu' di tre milioni di non cristiani. Puoi immaginare che mi manchi il lavoro? Come potro' raggiungere tutte le anime a me affidate? Chi mi verra' in aiuto? Bisogna costruire chiese, scuole, soprattutto ospedali... Alla Provvidenza io ci credo".
E si getta generosamente nella mischia. Deve lottare contro la miseria e la fame che colpiscono tanti. "Essere poveri - scrive padre Mario a un amico - e' bene, ma miserabili, dover ridurre a due o a uno solo i pasti giornalieri, e qualche volta anche al digiuno completo, non aiuta certo la loro anima. Si fa quello che si puo' anche per questo, ma i soldi sono pochi. E allora, sofferenza per loro e per noi che siamo con le mani legate".
Tuttavia ha spalle robuste da montanaro trentino e barba da profeta biblico, e non si arrende. Piano piano cresce il numero dei cristiani e aumentano le loro iniziative. Padre Mario incita, incoraggia, sostiene, aiuta, promuove, si sporca le mani, come si dice oggi. Prega intensamente, ma agisce senza risparmio. Vuole bene a quella famiglia che Dio gli ha dato. E vuole ancor piu' bene a Dio.

"C'E' IL TUO ANGELO"

Il 25 luglio 1954 muore la mamma. Padre Mario non puo' accorrere a Rovereto. Il fratello Giuseppe gli raccontera' per lettera i suoi ultimi momenti: "Vicino alla mamma morente ci siamo tutti, Anna, Valerio, Tullio, Ida e Bepi. Manchi tu. Ma c'e' il tuo angelo. Un padre Cappuccino ha detto le preghiere belle e consolanti dei moribondi. Che altro si puo' fare? Prima abbiamo recitato la Corona. Proficiscere anima christiana...
Dopo 82 anni di fedelta' al dovere e di fede in Dio la nostra mamma e' spirata".
Padre Mario celebra messa per lei e dice ai cristiani bengalesi: "Se sono qui in mezzo a voi, lo debbo anche a lei. Ella si e' sentita un po' anche la vostra mamma". In Dio si e' una sola grande famiglia. Scrivera' poi al fratello Tullio: "Il ricordo della nostra buona mamma ci aiuti.
Lei cosi' ligia al passato, eppure tanto paziente e comprensiva con noi, con le nostre contestazioni giovanili. Cerchiamo di dare ai giovani l'esempio di fede vissuta, evangelica. Penso sia questa la via migliore per aiutarli". In quel 1954 il Pakistan Orientale e' sommerso da una gigantesca alluvione che dura quasi due mesi. Padre Mario e' in prima linea. Descrivera' cosi' l'apocalisse di quei giorni: "Come per la gran parte dell'East Pakistan, anche qui sono arrivate le acque minacciose del Gange a portare la desolazione. L'acqua ha invaso le case: adagio adagio corrode i rialzi di terra su cui sonocostruite e, al primo vento che si alza, crollano. E' una lotta disperata quella che questa gente combatte contro le acque e la fame. Anche nella mia chiesetta e' entrata l'acqua e in stanza mia stamattina ho visto guizzare qualche pesciolino. Oggi pero', festa dell'Assunta, la Madonna ci ha fatto il regalo di un magnifico sole. Ho potuto celebrare la santa messa sotto la verandina della mia stanza mentre i cristiani accorsi vi hanno potuto assistere stando sulle loro barche; con un po' di acrobazie, una quarantina erano riusciti a confessarsi e durante la santa messa hanno fatto la comunione. Abbiamo pregato con fervore. Solo il Signore ci puo' salvare. Di fede i miei cristiani ce n'hanno: anzi c'e' da ammirare la loro calma e serenita'. Non manca la nota gioiosa dei bambini che guazzano beati nell'acqua: essi non capiscono e i grandi la loro angoscia la tengono tutta per loro".
E padre Aldo Guarniero racconta la lotta di padre Mario: "SOS per l'East Pakistan che sta ora passando una delle ore piu' tragiche. Piogge e straripamenti di fiumi hanno allagato ben sei province. Tutto il raccolto di riso e' stato rovinato, migliaia di case (capanne di bambu') sono state spazzate via dall'acqua.
I tre distretti della nostra missione finora sono salvi; solo due villaggi con circa trecento cattolici sono stati distrutti dalla piena. Padre Veronesi e' corso laggiu' e non e' ancora tornato: non so cosa potra' fare, ma mi aspetto di vederlo arrivare con un esercito di bambini; ne ha gia' portato parecchie dozzine quando i tempi erano normali, immaginarsi ora! Ed e' sempre in bolletta: non so come faccia a sfamare tante bocche. Per tener dietro al suo cuore ci vorrebbe ben altro che le 500 rupie al mese che la missione gli passa. E' andato laggiu' con tre quintali di riso. Prima di partire, gli ho detto: E stavolta quanti ne porterai qui? Mah! - mi ha risposto - vedremo quello che mi dira' il cuore. Allora stiamo freschi. Ricordati che sopra il cuore c'e' la testa. Eh, caro mio, in certe occasioni non si ragiona. Sai bene che laggiu' muoiono di fame".

DOVE SI MUORE DI FAME

Gia', la fame. Quando le acque si ritirano resta la desolazione. Arrivano aiuti da tutto il mondo, Italia compresa. E padre Mario continua ad accorrere dappertutto. Prega e agisce. Scrive padre Garello: "Non si siede a teorizzare sul da farsi. Andando sul posto, a colpo d'occhio, capisce dove deve mettere le mani per lasciare subito un segno che sta prendendo a cuore la situazione degli altri".
Gli tocca pure di costruire la prima cattedrale di Khulna, che sara' la futura diocesi. E' dedicata a san Giuseppe, 23 metri di lunghezza, muri di mattoni e tetto di lamiera. Padre Mario ha fatto il muratore, suscitando la collaborazione dei cristiani. Dietro l'altare, la statua in legno di san Giuseppe: arriva dalla parrocchia di Rovereto. La chiesa diventa presto il rifugio dei senza tetto dell'alluvione. Qualcuno si scandalizza, ma padre Mario e' contento: quella povera gente fa compagnia a Gesu' nella sua casa.
1956: padre Veronesi e' delegato al sesto Capitolo generale dei Saveriani. E a dicembre diventa superiore religioso. Nominanon cercata ne' voluta, ma accettata come volonta' di Dio. Scrive al Superiore generale il 1° novembre 1956: "Mi sarebbe piaciuto tanto riprendere il lavoro di cura d'anime, invece il Signore non ha voluto. Aiutero' si' i padri piu' che mi sara' possibile, ma non sono i miei cristiani. Ho avuto la grazia di tornare, ma con una croce grossa sulle spalle".
Non ha un carattere facile, il montanaro trentino.
Esigente con se stesso e dunque con gli altri. Scrive ancora padre Garello: "Qualche fratello, pur apprezzandolo, lo ricorda come un duro. Era il suo carattere che a volte lo portava a certe asprezze, a tagliar corto nelle discussioni, a dire con schiettezza quello che pensava.
Nemico del compromesso, sentiva che il suo compito era quello di proporre l'ideale. Proponeva di fare qualche cosa che gli sembrava opportuna. Aspettava un po'. Ma se poi notava ancora incertezza, preferiva tacere e mettersi lui stesso a farla. Con i cristiani era cosi' dolce e paziente, mentre con noi esigeva molto, nota un confratello, che pur ne aveva alta stima".
Ma, quand'e' il momento, incoraggia, aiuta, conforta e difende i suoi confratelli. Una volta ne porta alcuni a riposarsi sui monti ai piedi dell'Himalaya. Mentre padre Mario e' superiore monsignor Battaglierin viene eletto primo vescovo della diocesi di Khulna.
Ma lui, scaduto il suo incarico triennale, fa di tutto per non essere confermato nella carica. Vuol tornare in prima linea e ci riesce.

BHODORPARA

Il 7 febbraio 1960 padre Mario Veronesi celebra la sua prima messa come parroco di Bhoborpara, grande villaggio contadino a pochi chilometri dal confine con l'India.
Ha due collaboratori saveriani, padre Albino Tessaro e padre Benedetto Rota. Padre Rota, 34 anni, robusto, dinamico, generosissimo, muore di malaria l'11 agosto 1960. E' il primo saveriano sepolto in Pakistan. Padre Mario lo piange a lungo: teme di non aver fatto tutto il possibile per salvarlo.
Un anno dopo raccontera': "La giornata e' stata torrida, la sera e' calda. Siamo seduti sui gradini della chiesa, alcuni ragazzi ed io, in attesa di un alito di vento. Improvvisamente un ragazzo esplode in un canto italiano Ave Maria. Ho sentito il cuore farmi un balzo nel petto... E' l'ultima canzone che nell'agosto scorso il padre Benedetto Rota aveva insegnato ai ragazzi per poterla cantare in chiesa il giorno dell'Assunta. Ma le cose andarono diversamente, padre Rota la sua lode ando' a cantarla alla Vergine in paradiso e i suoi bambini passarono una giornata di pianto per averlo perso. Stasera, all'udire queste note, misono commosso. Alla voce del piccolo cantore si sono andate via via unendo altre voci, prima incerte nel ricordo, poi sempre piu' sicure. A Lei aveva dedicato la sua prima canzone composta in bengalese. A Lei l'ultimo canto insegnato ai suoi bambini. Abbiamo celebrato il primo anniversario della sua morte, ma egli e' ancora vivo in mezzo a noi, e lavora sodo. Accanto alla sua tomba fioriscono gli oleandri e le nostre preghiere. Tre dei suoi bambini hanno detto: voglio farmi sacerdote. Quest'anno speriamo di finire la sua scuola". La morte di padre Rota converte una maestra protestante: padre Mario la battezza con il nome di Benedetta.
L'inizio degli anni sessanta porta una ventata di speranza in tutto il mondo. Kruscev, capo dell'Unione Sovietica, John Kennedy, primo presidente cattolico degli Stati Uniti e, soprattutto, il vecchio contadino bergamasco Angelo Giuseppe Roncalli diventato nel 1958 papa Giovanni XXIII, sono gli uomini-simbolo di questa stagione che si apre dopo gli anni bui della seconda guerra mondiale e il gelo della cosiddetta guerra fredda tra est e ovest del mondo. Il vecchio Papa e' stato eletto settantasettenne, dovrebbe essere una figura di transizione. Ma lui sorprende tutti e annuncia il Concilio Ecumenico Vaticano II, dopo novant'anni dalla conclusione del precedente.
E' l'assise piu' importante della Chiesa. E i cristiani di tutto il mondo accolgono la notizia con gioia, trepidazione, attesa. Si parla di "primavera della Chiesa", di rinnovamento, di apertura al nuovo. Il Concilio si aprira' in Vaticano l'11 ottobre 1962, per concludersi tre anni dopo, essendo papa Paolo VI Montini.
Intanto la diocesi di Khulna fa l'esame di coscienza con il sinodo diocesano dal 23 al 25 maggio 1961.
Vi partecipa anche padre Mario Veronesi.
Il vescovo Battaglierin traccia un bilancio della presenza missionaria: "I primi tempi furono difficili; ma intanto del lavoro se n'e' fatto. Un aumento dell'86% dei cristiani viventi e residenti. Nuove residenze. Le suore Luigine, i seminaristi, nuove chiese; case, scuole, villaggi, l'ospedale e la tipografia, il Training Center e il sinodo. C'e' da ringraziare il Signore. Ma io sento l'obbligo di ringraziare anche voi, tutti e ciascuno, per il lavoro fatto in mezzo a sacrifici e poverta'. Non sono mancate le defezioni dei fedeli, la morte tra le nostre file, le malattie e i rimpatri. La poverta' poi ci fece sempre marcare il passo. Tuttavia, carissimi, non basiamoci troppo sui mezzi materiali, pur avendo l'obbligo di occuparcene per le opere e per il consolidamento delle cristianita'. Non mancano certo i lati negativi".
Dopo dieci anni padre Mario torna in Italia (in realta' e' gia' venuto nel 1956, al Capitolo generale dei Saveriani) per una vacanza. Rovereto, i fratelli, gli amici, i suoi monti. L'estate e l'autunno del 1963 sono un tuffo nel passato. Ma non vede l'ora di tornare in Pakistan.
Riparte da Napoli il 1° dicembre.

BANIARCHOK

Adesso andra' a fare il parroco di Baniarchok, una delle due comunita' in cui e' stata divisa la grande parrocchia di Khulna. E scrive al fratello Tullio il 9 gennaio 1964: "Sono arrivato nella mia nuova residenza il 22 dicembre scorso. Conoscevo gia' il posto perche' nei vari anni in cui ero a Khulna curavo anche questa cristianita', che allora non aveva il missionario stabile.
Vi sono 857 cristiani e oltre un milione e mezzo tra indu' e musulmani. Chissa' quanti anni - forse secoli - passeranno ancora prima che tutti siano cristiani.
Sono misteri che noi dobbiamo sentire, vivere per quanto e' in mano nostra. A noi fu detto di andare, predicare. Certo alla nostra fatica, al nostro zelo e allanostra collaborazione il Signore ha legato quelle grazie che convertono.
Che la grazia stessa di Dio ci renda degni suoi ministri!".
Di nuovo padre Mario pone mano all'aratro, senza guardare indietro. Di nuovo preghiere, sacramenti, visite ai villaggi, lavori, fatiche.
Viene ad aiutarlo ogni tanto il confratello padre Valeriano Cobbe che costituisce una cooperativa di pescatori cattolici, protestanti e indu'.
Nel marzo del 1964 arriva in visita monsignor Battaglierin, padre conciliare. Nascono una scuola di cucito e un corso pre-matrimoniale per le ragazze tenuti dalle suore Luigine di Khulna e da quelle di Maria Bambina di Bhoborpara. Per Natale padre Mario organizza il concorso presepi.
Nel maggio del 1965 sul Pakistan Orientale si abbatte un gigantesco ciclone che semina altra morte, altra distruzione, altra fame. Padre Mario e' di nuovo in mezzo ai poveri, s'ingegna di aiutarli in ogni modo, stende la mano verso gli amici italiani, compra vecchi giornali e ne fa sacchi da rivendere, consola, dona il suo stesso cibo.
Ma a settembre, nuova emergenza. E' scoppiata la guerra tra India e Pakistan: si contendono il Kashmir. Il fronte e' lontano, ma qualche missionario del Pakistan Orientale viene espulso, altri devono lasciare le parrocchie ai confini con l'India. Padre Mario continua a lavorare. Intanto a Roma e' finito il Concilio, adesso comincia nelle comunita' locali, la primavera deve diffondersi in tutta la Chiesa.

OVUNQUE, DOVE C'E' UN POVERO

A Rovereto si festeggiano i 50 anni dell'Oratorio Rosmini. Gli amici mandano aiuti a padre Mario che ringrazia cosi': "Sono serviti per riparare l'edificio scolastico danneggiato dal ciclone, farlo piu' bello, per pagare i maestri, per tante altre spese e spesette che il buon funzionamento di una scuola richiede. Riusciremo a tirare avanti con questo ritmo? Lo spero! Ho fede nella Provvidenza e voi, carissimi, in quanto vi e' possibile, siatene le braccia. Quando guardo la scuoletta o gioco con i ragazzi vedo Rovereto, vedo il Rosmini, vedo voi, tutti presenti col vostro aiuto concreto, colle vostre preghiere".
"Ti dispiace andartene via?" chiede un confratello a padre Mario Veronesi quando il vescovo lo manda a fare il parroco a Shimulia. E lui: "Dove c'e' un povero, li' ci vado volentieri anch'io". Sempre pronto ad obbedire alle chiamate, a cambiare, a incontrare nuovi bisogni.
Senza storie. Amando tutti, ma non consegnandosi definitivamente a nessuno. Non si guarda in faccia ai poveri.
Arriva a Shimulia il 6 luglio 1966. Qui vivono gli ultimi degli ultimi tra gli intoccabili indu', i fuori casta detti muci. E' solo. Ha 53 anni. Ma - scrive - "fino a che posso lavorare mi considero giovane e, con la grazia di Dio, un po' di bene spero di farlo". Il primo problema e' la fame di quella gente. Spiega: "Sono ancora solo e il lavoro miassorbe. E' proprio quello che ci vuole per me. Mi piace lavorare e il Signore mi conserva una buona salute. Quello che ci fa piu' soffrire e' la miseria in cui si trovano molti e quando manca il pane anche le cose dell'anima stentano a trovare la strada".
Cosi', ancora una volta, padre Mario Veronesi fa promozione umana, come ha indicato il Concilio, ma come lui faceva gia' prima.
Si getta in tante azioni concrete per aiutare i poveri: cooperative, piccole industrie, artigianato. Quando nel piatto c'e' un pugno di riso, allora si puo' parlare delle cose di Dio.
E' talmente affaccendato che non puo' tornare in Italia nemmeno per l'ordinazione sacerdotale del nipote Flavio - anch'egli missionario saveriano - a Rovereto l'8 ottobre 1967. Scrive: "Meglio non parlarne. Gia' mi aveva scritto padre Flavio in proposito, ma gli risposi che in questo momento sarebbe un mezzo tradimento. Siamo rimasti in pochi, e di nuovi padri in arrivo non se ne vedono.
Poi qui vi sono padri che non vanno a casa da dieci anni. Fate voi, e sono certo che la festa sara' bella lo stesso". Nella stessa lettera confida al fratello Tullio: "Ho tanto pregato, ed il buon Dio fa questa nuova grazia alle nostre famiglie. Sono tanto contento che Flavio abbia finalmente raggiunto questa meta, ma non e' l'ultima che deve raggiungere.
Caro Tullio, tu dici bene che il Signore mi ha fatto infilare la mia strada. Si', la mia, cioe' quella che il Signore voleva: non me ne sono mai pentito e sempre lo ringrazio d'avermi salvato da tanti pericoli e forzato, direi, a farmi missionario! Deo gratias semper!".
E, ancora, gli confessa le sue difficolta' davanti algran bisogno dei poveri: "Mi sono accorto di avere il cuore troppo tenero. Mi lascio commuovere subito e, non potendo dare, ci soffro. E' una croce anche questa. Me l'ha data il Signore e devo portarla".
L'11 maggio 1969 da Shimulia parte un'altra lettera per l'Italia. Padre Mario non puo' partecipare al matrimonio dei suoi nipoti: "Paolo e Ivana carissimi nel Signore, ho ricevuto l'annuncio del vostro matrimonio.
Quando riceverete questa mia, forse sarete gia' sposi.
Vi considero gia' uniti e torno ad augurarvi tutte quelle benedizioni che padre Flavio (penso sia stato lui!) vi ha augurato in nome della Chiesa e del buon Dio. Ho pregato e prego per voi che il vostro amore sia sempre piu' santo. Rendetevi sempre piu' degni dell'amore di Dio!
Quanto piu' sarete fedeli a Lui, tanto piu' la vostra unione sara' benedetta e avra' la stabilita' della casa fabbricata sulla roccia! La predica e' finita. Il bicchiere di spumante lo berro' quando il Signore lo vorra'. Io non ho fretta pero', perche' qui siamo pochi con tanto lavoro e non sembra che ne lascino venire molti. Il Signore vi benedica".

ANCORA SULLA BRECCIA

In Italia tornera' nel 1970. Piu' stanco. Forse i superiori vogliono che resti qui. Ma lui scrive: "Grazie a Dio la salute e' buona. Si soffia un po' in salita. Ma di salite in missione non ce ne sono". E ripartira'. Ma prima una salita la compie. Torna sul monte Stivo, di fronte a Rovereto, 37 anni dopo avervi portato la grande croce di ferro con gli altri giovani del Rosmini. Ha 57 anni e, forse, nel cuore il presentimento dell'addio. Lo accompagna il nipote Lamberto. Sotto quella croce padre Mario Veronesi piange. Poi la ridipinge. Di lassu' rivede per l'ultima volta la sua Rovereto, la sua giovinezza, la sua vita.
Prima di lasciare per sempre l'Italia scrive ai fratelli: "Riparto, rinnovato nel fisico e nello spirito, per donare ancora fino alla fine quello che, in fondo, non e' mio, ma Suo, l'amore che mi ha messo nel cuore".
Adesso padre Mario non e' piu' solo a Shimulia. Il vescovo gli ha mandato il giovane confratello padre Valeriano Cobbe, trentacinquenne. Che decide: "Restero' qui con padre Mario.Lavoreremo tutti insieme perche' Shimulia diventi il villaggio della speranza".
Paghera' anche lui con la vita l'amore per gli ultimi.
Padre Valeriano e' un altro missionario che fa promozione umana.
Costruisce pozzi per l'irrigazione, si occupa dell'istruzione dei piccoli, progetta iniziative in favore delle donne.
Si vogliono bene, i due missionari, e parlano lo stesso linguaggio: quello del cuore.

Padre Cobbe ha grandissima ammirazione per padre Mario. Confida a qualche confratello: "Davanti a padre Mario mi sento spiritualmente come un nano". Quando, nel 1970, padre Veronesi torna in Italia, padre Valeriano scrive al suo papa': "Spero che il padre Mario venga a trovarvi: e' un grande missionario e santo. Alla sua eta' mi batte in tutto: sacrificio ed apostolato. Riesce a camminare venti o venticinque chilometri al giorno per andare a predicare durante la stagione delle piogge, e sembra non stancarsi. Se non avessi avuto l'aiuto della sua bonta' e preghiera non sarei riuscito a resistere alla pressione del lavoro e delle circostanze faticose in cui mi sono trovato".

E a una benefattrice fa sapere: "Padre Mario e' considerato anche dai musulmani il santo di questa zona. Dicono che fa anche miracoli e non stento a crederlo perche' ha uno spirito di sacrificio e una percezione spirituale delle cose molto grande".

Di padre Veronesi scrive padre Garello: "Se un pittore bengalese fosse stato richiesto di ritrarre il volto di Cristo, a Shimulia si sarebbe ispirato a padre Mario Veronesi. Alto, con la barba un po' grigia, lo sguardo dolce che esprimeva lo sforzo di partecipare a ogni sofferenza, le mani poderose del lavoratore e bucate dalla carita', il passo svelto di chi ha fretta di fare il bene".

L'ULTIMO TURNO

Gli avvenimenti si susseguono veloci. A settembre del 1970, ancora in Italia, partecipa ad un'udienza papale ai missionari. E sente il viatico di Paolo VI: "Voi siete la speranza della Chiesa". Il 23 ottobre la terza e ultima partenza per la missione. Prima dice ai suoi: "Questo sara' il mio ultimo turno". Arriva in un Pakistan sul quale si stanno abbattendo la crisi politica e uno spaventoso uragano. Piu' di mezzo milione di morti, distruzione e fame. Papa Paolo VI, nell'ultimo e piu' lungo dei suoi viaggi apostolici fuori d'Italia, diretto nelle Filippine e in altri Paesi dell'Estremo Oriente, chiede di far sosta a Dhaka nella notte: vuol portare conforto e denaro a quella povera gente. Un rapido incontro all'aeroporto con il Presidente pakistano. La prima visita di un pontefice in un Paese musulmano. Padre Mario dice ai suoi poveri: "Vedete, anche il Papa ha voluto essere vicino al nostro dolore".

UN RINTOCCO PER P. MARIO

Quello che non fa la natura lo fanno gli uomini.
Dopo la caduta del presidente Ayub Khan, il 25 marzo 1969, sale al potere un altro generale, Mohammed Yahya Khan che promette le elezioni. Si tengono nel dicembre del 1970. Nel Pakistan Occidentale vince il partito di Ali' Bhutto, socialista filo-cinese e nemico dell'India; nel Pakistan Orientale la spunta lo sceicco Mujibur Rahman, filo-occidentale e fautore dell'autonomia bengalese. In base ai voti, quest'ultimo dovrebbe diventare il nuovo Presidente. Ma Yahya Khan eBhutto prendono tempo, non vogliono cedere il potere. Scoppia la rivolta del popolo bengalese contro l'esercito pakistano. E scorre il sangue. I soldati fanno strage di uomini, donne, bambini. I morti saranno centinaia di migliaia, quasi dieci milioni i profughi in India. Alla fine la ribellione verra' sedata. Il Pakistan Orientale dovra' ancora attendere fino al 16 dicembre
del '71: quel giorno - che viene ricordato come il giorno della vittoria - nascera' la repubblica del Bangladesh e Mujibur Rahman ne sara' il primo ministro.

QUELLA CAMPANA FATTA DI CANNONI

Tra le vittime di quella guerra civile c'e' padre Mario Veronesi. Accade il 4 aprile 1971, domenica delle Palme, nella missione di Jessore. Lui e' li' che aiuta come puo' quella povera gente sofferente. Arrivano dei soldati.
Se li trova davanti, spalanca le braccia.
Una pallottola lo colpisce al petto. Cade riverso nel suo sangue, le braccia aperte, come Cristo in croce.
Se ne va cosi', all'inizio della settimana santa.
Crocifisso per i suoi poveri. Ha 58 anni, 28 di vita religiosa, 19 di missione in Bangladesh.
E li' restera' per sempre. Sepolto dapprima a Jessore, poi davanti alla chiesa di Shimulia, accanto a padre Valeriano Cobbe, caduto a sua volta, tre anni dopo.
Scrivera' a padre Cobbe lo studente musulmano Ismail Hossain, alcuni mesi dopo la morte di padre Veronesi e l'indipendenza del Bangladesh: "Finalmente siamo liberi ed indipendenti! In questo felice momento ringraziamo Dio e lo preghiamo che faccia progredire la nostra nazione e ci faccia vivere tranquilli. Il nostro piu' grande dolore, la cosa piu' triste,e' il ricordo di tante vittime!
Forse il meglio della nostra societa'. Tra questi martiri della nostra indipendenza, primo fra tutti nella nostra area, e' certamente il padre Mario Veronesi. Ti assicuro che ci sentiamo molto fieri di lui. Abbiamo pagato un caro prezzo per la nostra indipendenza!".

Racconta il saveriano padre Augusto Luca: "Alla fine di maggio del 1971 mi recai con un gruppo di missionari in visita al Papa. Quando Paolo VI giunse presso di me, sentendo che ero saveriano, mi disse con un sospiro: Ah, padre Veronesi! Come e' stato? Lo hanno ucciso apposta? Io risposi che era stato vittima della guerra.
Ed egli soggiunse parole di condoglianza e di conforto. Mi sorprese e mi commosse il fatto che il Papa ricordasse il nome del nostro martire, travolto nella tragedia del Bangladesh, e se ne mostrasse cosi' colpito".
Cosi' e' vissuto ed e' morto Mario Veronesi, figlio delle montagne del Trentino e buon samaritano all'altro capo del mondo, nel "Bengala dorato" e insanguinato.
Ogni sera, nella sua citta', Rovereto, si odono i rintocchi della grande campana della pace.
Ricorda i caduti di tutte le guerre. Un rintocco e' per Mario Veronesi, caduto in una guerra mai dichiarata ne' combattuta. Crocifisso per amore.

RENZO AGASSO




VALERIANO COBBE
Camisano vicentino (Vi)14.1.1932
Jessore (Bangladesh) 14.10.1974




LA GUERRA E IL SEMINARIO

Sangue ed acqua dal costato di Cristo in croce.
Sangue ed acqua ha donato al Bangladesh il missionario saveriano Valeriano Cobbe, ucciso il 14 ottobre 1974 da una banda di ladri, dopo dodici anni di servizio ai poveri.
L'acqua dei pozzi scavati per vincere la sete degli uomini e della terra. Il suo stesso sangue.
Nasce il 14 gennaio 1932 a Camisano Vicentino (Vicenza - Italia), Veneto, figlio di Antonio e Teresa, fratello di Severina, Maria, Francesco, Giovanni e Gaetano. Famiglia numerosa e povera. Il papa' fa il cocchiere per certi signori del posto, ma ha gia' provato altri mestieri, come il tipografo e il muratore, poi c'e' stata la guerra di Libia. Quando i figli diventano troppi la famiglia si sposta un po' fuori citta', ai Pomari, in campagna, tra il Brenta e il Tesina, e li' restera' per trentacinque anni. Lunghe giornate di lavoro per mamma e papa'. E quella frotta di bambini da crescere. Con amore si', ma anche con severita': in casa ci sono delle bacchette che, a volte, servono ai genitori per far rigar dritto i figli. Che debbono contribuire anche loro ai bisogni della famiglia. Valeriano, fratelli e sorelle intrecciano cesti di vimini, spigolano il grano, raccolgono le patate, aiutano nei campi, vanno in cerca di rane. Lui e' un tipo deciso, grintoso, robusto, sempre di corsa, ma pure generoso e sensibile. Non ci sono tante notizie sulle sue imprese scolastiche. La domenica, messa, catechismo e oratorio.
Tra i suoi ricordi d'infanzia c'e' la guerra, il secondo conflitto mondiale, i rastrellamenti di fascisti e tedeschi, gli sbandati da proteggere, le rappresaglie, gli aerei e la contraerea. Un giorno d'inverno Valeriano vede morire un compagno di giochi, colpito da una granata.
Non dimentichera' la neve arrossata dal suo sangue.
E' il 1943 e Valeriano Cobbe, undicenne, decide di andare in seminario. Percio' ogni mattina, in bicicletta, va a Lerino, alla scuola parrocchiale di don Giuseppe Stella.
Ci sono i bombardamenti, piu' volte gli aerei gli passano sulla testa, ma lui va, con "assiduita' e impegno", ricordera' il suo maestro. Un giorno a Camisano arriva un missionario. Predica, domanda preghiere, vocazioni, soldi. E Valeriano Cobbe accetta la sfida. Diventera' missionario saveriano, la congregazione fondata a Parma dal vescovo Guido Maria Conforti, futuro beato. Il 12 settembre 1950 - diciottenne - pronuncia i voti di poverta', castita', obbedienza e missione. Due anni dopo, con altri quattro studenti, parte da Livorno sulla nave Maria Cristina. Destinazione gli Stati Uniti. I Saveriani vogliono aprirvi una casa, hanno il sostegno dell'arcivescovo di Boston, cardinale Richard Cushing. In quello stesso 1952 i figli del Conforti iniziano la missione nel Pakistan Orientale.

VOGLIA DI MISSIONE

2 febbraio 1957: Valeriano Cobbe e' ordinato prete.
Lo nominano vicerettore ed economo della casa di Petersham, sempre negli Stati Uniti. Aiuta anche i parroci vicini. Ma ha voglia di missione. Cosi' scrive al superiore generale padre Giovanni Castelli, il 2 ottobre 1957: "Ho sentito che avremo presto una nuova missione nel Congo Belga. Se lei non sapesse chi mandare, le faccio presente che io ho una testa abbastanza dura per resistere al sole africano; ho dei bei muscoli e dei buoni denti per potere camminare e masticare la carne cruda, scottata nell'acqua; ma soprattutto sento un desiderio indistruggibile di voler spendermi per coloro che non conoscono ancora il Vangelo, soprattutto per i piu' poveri, i piu' ignoranti, per coloro che per essere conquistati esigono il sacrificio lento e duro della mia vita".
Niente Congo Belga, il contadino testardo deve ancora attendere. Cinque anni dopo, il 3 ottobre 1962, trentenne, sale su un aereo che lo porta in missione. Ma non in Africa.
La sua destinazione e' la sperduta Khulna, nel Pakistan Orientale, il lontano, misterioso e affascinante Bengala. Si trova immerso nella miseria piu' nera. Scrive subito al Superiore generale: "E' quasi scoraggiante vedere tanta gente piena di fame e miseria a cui non si puo' neppure pensare di parlare di religione, perche' il loro problema e' quello di cercarsi un po' di cibo. Khulna poi e' stata dichiarata anche dal governo la zona piu' depressa di tutto il Pakistan. E' consolante pero' trovarsi qui con gli altri confratelli.
A volte la fatica li rende un tantino insofferenti, ma lavorano cosi' tanto e con cosi' grande sacrificio che augurerei a tutti i padri di potere venire in missione per partecipare aquello che chiamerei eroismo dei nostri confratelli. Qui si deve accettare anche il sacrificio di vedere la gente morire di fame, perche' non si e' in grado di dare loro il pezzo di pane di cui hanno bisogno. In altre parole il sacrificio diventa naturale, necessario per tutti. La ringrazio di avermi mandato qui e spero di starci almeno quarantaquattro anni come una suora che ho incontrato a Jessore non molto fa". Non ci stara' tanto a lungo, ma eguagliera' l'eroismo che ammira nei confratelli. Fino al martirio.

METTERE INSIEME LE FORZE

Studio della lingua, poi, un anno dopo, lo mandano a Baniarchok, villaggio di pescatori, insieme a padre Antonio Alberton, uno dei pionieri della missione pakistana.
Si mette al lavoro con entusiasmo. Ma non e' facile.
E lui scrive a don Giuseppe Stella, il suo antico maestro di Lerino, il 27 ottobre 1963: "Qui abbiamo circa 1.500 cristiani e ce ne potrebbero essere tanti altri se si potesse preparare qualche catechista ed aprire qualche altra scuoletta o una chiesetta. La nostra scuoletta che va fino alla terza elementare e' tutta a nostre spese.
Quando siamo andati dal Vicario Generale per chiedere qualche aiuto egli ci ha risposto: Se non potete tenerla aperta non vi rimane altro che chiuderla, la diocesi non puo' assolutamente aiutarvi. Invece di chiudere, io vorrei portarla subito fino alla quinta elementare. Possiamo avere poche speranze di educare i vecchi, ma i giovani ed i ragazzi sono le speranze della Chiesa di domani, ed e' una cosa impensabile non fare di tutto per educarli cristianamente. Naturalmente le famiglie di questi ragazzi non possono dare niente. Le do un esempio.
Qui a due passi c'e' una famiglia che sono andato a trovare ieri. Sono in nove persone, otto figliuoli e la madre.
Il loro babbo mori' due anni fa. Faceva il pescatore. Il piu' grande dei figli ha quindici anni e va a pescare.
La principale entrata della famiglia sono dieci rupie al mese, cioe' circa 800 lire. Ed ecco cio' che capita quasi ogni giorno. Uno dei figli va al mercato e compera due chili di farina bianca che costa meno del riso ma non piace molto ai bengalesi. La mamma la impasta con l'acqua e poi spalma questa specie di colla su una piastra arroventata. Questo e' il pasto di tutta la giornata per la famiglia.
Se il parroco non venisse incontro con altre dieci rupie al mese sarebbe la disperazione. Attorno a noi c'e' gente ancora piu' miserabile. Come si puo' chiedere loro un contributo perche' mandino a scuola i ragazzi?
Per il momento facciamo scuola in chiesa, ma speriamo presto, con qualche mezzo di fortuna, di costruire due o tre stanzette di paglia perche' il fare scuola nella chiesa non sembra davvero l'ideale. Qui io sto molto bene e mi trovo proprio nel mio campo.
Ho gia' iniziato una visita metodica alle famiglie. Voglio conoscerle bene e soprattutto spero, con la grazia del Signore, di aiutarle spiritualmente.
Ma come posso dimenticare le condizioni materiali in cui vivono?
Per questo vorrei unire i nostri cristiani in cooperativa, mettere insieme le loro forze, insegnare loro a pensare anche per il futuro. Tutte cose non facili per gente che e' vissuta per millenni sotto padroni che hanno dato si' e no il necessario per vivere. I nostri cristiani sono quasi tutti convertiti dall'induismo. Questa zona a prevalenza indu' offre un campo di lavoro piu' facile che non in altre zone della diocesi. Ci sembra che la Parola di Dio trovi maggiore accoglienza tra gli indu' che non tra i musulmani".
Scuola, visita alle famiglie, cooperativa: un bel piano pastorale per il giovane missionario dalle spalle robuste e dal cuore generoso. Ma, certo, la croce e' pesante, come testimonia un'altra lettera di padre Valeriano, del 23 novembre 1963, al parroco di Camisano Vicentino: "Qui in Pakistan si soffre molto e si soffre volentieri. Si soffre per vedere la gente povera, senza mangiare, nuda, ineducata, sporca. Si soffre nel vedere come questa gente sia ancora cosi' lontana dal sentire il bisogno di trovare la via piu' sicura per raggiungere Dio. Si soffre soprattutto perche' essi cercano le nostre ricchezze materiali (che non abbiamo) e neppure sospettano o desiderano le immense ricchezze spirituali che potrebbero ottenere a mezzo nostro. Si soffre volentieri perche' e' facile patire la fame con chi gia' la patisce ed e' pure facile spartire il cibo con gente che non ha nulla di che mangiare. Ma - conclude - non avverra' mai che io mi scoraggero': ci vorrebbe altro! Moriro' piuttosto mille volte sulla breccia".

PER GLI ALTRI TUTTO IL SANTO GIORNO!

"Caro Valeriano, ti vogliono a Khulna come amministratore". Dopo un solo anno a Baniarchok, padre Cobbe deve lasciare sogni, progetti e fatiche per obbedire ai superiori. "Mi pare una fuga in Egitto", commenta. Dalla barca sul fiume benedice la suagente. E va, senza storie. Anche se l'attende un lavoro d'ufficio in vescovado. "Cobbe, cosa fai qui a Khulna?", gli domanda qualche confratello malizioso.
Fare l'amministratore diocesano e' certo incarico di prestigio, ma in quelle terre di missione c'e' bisogno di gente da prima linea, non di imboscati.
Lui si sente utile anche li', tanto che scrive al superiore generale il 2 aprile 1964: "Mi sono subito messo al lavoro. Mi alzo alle 5,30 e vado a letto verso mezzanotte.
La parte interessante di questo ufficio e' che spendo tutto il santo giorno per gli altri. Soltanto la sera, cioe' il tempo della preghiera, per me. Di solito le cose che faccio sono piccole ed insignificanti: imbucare lettere, prendermi cura del frigorifero a petrolio e della jeep, preparare le camere per i confratelli di passaggio, essere pronto ad accettare le loro osservazioni, i desideri e gli ordini del vescovo. Compero per i confratelli cemento, ferro ed altre cose.
Mi prendo cura delle loro spedizioni e delle loro carte.
Il caldo asfissiante impedisce, pero', di lavorare quanto si vorrebbe. Certi pomeriggi casco proprio dal sonno e dalla stanchezza. Tutte cose che faccio molto volentieri soprattutto per salvarmi l'anima ed anche perche' mi pare di essere fino a questo momento di qualche aiuto ai confratelli. Di quando in quando faccio dei lavori per loro e mi preoccupo di essere ospitale al massimo".
In quell'aprile del '64 padre Valeriano Cobbe vede con i suoi occhi, per la prima volta, la devastazione e la disperazione lasciate da un ciclone che colpisce parte della missione: "Alcuni villaggi sono letteralmente spariti dalla carta geografica e si deve pensare a migliaia di morti.
La forza del vento era cosi' violenta che si trovarono dei morti appesi ai rami degli alberi contro cui erano stati scaraventati".
A dicembre di quello stesso anno partecipa con alcuni confratelli al Congresso Eucaristico internazionale di Bombay. Ospite d'onore papa Paolo VI Montini.
Tra la folla c'e' anche una piccola suora con il sari bianco bordato di blu, attorniata dalle sue figlie spirituali.
E' madre Teresa di Calcutta, che gia' compie miracoli di carita' in quell'immensa citta' traboccante miseria.

A RIPOSO, MA NON TROPPO!

Due anni dopo, alla fine del 1966, padre Valeriano chiede al Superiore generale di poter tornare tra la povera gente: "Qui io lavoro troppo e non credo che ce la faro' a tirare avanti in questo lavoro per molto tempo". Prima una pausa in Italia. Con l'aereo sorvola Goa, dov'e' sepolto san Francesco Saverio, evangelizzatore delle Indie, cui s'e' ispirato il fondatore dei Saveriani monsignor Conforti.
Si domanda: "Cos'avrebbe fatto lui, al mio posto, in cinque anni!". La vacanza italiana non e' di tutto riposo. Padre Valeriano corre qua e la' a parlare della missione, a suscitare solidarieta', a incontrare benefattori. Quando parte per la terza volta da casa, salutando i genitori, i fratelli - la sorella Maria e' diventata lei pure suora missionaria - sente piu' lancinante il dolore del distacco. Come se intuisse di avere ancora poco tempo. Scrivera' da Jessore l'11 novembre 1967: "Sento un dovere tutto particolare di ringraziarvi, papa' e mamma, per tutto cio' che avete fatto durante i tre mesi trascorsi a casa. Sono stati tra i piu' belli della mia vita e li ricordero' sempre anche con nostalgia. RingraziateGaetano, Giovanna e la Lina per il fraterno e gentilissimo aiuto che mi hanno dato in moltissime occasioni. Ricordo in modo particolare le passeggiate, l'auto, i doni, i viaggi che ho fatto, i pranzetti e i brindisi, ma soprattutto la vostra pazienza e comprensione. Non vi ho forse mai dato esempi di virtu' eroica, ma spero avrete capito che il sacerdote e' umano ed ha le debolezze degli uomini. Del resto, si diventa migliori solo a condizione di sforzarci ogni giorno di imitare il Signore come ci viene descritto dai Vangeli e dalla Chiesa".

ATTENTO A DOVE METTI I PIEDI

"Non occorre che tu apra le valigie. Abbiamo pensato di mandarti a Shimulia con padre Veronesi". Il vescovo monsignor Battaglierin lo accoglie cosi' al suo ritorno in Pakistan. E padre Cobbe, trentacinque anni, riparte, ricomincia.
Shimulia non e' un posto facile, c'e' tanta miseria. Ma c'e' anche un gigante buono dalla barba profetica ormai grigia, il saveriano di Rovereto padre Mario Veronesi, cinquantacinque anni, scavato nelle rocce del suo Trentino. E a Shimulia un giorno arriva un missionario su una Laverda 200.
Padre Valeriano Cobbe e' pronto per la nuova sfida della fede e dell'amore. Quanto sia difficile e dura la vita da quelle parti lo tocca subito con mano. Ma non perde certo l'allegria, tanto che il rapporto che manda agli amici il 15 dicembre 1967 ha anche qualche nota spiritosa: "La mia casa e' una reggia: una chiesa vecchia di piu' di cento anni fatta con calce e mattoni cotti sul posto con la legna.
Ho un armadio di legno, un tavolo fatto con due casse venute dall'America e un letto di tavole. Condivido la stanza con alcuni topi, molti insettie qualche serpe che passa quasi tutto il tempo sotto il pavimento. Di giorno ho la luce del sole e di sera quella di una lampada a petrolio. Il primo consiglio che i cristiani mi hanno dato e' stato quello di guardare sempre dove metto i piedi sia la sera che quando mi alzo da letto.
Qui la nostra comunita' e' molto buona e pia: ha una fede semplice ed ama professarla con devozione.
Cio' che fa spegnere il sorriso sulla bocca e' la loro grande miseria materiale".
Gia', la miseria, la fame, l'ignoranza, le devastazioni naturali. Padre Cobbe forse si sente impotente davanti a tante difficolta'. Ma un po' la fede, un po' l'amore, un po' la fantasia, oltre all'aiuto, al consiglio, alla guida di padre Veronesi, gli danno il coraggio, anzi l'audacia di affrontare i problemi e di non arrendersi mai, qualunque sia la difficolta'. Bisogna strappare alla terra piu' frutto, per far lavorare e mangiare quella povera gente. Ci vogliono dei pozzi.
E lui li fara'. Chiede aiuto a un amico: "Ti mando queste righe per disperazione - scrive il 24 settembre 1968 - mi sono messo in testa di trovare una via di uscita per la nostra parrocchia di Shimulia che si trova in uno stato impossibile a descriversi e forse ho trovato questa via con l'aiuto di alcune buone persone. Con l'offerta di quindici milioni sto realizzando un piano di irrigazione mai visto qui e mai concepito in quest'area. Ho gia' un pozzo completo ma non riesco a trovare la somma necessaria per il secondo pozzo. Mani tese di Parma mi ha promesso i motori di tutti e due i pozzi. Sono gia' riuscito a comperare una pompa, ma non trovo i benefattori per la seconda.
Costa un milione e ottocentomila lire. E' una pompa a turbina speciale che potra' dare acqua a cinquecento campi. Sono disperato ed un disperato chiede a volte cose impossibili, ma ho pensato di battere alla tua porta sperando di non ricevere un rifiuto. E' dura per noi trovare benefattori e mandare avanti le nostre opere, ma ti assicuro che e' molto piu' duro vedere la gente morire di fame, dopo averla vista cedere un po' per volta e rinunciare alla lotta e perdere tutta la dignita' umana e cristiana che aveva".

IL SESSANTOTTO IN BENGALA

Cosi', un giorno del '68, mentre nel ricco Occidente i giovani scendono sulle piazze a reclamare attenzione, diritti, liberta' fino all'eccesso, in uno sperduto villaggio bengalese il saveriano padre Mario Veronesi, solennemente vestito con cotta e stola, benedice il primo pozzo della zona. Benedice il cippo che porta scritto Isshorer dan, dono di Dio. Benedice l'acqua che sale da duecento metri sotto terra. Benedice la speranza di quei poveri che fanno festa e quella del suo confratello padre Valeriano Cobbe, ideatore, promotore e realizzatore di quella piccola, straordinaria opera, piu' rivoluzionaria di tutte le imprese dei sessantottini d'Occidente.
Ma ecco un'alluvione mettere in ginocchio due terzi del Pakistan Orientale. Un brutto colpo per Shimulia e per padre Cobbe, che scrive alla rivista missionaria della sua diocesi, Vicenza: "La maggioranza prende queste cose con molta rassegnazione cristiana e cio' e' dimostrato dal fatto che quasi tutti vengonoalla Messa ogni mattina e cantano e pregano con fervore.
Oltre che sperare nella Provvidenza i contadini sperano molto nel piano di irrigazione che si sta realizzando. Si fanno degli incontri quasi ogni sera e si discute sul metodo e sul lavoro che si deve fare".
Lui pero' ha bisogno di riposo: l'alluvione, i pozzi, il ministero lo hanno prostrato e deve fermarsi quasi un mese all'ospedale di Jessore. Ma la gente muore di fame. Le sue giornate sono lunghe: messa, catechismo a scuola, visita ai malati. Una pausa, poi il lavoro nei campi. La sera preghiera comunitaria in chiesa o rosario nelle famiglie, riunioni. Infine un po' di lettura, qualche conto, le lettere da scrivere. A volte va a letto alle due del mattino per alzarsi poco dopo. Dimagrisce ed e' a rischio malattie, nella stagione delle piogge va a piedi scalzi nell'acqua e nel fango. Ma nelle lettere da Shimulia ci sono sempre notizie di cose fatte e da fare: "Ieri sono andato fuori nei villaggi a distribuire le palme. Ho fatto una trentina di miglia attraverso i campi. Sanno le preghiere, si sono fatti anche la chiesetta, ma non hanno ancora ricevuto il battesimo. Non ho mai visto in vita mia una miseria cosi' squallida. Nei bambini e nei vecchi si contavano le ossa. Eppure questa gente non mi ha neppure chiesto se davo loro aiuto, ma solo quando riceveranno il battesimo. Sembra una cosa incredibile per questo paese, ma la fede fa i miracoli e forse questa gente capisce il valore della sofferenza.
In una situazione cosi' disperata si deve dire che anche materialmente il loro futuro e' nelle mani del Signore"
(8 aprile 1968).
Ha soltanto trentasei anni ma in un'altra lettera del '68 ammette: "A volte sento proprio il bisogno di andare sul monte a pregare come il Signore, e dimenticare tutto e tutti. Ma purtroppo ogni mattina quando mi sveglio la realta' delle cose mi viene buttata davanti agli occhi da situazioni cosi' pietose da far sanguinare il cuore.
Prima di me, molti confratelli non hanno resistito e se ne sono andati: forse una ventina di padri in quindici anni".
Ma lui non molla. E' stanco, pero' si fida di Dio.

LO CHIAMANO PADRE

Altra pausa di riposo forzato nel 1969: troppe fatiche.
Scrive ai fratelli: "Vi dico la verita' che faccio ben poco conto della mia vita fino a tanto che vedo che posso aiutare questa gente a costo di diventare vecchio e ammalato anzitempo".
E a un amico confida che la sua scelta e' una sola: morire con i suoi poveri o vivere una vita decente con loro.
Piano piano il suo lavoro da' frutti. Grazie ai pozzi i raccolti sono abbondanti. Tanto che vengono dai villaggi vicini a domandare il cibo. Lui aiuta tutti: "Avro' distribuito 200 quintali di riso. Che cosa potevo fare?".
Gia', cos'altro poteva fare Valeriano Cobbe davanti a tanta miseria? Ma lamenta: "Se la nostra gente in Italia potesse capire quanto bene si puo' fare con un po' di sacrificio, penso che troverei i mezzi per installare un centinaio di pozzi, non due o tre. La fame e' una cosa terribile e orribile: rende l'uomo cosi' piccolo, cattivo, invidioso che non ne puoi avere l'idea, dato che in Italia credo che nessuno patisca veramente la fame".
E non si limita a sfamare, a predicare, a dar lavoro e costruire scuole e pozzi. Diventa un punto di riferimento per tutti i problemi della comunita', una specie di giudice, come racconta lui stesso in una lettera del 22 settembre 1969: "Quando un uomo e' sorpreso a rubare oppure una donna va a fare l'amore con altri che non sia il proprio marito, vengono sempre da me per mettere a posto le cose. La penitenza per una donna che fa la matta e' il taglio dei capelli e per l'uomo bastonate e castigo in denaro a favore della cooperativa. Per un ladro, bastonate e l'espulsione dalla comunita'".
Padre Cobbe insegna ai suoi poveri che non si vive di regali ma di lavoro. E da' l'esempio. Scrive il confratello padre Silvano Garello nella biografia Il pozzo profondo: "I suoi poveri erano diventati contadini che avevano imparato i segreti della coltivazione del riso e del frumento, dopo avertrascorso nottate intere ad ascoltare le istruzioni degli esperti. Egli stesso andava nei campi non per provare l'emozione di guazzare nel fango, come nel tempo della sua fanciullezza ai Pomari, ma per essere vicino alla fatica della sua gente. Il sahib era sceso dal piedestallo. Ora anche gli indu' e i musulmani lo chiamavano father, padre. Una pacifica rivoluzione era dunque in atto". Commenta padre Valeriano: "Come per incanto, musulmani, cristiani ed indu' lavoravano sugli stessi campi. Un altro fenomeno e' quello di vedere le donne cristiane lavorare nei campi: e' la prima volta nella storia di questo Paese".
Piccoli, grandi miracoli quotidiani.
Ma niente retorica, niente pietismi, niente paternalismi. Valeriano Cobbe e' stato educato dai suoi con severita', punizioni corporali comprese. E non permette ai suoi poveri di sgarrare troppo. Tanto che confessera': "La madre superiora e padre Mario si lamentano un po' quando mi arrabbio; ma oltre alla scopa qui spesso non c'e' altra soluzione. Pochi mesi fa ho dato due schiaffoni ad una giovane sposa che non voleva stare con suo marito. Da allora in poi vivono beatamente in pace e non danno fastidio a nessuno". E ai genitori, preoccupati per la rigidita' del suo carattere, scrivera' il 17 gennaio 1970: "Carissimi papa' e mamma, pregate per me. Vi ricordo ogni mattina nella messa.
Vi devo tutto, anche la costanza di andare avanti con determinazione nel mio lavoro. Ho sempre saputo aver fiducia nel lavoro, nella Provvidenza ed anche ispirare ottimismo e fiducia negli altri, e sono sempre stato premiato. Ho imparato perfino ad arrabbiarmi un po' di meno".

ANCORA CICLONI, ANCORA GUERRE

La notte del 13 novembre 1970 uno dei piu' spaventosi cicloni della sua storia colpisce il Pakistan Orientale: mezzo milione di morti, cancellati i raccolti e il bestiame.
Una tragedia biblica che commuove il mondo.
Il Papa Paolo VI, in viaggio verso le Filippine, sosta a portare aiuto e conforto. Il capo della Chiesa cattolica, per la prima volta in un Paese musulmano, pronuncia parole affettuose: "Sono venuto tra voi come un amico, tra amici, come un fratello tra fratelli.
Sono venuto a dirvi quanto io partecipi alle vostre sofferenze in questa occasione, quanto sia profonda la mia simpatia per le famiglie colpite e quanto vorrei confortarvi con la mia fraterna amicizia. La mia partecipazione viene dal profondo del cuore, perche' io credo veramente che siamo tutti figli di un'unica famiglia umana". Sono gli stessi sentimenti di padre Valeriano Cobbe e degli altri missionari, il loro pane quotidiano. Il successore di Pietro, il fragile, indomito bresciano Giovanni Battista Montini, li proclama ufficialmente al mondo: siamo tutti fratelli, comportiamoci di conseguenza.
Ma non e' finita. Ci sono da tempo, sullo sfondo, contrasti politici tra i due Pakistan, Occidentale e Orientale.
Alle elezioni del 6 dicembre 1970, la resa dei conti.
Si eleggono i 313 membri dell'unico Parlamento.
Lo sceicco Muijbur Rahman, capo dell'Awami League del Pakistan Orientale, ottiene la maggioranza e chiede al Presidente della Repubblica di guidare il nuovo governo. Di fronte al rifiuto, incita la popolazione alla disobbedienza civile. Il governo centrale manda i soldati, e scorre il sangue. La guerra durera' per tutto il 1971. Alla fine il Pakistan Orientale diventera' uno stato autonomo, il Bangladesh. Ma quell'odio si porta via anche padre Mario Veronesi, ucciso dai soldati a Jessore il 4 aprile 1971, domenica delle Palme. Colpito al petto da una pallottola, cade a terra, le braccia spalancate, come in croce.
Padre Cobbe, che ha vissuto con lui per piu' di quattro anni, scrivera' al superiore generale: "A forza di piangere mi sono preso un'infezione agli occhi, ma andiamo avanti lo stesso con il raccoltoe la Settimana Santa. Padre Mario era il migliore di noi per la sua statura spirituale e la sua carita'". Adesso e' solo.
Oltre ai soliti problemi, ci sono quelli nuovi, creati dalla guerra.
Un testimone oculare, padre Ceci, con lui in quei mesi, racconta: "La situazione di Shimulia era tra le piu' difficili. I 1500 cristiani erano in dubbio se scappare o rifugiarsi in India.
Padre Cobbe disse loro di restare. Comincio' cosi' la piu' pericolosa spola che io abbia mai visto. Non c'era quasi notte che non dovesse accogliere in casa i guerriglieri, e giorno che non andasse a parlare con qualche ufficiale pakistano per dimostrare che il villaggio cristiano era senza colpe. Quando da una parte o dall'altra una truppa arrivava si trovava sempre di fronte un uomo bianco, alto, disarmato, che li avvisava di cambiare strada, perche' il villaggio cristiano non c'entrava e li' non c'erano ne' guerriglieri ne' soldati. La scuola funzionava regolarmente (unica forse nel Paese), i pozzi continuavano a dare acqua. Purtroppo i soldati regolari sapevano tutto e diventavano nervosi di giorno in giorno. Due volte lo scontro avvenne nel mezzo del villaggio ed i soldati lasciarono li' due morti. Partirono accusando la missione di connivenza e, al ritorno, uccisero il domestico del padre per vendetta.
Dopo qualche giorno di scoraggiamento, padre Cobbe ricomincio' la spola sempre piu' intricata e pericolosa, ma la sua calma e prudenza erano sparite. Sembrava che i suoi nervi fossero tutti allo scoperto. Arrivavano notizie di villaggi vicini distrutti e di rappresaglie continue con centinaia di morti. Credo che padre Cobbe si sia trovato in pericolo decine di volte, senza immaginarselo.
Alcuni soldati, offesi dalla sua reazione, lo aspettavano sulla strada dove la sua jeep passava in continuita'".

"BEATO IL VENTRE CHE TI HA PORTATO" (Lc 11,27)

Troppa tensione, troppa fatica, troppo dolore: nell'ottobre del '71 i superiori richiamano padre Cobbe in Italia per un periodo di riposo. Ci stara' sette mesi, per l'ultima volta. Ma in quanto a riposarsi, non se ne parla. Bussa a mille porte: non puo' tornare a Shimulia a mani vuote. A luglio del 1972 e' di nuovo la'.
E qualche mese dopo informa i genitori: "Non e' facile pensare a quasi quindicimila persone e trovare il denaro e le risorse per mandare avanti un mucchio di cose. Tra muratore, prete, coltivatore, rappresentante di mille membri della cooperativa, direttore della scuola e della pastorale, non so davvero a volte da dove cominciare. Sono sicuro che tu mamma preghi per me perche' possa fare del bene a tutti. In questo distretto tanta gente ormai mi conosce bene e tutti pensano che devo aver avuto dei buoni e bravi genitori per potere aver fatto tante cose per la povera gente: e sono migliaia di persone, musulmani, cristiani, indu', che vi lodano".

RAGGI DI SPERANZA E DI GIOIA

C'e' tanto da fare, come sempre e padre Cobbe ne da' conto nelle sue numerose lettere a familiari e benefattori: "Vendendo riso e facendo qualche prestito sono riuscito a dare lavoro a circa un migliaio di braccianti al giorno"; "Ho in mano tre costruzioni: una maternita', un centro femminile di cucito ed un dispensario. Sto seguendo il lavoro della costruzione della casa per le suore"; "Abbiamo avuto un bellissimo raccolto per cui tutti sono contenti.
I contadini si sono organizzati da soli questa volta e sono riusciti a fare un deposito di riso di cinque milioni.
Con questo deposito manderemo avanti il programma di irrigazione. C'e' un senso di grande speranza e di gioia su tutti i volti; tuttavia abbiamo avuto il primo morto a causa dei briganti: e' stato ammazzato un cristiano a coltellate perche' aveva cercato di impedire che gli svaligiassero la capanna. I nostri trattori e trattorini funzionano bene.
I ragazzi vengono a scuola col vestito dell'anno scorso e sono scalzi. Mi costano circa trecentomila lire al mese. Tutta l'impresa qui mi viene a costare piu' o meno un milione alla settimana e finora mi e' andata bene, perche' ci sono tante buone persone al mondo".
Ma in Italia arrivano anche notizie preoccupanti sulla sua salute: "Mi sono ammalato, il cuore mi ha dato un po' di fastidio, ma ora dopo le cure ed il riposo mi sento meglio e posso lavorare quasi come prima", manda a dire ai genitori il 7 dicembre 1973.
Eppure scava pozzi, costruisce una scuola, delle capanne per le famiglie povere che chiama "Villaggio Papa Giovanni", la casa per le suore, il centro di cucito e il consultorio.

Un inviato dell'organizzazione di volontariato Mani tese, il dottor Aldo Bernabei, testimonia: "A Shimulia, un villaggio pochi anni fa semideserto, per iniziativa del padre Cobbe e' sorta una cooperativa che riunisce a tutt'oggi duecentoquindici contadini che gestiscono un'estensione di terreno irrigato di circa settantadue ettari, in cui e' possibile effettuare tre raccolti l'anno, invece di un solo raccolto stentato come avveniva in precedenza. I pozzi finora aperti e funzionanti sono quattro: ognuno di essi consente l'irrigazione di circa diciotto ettari di terreno coltivato a riso. Con la prossima apertura dei tre nuovi pozzi finanziati da Mani tese (i primi quattro furono finanziati dalla Misereor) l'estensione del terreno irrigato salira' a circa un centinaio di ettari. Certamente si deve ancora fare molto. L'azione del padre Cobbe e' certamente positiva e proficua. L'unico punto debole, se si puo' chiamare tale, e' la parte preponderante tenuta dallo stesso padre Cobbe in tale azione. Questo infatti puo' far temere un rallentamento delle attivita' qualora il padre non possa, per qualsiasi motivo, seguire personalmente i progetti intrapresi. A mio parere il progetto in corso a Shimulia dovrebbe essere seguito da vicino e sostenuto in ogni modo".

SOGNANDO CINQUECENTO POZZI

Gia', i soldi arrivano, ma bisogna sollecitarli e poi farne buon uso. Ha creato un gruppo di collaboratori, pero' il lavoro resta tanto, troppo. E Valeriano Cobbe lo affronta con grinta, non tira in ballo la salute, non scansa i problemi. Continua a chiedere aiuto: "Non c'e' piu' cemento sul mercato e non si trova nafta per i motori... Siamo senza i motori e le pompe e non so come farli arrivare dalla Germania... Per il gruppo delle vedove e delle ragazze stiamo formando tre cooperative, una per il cucito, una per l'artigianato ed una per la tessitura... Il valore della stoffa e' cresciuto di venti volte rispetto a prima della guerra e molte persone non possono venire in chiesa perche' non hanno nulla da mettersi addosso". Tutto lo riguarda, nulla gli e' estraneo.
"Nessuno smuovera' il Bengala", si diceva. Non e' vero, padre Valeriano Cobbe c'e' riuscito. Vincendo anche la rassegnazione, il fatalismo, la disperazione di gente abituata da sempre a subire.
E pensa in grande, sogna cinquecento pozzi,acqua, verde, riso e frumento per tutti.
Per farcela lavora instancabilmente e fa lavorare uomini, donne, giovani. Ha fretta, quasi presentisse il poco tempo che gli resta. Dira' uno dei suoi poveri: "Abbiamo ricevuto molto da tutti, ma lui solo ci ha insegnato a lavorare". E un altro aggiunge: "Per ottenere quello che ha realizzato padre Cobbe ha incontrato difficolta' che avrebbero scoraggiato anche il piu' entusiasta: la ritrosia dei contadini, il dubbio e la titubanza dei collaboratori e soprattutto l'odio di chi vive sullo sfruttamento dei poveri. Sono queste le categorie di persone che hanno provato la combattivita' di padre Cobbe e la pesantezza delle sue mani".
"Mi hanno portato al limite dell'esaurimento", confessa una volta. Ma continua. Vuole il progresso, la dignita' e l'unita' di quel popolo: "Nel progetto agricolo tutti sono invitati: musulmani, indu' e cristiani. E' un'occasione per rompere le barriere secolari che li dividono. Per me sono tutti uguali. Tutti sono miei parrocchiani indistintamente". Non esita a combattere in prima persona contro i prepotenti. L'ingiustizia lo indigna ed e' pronto a levar le mani in difesa dei suoi poveri. Si fa dei nemici e un giorno confida a un amico: "Mi vogliono morto".
Ma continua. E non trascura le messe, il catechismo, i sacramenti, il consiglio pastorale, la parte spirituale del suo ministero. Dice un confratello: "Penso che, specie negli ultimi tempi, due cose lo struggessero maggiormente, la cura dello spirito ed una maggiore democrazia. Purtroppo la situazione economica della zona era cosi' disastrosa che ha sempre dovuto dedicare maggior tempo all'attivita' pratica. Sono certo che attendeva con ansia il momento in cui ci fosse meno fame per seguire un corso di azione diverso".

L'ELOQUENZA DEL FATTO

Suor Rosaria, che gli e' accanto, riassume cosi' la sua filosofia: "L'ho sempre sentito predicare la carita', l'amore verso il prossimo.
Ultimamente diceva: Noi parliamo poco, ma lavoriamo molto. Il prossimo guarda i nostri fatti, non i detti. Guai se io andassi a vedere cosa mangiano i bambini, quanto riso consumano e dicessi loro: questo ve lo do io. I superiori non devono essere oppressori, ma fratelli, con i fratelli non si creano due gruppi.
Quelli che non vogliono lavorare sono dei parassiti, sono di danno alla societa', alla comunita' e tanto piu' alle loro famiglie. Queste persone siano maledette e vadano sotto terra. Chi ruba non pensi di diventare ricco.
No, con la roba degli altri ci impoveriamo anche di piu'. Il ladro non deve essere perdonato. Perdonandolo cooperiamo insieme, lo incoraggiamo a fare peggio.
Deve essere punito".
Annunciare - direbbe il fondatore dei missionari saveriani, beato Guido Maria Conforti - Cristo e la fraternita' universale con "l'eloquenza del fatto".
L'ultimo giorno di padre Valeriano Cobbe e' il 14 ottobre 1974. Ha 42 anni, 12 di missione. Quella sera passa a trovare le suore. Prima di andarsene dice a suor Rosaria: "Se per caso morissi, seppellitemi accanto al padre Mario". Poi si avvia verso casa. Nel buio lo attendono i ladri.
Gli sparano. Un colpo solo, come padre Mario Veronesi. Lo derubano, svaligiano il suo alloggio e scompaiono. Secondo la sua ultima volonta' viene sepolto accanto a padre Mario. I due parroci di Shimulia riposano li', in attesa della risurrezione.
Padre Cobbe ha combattuto la buona battaglia e ha conservato la fede. Chissa' quanto bene avrebbe ancora fatto. Ma forse doveva accadere: dopo aver fatto sgorgare l'acqua ha dato il suo stesso sangue per i suoi fratelli. Come Cristo in croce.

UN TESTAMENTO SPIRITUALE

Di lui ci resta un ultimo scritto, pubblicato un mese dopo la morte su Fede e Civilta', la rivista dei Saveriani.
Un documento straordinario, una sorta di testamento spirituale che dev'essere conosciuto. Eccolo.
"Nel 1967, quando il Vescovo mi mando' come assistente in parrocchia a Shimulia, distretto di Jessore, Bangladesh, ebbi l'impressione di essere caduto in un paese di morti. La gente che incontravo era affamata, ammalata, ignorante, chiusa in un ghetto che li aveva resi paria, fuori casta agli occhi dei paesi musulmani che li circondavano da secoli.
Qualsiasi buon musulmano pensava che se esisteva un paradiso certamente non sarebbe stato per questa comunita' cristiana e infatti nessuno di loro neppure piu' pregava perche' i cristiani si convertissero al musulmanesimo, dato che erano troppo bassi per essere degni di tale grazia. Tutt'al piu' dicevano qualche preghiera perche' si convertisse il padre, il quale sembrava piu' onesto e piu' buono di loro.
Se un cristiano andava a lavorare per un musulmano, il musulmano gli avrebbe dato, a mezzogiorno, da mangiare su di una foglia di banana, mai su un piatto, perche' poi, dopo che egli aveva mangiato, avrebbe gettato via anche il piatto, dato che il cristiano era immondo.
Un musulmano non avrebbe mai accettato neppure un bicchiere d'acqua da bere e al nome di Shimulia sputava per terra, quasi per togliersi di bocca il fetore che tale nomedava nel pronunciarlo.
Il primo giorno che andai a scuola, a insegnare catechismo, due o tre ragazzi caddero svenuti; non sapevo il perche', ma scoprii ben presto che erano due giorni che non mangiavano.
Fui indeciso per tre giorni se stare in un posto simile oppure scappare, alla fine pero', con l'aiuto di padre Mario Veronesi, decisi di stare e di vedere se non ci fosse una via per aiutare questa comunita': la gente era buona, religiosa, timorata di Dio, forse si poteva fare qualche cosa.
Come prima cosa, chiesi ai cristiani di formare una cooperativa di risparmio. Quando tutti furono d'accordo, cominciammo a obbligare tutti a depositare ogni settimana qualche centesimo.
I cristiani avevano della terra, ma mi accorsi subito che, data la loro miseria, avevano dovuto ipotecare tutta la loro terra, a prezzi irrisori. Pagai subito il riscatto della terra e proposi agli amici in Italia di dare delle offerte per un piano di irrigazione. Nel piano di irrigazione venivano inclusi musulmani e indu'.
Nel 1968 le prime due pompe erano pronte, ma non erano ancora pronti i contadini sia per il dissidio religioso che esisteva fra di loro e sia anche perche' non avevano mai fatto raccolti con l'irrigazione, ne' avevano mai usato i concimi chimici.
A questo punto un bravo agronomo, mister David J. Stockley, un ministro della setta battista, venne in nostro aiuto. Veniva a Shimulia una volta al mese e stava con noi una settimana ad educare la gente. I pozzi andavano bene: ogni pozzo e' a canne di venti centimetri che scendono a duecento e venti metri sotto terra. Buttano novanta litri di acqua al secondo. Il signor Stockley insegno' anche alle donne a lavorare e guadagnarsi qualche cosa nei campi: cio' non era mai avvenuto
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INSIEME, MUSULMANI, INDU' E CRISTIANI

I musulmani piu' ricchi dei paesi vicini in principio avevano cercato di ostacolare l'irrigazione. Passavano la voce che con l'irrigazione i campi si sarebbero rovinati e non avrebbero piu' dato raccolto. Poi cercavano di impedire ai piu' poveri tra loro di venire a lavorare sui campi dei cristiani.
Tutte queste difficolta' vennero superate in un anno quando si vide che, con l'irrigazione, i campi davano tre raccolti all'anno. La situazione cambio' di piu', quando anche la scuola comincio' a funzionare fino alla terza media.
La comunita' non solo comincio' a sperare nel futuro, ma si creo' una cooperativa fatta da membri di diversi villaggi e diversa fede. Una volta alla settimana, gente di tre professioni religiose, musulmani, cristiani e indu', si radunavano insieme per risolvere le loro difficolta' finanziarie. Nel 1969, con l'aiuto dell'Italia, altri due pozzi erano pronti e da quel tempo la comunita' cristiana non ebbe piu' difficolta' per sopravvivere.
Lo stato di ghetto della comunita' stessa venne superato e oggi i cristiani sono rispettati come tutti gli altri.
Anzi, ora dicono che i cristiani sono stati veramente benedetti da Allah. Durante la guerra civile fu l'irrigazione a salvare dalla fame la comunita' e cosi' dopo la guerra fu ancora l'irrigazione a salvare questa gente. Alcuni dicono che sia la benedizione e il sacrificio di padre Mario Veronesi. Molti cristiani, quando vanno a Jessore, tornano con una manata di terra presa dalla tomba di padre Mario e la custodiscono come una reliquia.
Puo' darsi che alcuni dei nostri amici d'Italia si siano fatti un'impressione errata delle nostre attivita'. Questo nostro continuo chiedere denaro puo' far pensare che la nostra opera sia puramente filantropica e che abbiamo perso di vista il motivo profondo per cui siamo qui. Ma non e' cosi': alla base rimane sempre e solo il fatto che siamo qui a propagare il messaggio evangelico, per creare l'uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturita' del Cristo, come si esprime san Paolo.
Il contributo che il missionario da' allo sviluppo dei popoli e' un'esigenza che scaturisce dallo stesso Vangelo.
Gesu' parlava alla gente, ma quando avevano fame ne aveva compassione e dava loro da mangiare, anche se doveva ricorrere ai miracoli. Quando vedeva un ammalato che implorava, lo guariva nell'anima e nel corpo, anche se spesso doveva ricorrere alla sua divina onnipotenza.
La Chiesa ha sempre continuato l'opera di Gesu', dando vita a opere di assistenza per i malati, a scuole per i poveri e promuovendo la cultura fino a edificare le prime universita' di Europa.
Nel medio evo ha dato vita alle prime unioni di lavoratori e artigiani e nei tempi moderni i Papi non hanno fatto che esortare le nazioni a collaborare per uno sviluppo umano e cristiano di tutti i popoli.
Quanto al caso specifico della nostra azione per lo sviluppo nel Bangladesh, ritengo che sia essenziale e indispensabile. La vita ha il sopravvento sulla religione. Questa gente che patisce ogni giorno la fame e vive in una tristezza estrema perche' non puo' trovare lavoro e non sa come sfamare i propri figli, pensa prima alle necessita' primordiali della vita e chiedera' il pezzo di pane o il piatto di riso, e solo dopo ringraziera' Dio. La religione non puo' fiorire sulla miseria e sulla disperazione.
Inoltre, in una societa' sottosviluppata e per di piu' non cristiana, con differenze sociali e di casta molto grandi, si diffonde facilmente la corruzione: una corruzione tremenda che balza agli occhi. Spesso noi siamo gli unici a dare un esempio concreto di una comunita' bene organizzata, che svolge le sue attivita' con disinteresse e con la massima onesta'.


IL VILLAGGIO D'ORO

Solo per mezzo del lavoro organizzato i musulmani cominciarono a familiarizzare con i cristiani e accettarono di collaborare con loro. I membri della cooperativa sono per meta' cristiani e per meta' musulmani e la stessa proporzione si ha nel lavoro agricolo. Mentre prima il villaggio di Shimulia era disprezzato, ora lo chiamano sonar gram, il villaggio d'oro, e i musulmani non hanno difficolta' a venire qui per le adunanze sociali. Questa gente non era organizzata per mancanza di capitale e per mancanza di leadership. In principio ho dovuto dare l'uno e l'altra. Ho dato il capitale e, durante il giorno, scendevo nei campi con loro a piantare il riso, mentre alla sera facevo gli incontri. La cooperativa ed il lavoro in comune e' stato un grande vantaggio. Ad un certo momento tutta la comunita' e' impegnata. Qui e' la comunita' che conta, non il singolo individuo. Cosi', per la comunita' cristiana, il messaggio evangelico e il lavoro sociale sono diventati la stessa cosa; ma anche viceversa: il lavoro sociale e i doveri cristiani sono diventati due cose inscindibili e la cooperativa, che fa andare avanti il lavoro dei campi, controlla anche i buoni costumi del paese. Per i musulmani la nostra influenza e' indiretta, nel senso che diamo loro l'esempio di una vita laboriosa ed onesta.
Il missionario dovrebbe essere educato allo spirito di iniziativa ma nello stesso tempo al lavoro in collaborazione: saper organizzare egli stesso una qualsiasi opera sociale, ma saper anche farsi aiutare e saper formare i dirigenti. Quello, pero', che egli non deve mai dimenticare e' di essere un guru, cioe' un maestro spirituale, un sacerdote.Solo per questo titolo siamo accettati, rispettati e amati. Nel contesto sociale dobbiamo essere per i poveri, ed aiutarli, ma non entrare, in nessun caso, nelle loro competizioni politiche, nemmeno per sostenere candidati che potrebbero esserci favorevoli. Puo' darsi che qualcuno venga a chiedere il nostro appoggio, durante le elezioni: non dobbiamo mai comprometterci, e del resto neanche loro se l'aspettano; dobbiamo rispettare tutte le autorita' e tutti i partiti, ma restare al di sopra delle loro lotte e ambizioni per rimanere sempre all'altezza della nostra missione.
La strada e' stata aperta. Ci sono difficolta' immense da superare, ma la gente ha riacquistato la fiducia in se stessa, la speranza e il coraggio. Le loro conquiste sono state il frutto della carita' ricevuta dai cristiani d'Europa. Come ai tempi di san Paolo, le collette raccolte in Italia hanno dato la vita e la speranza alla gente del Bangladesh"
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MARTIRE DELLA GIUSTIZIA

Questo e' padre Valeriano Cobbe. Questo e' il suo modo di fare il missionario. Questa e' stata la sua vita e cosi' si spiega la sua morte. Chi voglia realizzare cio' che lui presenta in questa sorta di magna charta deve mettere in conto anche il martirio. La croce, il sangue.
Lo storico Andrea Riccardi ha pubblicato di recente presso Mondadori il libro-martirologio del Novecento dal titolo Il secolo del martirio. C'e' una pagina anche su padre Cobbe, citato tra i martiri della giustizia. Eccola.

"Il saveriano padre Valeriano Cobbe e' morto per la giustizia in Asia. Era cresciuto accanto a un grande missionario, Mario Veronesi. Viveva in Pakistan Orientale (poi divenuto Bangladesh) dal 1962, dove lavorava con i catechisti, i responsabili delle varie comunita' di villaggio, i maestri, suscitando ovunque grande entusiasmo. La sua attivita' sociale era connessa all'annuncio del Vangelo.
Padre Cobbe aveva organizzato gli abitanti del villaggio in una cooperativa agricola con duecento contadini.
Con gli aiuti dall'estero, riscatto' i terreni che le famiglie davano in pegno agli usurai. Favori' la coltivazione del riso, facendo scavare pozzi, forniti di pompe a motore, per irrigare un'estensione di ottanta ettari, con tre raccolti l'anno. Era qualcosa di nuovo in quelle campagne.
Attorno alla missione si sviluppo' un tessuto di vita, di lavoro, ma anche di solidarieta', che incideva sulla qualita' della produzione e dell'organizzazione sociale.
Il villaggio fini' per essere chiamato il villaggio d'oro, per la sua prosperita'. Padre Cobbe si occupo' anche dell'istruzione, costruendo un grande fabbricato per la scuola. Acquisto' infine un appezzamento di terreno alla periferia, che divise in piccoli lotti per una quarantina di famiglie nullatenenti, dove c'erano una capanna e un piccolo orto per ogni nucleo familiare.
Questa attivita' non fu gradita a chi viveva sfruttando la miseria e lo stato servile della gente. Il lavoro e l'amicizia con i fuori casta causarono al padre forti opposizioni.
La sera del 14 ottobre 1974, forse presentendo qualcosa, disse alle suore della missione: Se mi uccidono, seppellitemi accanto a padre Veronesi. Mentre si recava verso la residenza, alcuni sicari lo assassinarono con un colpo al cuore.
Scrisse un suo confratello: Padre Cobbe ha voluto giocare d'azzardo con la storia e la societa' locale in nome dei valori umani e cristiani, ma la storia e la societa' hanno punito lui, bandiera degli oppressi levata troppo in alto".

RENZO AGASSO




ALBERTO PIEROBON
Cittadella (Pd)14.12.1927 - Brasile 1976




MILITE DI CRISTO, MARTIRE D'ITALIA

"Misteriosa morte in Brasile di un missionario saveriano". E' il titolo di un giornale italiano di meta' settembre 1976. Padre Alberto Pierobon, 48 anni, e' stato ritrovato in un bosco, ad oltre un mese dalla sua scomparsa: cadavere in decomposizione, testa e braccia staccate dal corpo.
Non si sa, non si sapra' mai chi l'ha ucciso e perche'.
Per qualcuno una banda di zingari, per altri un camionista incosciente. Per tutti, padre Alberto e' stato vittima del suo amore per i poveri di quell'immenso Paese-continente dov'era arrivato quindici anni prima. Grande famiglia quella dei Pierobon: il padre Giuseppe, la madre Maria Simeoni e otto figli. Sono di Cittadella, provincia di Padova, Veneto profondo. Alberto, il terzogenito, nasce il 14 dicembre 1927. Pare che in famiglia lo chiamino "il grillo", tanto e' vivace, veloce, irrequieto. Dopo la quinta elementare vorrebbe andare dai Francescani di Lonigo, ma i genitori gli dicono di aspettare.
Bel carattere, tanti amici, generosita' concreta, fa l'animatore dei ragazzi all'oratorio e si iscrive ad un Istituto tecnico, per diventare perito meccanico.
Ma accade un fatto che gli cambiera' la vita. Il 17 agosto 1944 i nazisti fucilano a Padova uno dei suoi fratelli, Luigi, ventiduenne, dirigente d'Azione Cattolica, comandante partigiano. Gli daranno la medaglia d'oro alla memoria. Luigi Accattoli nel suo libro Nuovi martiri - 393 storie cristiane nell'Italia di oggi (Edizioni San Paolo, 2000) pone Luigi Pierobon tra i martiri della dignita' della persona umana e scrive: "Studente, milite di Cristo, martire d'Italia, lo descrive cosi' l'epigrafe che lo ricorda nell'Istituto di storia antica dell'universita' di Padova, dov'era iscritto quando viene fucilato per rappresaglia a Padova il 17 agosto 1944, a 22 anni. Era stato appena arrestato, in quanto comandante del Battaglione garibaldino Stella,sull'altipiano vicentino. Alla scelta partigiana era stato incoraggiato dallo zio sacerdote Giovanni Pierobon, nella cui casa era stato accolto venendo a Padova per l'Universita'. Davanti al plotone d'esecuzione, chiede la fucilazione al petto che gli viene negata. Chiede anche di non essere bendato, ma non l'ottiene e incoraggia i compagni: Si muore per l'Italia! Su un foglietto passatogli dal prete che l'assiste nel momento della fucilazione, scrive questo saluto alla famiglia: A mamma e papa', nell'ultimo momento un bacio caro, tanto caro. Ho appena fatta la santa Comunione. Muoio tranquillo. Il Signore mi accolga tra i suoi in Cielo. E' l'unico augurio e il piu' bello che mi faccio. Pregate per me. Saluto tutti i fratelli: Paolo, Giorgio, Fernanda, Giovanni, Alberto, Giuliana, Sandra, lo zio Giovanni, tutti gli zii e zie.
Un bacio a tutti. Il padre qui presente, che mi assiste, vi dara' i miei ultimi desideri. Un bacio caro. I desideri erano: la corona del rosario - che alzava con la destra al momento della fucilazione - alla mamma, l'orologio al fratello Alberto, le 5000 lire che possedeva ai poveri".

IL PRINCIPIO ERA IL MARTIRIO

Luigi Pierobon, martire della Resistenza, lascia un grande vuoto nella sua famiglia. Ma anche un'eredita' preziosissima. E Alberto, non ancora diciassettenne, decide che lo imitera': per lui il sacrificio del fratello e' all'origine della sua vocazione missionaria. Infatti il 18 agosto 1946, a diciott'anni, chiede di diventare saveriano. Ha conosciuto i figli del Conforti a Cittadella e ne e' rimasto affascinato. Scrive nella sua lettera: "Inoltro finalmente la domanda per l'ammissione al Noviziato. Il consenso dei miei e' venuto lentamente, per gradi, non completo ancora. Ancora ieri dicendomi di fare la domanda e riunire i documenti richiesti mi hanno ripetuto il monito di prima: Puoi rimandare la partenza, attendere per essere piu' sicuro di te. E allora di nuovo, in Dio, ho ripensato a lungo ed ho sentito sempre viva nell'anima l'esultante certezza della chiamata divina. Son lontani ormai i giorni duri della prova, l'ansia del dubbio, l'incertezza tremenda. Con fiducia piena combattero' la mia ultima battaglia, da solo... no, e' con me il Signore, e' con me la Regina delle Missioni".
E il ricordo di Luigi lo accompagna, vivo e struggente. Scrive in una lettera del 19 giugno 1947: "Il cuore piange, vorrei dire piu' oggi che ieri perche' ogni giorno che passa sente maggiormente la sua mancanza. A volte cerca ancora attorno per vedere se trova l'esempio del fratello da imitare, se trova colui che lo comprende, che senza offenderlo ed umiliarlo lo sa guidare e spingere in avanti". E ancora, in un'altra lettera, tre mesi dopo: "Gigetto ha avuto una parte grandissima, una influenza profonda sul mio spirito, con la sua morte quel virgulto di vita che aveva trapiantato in me ha cominciato a germogliare e a crescere rigoglioso. Mai l'ho sentito vicino come adesso, e perche' in un certo qual modo possa unire e incarnare in me la sua personalita', nella formula della professione aggiungero' al mio nome anche il suo.
Da oggi mi firmero' Alberto Luigi" (3 settembre 1947).

TEMPO DI GRANDI GRAZIE

Entra in noviziato a San Pietro in Vincoli (Ravenna) il 1° settembre 1946 e pronuncia la professione religiosa un anno dopo, il 12 settembre 1947, prendendo anche il nome di Luigi, come promesso. Qualche settimana prima scrive al Superiore generale dei Saveriani: "Con animo esultante mi accingo a scriverle dopo l'undecimo mese del mio Noviziato. La grazia del Signore e' scesa abbondantemente sul mio animo e l'ha trasformato, l'ha inebriato di cose sublimi, ha fatto si' che trovi la sua dimora ed una vera pace solamente in Cristo Gesu'. Padre, non e' mia intenzione di esporle qui il lavoro fatto in questo tempo di grandi grazie, ma di dirle l'intimo mio bisogno di donarmi tutto, tutto a Lui, a Gesu'. L'animo mio oggi non e' ripieno che di amore, il mio cuore pulsa forte, molto forte sotto la pressione della carita' di Cristo. Ed e' ancora questa carita' che mi rende audace per chiederle di poter essere ammesso in questo Istituto. Sono pienamente consapevole della gravita' di questa mia domanda che presento dopo lunghe riflessioni accompagnate da abbondante preghiera. Le finalita' che l'Istituto si propone di raggiungere corrispondono perfettamente ai miei desideri. Nelle sue regole trovo un validissimo aiuto per conseguire lo scopo della mia vita: la mia santificazione. Vedo pero' anche la mia impotenza per soddisfare ad un si' alto e nobile ufficio, portare Cristo alle anime; ma la mia fiducia non e' riposta nelle mie forze. Fin dal primo giorno in cui ho sentito chiaramente la chiamata di Dio mi sono messo interamente nelle mani della Mamma Celeste. Lei mi ha guidato, Lei mi ha sostenuto durante quest'anno, Lei indubbiamente mi sosterra' nell'avvenire" (5 agosto 1947).
E due mesi dopo la professione, al superiore che gli chiede le sue impressioni, scrive: "Si parla troppo, troppo, e di cose leggere, e la cappella e' troppo abbandonata.
Chi sfrutta ogni occasione per entrarvi e fare una visita sono pochi e sempre gli stessi. Ci si limita troppo a cio' che e' strettamente di regola".
Non ha una grande salute, Alberto Pierobon, nonostante il fisico robusto. Negli anni di liceo lo operano di appendicite e di ulcera. E per tutta la vita sara' perseguitato da disturbi dell'apparato digerente. Ma non si arrendera' mai. Anche se i guai fisici gli procureranno molti problemi e molte pause forzate nella sua attivita'.

DEBOLE IN SALUTE E...GRECO

Scrive il rettore dell'Istituto Saveriano di Desio dello studente Alberto Pierobon il 13 giugno 1950: "Pieta': ottima e sempre ben coltivata. Studio: non preparato in latino e greco, fu dispensato da quest'ultimo. I suoi studi furono assai irregolari a causa della salute. Il primo anno lo perse a causa di un'operazione di appendicite con seguito di grave esaurimento. Il secondo anno frequento' il primo corso liceale trascinandosi. Fu ammesso un mese prima agli esami e promosso anche in vista delle sue ottime qualita' in ogni campo. A Natale di questo anno scolastico ha dovuto subire l'operazione di ulcera allo stomaco facendogli perdere prezioso tempo di scuola. Attualmente non si sente ancora bene e l'esito degli esami sara' un po' incerto. La sua applicazione, quando pote' farlo, fu sempre degna della sua ferrea volonta'. Intelligenza discreta. Disciplina: ubbidiente, pronto e fedele agli ordini, osservante delle regole, ardente ed entusiasta per la sua vocazione, generoso nel prestarsi, lavoratore instancabile. Ottimo soggetto. Appoggio molto volentieri la sua domanda per la professione perpetua".
E nella domanda Alberto Pierobon scrive: "Il triennio di professione temporanea che la Santa Chiesa impone a tutti i suoi figli che vogliono seguire la via dei consigli evangelici sta per finire. Innumerevoli posso dire sono le grazie e i beni che Iddio nella sua infinita misericordia mi ha elargito, piu' grandi di tutte le croci e le tribolazioni fisiche e spirituali. Di tutto ringrazio di gran cuore il Signore. La vita religiosa e soprattutto il sacerdozio brillano ai miei occhi di una luce nuova e vivissima, tanto che pazzia mi sembra l'aspirarvi basandomi solo sulle mie forze. Confidando quindi solo sulla misericordia di Dio che si compiace sempre di costruire sul nulla e desiderando ardentemente di mettermi in croce con Gesu' e d'immolarmi ogni giorno per la salvezza degli infedeli, faccio domanda di essere ammesso alla professione perpetua". Debole in latino e greco, ma con le idee ben chiare e una ferrea volonta', nella fiducia totale in Dio. Vuole immolarsi,il giovane Alberto Pierobon ventiduenne. Non sa che finira' proprio cosi', in croce con Gesu'.
Supera tutte le crisi fisiche e spirituali. Gli resta un problema che sottopone al Superiore generale: "Una prova mi e' fallita: speravo di poter fare a meno del fumo.
In questi giorni mi sono impegnato seriamente, ma sono costretto a riprendere. Incominciavo a divenire nervoso, disturbi di stomaco per difficolta' di digestione, per cui ho rinunciato, riprendendo a ritirarmi per fumare. Percio', padre, chiedo di rinnovare il permesso di poter fumare, conservando il numero solito: 5 al giorno. Mi perdoni questa miseria". Studi a Vicenza, Piacenza, professione perpetua e infine ordinazione sacerdotale il 4 giugno 1955. "Domani sono otto giorni che sono sacerdote - scrive al superiore - otto giorni nei quali non sono ancora riuscito a convincermi pienamente. Mi sembra un sogno questa realta'. Le lacrime versate lungo il cammino di questi anni, quando mi vedevo sbarrata la via da mille ostacoli si sono trasformate in lacrime di gioia... Il sacerdozio ha gettato la sua luce anche sul passato, rendendo le mie difficolta' a proporzioni cosi' misere che arrossisco di me stesso".

ANCORA IN SEMINARIO

Ma poi, per sei anni, niente missioni. Va in diverse case dell'Istituto Saveriano, ma sempre in Italia, occupandosi per lo piu' di questioni economiche e amministrative. Finche', arriva il giorno della partenza: 29 maggio 1961. Destinazione Brasile. Il 12 giugno scrive subito alla famiglia: "Il primo incontro con la terra di missione non e' avvenuto senza una stretta al cuore; sono arrivato nella patria dei miei sogni, tanto desiderata". E al Superiore generale confida: "L'unico elemento negativo, se puo' essere tale, e' un profondo dolore e scoramento per non poter giungere ovunque e dare quello che chiedono: un aiuto spirituale adeguato. La parola pazienza l'ho sentita da tutti e questo mentre mi fa partecipare alla loro sofferenza nel constatare il limite delle proprie possibilita' mi spinge a far presto per essere loro d'aiuto".
La sua sede e' nello stato del Parana', Brasile del sud, diocesi di Londrina. Spiega Pier Michele Girola su Famiglia Cristiana: "Oltre che un buon sacerdote e' un ottimo tecnico. La missione ha bisogno di tutto, a lui vengono affidati i compiti di organizzazione dei lavori.
In due anni tante opere sono completate, ma soprattutto e' finito il seminario per le vocazioni adulte, che stava a cuore ai missionari".
Non e' ancora questa la missione che padre Alberto sogna: ma c'e' bisogno di lui li', adesso. I saveriani ritenevano maturo il tempo di lanciare verso la missione "ad gentes" la chiesa del Brasile, per questo fondano un seminario per le missioni. Solo nel 1979 i vescovi dell'America Latina diranno che e' giunto il tempo di "donare la ricchezza della nostra fede con cui Dio ci ha benedetti a partire dalla nostra poverta'". E in quest'opera si impegna a fondo, senza riserve e senza risparmio. Lo nominano economo del nuovo seminario. A casa manda a dire: "Il compito e' difficile perche' sono nuovo dell'ambiente: 70 apostolini sono gia' presenti. Comunque vita allegra, serena, gioia piena, nella certezza di lavorare per il migliore degli ideali". Siamo nel 1962, padre Alberto Pierobon ha 35 anni, un fisico robusto nonostante i malanni, una gran voglia di portare il Vangelo a tutti i poveri. Ma adesso il suo compito e' un altro e lo assolve con lo stesso impegno, certo di combattere, comunque, la buona battaglia della fede. Altra lettera a casa: "Il mio lavoro va come vuole, a volte bene, altre male; ma si va avanti. La vita dell'economo e' fatta cosi'; morto e' chi si demoralizza, che abbandona la lotta e incrocia le mani. Sto facendo una cerchia di conoscenze e di amici, bisogna muoversi, correre, andarli a trovare, chiacchierare, ascoltarli".
Ecco come intende la vita del missionario: andare, correre, ascoltare, non arrendersi ne' abbandonare la lotta. Tutti verbi impegnativi. Tante lettere di padre Alberto iniziano con il motto Caritas Christi urget nos, l'amore di Dio ci spinge, le parole scelte da san Giuseppe Benedetto Cottolengo come programma della sua opera torinese. Lo stesso che il beato Guido Maria Conforti mettera' nello stemma della sua famiglia missionaria. Si', l'amore di Dio spinge anche lui, all'altro capo del mondo. E' sempre lo stesso mandato di Gesu' agli apostoli: "Andate, predicate,battezzate in tutta la terra". Altri verbi pesanti, da prendere sul serio.
Anche quando e' piu' faticoso, anche quando si fanno cose che non si vorrebbe fare.
L'amore di Dio spinge il missionario Alberto Pierobon a maneggiare conti, ricevute, denaro. Ne soffre dapprincipio, ma poi e' contento lo stesso e lo scrive ai suoi cari il 4 giugno 1963: "Nel giorno del mio anniversario di Messa non posso passare in silenzio la mia gioia, felicita', serenita'. Sono felice, pienamente felice, nonostante il lavoro, le preoccupazioni, le responsabilita' che di giorno in giorno aumentano". E spiega ancora il 7 novembre: "Ho trovato finalmente la possibilita' di essere felice nonostante l'economia, cosa mai desiderata e che mi e' sempre capitata sulle spalle: era questo che mi ha fatto soffrire; ho passato mesi di angoscia perche' non riuscivo a trovare la via per mettere insieme economia e vita apostolica. Ora sono riuscito, in armonia e secondo il desiderio dei Superiori".

FINALMENTE!

In quel 1963 e' cambiato il Papa: in giugno e' morto Giovanni XXIII, il bergamasco Angelo Giuseppe Roncalli, ucciso da un tumore; nei panni di Pietro adesso c'e' il bresciano Giovanni Battista Montini, Paolo VI, che decide subito di continuare e portare a compimento il Concilio Ecumenico Vaticano II, voluto e iniziato dal predecessore per spalancare porte e finestre della Chiesa sul mondo contemporaneo. Il 22 novembre e' stato assassinato il Presidente degli Stati Uniti, il cattolico John Fitzgerald Kennedy. E nel lontano Vietnam si comincia a combattere una guerra, inutile come tutte le guerre, che fino al 1971 dividera' e fara' inorridire il mondo.
Finalmente nell'agosto del '64 padre Alberto Pierobon va in prima linea. Il vescovo saveriano monsignor Giovanni Gazza, che lo ha gia' apprezzato nei suoi primi anni brasiliani, nominato prelato di Abaete', stato del Para', Amazzonia, nord del Brasile, lo chiama con se'. "C'era tutto da fare - dira' monsignor Gazza - e padre Pierobon si impegno' a fondo nella organizzazione. Era un uomo silenzioso, ma irruente, pieno di iniziative e di slanci". L'amore di Dio lo spinge, anche nella sconfinata Amazzonia. Anche nei nuovi compiti che gli vengono affidati: costruire scuole, chiese, ospedale, casa per i missionari, cappelle lungo il gigantesco Rio delle Amazzoni. Scrive a casa: "Durante la settimana sono motorista, caricatore di travi di legno in mezzo al bosco, controllore, idraulico, muratore ecc. La domenica prete".
Visita la parrocchia di Acara' e al ritorno confida ai familiari in un'altra lettera: "Ed ora sono tornato ai miei lavori con una nostalgia maggiore di poter andare tra gli Indios, lasciare finalmente mattoni, cemento ecc.; ma sembra che le cose vadano proprio al contrario. Pazienza. Andiamo per il cammino che Dio vuole". Ed ecco che Dio lo chiama finalmente li', nella parrocchia di Acara' che il vescovo gli affida: e' grande 12.000 chilometri quadrati, quasi come l'intero Veneto.
Si sente davvero in missione, adesso, anche se non potra' posare mattoni e cemento, perche' c'e' bisogno di costruire ancora. C'e' abituato e non si spaventa. Intanto monsignor Gazza torna in Italia perche' e' stato eletto Superiore generale dei Saveriani. Lui resta li' nella giungla, tra quei poveri che ormai sono la sua famiglia, la sua missione, la sua Chiesa. Il clima e' pessimo, e ogni tanto deve cambiare aria, tornare al sud, dove si sta meglio, per curare i soliti malanni.

MINACCE E PERDONO

E' di questi tempi un episodio simpatico e curioso diventato celebre in tutto il Para'. Un giorno padre Alberto, mentre sta costruendo una scuola, si ritrova a corto di legna.
Va in cerca di qualche soluzione. Incontra un gruppo di uomini. Gli dicono: "Padre, ci trovi un lavoro, non abbiamo niente da fare". E lui: "Ho bisogno di legna, devo tagliare qualche albero e farne delle assi". Rispondono: "Va bene, pero' non abbiamo la sega". Padre Alberto corre a comprarne una bella, grande. Passera' qualche giorno dopo a ritirare la legna. Ma non trovera' nessuno: gli dicono che quegli uomini hanno venduto la sega e si sono spartiti il denaro. Ricorda monsignor Gazza: "Padre Alberto ando' su tutte le furie. A sentirlo avrebbe commesso una strage, prometteva botte terribili. Era fatto cosi': silenzioso, buono e umile, ma guai alle ingiustizie ed alle truffe! Non le sopportava. Comunque, conoscendo il suo carattere, sapevamo benissimo che non sarebbe successo nulla".
Qualche giorno dopo il padre incontra per caso uno di quegli uomini. Fa per assalirlo, ma quello piagnucola: "Padre, e' appena morto mio papa'. Non abbiamo nemmeno i soldi per vestirlo, comprare una bara e seppellirlo".
E lui subito si commuove, lo abbraccia, lo consola e gli da' i soldi che ha in tasca. Ma un giorno padre Alberto incontra il papa' di quell'uomo, vivo e in buona salute, ignaro di tutto. Conclude monsignor Gazza: "Altre sfuriate ed altre minacce. Come fini'? Come tutti pensavano, conoscendo l'uomo. I truffatori furono perdonati e la sega ricomprata al doppio del prezzo da chi l'aveva acquistata, perche' ce n'era davvero bisogno. La storia fece il giro dello Stato. Benche' avesse risvolti umoristici, la gente la raccontava con rispetto per la bonta' d'animo di padre Alberto". Per motivi di salute nel 1968 il missionario deve tornare a casa, in Italia. Ha bisogno di riposo e di aria buona. Racconta il fratello Giorgio: "Arrivo' a Cittadella senza nemmeno una valigia ne' un oggetto personale. Aveva impegnato tutto per i suoi poveri; gli rimaneva l'abito che indossava". E' l'ultimo incontro con il suo papa'. Tornato in Brasile, qualche mese dopo riceve la notizia della sua morte e scrive a casa: "Padre Terzoni mi ha presentato il telegramma che annunciava la triste realta' e grandiosa realta'. Papa' e' in cielo. Dirvi che cosa ho provato e' impossibile, anche gioia, pensando Papa' nella felicita' eterna".

RITORNI FORZATI

Altro ritorno forzato in Italia nel 1973. Una notte l'amaca su cui dorme si rompe, lui cade a terra battendo la schiena, la colonna vertebrale si incrina. Viene quindi a farsi operare. Ma torna presto in Brasile. E in quell'estate riceve laggiu' la visita del fratello Giorgio e della sorella Sandra. Dice Giorgio Pierobon: "Di quell'esperienza conservo ricordi indimenticabili. Mi colpi' soprattutto la simpatia che Alberto suscitava nei bambini: dovunque andasse, gli facevano capannello intorno; li aveva vicini anche all'altare. Mi impressiono' la sua resistenza a tante fatiche, la sua vita di stenti. Povero Alberto! Doveva essersi ben rafforzato il suo stomaco, che un tempo soffriva di ulcera! La fede di mio fratello era incrollabile, in tanti anni di missione non ha avuto una parola di sconforto, un momento di crisi. Il suo altruismo era integrale, la forza di volonta' assoluta. Parlava sempre con entusiasmo della conversione dei suoi indios, era riconoscente a quella povera gente che chiedeva umilmente aiuto, tanto generosa nella miseria. Certo, come lui stesso mi scrisse nella prima lettera, l'adattamento fu faticoso".
Giorgio ritorna presto in Italia, padre Alberto non sta bene e i superiori lo rimandano nel sud dove il clima e' migliore. Ad Acara' resta soltanto la sorella Sandra. E vi restera' per sempre. Il 22 ottobre 1973 muore laggiu' in un incidente stradale. Ecco come lo raccontera' Famiglia Cristiana: "Alessandra Pierobon, 49 anni, da poco tempo vedova, professoressa di matematica, viaggia su una corriera da Acara' a Bele'm, nello stato brasiliano del Para', in piena Amazzonia. In una curva, ingannato dalle insidie di una strada che piu' che altro e' un sentiero mal disegnato tra boschi e paludi, l'autista perde il controllo dell'autobus, che finisce nel fiume Capim. Alessandra muore annegata con altri sette passeggeri. Stava rientrando in Italia per riprendere il suo posto a scuola, dopo aver trascorso l'estate a lavorare in missione".

IL MARTIRIO DI SANDRA

Da tempo Sandra Pierobon aiutava il fratello missionario dall'Italia. Finche' va in Brasile a spendere i quattro mesi di vacanza a fianco dei suoi poveri. Ha voluto vedere di persona, toccare con mano, condividere. A prezzo della vita. Racconta monsignor Frosi, testimone degli ultimi suoi giorni: "Dopo aver perso il battello a motore che l'avrebbe condotta a Bele'm, i padri insistettero perche' viaggiasse il giorno dopo con un piccolo aereo, ma Sandra rispose: Desidero viaggiare come viaggiano i nostri poveri; cio' che risparmio sia per loro. Quando dopo 32 ore si riusci' finalmente a ritirare la salma dal fiume, la vidi con la faccia voltata verso terra, quasi in atto di baciare questa terra e questo popolo per il quale aveva offerto la sua vita. Nessuno di noi, infatti, dubita che Sandra, dopo aver aiutato in tanti modi questa nostra missione, abbia offerto al Signore il dono della sua vita. Varie volte ci aveva detto: Io sono disponibile.
Sandra completo' la sua missione e da Acara' e' andata in Paradiso, dove la Casa del Signore e' anche la casa di Sandra. Il popolo semplice e povero di Acara' sosto' in preghiera per varie ore nella bella chiesa parrocchiale dinanzi alla salma di Sandra, quest'animabella che aveva lasciato loro tanti esempi di fede, di bonta' e di serenita'. Durante la messa del funerale, al momento della preghiera dei fedeli, vari hanno voluto manifestare i loro sentimenti in un ambiente di profonda emozione. Alle sei, al tramonto del sole, inizio' la processione al cimitero, su una piccola collina, tra giganteschi castagneti e palme solenni di questa immensa Amazzonia.
Cosi' Sandra riposa vicino ai suoi poveri e come loro, in un gesto di profonda solidarieta' umana e cristiana". Sandra, dopo Luigi.
Un nuovo martirio, un nuovo dolore per padre Alberto. Piange la sorella amatissima, scrive che "la tragedia avra' ripercussioni per tutta la mia vita". E a monsignor Gazza racconta l'accaduto in una lettera del 20 gennaio 1974: "I fatti che hanno portato a termine un disegno di Dio sono molto semplici. Sandra era venuta in Brasile per vedere e per sentirsi missionaria nel senso piu' profondo della parola. E' arrivata improvvisamente, stavo lavorando nella costruzione della chiesa del Guama' e me la sono trovata la' assieme a padre Terzoni. Voleva vivere con me un po' di tempo, ma subito e' avvenuta la separazione.
La mia malattia mi ha obbligato a partire per Curitiba, ho fatto il check-up, hanno riscontrato una forte forma di ipertiroidismo. Lei mi ha accompagnato in questo viaggio, ha visitato le nostre opere nel sud, poi e' ripartita per Acara', che chiamava la mia casa. Era a disposizione della parrocchia, dei poveri, si era perfettamente inserita nella comunita', era felice. Aveva deciso di essere in Italia per il giorno dei morti e aveva preparato tutto per il viaggio. Il battello di linea per Bele'm aveva diverse ore di ritardo, come si faceva sempre, padre Gino incarico' qualcuno di avvisare quando arrivava. Per il mancato avviso, ha perso il battello. Padre Gino voleva a tutti i costi che prendesse l'aereo, ma lei non ha voluto perche' costava soldi preziosi, quando poteva andare in autobus. E' partita verso le tre del mattino, prendendo posto dietro al guidatore. Un po' per la solita eccessiva velocita', un po' perche' l'autista era drogato dopo una notte di bagordi, l'autobus e' finito nel rio Capim: andava talmente forte che e' entrato nell'acqua per piu' di 20 metri. Era stato avvisato per tre volte di rallentare in prossimita' del fiume, ma non ha ascoltato nessuno. Nell'impatto con l'acqua, Sandra ha battuto violentemente il mento contro la barra di separazione dall'autista. SuorMiriam mi assicura che e' morta sul colpo, non per asfissia. Sandra e' stata ricuperata per l'eroismo di padre Pansa. Lui ha trovato l'autobus, lui l'ha legato ed estratto. L'eroismo di padre Angelo, la carita' squisita di mons. Angelo Frosi, Terzoni, Villa e tutti i confratelli, la partecipazione commossa di tutta Acara' sono state le note fondamentali di quei giorni terribili. Ho avuto un collasso terribile, conseguenza della mia malattia e di certi fatti avvenuti che e' meglio lasciare sepolti. Ho impiegato circa venti giorni per ritrovare la serenita' e la pace.
Ero completamente smarrito, distrutto nel mio mondo affettivo. La morte violenta di Sandra per colpa di un incosciente, la mia malattia, la quasi certezza di una separazione dalla mia gente, la mia Acara'. Sono i piani misteriosi di Dio. Ora sono a Curitiba, sereno, quasi allegro, a disposizione dei superiori. Il 15 gennaio ho fatto il terzo esame e sono clinicamente guarito. Il medico esclude la possibilita' di un mio ritorno in Para'. Ritengo che questa sia la volonta' di Dio. Mi costa terribilmente solo il pensare di non potermi piu' dedicare alla mia gente, ma sono ugualmente convinto che lavorare qui o la' e' la stessa cosa. L'essenza della nostra vocazione e' la donazione di se' per la causa di Dio. Questo pensiero ha il predominio sui sentimenti e mi e' fonte di pace e di energie per continuare a donarmi. Grazie padre del suo ricordo, del desiderio di consolare la mia vecchia madre".

AVANTI, RIPRENDERE LA STRADA

Questa lunga e meticolosa relazione assumera', per monsignor Gazza, il senso di una sorta di testamento spirituale di padre Alberto: quando scrive mancano due anni e mezzo alla sua stessa morte. In un'altra lettera a un confratello aggiunge che "il cielo ritornera' sereno, non accetto la sconfitta spirituale e fisica. Sento che posso reagire e fare ancora qualche cosa". Informa i familiari che ha visitato il luogo della sepoltura di Sandra: "Volevo vedere da solo com'era la tomba.
Mi sono seduto davanti alla piccola croce di legno. E' caduta la prima lacrima e subito mi sono sentito rimproverare con queste parole: Che fai seduto con quella faccia da stupido? Muoviti! Io sono in pace. Io ce l'ho fatta, tu guarda in alto".
Gia', adesso tocca ancora a lui. Rialzarsi e riprendere la strada, piu' solo, piu' stanco, piu' malato. Ha soltanto 46 anni ma fatiche e dolori si fanno sentire. Resta nel sud del Brasile, gli affidano la vastissima parrocchia di Moreira Salles, nello stato del Parana'. Si rimette al lavoro, e' di nuovo a fianco dei poveri che gli vogliono subito bene. Preghiera e azione, fede e opere. Continua a sporcarsi le mani con quella gente, perche' sa che gli affamati "non possono essere cristiani perche' non sono uomini liberi: bisogna fare l'uomo, poi il cristiano". Un'idea moderna della missione, niente proselitismo ma condivisione,promozione umana, come vuole la Chiesa post-conciliare. Diventa parroco di Moreira Salles il 26 maggio 1974: mattina in parrocchia, pomeriggio in giro per le cappelle della periferia. Un gran lavoro, eppure scrive alla famiglia che "non c'e' uomo piu' felice di me, quando mi metto per quelle strade tutte buche e polvere; ma si va e la felicita' che porta il mio arrivo mi paga bene delle difficolta' superate".
Altre lettere ai familiari ci permettono di mettere a fuoco lo stile missionario di padre Alberto Pierobon. Eccone alcuni stralci: "Il buon Dio mi aiutera', l'idea di essere solo uno strumento non mi abbandona mai, quindi avanti, avanti, anche se guardando le cose umanamente ci sarebbe non solo da scoraggiarsi, ma da scappare". "Preghiamo, amiamo: questo e' importante e credo che l'offrire il tormento di non poter arrivare ovunque sia meritorio e fruttuoso per queste anime". "Veramente qui mi sentono uno di loro. Anzi pensano e sentono che li amo: verita' questa immensamente confortante e impegnativa".
"Ma quante sorde battaglie devo sostenere per difendere i minimi diritti di questa gente abbandonata, schiava di una minoranza! La mia posizione e' di indipendenza dalle autorita'. Aiutare i miei uomini in tutto cio' che e' buono, sostenerli il piu' possibile, guidarli con qualche idea buona se riesco, ma libero di rinfacciare loro la propria responsabilita'". "Quanti desideri passano per la mia anima e devo lasciarli solo desideri per essere fedele alla volonta' di Dio che vuole quello che Lui vuole e non quello che noi vogliamo: il problema sta tutto qui. Se ci crediamo, si sente, ma non si puo' perdere la pace, la serenita':e se perdiamo queste caratteristiche e' segno che la nostra fede e' imperfetta". "L'unico linguaggio che possono capire e' la carita' vera e disinteressata; solo questa apre le strade alla grazia. Le belle parole lasciano il tempo che trovano; i fatti restano". Fatti, non parole. E' il motto di padre Alberto. Tuttavia la salute e' quella che e'.
Deve tornare di nuovo in Italia per un po' di riposo, dall'ottobre del 1975 al febbraio 1976. L'ultimo ritorno, perche' gli restano pochi mesi di vita. C'e' ancora la vecchia mamma, i fratelli superstiti. Si riprende un poco e riparte per Moreira Salles. Dove torna subito al suo posto in mezzo ai poveri, sempre piu' stanco, sempre piu' malandato nel fisico. Forse non e' del tutto guarito ma non c'e' tempo, non ha tempo per se', deve lavorare con la sua gente, quello e' lo scopo, quello il desiderio, quella la via per la santita' cui aspira.

SUL MORRO DOS MARISTAS

E arriviamo al tragico luglio 1976, quando si compie anche il martirio di Alberto, dopo quelli di Luigi e Sandra Pierobon. E' tornato a Moreira Salles, ma il 26 parte per Curitiba dove si tiene l'assemblea semestrale dei Saveriani del Brasile. Il 27 - e da qui in avanti ci serviremo delle notizie contenute nella relazione del superiore provinciale padre Carlo Coruzzi al Superiore generale padre Gazza -verso sera padre Alberto e' colto da una grave crisi, con tensione, febbre e tremore. Viene curato ma passa una notte agitata. Il giorno seguente va dal medico che gli prescrive una cura abbastanza efficace ed alcuni esami.
Il 29 luglio sembra tutto passato, ma torna dal medico per qualche ulteriore controllo. Quella notte, pero', e' tormentato da incubi, i confratelli vicini di camera accorrono, spiega loro che ha sognato "persone sconosciute che mi vogliono fare del male e altre mi deridono e io non riesco a difendermi". Sente un presagio di morte. Il mattino dopo si fa portare nella casa saveriana di Vista Alegre. Chiama padre Coruzzi: vuole fare una confessione pubblica davanti ai confratelli per spiegare quel sognoterribile. Il provinciale lo dissuade, poi tornano a Curitiba con altri padri, superando pure un piccolo incidente automobilistico. Finita l'assemblea, gli chiedono di restare ancora un po' per riposare e attendere l'esito degli esami medici. Lui accetta: tornera' a Moreira Salles qualche giorno dopo sull'automobile di un suo parrocchiano. La notte del 30 luglio tornano gli incubi, alcuni padri gli fanno compagnia fino al mattino. Verso le 14 del 31 luglio esce dalla sua camera, lo vedono passeggiare tranquillo su una strada di campagna, in maniche di camicia e senza i suoi occhiali, come se fosse uscito a prendere un po' d'aria.
Da quel momento scompare. I confratelli lo cercano, avvisano la polizia, interrogano il medico che lo ha curato, avvertono i superiori e i familiari, chiedono anche l'aiuto di una radio molto ascoltata in quella parte del Brasile. Non riescono a capire perche' padre Alberto se ne sia andato via cosi': senza occhiali, giubbotto (fa molto freddo in quel periodo), borsa. Passano giorni, settimane, mesi. Finche' - racconta padre Coruzzi - "il 9 settembre 1976 la polizia di Almirante Tamandare', Municipio distante 15 chilometri da Curitiba, viene informata da un cacciatore che sul colle conosciuto come Morro dos Maristas c'e' il corpo di una persona, in avanzato stato di decomposizione. Il giorno dopo verso le 7,30 un parrocchiano di Vista Alegre avvisa i Saveriani che padre Alberto e' stato ritrovato. Ha sentito la notizia dalla radio. I padri sul momento trovano la notizia molto strana, in quanto la polizia non si era ancora fatta viva. Tuttavia si recano all'obitorio e solo in quel momento vengono informati del ritrovamento. Il corpo e' irriconoscibile. Solo i documenti attestano che si tratta di un padre.Due studenti chiedono di poterlo vedere, gli viene concesso, ma non lo riconoscono. Alle 13,30 arrivo in aereo da San Paolo. Chiedo ai medici di poter vedere il corpo. Esaminiamo gli indumenti e non rimane piu' alcun dubbio. Pantaloni, calze, camicia, scarpe sono di padre Alberto. Il resto e' realmente impossibile riconoscerlo. Il cranio poi appare stranamente pulito. Il medico piu' tardi ci informa della mancanza delle mani e di molti altri particolari. Cerchiamo di contestare tutte le ipotesi assurde che gli esperti avanzano, ma le prove dei fatti ci inducono ad accettare la tesi dell'assassinio".

A TESTA BASSA, CONTRO L'INGIUSTIZIA

Chissa' cos'e' accaduto a padre Alberto Pierobon. Assassinato da chi e perche'? Tutti amavano padre Alberto: chi l'ha ammazzato?, titola il settimanale Oggi in Italia.
Stesso inquietante interrogativo sui giornali del Brasile che danno molto spazio alla notizia.
Famiglia Cristiana dedica alla vicenda un lungo servizio dal titolo Gli fucilano un fratello, risponde facendosi prete. C'e' la storia di padre Alberto e della sua famiglia, il martirio di Luigi e Sandra. E il suo.
Ecco la conclusione: "Padre Pierobon nel sud del Brasile, a Moreira Salles, e' responsabile di una parrocchia enorme, dove per visitare tutti occorrerebbe poter disporre di un aereo. Con la schiena dolorante e lo stomaco sempre in crisi, lavora senza soste. La zona e' una di quelle destinate dal governo brasiliano ad un frenetico sviluppo. Sulle strade e' un continuo via vai di camion che raggiungono le vicine foreste dove gli alberi vengono abbattuti per far posto a industrie e fattorie. I problemi sono tanti. Padre Alberto affronta gli ostacoli a testa bassa, come sempre. E cosi', quando un parrocchiano gli scrive una lettera chiedendogli di intervenire perche' una tribu' di zingari la smetta di compierefurti nella zona, il parroco reagisce alla sua maniera: parte. Eppure da qualche giorno le sue condizioni di salute sono peggiorate. Non riesce quasi a buttar giu' cibo, beve soltanto molti caffe'. E' il 31 luglio, e' inverno, fa freddo: non tornera' piu'. Secondo la polizia brasiliana affronta gli zingari e viene ucciso. Monsignor Gazza ammette che questa versione e' la piu' attendibile: L'autopsia, infatti, ha dimostrato che la testa e le mani erano staccate dal corpo. Pero' aveva addosso tutti i soldi con i quali era partito. Se gli zingari, come sembra certo, hanno deciso di ucciderlo, come mai non l'hanno rapinato? C'era anche l'ipotesi dell'incidente stradale. In questo sterminato Paese e' molto comune, purtroppo, che un camionista, investita una persona, la scaraventi nel bosco lungo la strada, per non aver grane. Potrebbe essere andata cosi'. Noi, veramente, eravamo propensi per la tesi del malore. Ultimamente padre Alberto non stava bene, era prostrato dalla fatica, dai dolori allo stomaco, anche dai ricordi della sorella morta in missione. Poteva essere svenuto per strada e poi morto o per collasso o per assideramento. Purtroppo la versione ufficiale e' piu' crudele. In ogni caso ha finito la sua vita come voleva: in piena azione per aiutare il prossimo, senza rancori ne' paura di morire". Le autorita' consegnano il corpo martoriato ai Saveriani. Viene portato nella chiesa di Vista Alegre e li' vegliato tutta la notte dai confratelli, dalle suore, dagli studenti. Il mattino dopo si celebra una messa, poi i resti mortali di padre Alberto Pierobon partono per l'ultimo viaggio, destinazione: la sua parrocchia di Moreira Salles.

IL TRIONFO A MOREIRA SALES

Lasciamo nuovamente la parola al superiore provinciale dei Saveriani del Brasile, padre Carlo Coruzzi: "Alle 19 circa dell'11 settembre arriviamo nei pressi di Moreira Salles. Un corteo enorme di macchine e camion ci attende da quasi quattro ore. Ormai e' notte e comincia a piovere ma lagente non si scoraggia. La popolazione e' tutta riversata sulla strada: chiedono insistentemente di poter vedere il padre o almeno di concedergli l'ultimo viaggio per le strade della cittadina. La fede e la bonta' di quella gente ci commuove. Arriviamo a Moreira Salles verso le 20. La piazza della chiesa e' gremitissima di gente di ogni eta' e condizione. Sono venuti da tutte le parti per poter rivedere il loro Vigario. Al nostro arrivo un forte acquazzone ci da' il benvenuto, ma nessuno si scompone. Tutti chiedono che venga aperta la cassa perche' vogliono vedere ancora una volta padre Alberto. Diciamo che la polizia ha voluto che fosse chiuso ermeticamente a causa del trasporto ma non c'e' modo di convincerli. Loro sono abituati a vederlo, a contemplarlo, a toccarlo il morto e non a immaginarlo".
Il giorno dopo, 12 settembre 1976, il funerale. "Alle 9 santa messa concelebrata, presieduta dal vicario generale di Campo Mourao, in rappresentanza del vescovo, assente dalla diocesi. Sono presenti una ventina di concelebranti. La chiesa e' gremitissima di gente, moltissimi seguono da fuori attraverso l'altoparlante. Verso le 10,30 il corteo si avvia al cimitero. La commozione e' generale.
Arrivati al camposanto, impartita l'ultima benedizione, la gente chiede di poter passare in fila a despedirse (accomiatarsi) dal Vigario. E' una scena di pieta' indescrivibile. Bambini, giovani, adulti, vecchi, tutti commentano allo stesso modo: un padre cosi' non lo troveremo piu', era veramente un pai (papa') per tutti, il bene che ha fatto a ognuno di noi e alla parrocchia e' incalcolabile, eravamo tuttidivisi e padre Alberto con il jeitao (stile) suo caratteristico ci ha uniti, ha fatto di tutti noi una famiglia. Credo che in quelle parole, pronunciate a singhiozzo tra una lacrima e l'altra, ci sia molto di vero. Forse la sua missione era stata compiuta.
Forse il Signore, vedendo tutto questo, ha permesso di sigillare l'opera con il martirio, affinche' nessuno avesse a dubitare dell'onesta' del suo zelo".

LUIGI, SANDRA E ALBERTO, INSIEME

Cosi' padre Alberto Pierobon, a 48 anni, di cui 15 spesi per i poveri del Brasile, ha seguito il fratello Luigi e la sorella Sandra nella morte tragica, violenta, assurda.
Nel martirio. A Cittadella, provincia di Padova, Veneto profondo, restano la vecchia mamma ottantasettenne e cinque fratelli a piangere, per la terza volta, e a chiedersi perche'. Padre Alberto e Sandra sono sepolti nel lontanissimo Brasile, la loro madre non potra' mai inginocchiarsi sulle loro tombe. Ma restano vivi, perche' i martiri non muoiono mai.
C'e' sempre qualcuno che porta un fiore sulla loro sepoltura. C'e' sempre una preghiera, c'e' sempre chi ne segue l'esempio. I tre Pierobon sono proprio cosi'. Vivi. Perche' hanno messo in conto la morte, per fedelta' alla loro fede. E non si sono mai tirati indietro. Sono andati fino in fondo.

C'E' QUALCUNO CHE PARTECIPA AGLI UTILI!

Il 27 settembre 1976 il provinciale del Brasile padre Coruzzi puo' inviare una relazione ufficiale al padre generale Giovanni Gazza. "Eccomi finalmente con qualche notizia piu' precisa e dettagliata sulla tragica scomparsa del nostro carissimo e indimenticabile confratello padre Alberto Pierobon.
Ho atteso fino ad ora con la speranza di poter allegare, oltre ai ritagli di giornale che riportano piu' o meno esattamente e responsabilmente la notizia e le ipotesi della morte, anche il laudo (reperto) della polizia scientifica di Curitiba alla quale era stato demandato il caso. Ma finora non e' stato possibile ottenerlo. Hanno garantito che sara' pronto per la fine del mese. Posso tuttavia anticiparle, per aver visto di prima mano il documento che sara' emesso assieme alle fotografie scattate sul luogo dove e' stato trovato il corpo in stato di avanzata decomposizione, che si tratta, senza alcun dubbio, di un crimine perpetrato a sangue freddo. "Le cause, per il momento, tanto per noi quanto per la polizia, rimangono ignote. Dalle indagini fatte,sembra prendere sempre piu' consistenza l'ipotesi di una vendetta operata o commissionata da un gruppo di zingari che da piu' di un mese lavoravano nella parrocchia di Moreira Salles, dove padre Alberto, coadiuvato ultimamente da padre Romeo Brotto, svolgeva da circa due anni il suo apostolato con la mansione di Vigario. Questa congettura e', per ora, la piu' accettabile perche' ha in suo favore la prova di una lettera che la polizia ha trovato nel portafoglio di padre Alberto, assieme ai documenti personali, ai soldi (1.498 cruzeiros) e altre annotazioni personali di nessun valore. La lettera tratta del problema degli zingari: porta la data del 23 giugno 1976, ha la firma e l'indirizzo di una persona di Cascavel, citta' distante da Moreira Salles circa 120 chilometri. Questa persona chiede insistentemente l'intervento di padre Alberto al fine di finirla con quei lestofanti di zingari che, a suo giudizio, stavano mettendo a soqquadro tutte le famiglie della parrocchia; approfittando della buona fede del popolo, rubavano oggetti, soldi e persino automobili. Questa persona era gia' rimasta vittima di questa banda ma le autorita' non si scomodavano. Nella lettera infine si chiedeva a padre Alberto il suo diretto e personale interessamento, in caso contrario nessuno avrebbe fatto niente, essendo comprovato che il delegato della polizia locale, a cui spetterebbe risolvere questo problema, era un compartecipante agli utili. Varie accuse contenute nella lettera sono state realmente anche da noi comprovate. Si sa anche, per certo, che padre Alberto, dopo aver ricevuto la lettera, ha trattato della questione con varie persone di fiducia e avrebbe fatto sapere, senza mezzi termini, che qualora il delegato della polizia locale non avesse preso immediatamente le dovute misure contro gli zingari, lui avrebbe portato la questione a Curitiba, ma i suoi passi potevano compromettere seriamente la posizione del delegato. Che cosa il delegato abbia deciso di fare non si sa. Sta di fatto che, un giorno o due al massimo prima che i padri lasciassero Moreira Salles per recarsi a Curitiba, gli zingari sono scomparsi dalla parrocchia. Dopo qualche settimana, cioe' durante il periodo che padre Alberto era scomparso, anche il delegato della polizia locale venne trasferito. Coincidenze? Trama di sequestro? Vendetta? E' difficile definirlo, soprattutto perche' molti hanno paura di testimoniare, hanno timore di altre rappresaglie.
Cio' di cui siamo certi e' che padre Alberto fu vittima di una banda di assassini, di gente senza principi e senza scrupoli.

LA TESI DELLA SUA GENTE

"In questi giorni e' stata affacciata anche l'ipotesi di un despacho (sacrificio) di macumbeiros (aderenti a una setta di magia nera), perche' il luogo in cui e' stato trovato il corpo mutilato di padre Alberto e' tristemente famoso per questo genere di cose.
Ma questa tesi, sempre ammissibile, non ha molti indizi probanti. Tutti cercano una ragione per spiegarsi, almeno in parte, i moventi che hanno spinto a tanta efferatezza, ma non si intravvede. Tra il suo popolo padre Alberto non aveva nemici. E, realmente, l'abbiamo potuto constatare: tutti lo hanno pianto come la persona piu' cara della famiglia. Le testimonianze che abbiamo potuto raccogliere durante il funerale e nei giorni seguenti fra tutti gli strati della popolazione sono cose preziose, degne di un santo che e' passato fra la gente facendo solo del bene. Si', carissimo padre generale, il nostro padre Alberto era un po' teimoso come dicono qui, ossia pertinace, ma il suo popolo lo aveva capito, lo accettava cosi' e gli voleva tanto bene. Il suo amore per i piccoli, i deboli, gli anziani, gli ammalati; quella sua fede gigante che doveva sempre tradursi in opere, in gesti concreti; quel suo zelo irrefrenabile per il Regno di Dio e il bene delle anime; quei suoi appelli alla generosita' intesi a suscitare appoggio, interesse, corresponsabilita', amore per i seminari, gli hanno valso la benevolenza di tutti. Lui e' morto come e' morto Cristo; il discepolo desiderava essere come il Maestro e cosi' e' stato.
Lui e' morto a causa della sua fede, per amore alla giustizia, per difendere la sua gente dai falsi profeti. Di questo, ripetiamo, ne siamo certi. Lo hanno trucidato ma non lohanno fatto morire. Il suo esempio, i suoi gesti di bonta', le sue esortazioni al bene sono rimasti scolpiti nel cuore e nella mente della sua gente. Noi ne siamo testimoni. La terra che in breve lo ha consumato, ha voluto per gratitudine cristiana offrirgli un luogo di descanso (riposo) e noi non abbiamo avuto il coraggio di negarglielo. Se abbiamo agito bene non so. Cio' di cui ho certezza e' che padre Alberto amava profondamente quella comunita' e la stimava al pari della sua famiglia e della sua congregazione, perche' nei momenti piu' difficili lo aveva saputo capire e aiutare. Che il Signore gli conceda la pace dei giusti e la corona dei martiri. Sono in molti qui a credere che il suo sacrificio gliel'ha meritata. E' questo, carissimo padre, cio' che innanzitutto sentivo il bisogno di comunicarle. La nostra famiglia saveriana puo' annoverare un altro martire". Fra tante teorie, la sua gente, i poveri che p. Alberto difendeva, sosteneva, e sostiene a tutt'oggi, una tesi: ha difeso noi poveri contro i potenti e i potenti questo non lo hanno potuto accettare. Ecco tutto.

LA TESTIMONIANZA DEI FATTI

E' toccato a monsignor Giovanni Gazza, Superiore generale dei Saveriani e testimone oculare dell'azione di padre Alberto Pierobon in Brasile, andare a commemorarlo a Cittadella, con una messa, il 17 settembre 1976. Davanti ai familiari del martire, ai suoi amici e concittadini, tiene un lungo, appassionato discorso. Uno straordinario riassunto d'una vita donata fino all'effusione del sangue. "Siamo qui per ricordare e commemorare un nostro fratello, il padre Alberto Pierobon, che ci era tanto caro e che ci e' stato tolto in circostanze che ci rendono ancora piu' dolorosa la sua scomparsa. Agenzie di stampa hanno dato notizia di questo fatto, riferendo anche inesattezze dovute a congetture difficilmente accertabili. Non bisogna dimenticare le distanze e le difficolta' di comunicazione nei luoghi dove i fatti sono accaduti. L'ultima telefonata avuta dal Brasile, questa mattina stessa, con le risultanti delle indagini della polizia brasiliana e dell'autopsia, confermano che padre Pierobon e' cadutovittima di una vendetta, tanto disumana quanto assurda. Per molti anni ho condiviso direttamente la vita missionaria di padre Alberto. Quando penso a lui, non ho dinnanzi che quella persona generosa, infaticabile, ardimentosa, apparentemente burbera ma sensibilissima ad ogni sofferenza umana, sempre pronta a sobbarcarsi il peso degli altri, capace della piu' alta donazione pur di fare un favore al prossimo, zelante nel suo impegno sacerdotale in maniera esemplare.
E' chiaro ormai che, anche in questa tragica vicenda, padre Alberto e' solo una vittima della sua stessa generosita': ha esposto se stesso per difendere la sua gente. Del resto e' stata questa la nostra convinzione fin dalle prime informazioni che ci erano giunte. Non avevamo e non potevamo trovare altre spiegazioni ad una scomparsa che - col passare dei giorni - ha angosciato noi ed i familiari, durante questo ultimo mese, da quando erano venute a mancare notizie sul suo conto. Quella che voglio portare qui stasera e' soprattutto una testimonianza sulla sua vita, basata strettamente sui fatti. La disposizione a donarsi con generosita' caratterizza tutto il lavoro di padre Alberto in questi 15 anni di Brasile. Io sono stato con lui, come ho detto, alcuni anni in quella grande terra, prima al sud, nello stato del Parana' e poi in Amazzonia. Padre Alberto non si e' mai smentito: sempre il primo a sobbarcarsi alla fatica. In Amazzonia eravamo agli inizi della missione: viaggi disagiati di giorni e giorni sui fiumi, le prime opere della missione da organizzare. Padre Alberto e' stato preziosissimo per tutti noi. Mettendo al servizio di tutti le sue capacita' ed il suo senso pratico, ha dato vita alle prime consistenti opere della missione: scuola, ospedale, chiese, residenze per i missionari, cappelle dell'interno. Assieme a questo lavoro materiale, il lavoro pastorale sempre infaticabile. Questo ritmo di attivita' e' stato spezzato di quando in quando dalla sua salute non sempre efficiente. Fu tormentato, fino da studente, da disturbi allo stomaco, aggravati piu' tardi, probabilmente, da un'alimentazione locale non sempre adatta alle sue condizioni. Ha sofferto parecchio per questo. La sua donazione ed il suo zelo acquistano piu' risalto e piu' luce perche' accompagnati da questa sofferenza fisica e dalle pene morali che l'accompagnavano. Con questo, noi tocchiamo la costante piu' profonda e commovente della sua vita. La sua vocazione missionaria era sbocciata sulla radice del dolore e si e' consumatanella sofferenza.

SOGNANDO L'OLOCAUSTO SUPREMO

"La professoressa Rina Parolin, questa autentica anima di Dio che ha guidato tanti giovani verso grandi ideali di vita cristiana e, in particolare, verso la vita sacerdotale e missionaria, scriveva nel 1948 a proposito di Alberto, allora studente, costretto - in quel periodo - ad una forzata convalescenza: Il forzato riposo e' ora il suo tormento piu' grande. Impossibile chiedere di restare inattivo a chi sogna l'olocausto supremo per il Signore. E' anche tanto vivo in questi giorni il ricordo del fratello fucilato a Padova, questo caduto che tanto fece onore alla Chiesa nostra. Alberto - continua la professoressa Parolin - fa risalire a quella morte la sua vocazione missionaria e l'impeto della sua anima ardente. La scelta missionaria di padre Alberto, segnata da questa prova atroce, fu certamente, per lui, una maniera per donarsi totalmente a qualcosa che veramente vale e per cui valesse la pena di vivere. Piu' tardi, in Amazzonia, nel pieno del suo lavoro apostolico, doveva vivere un altro dramma: quello della tragica fine della sorella Sandra. Con queste sue disposizioni d'animo che rappresentano la costante della sua vita, padre Alberto si e' messo al lavoro nella nuova immensa parrocchia affidatagli in Moreira Salles, nelle zone ancora pionieristiche del Parana' (dico parrocchia, ma di quelle che misurano decine di chilometri da un estremo all'altro). Queste le disposizioni d'animo che mi manifestava alcuni mesi fa, in occasione del rientro in Brasile dopo la sosta di alcuni mesi in Italia, permanenza dovuta, ancora una volta, a motivi di salute. Non vedeva l'ora di ripartire per riprendere il suo lavoro con dedizione completa. Padre Alberto con questa sua dedizione si e' accattivato subito l'affetto e la collaborazione della popolazione di Moreira Salles, che in questa tragica circostanza della sua scomparsa gli ha tributato una testimonianza unanime di stima e devozione chiedendo, tra l'altro, insistentemente di poterne custodire la salma, volendo - in questo modo - prolungarne come viva la presenza. Dalla telefonata avuta questa mattina, ho saputo che il funerale ha avuto la commossa etotale partecipazione della popolazione, giunta anche dai villaggi piu' lontani dell'immensa parrocchia. Le tragiche circostanze della morte di padre Alberto - dalle ultime informazioni che abbiamo - assumono i loro contorni sempre piu' precisi: e' stato vittima di un barbaro sopruso. Questa drammatica fine e' in consonanza con tutta la sua vita e con quelle disposizioni di fede e di amore per Dio e per i fratelli con cui padre Alberto si e' sempre donato. La sua salma riposa ora, assieme alla sorella Sandra, in Brasile, lontani alcune migliaia di chilometri l'uno dall'altra, Sandra in Amazzonia, Alberto in Parana', ma accomunati oltre che dal loro tragico destino da uno stesso ideale e da uno stesso amore. Piu' che mai sentiamo viva la parola del Vangelo, appropriata a questi destini. Il sacrificio di padre Alberto e di Sandra, secondo questa luce, e' destinato a fecondare il cammino del Regno di Dio. La certezza della fede ci dice che la trama delle vicende umane ha i suoi raccordi talvolta segreti, ma non meno certi, con la trama amorosa dei disegni di Dio. Disegni che non sono sempre appariscenti e, a prima vista e breve termine, restano anche dolorosamente oscuri talvolta e incomprensibili. Noi siamo qui, oltre che ad offrire le nostre preghiere di suffragio, per ricordare, a nostra edificazione, un esempio di vita che deve essere luce anche per il nostro cammino. Alla famiglia Pierobon tanto duramente provata vogliamo esprimere il nostro affetto e la nostra partecipazione umana, e vogliamo farlo soprattutto con le considerazioni della fede. Il Signore, con queste tragiche vicende, ha associato piu' intimamente a se' la famiglia Pierobon, attraverso quella sofferenza che, in Cristo, salva il mondo. Anche questa comunita' cristiana di Cittadella, che tanti sacerdoti, religiose e missionari ha dato alla Chiesa, trovi nuova ispirazione morale e spirituale in questo sacrificio di un altro dei suoi amati concittadini".
Aveva scritto un giorno Alberto Pierobon d'essere pronto a immolarsi per gli altri. Cosi' e' stato.

RENZO AGASSO




SALVATORE DEIANA
Ardauli(Or) 17.7.1956 - Brasil Novo (Brasile) 16.10.19987




DAL CENTRO DELL'ISOLA

"Ha fatto il missionario con il piede sull'acceleratore", hanno detto di lui. Ed e' morto su un'automobile, mentre correva dai poveri. Il saveriano padre Salvatore Deiana aveva fretta di amare, di fare, di testimoniare il Vangelo. Forse sentiva di avere poco tempo. Se ne e' andato a 31 anni, dopo soli 4 di missione in Brasile. Un incidente al chilometro 23 della Transamazzonica, o un attentato contro il vescovo difensore dei deboli che viaggiava con lui.
"Non capisco, ma benedetto sia il Signore, benedetto sia": cosi' la mamma davanti alla sua bara.
"Io sono convinto - aveva detto un giorno padre Salvatore parlando ai suoi conterranei prima di partire in missione -
che il sacerdote, il missionario non nasce da solo, non spunta dal nulla, ma e' frutto della comunita', dell'impegno di tantepersone. Tutti noi abbiamo dei campi e li lavoriamo: sappiamo come vanno le cose.
Per far crescere qualcosa bisogna preparare il terreno, arare, estirpare l'erba e infine seminare e lavorare ancora; solo alla fine si vedra' qualche frutto.
Cosi' e' del missionario, del sacerdote. Vorrei allora ringraziare tutte le persone che hanno lavorato perche' questo giorno si avverasse, e sono tante, sarebbe impossibile nominarle tutte. Vorrei pero' farvi un augurio: che la comunita' cresca, che non si fermi, che continui a dar frutto. Non impedite al Signore di scegliere nuovi operai. Voi genitori non impedite che lo Spirito entri nelle vostre famiglie. Voi giovani, ragazzi e ragazze, rendetevi disponibili. Esci dalla tua terra...".
Quando pronuncia queste parole, padre Salvatore Deiana sta per uscire dalla sua terra. Li' e' tornato, appena 4 anni dopo, in una bara! Perche'? Perche' il Signore ha richiamato cosi' presto il suo operaio? Perche', quando la messe e' molta e gli operai pochi? "Non capisco, ma benedetto sia il Signore".
La terra di Salvatore e' la Sardegna. Nasce il 17 luglio 1956 a Ardauli, paesino al centro dell'isola, circa 1.400 abitanti, provincia di Oristano. Il padre Damiano, come tanti, e' emigrante, fa il minatore in Belgio; la mamma si chiama Lina Ibba. Hanno gia' avuto un figlio, Pasqualino, morto di anemia, a 6 anni e mezzo, due mesi prima della nascita di Salvatore. Poi arriveranno tre sorelle: Antonietta nel 1958, Natalina nel '59 e Luisella nel '63.

I PRIMI INCONTRI

Lo battezzano il 12 agosto, Salvatore, che tutti chiameranno poi, per sempre, semplicemente Tore. Lo cresce la mamma, perche' il papa' e' lontano, a lavorare. Va all'asilo, poi alle elementari:e' bravo, anche se non ha molto tempo per studiare, deve anche aiutare in casa. In terza, un giorno, viene a scuola un sacerdote vincenziano, padre Riva, che domanda ai bambini: volete diventare missionari? E Tore risponde di si'. Si', lo vuole: anche se non sa bene cosa voglia dire. Poi quel sacerdote va in missione e viene sostituito dal padre saveriano Giuseppe Marzarotto, che, con i suoi racconti, infiamma i bambini, Tore e il suo amico Torico Frau in particolare. "Mamma, ho dato la mia parola a un padre", dice un giorno Tore.
E la mamma: "Che parola?". "Voglio diventare missionario". "Figlio mio, ma se non lo capisco neppure io, come puoi capirlo tu che sei ancora in terza elementare?". Stessa risposta dal papa' che adesso lavora a Cagliari: "Pensa prima a diventare grande e a studiare, poi si vedra'!". Dopo due anni di contatti epistolari di padre Marzarotto con i due bambini e un campeggio vocazionale dei Saveriani, alla fine della quinta elementare, Tore e Torico, a settembre del 1967, undicenni, vanno a Macomer, nella casa apostolica saveriana. Confessera' Tore: "Ho sofferto parecchio il distacco dalla famiglia e dall'ambiente in cui vivevo". Presto arriveranno altri sei ragazzini compaesani di Ardauli. Tre anni di medie, tra studio, preghiere, giochi, e Tore impara anche a suonare la chitarra. Siamo nel '68 e dintorni.

IL GUSTO DI LAVORARE PER GLI ALTRI

Dopo un anno a Cagliari, dove i Saveriani tentano la novita' della scuola interna che non funzionera', di nuovo a Macomer per i primi due anni di liceo in un gruppo-famiglia in comunita'. Ricordera' Tore: "E' stata un'esperienza che mi ha subitoappassionato e nella quale mi sono buttato a tuffo: il rapporto familiare stabilito con i padri mi e' servito per superare le difficolta' dell'anno precedente, per acquistare un po' d'apertura e di dialogo. La responsabilita' che pian piano iniziavamo ad assumere ci rendeva senz'altro piu' maturi e coscienti della nostra vita. Ognuno di noi seguiva alcuni ragazzi delle classi inferiori e questo ci apriva ai problemi dell'educazione, del rapporto con gli altri. Personalmente ricordo come momenti fondamentali per la mia formazione: la scuola fuori, la classe mista, i problemi scolastici discussi e visti insieme al rettore e l'apertura verso l'animazione esterna. Spesso, infatti, uscivamo per le giornate missionarie ed io venivo talvolta prelevato dai giovani di Mani Tese per proiettare i filmati del terzo mondo nei vari paesetti dove questo gruppo lavorava. Avevo quindici anni. Ci prendevo gusto a lavorare per gli altri e l'aspetto missionario mi diveniva sempre piu' chiaro".
Si', Salvatore Deiana ha deciso davvero di fare il missionario. Fin da bambino tiene il piede sull'acceleratore: ha fretta di lavorare per gli altri. A settembre del 1973 arriva a Cagliari per il liceo. Con lui, l'amico Giorgio Zago: faranno insieme tre anni di scientifico e due di teologia, poi si separeranno, Giorgio Zago si sposera'. Vanno al Liceo Statale Pacinotti, tra scioperi, manifestazioni, proteste, gli ultimi strascichi di Sessantotto. E loro due, seminaristi, in mezzo a quel trambusto. Talmente amici che li chiamano Asterix (Tore, piu' mingherlino) e Obelix (Giorgio, piuttosto robusto) come i due irriducibili Galli dei fumetti di Goscinny e Uderzo, che a quel tempo arrivavano anche in Italia dalla Francia.

AL "CRISTO DIVIN LAVORATORE"

Intanto l'ora della scelta si avvicina. Riflette Tore:
"La missione ad gentes e' stato il motivo principale che mi ha spinto a seguire questa strada. Mi sonosempre buttato a capofitto nelle iniziative e nelle problematiche di questo tipo. Da un primo entusiasmo sentimentale e sempliciotto per la missione ho cercato di scoprire e di valorizzare i motivi piu' profondi. In definitiva penso che questa sia la mia strada e mi sento gia' incamminato nella vita religiosa".
Cosi', nel settembre del '78, eccolo ad Ancona per il noviziato. Un anno importante di studio, approfondimento, conoscenza, riflessione. Ma anche di impegno concreto di carita', animazione, catechesi. Una sorta di prova generale, prima dei voti, del sacerdozio, della missione. Tore, ventiduenne, si dimostra all'altezza dell'impegno e il maestro dei novizi, presentandolo per l'ammissione alla famiglia saveriana scrivera' che "e' un giovane generoso, attivo, intraprendente, portato per la meccanica. Sa organizzare e distribuire il proprio tempo con responsabilita', secondo i vari interessi spirituali, intellettuali e di attivita' manuale. Utile alla vita comunitaria, dove con intuito particolare sa assumere tanti lavori nascosti e umili che rendono piu' spedito l'andamento e la manutenzione della casa".
E allora, il 1° settembre 1979,nella parrocchia anconetana di Cristo Divin Lavoratore, Salvatore Deiana fa la prima professione dei voti religiosi, entrando a far parte della congregazione fondata a Parma dal vescovo Guido Maria Conforti alla fine dell'Ottocento, il cui modello e' san Francesco Saverio, apostolo d'Oriente. Poi ritorna nella Sardegna amatissima, nella casa saveriana di Macomer per l'anno di assistenza ai giovani studenti.
A settembre 1981 arriva nella casa madre di Parma per finire la teologia. E allenarsi alla missione: collabora con la parrocchia di Ognissanti e un confratello ricorda: "Tore era veramente contento di essere prete e missionario ed era sempre un vulcano di iniziative. Insieme preparammo incontri, liturgie, campi scuola e recitals". I giovani di quella parrocchia gli resteranno legati anche quando andra' in missione, dalla parrocchia parmigiana gli giungeranno spesso lettere e aiuti. Intanto lui si diverte con i motori, la sua passione, ha anche la patente per i camion. Una vita col piede sull'acceleratore, sempre. "Si dedica con amore alla comunita' e manifesta un genuino senso di appartenenza. E' bene accetto e gradito ai compagni. Guidato dalla fede e' spiritualmente impegnato nel vivere i voti religiosi. Dotato di un sano realismo, sensibilita', serenita', sa cogliere le situazioni di sofferenza altrui ed e' profondamente onesto". Cosi' definisce Salvatore Deiana il rettore nella presentazione per l'ammissione al diaconato. E diacono lo diventa il 21 febbraio 1982, insieme a nove compagni, per le mani del vescovo saveriano monsignor Catarzi, nella cappella della casa madre a Parma. Ci sono i suoi genitori e parenti e amici dalla Sardegna che hanno portato pane fatto in casa e dolci tipici dell'isola. Aveva scritto sull'invito alla cerimonia: "Da tanti anni ero orientato alla vita missionaria, oggi questa scelta diviene piu' concreta e assume degli impegni ben precisi. Domenica 21 febbraio, nella cappella del nostro Istituto, saro' ordinato diacono. E' l'ultimo gradino prima del sacerdozio! Essere diacono significa mettersi al servizio dei fratelli e in special modo dei piu' bisognosi. Sono contento di questa scelta! Sono inoltre convinto che da solo non riuscirei a seguire fedelmente questa strada. E' troppo grande lo scarto tra il dono che ricevo e la poverta' della mia persona".

IL TESORO DI ARDAULI

Diacono: lo fa a Parma e, nelle vacanze estive, in Sardegna, cosi' puo' battezzare le due prime nipotine Marta e Chiara, figlie di sua sorella Antonietta. Ha ventisei anni ed e' a un passo dal sacerdozio. L'ordinazione avviene il 26 settembre 1982 nel palazzetto dello sport di Parma. Tore e i suoi nove compagni diventano preti saveriani per le mani del nuovo vescovo della citta', successore del Conforti, monsignor Benito Cocchi. Piu' di cento i concelebranti, saveriani e diocesani. Tremila le persone che assistono, parenti e amici dei nuovi sacerdoti.
Salvatore Deiana ha scritto poco prima: "Nel giorno della mia ordinazione sacerdotale chiedero' al Signore la grazia della fedelta' alla mia vocazione e di poter sempre sprigionare l'entusiasmo dei primi giorni della mia risposta al Signore".
Il nuovo prete torna nella sua Sardegna per celebrarvi la sua prima messa solenne. Il 3 ottobre tutta Ardauli festeggia il suo figlio prete. Canti in dialetto, costumi tipici, piatti e tradizioni isolane per una festa indimenticabile.
Il predicatore e' un altro saveriano sardo, padre Mario Mula, che dice di padre Salvatore Deiana:"Tore si porta sulle spalle, sono sicuro, la fede forte ed essenziale dei suoi antenati, dei suoi padri, la fede sacrificata e provata dei suoi genitori". Poi, rivolto a papa' e mamma e ai parenti di Tore, aggiunge: "Voi per primi tziu Damiano e tzia Lina, maestri e artefici con la parola, ma soprattutto con l'esempio, di questo essere meraviglioso che poi il Signore ha riservato per se'. Voi sorelle e cognati, voi parenti e amici, voi tutti che formate la comunita' di Ardauli, siete voi da festeggiare! Fortunato - dice Gesu' - chi sa tirar fuori dal suo tesoro cose nuove. Una cosa nuova e' questa! Fortunata la famiglia e la comunita' che sanno tirar fuori simili tesori!".
Dopo i festeggiamenti nella sua terra, padre Salvatore Deiana torna a Parma per l'ultimo anno di teologia, e per completare la formazione missionaria necessaria ad un partente per una terra nuova e sconosciuta, dove annunciare il Vangelo della salvezza, secondo il mandato stesso di Gesu': andate, predicate, battezzate.
E' cio' che Tore ha inteso fare, fin dai banchi della scuola elementare. E ormai non manca molto.
"La partenza - sta scritto nelle costituzioni saveriane - vissuta come avvenimento pasquale di una vita che si abbandona e di una nuova vita che comincia, diventa per se stessa parte del mistero di salvezza per il mondo".
Si', occorre partire, lasciare terra, casa, famiglia, amici, certezze. Andare via, per sempre. Non e' facile. Non lo e' nemmeno per Tore, che pure quel giorno ha sognato a lungo.
E il giorno arriva: il 16 ottobre 1983. In quella stessa data, cinque anni prima, anche a un altro e' toccato di partire per non tornare piu'. Il 16ottobre 1978 Karol Wojtyla ha lasciato per sempre la sua Polonia amatissima per sedere sul seggio di Pietro, a Roma, e di li' guidare la Chiesa nel terzo millennio cristiano.
Adesso tocca a Tore. Ha ventisette anni, e' pieno di gioia, perche' finalmente realizza il suo sogno missionario.
Ma sente il dolore del distacco, la nostalgia, il peso dei ricordi, l'assenza dei volti cari che non vedra' piu'.
Lo accompagnano alla stazione di Abbasanta il papa' e la mamma, una zia materna e gli Zago, genitori del suo amico Giorgio. Padre Salvatore Deiana parte per il Brasile, parte per la missione che Dio ha in mente per lui fin dall'inizio dei tempi. Parte per l'ultima volta dalla sua Sardegna.

SUL RIO DELLE AMAZZONI

Scrive Arturo Francesconi nel suo libro Transamazzonica km 23 (EMI, 1992), un'affettuosa biografia di un amico: "Credo sia facile immaginare cosa provo' Tore in quel giorno di viaggio; ed e' giusto pensare anche al coraggio dei suoi familiari: stavolta non dovevano lasciar partire il loro figlio per il continente, bensi' per l'Amazzonia, ad una distanza che, nella loro fantasia, era difficilmente calcolabile. Papa' e mamma saluteranno per l'ultima volta il loro amato figlio. E' vero, piu' volte lui telefonera' dal Brasile, ma non sara' la stessa cosa".
Tore si ferma ancora un po' a Parma, dove saluta i confratelli, la parrocchia in cui ha lavorato, la sorella Luisella che e' li' per studiare da infermiera, poi, il 26 ottobre, prende l'aereo per il Brasile. La sua prima destinazione e' la citta' di Bele'm, un milione e mezzo di abitanti, capitale del Para', nel nord, uno dei 24 stati in cui e' suddiviso l'immenso Brasile. Li' c'e' il piu' grande fiume del mondo, il Rio delle Amazzoni, quasi otto milioni di chilometri quadrati di superficie.
Tore e' sopraffatto dal caldo equatoriale, ma presto si abituera'. Si trattiene perqualche tempo di ambientamento nella casa saveriana di Bele'm, e della metropoli conosce anche la faccia nascosta: poverta', violenza, degrado. Poi lo destinano nella citta' di Bujaru, dove restera' quasi sei mesi.
Da li' scrive a casa per raccontare la sua nuova attivita': "Tanti di voi si saranno chiesti com'e' la mia vita e cosa faccio di bello o di brutto. Ebbene, mi trovo in una piccola cittadina di circa 3.000 abitanti, sulla riva di un grande fiume: il Guama'. Una chiesetta stile europeo troneggia nella piazza centrale, attorniata da grandi manghi di un colore verde cupo. Le strade sono tutte in terra battuta e le casette, quasi tutte in legno, si perdono in mezzo ai campi e ai cocco. Per ora vivo in una piccola comunita' composta di due padri, uno spagnolo ed un brasiliano, e di tre missionarie del sud. E' una piccola comunita' internazionale. La mia vita trascorre normalmente dietro la grande scrivania della mia stanza gia' carica di libri, di grammatiche e dizionari: mi sono buttato con impegno nella lingua e, dopo quasi tre mesi, comprendo tutto e posso prendermi il lusso di fare le prime omelie ed i primi incontri con una certa disinvoltura. Normalmente studio sette o otto ore al giorno e quando voglio riposarmi vado alla ricerca dei Topolino e Paperone scritti in portoghese!". Parla dei primi lavori manuali: "In questi giorni prima di riprendere i miei studi dipronuncia ho deciso di riposare un po'. Ho preso pala e piccu in mano e sto lavorando nel nostro piccolo orto, gia' pieno di banani, manghi e cocco. Sto delimitando delle aiuole con vecchie tegole in modo da piantare un po' di verdura. E' interessante perche' tutto cresce molto in fretta, da un giorno all'altro".
Poi confessa simpaticamente: "Ormai mi sono abituato a questo tipo di vita! Mi sono abituato ad avere la luce elettrica solo per quattro ore al giorno e ad usare la lampada ad olio quando si va fuori.
Sono contento di questa vita, nonostante l'idea dell'Italia ritorni spesso nella mia cabessa". Ma non ha molto tempo per pensarci.
Ci sono piu' di 150 comunita' di base da visitare, aiutare, incoraggiare. "La nostra parrocchia abbraccia un raggio di circa cinquanta chilometri ed il lavoro non manca.
Le piccole comunita' sono disperse tra le anse dei fiumi e nel mezzo della foresta. Spesso si viaggia in barca, in jeep, in autostop (!) sopra camion gia' stracarichi di gente e altre volte a piedi. Basta avere un piccolo zaino sulle spalle con un'amaca per dormire ed un cambio di biancheria. Ultimamente sono stato con il padre Santiago a visitare alcune comunita'. Ho condiviso un po' la vita quotidiana della gente. Normalmente e' gente molto povera che coltiva un piccolo pezzetto di terra, vive in casette di legno e fango. Le famiglie spesso sono numerose ed il cibo non e' sempre sufficiente. Il nostro lavoro consiste nell'unire i gruppi e nell'organizzare le comunita' a tutti i livelli.
Per questo la nostra casa sembra un negozio pieno di gente che va e che viene. E' interessante comunque notare che, nonostante la poverta', la gente vive seriamente il cristianesimo".

COME LORO: I KAIAPO'

Ma e' gia' tempo di ripartire. Ad aprile dell'84 lo informano che dovra' andare nello Xingu. E lui scrive: "Tra un mese saro' gia' nella mia nuova residenza. Ho ricevuto proprio in questi giorni la mia destinazione, dovro' ricominciare completamente da zero. Sono uno dei pochifortunati che possono lavorare nello Xingu, unica zona di pastorale indigenista, con la prospettiva, prima o poi, di potermi inserire nella pastorale con gli indios superstiti. Sono contento di questo, anche se la cosa mi impressiona un poco: le distanze sono enormi e si e' un po' tagliati fuori dai grandi centri". Il 7 maggio 1984, dunque, Tore sale su un altro aereo e lascia Bujaru per lo Xingu, una prelazia (diocesi) grande come tutta l'Italia, con venti padri e una quarantina di suore. Il Vangelo si annuncia lungo il fiume Xingu e nei villaggi toccati dalla Transamazzonica, tremila chilometri di strada attraverso la foresta. I saveriani sono presso il fiume e hanno una parrocchia nella citta' di Altamira, gli altri missionari lavorano lungo la Transamazzonica e nelle due altre parrocchie.
Tore dapprima va a Porto de Moz, 14 ore di barca da Altamira sullo Xingu. Ma poi, il 31 maggio, gli viene affidata la parrocchia di Vila Brasilia, in Altamira, e la cura degli indios, come lui stesso aveva voluto.
Scrive di nuovo: "Faccio parte di una e'quipe di tre padri, padre Renato Trevisan, padre Salvatore Saiu ed io.
La nostra residenza e' in citta' e seguiamo una parrocchia di periferia (Vila Brasilia) con casette vecchie ed una chiesa che praticamente e' una casetta in legno. Il nostro lavoro specifico e' pero' con gli indios, che in linea d'aria distano piu' di quattrocento chilometri, se si viaggia in aereo, e piu' di ottocento, se si viaggia in barca. Sono contento di questa soluzione, e' un lavoro nuovo iniziato da poco".
Padre Tore Deiana adesso e' davvero in prima linea, come ha sempre desiderato. Parte subito per Kikretum, uno dei villaggi degli indios Kaiapo'. Ma non in aereo. Ecco il suo racconto: "Sono partito con padre Trevisan per ritornare tra gli indios. Penso che diventeremo famosi. Siamo i primi finora a partire da Altamira e raggiungere gli indios senza usare l'aereo.
Siamo andati in pullman sino a Tucuma' (tre giorni e tre notti di viaggio) poi siamo arrivati dopo un giorno di camion a Kikretum. Anch'io mi sono alternato alla guida con l'autista. Arrivati abbiamo sistemato la nostra casa, quella che gli indios avevano iniziato. E' una bella casa parrocchiale fatta in tronchi ed in fango, con il tetto in paglia. E' facile da restaurare: basta impastare fango e tappare buchi. Abbiamo lavorato da cani. Fatto porte, finestre, pavimento e piccoli armadi in legno.
Tutto comincia a funzionare e gli indios sono sempre in casa a vedere e rivedere le solite fotografie o sfogliare i nostri libri in cerca di figure. Il pranzo e la cena e' a base di riso e di fagioli.
Ci arrivano anche patate dolci, banane e farina di mandioca. Anche i pesci e la caccia sono cose normali".

SOLO L'AMACA

Il piccolo missionario sardo parla subito al cuore degli indios, fuma la pipa insieme a loro, canta, ascolta, lavora. Condivide tutto, insomma. E loro gli mostrano amicizia e gratitudine dipingendogli il corpo con i colori ricavati dalle erbe selvatiche. Un gesto riservato agli amici, anzi ai fratelli. Una straordinaria, intensa vicenda che padre Renato Trevisan riassume cosi': "Per due mesi e' con me a Kikretum, tra gli indios Kaiapo'.
La sua presenza coincide con il nostro passaggio da una capanna semiabbandonata, eccetto che da topi e da pipistrelli, ad una piu' grande, costruita dagli stessi indios per noi. Lui si incarica delle opere di sistemazione, visto che abbiamosolo l'amaca per riposare la notte. Tore misura, sega e inchioda mentre io gli passo i chiodi, il martello e vado in cerca di cio' che manca. Gli indios l'osservano mentre lavora, quando si ferma per farsi quella strana piccola sigaretta di trinciato. E' loro simpatico perche' sorride, perche' offre loro la stessa sigaretta che ha appena finito di fare per se', anche tre, quattro volte se la prepara invano". "Dov'e' padre Tore? Padre Tore e' ottimo", dicono di lui gli indios, conquistati dalla semplicita', dalla bonta' e dalla condivisione di quel piccolo, giovane sardo che regala sigarette fatte a mano a tutti.
Va e viene altre volte da Altamira a Kikretum, 1.100 chilometri di una strada infernale. Guida anche il camion, perche' l'autista rifiuta di buttarsi in quell'impresa disperata, quando la pioggia e il fango rendono impossibile il viaggio. Lui va, allegro e incosciente, e alla fine dice al confratello: "Hai visto che ce l'ho fatta?".
Una frase che ripete spesso, a suggellare tutte le sue piccole vittorie nelle battaglie quotidiane. Vorrebbe stare sempre tra gli indios. Ma presto si accorge di non farcela piu', troppi chilometri e troppa fatica.
E allora, da novembre del 1984, restera' in parrocchia ad Altamira, tra gli indios continueranno padre Trevisan e padre Saiu.
A quei tempi Altamira ha circa sessantamila abitanti.
Molti arrivano dal sud: mandati dal governo a popolare l'Amazzonia, nel nord del Paese, aprendo per loro nella foresta la grande strada Transamazzonica, con conseguente dispersione degli indios che li' vivevano. Ma il clima del nord e' molto peggio di quello del sud, si ammalano emuoiono per malaria e punture di insetti, non hanno ospedali, scuole, strade. Molti se ne vanno, parecchi finiscono, appunto, ad Altamira.
Scrivono allora i vescovi brasiliani: "In luogo delle trasformazioni solennemente promesse, l'immobilismo e l'indecisione nel piano sociale, politico ed economico hanno finito per generare incertezza e perplessita' aggravando i problemi, tra i quali vogliamo sottolineare: la spaventosa miseria che e' presente in tutto il Paese e forma un flusso migratorio che gonfia tanto le citta' quanto le nuove frontiere agricole; la politica salariale che mantiene nel Paese uno dei salari piu' bassi del mondo; la crescente violenza contro contadini, posseiros, i senza terra e gli indios che lottano per la terra".
Contro questa situazione lottano da sempre molti vescovi del Brasile, tra i quali il famoso pastore di Olinda e Recife dom Helder Camara, che rischia la pelle per le sue prese di posizione in favore dei poveri e degli oppressi.
Contro questa stessa situazione di poverta', ingiustizia e violenza si prepara a combattere anche padre Salvatore Deiana, il piccolo Tore che arriva dalla Sardegna, allegro e generoso, armato soltanto di sorrisi aperti, baffi neri, sigarette fatte a mano.

UNO PER TRENTAMILA

Il 2 ottobre ha scritto alla sorella e al cognato: "Carissimi Natalina e Giuseppe, e' passato molto tempo dall'ultima lettera, ma a dir la verita' sono stufo di aver la penna in mano, sempre a scrivere e a preparare incontri di tutti i tipi. Pensate che persino nel collegio (sarebbe il nostro liceo) mi stanno chiedendo qualche lezione di psicologia e sociologia. Il lavoro comunque e' troppo e penso gia' di calmarmi. Solo nella parrocchia ci sarebbe da lavorare per tre persone senza interruzione. Sono gia' dimagrito abbastanza (solo 55 chilogrammi) e proprio oggi ho iniziato la cura contro i vermi, devo averne la pancia piena. Quando poi sono un po' nervoso fumo come un turco, i tabacchi piu' forti, cioe' quelli che costano meno. Proprio ieriho incontrato due giovani italiani (siciliani) in viaggio di nozze e li ho invitati a visitare le zone peggiori della mia parrocchia. Sono rimasti stupefatti. Perche' anche voi non pensate di fare un viaggio il prossimo anno? Da poco tempo ho terminato la mia prima esperienza con gli indios e tra quindici giorni partiro' nuovamente. E' difficile pero' passare sempre dalla citta' al mondo primitivo, la cosa peggiore sono i viaggi. Poi mi sono fermato con padre Renato altri 15 giorni vivendo in un villaggio. Caccia, pesca, campagna e lavoretti vari per poter mangiare.
Il rientro dalla citta' piu' vicina e' stato in pullman. Tre giorni di viaggio fino ad Altamira. Fango, enormi buchi ed il pullman che ogni tanto rimaneva dentro il fango che arrivava a meta'. In ogni caso e' finito bene".
Ma adesso basta scorribande. Nella grande parrocchia di Altamira chiamata Vila Brasilia c'e' lavoro per tre, dice Tore alla sorella. E lui e' solo.
Ha ventotto anni. Deve occuparsi di una comunita' di quasi trentamila abitanti, piu' la gente di passaggio, in cerca di lavoro e fortuna. Otto mesi dopo puo' gia' dire: "Dopo questi mesi di osservazione mi sembra di aver capito come stanno le cose e mi sto organizzando.
Sto facendo una specie di censimento per vedere quante persone abitano nella parrocchia, che tipo di lavoro hanno, e quanti bambini non vanno a scuola. I giovani mi aiutano molto: adesso sto formando un gruppo biblico di adulti ed un gruppo di coppie che dovrebbero animare la comunita'; ho gia' formato un gruppo incaricato dell'economia, cosi' io avro' il tempo di dedicarmi a cose piu' importanti. Dopo questi otto mesi di esperienza nella parrocchia ci sono gia' cinque gruppi di giovani: hol'impressione che stiamo camminando molto bene".

DUE PADRI PER LA GIOVENTU'

A settembre 1985 arriva, invitato da Tore, un confratello in aiuto: padre Matteo Antonello, anch'egli giovane ed entusiasta. Ricorda: "Al mio arrivo mi porto' a visitare la parrocchia. Cerco' di ambientarmi nella nuova realta' e di farmi partecipe di alcuni problemi e difficolta': la questione dei giovani, la preparazione ai battesimi, al matrimonio. La casetta in cui viveva era una vecchia baracca di fango con il tetto di tavole. La gente andava la' per parlare con il padre, soprattutto i giovani". Due padri che si prendono cura della gioventu', scrivono canti liturgici, piegano la schiena nei lavori manuali. Tore, tipico carattere sardo, a volte si impunta, testardo, creando qualche incomprensione, ma gli passa subito, e si riparte. Adesso ha un progetto: costruire la nuova chiesa parrocchiale, quella che c'e' nonbasta assolutamente, se ne parla gia' da tempo, ma lui decide di agire. Inventa la campagna del mattone, poi quella della decima parte, infine Io ho collaborato per la raccolta di fondi. Sollecita e ottiene offerte anche dalla sua parrocchia di Ardauli in diverse occasioni. Ma non vedra' la chiesa nuova. Al suo funerale sara' ancora in costruzione. Lui, intanto, lavora e scrive in Italia. Ecco un brano di una lettera del 19 marzo 1985 all'amico Giorgio Zago e alla moglie: "La mia parrocchia, quasi trentamila abitanti, sta funzionando che e' una meraviglia. Le persone che partecipano alla catechesi e ai gruppi sono piu' di un migliaio e sempre in continua espansione. Anche ieri ho fatto un incontro con 130 giovani tutti della parrocchia. Stiamo formando dei leaders che assumano la vita della comunita'. Molte volte rientro a casa molto tardi e spesso devo continuare a studiare fino alle due del mattino per preparare gli incontri e fare i piani di lavoro. Qui la gente e' disponibile, bisogna solo organizzarla e starci dietro. Abbiamo anche organizzato in citta' (quattro parrocchie) delle piccole e'quipes che portano avanti le cose. Tra poco, queste sono le premesse, dovrebbe nascere un centro di pastorale per tutta la Prelazia. Siamo in pochi a sostenere questo ma stiamo andando avanti e speriamo di riuscirci. In tutti i casi e' un continuo fermento di iniziative e cose nuove da organizzare. Io ci sono dentro fino al collo e voglio continuare. Anche la pastorale dei giovani della quale sono il responsabile sta cominciando a funzionare. Potrei continuare a scrivere tante di queste cose. Sono contento perche' mi sembra che questa Chiesa giovane e senza esperienza stia facendo passi da gigante in tutti i sensi, i grandi del Vaticano possono pensare quello che vogliono, ma vorrei vedere qualcuno di loro passar quello che si passa qui e fare la vita da vagabondi che facciamo".

NON CI SONO PIU' SEDIE: TUTTO ESAURITO!

Tre mesi dopo informa la sorella Antonietta e suo marito: "La Pasqua e' stato un periodo molto duro,specialmente la preparazione. Tutto pero' e' andato bene e adesso mi sto riprendendo dalla stanchezza. Tutti mi dicono che sto lavorando troppo, ma se non si lavora adesso che si e' giovani quando e' che si lavora? Riconosco che sto dando il massimo, ma anche le soddisfazioni sono enormi. Ultimamente ho parlato col vescovo e anche lui mi ha detto di andare avanti cosi' e di non lasciarmi condizionare da nessuno perche' sto lavorando bene e la gente finora ha fatto solo apprezzamenti positivi. Tra poco cominceremo a costruire la nuova chiesa. Abbiamo gia' il progetto!
La chiesetta che abbiamo e' piccola e anche i locali, non ci sta piu' nessuno. Sabato scorso ho cercato una sedia, e niente, erano tutte occupate in tutti i saloni. Le attivita' sono tante che nemmeno io riesco a seguirle tutte.
Il giorno di Pasqua per esempio ho celebrato la messa alle 7,30 di mattina. Dopo la messa c'erano 25 battesimi e subito dopo la manifestazione con cartelloni, canti e disegni dei bambini (quasi 400) nelle vie del nostro rione.
Alla sera siamo stati col camion carico di gioventu' al manicomio per fare la Pasqua assieme agli ammalati e poi un incontro e alla notte nuovamente la messa. Adesso ci hanno regalato un vecchio salone che abbiamo gia' dipinto. Li' faremo gli incontri con tutti i coordinatori e penso di mettere una scrivania in una piccola sala per rimanere li' in mezzo alla gente, sempre a disposizione. Anche la Settimana Santa e' statauno spettacolo.
La gente arrivava fino all'altare e io quasi non mi potevo muovere. La messa della vigilia e' stata all'aperto. Qui purtroppo abbiamo molti problemi. I ricchi stanno sfruttando sempre piu' i poveri. Abbiamo preso posizione varie volte e fatto note di protesta. La cosa e' molto calda! Spesso arrivano minacce anche al vescovo ma la gente sta con noi ed e' interessante vedere la gente che sta camminando e rivendicando i suoi diritti".
Il 3 dicembre 1985 le Missionarie di Maria, chiamate sorelle saveriane perche' fondate dal saveriano Giacomo Spangolo, aprono una casa ad Oristano in Sardegna. E Tore, felice, manda loro una lettera, da' notizie e ne richiede: "Qui le cose vanno bene. Il lavoro pastorale e' ottimo. C'e' molto da fare ma mi sento soddisfatto e pieno di entusiasmo. L'ultima esperienza? La volete proprio sapere? Non e' molto mistica ma... mi sto grattando da pazzi.
Sono andato oggi a visitare alcune famiglie e tra una visita e l'altra devo aver preso le pulci. Sono gli inconvenienti della vita missionaria. Anche la salute e' buona. Dopo aver passato un periodo nero con ameba e vermicelli vari, tutto e' ritornato al normale. Mi piacerebbe sapere qualcosa del vostro lavoro e mantenere i contatti. Accettate? Fra tre anni quando tornero' in ferie potrete sfruttarmi a piacimento!". Non potra' mantenere questa promessa.

RETTORE DEL DEMINARIO

E' bravo, Tore: tanto che all'inizio dell'86 gli chiedono di fare anche il rettore del seminario di Altamira. Non ha nemmeno trent'anni e un sacco di lavoro in parrocchia, ma il vescovo non ci sente e gli affida il nuovo compito. Lui dice: "Il problema per cosi' dire e' che il lavoro sta aumentando e gli incarichi diventano sempre piu' difficili. Dopo l'ultimo incontro con tutti i padri della Prelazia mi e' stato affibbiato anche il seminario; cosi' sono diventato rettore. Ho tenuto duro fino alla fine; non volevo proprio accettare. Gia' il vescovo me l'aveva chiesto. I giovani del seminario domandarono un incontro per tastarmi il polso, ed il vecchio rettore mi prometteva mari e monti pur di farmi accettare. Non avevo alternative, ma neppure potevo lasciare la parrocchia dove lavoravo. Il lavoro e' gia' ben avviato, cosi' sono rimasto con le due cose. Proprio oggi ho terminato il trasloco e a dir la verita' mi trovo ancora a disagio nel grande studio ben moderno e pieno di scaffali". Informa del nuovo incarico anche la sorella Luisella: "Oltre alla parrocchia ho dovuto assumere la direzione del seminario. Dovrei essere, come si dice in italiano, il rettore del seminario. Ho cercato fino alla fine di svignarmela... ma non c'e' stato verso. Ho detto che sono molto giovane, che sono straniero e che gia' avevo molto lavoro, ma niente da fare. Per dirla in breve, mi ritrovo in seminario, seduto su una sedia girevole, con due telefoni di lato e grandi vetrate piene di libri. Ho 16 giovani dai 15 ai 24 anni. Alcuni gia' nelle superiori e altri che arrivano dall'interno cercando di superare le scuole medie e facendo due anni in uno. Non ho voluto lasciare la parrocchia dove mi ritrovo perfettamente a mio agio e mi sto realizzando bene. Vedro' di fare del mio meglio per non esaurirmi prima della vecchiaia". Parroco e rettore a trent'anni: bella accoppiata per un missionario sardo in Brasile. Ma lui non ci pensa su troppo e lavora. Vuole che il seminario sia una famiglia. Preghiera, studio, lavoro, responsabilita', svago in un clima di condivisione fraterna. Inventa la cassa comune dei seminaristi. E da' l'esempio dell'impegno, della fatica: "Ci diceva sempre che un seminarista non dovrebbe mai perdere tempo, perche' oggi non e' facile essere padre, sacerdote", ricorda uno studente di allora. Lui tiene il piede sull'acceleratore: fa anche l'animatore dei giovani e il redattore del giornale della diocesi. Sempre di piu'. Tanto che, negli ultimi tempi, da' qualche segno di resa, parla di rinunciare alla parrocchia.

LETTERE DI COMMIATO

Lo scrive anche ai genitori il 6 agosto 1987: "La vita qui corre come al solito. Lavoro e sempre lavoro, ho passato un periodo di stanchezza piu' forte del solito. Quattro anni di missione gia' si fanno sentire. Ultimamente ci siamo incontrati in Altamira con tutti i saveriani dello Xingu. Padre Salvatore Saiu ha preparato delle belle maccheronate e non e' mancata la carne arrosto e la birra a volonta'. Abbiamo fatto insieme il nostro ritiro e alla fine siamo tutti tornati ai posti di battaglia. Abbiamo rivisto i nostri impegni ed i nostri lavori, a tutti sembrava opportuno che Matteo assumesse di piu' la parrocchia. Io infatti ne avevo fin troppo. Pian piano rimarro' piu' libero per altri tipi di lavoro come gli incontri con i giovani ed il lavoro del giornale o di libretti popolari. Adesso vedremo di continuare facendo i programmi insieme e dividendo di piu' il lavoro".
Ottobre 1987: Tore scrive diverse lettere, quasi presagio dicommiato. Ancora ai genitori, il 10: "Ultimamente sono stato molto occupato.
Ho iniziato e terminato un libretto popolare per i giovani e la loro organizzazione. Questo porta via molto tempo ed energie. Dopo alcuni giorni sono andato nella Transamazzonica per tre giorni. Ho fatto da assistente ad un incontro di giovani di quella parrocchia. Erano piu' di 90 giovani che arrivavano da tutte le stradette della foresta, erano giovani molto semplici e figli di coloni.
Quando sono rientrato ho partecipato ad un altro incontro di formazione sociale e politica. Infine ho dovuto cominciare il giornalino della Prelazia, con una tiratura di 1.500 copie e gia' con 36 pagine. Tutto questo lavoro porta via piu' di una settimana. Pian piano sto lasciando da parte la vita della parrocchia per assumere queste cose. Se continua di questo passo viaggero' abbastanza. Mi stanno chiedendo sempre piu' incontri con i giovani e la preparazione di materiale per lo studio e la formazione. Sto sempre conoscendo persone nuove e simpatiche e nuove comunita' sparse per di qua e per di la'. Tutto questo mi piace e mi sento realizzato in pieno. Spero solo di poter continuare per dare ancora altri 5 anni in questi splendidi posti. Pero', a dire il vero, mi sento un poco stanco e dovro' prendermi qualche giorno per riposare".

"FORZA PARIS"

Il 16 ottobre, due lettere. Una a padri e studenti della casa di Macomer, dove anch'egli ha studiato: "Il mese di ottobre qui in Brasile e' dedicato alle missioni e forse e' questo il motivo che mi ha spinto a scrivere a tutti voi che vi preparate alla vita missionaria. Vita difficile? Piena di problemi o di rinunce? Senza dubbio. Ma anche una vita interessante che mi entusiasma e mi rallegra.Bisognerebbe sperimentare cosa significa viaggiare ore e ore in barca o in macchina, entrare in stradette che quasi non esistono e li' incontrare una comunita' che aspetta l'incontro o la celebrazione. Interessante trovare persone semplici, coloni, pescatori e donne impegnate nelle proprie comunita'. Gente che crede davvero nella forza della Parola di Dio e che organizza momenti di lavoro comunitario, momenti di preghiera e di incontri.
La nostra diocesi e' piu' grande della intera Italia, non ci sono le grandi autostrade che voi conoscete, non abbiamo tutti i mezzi a disposizione e siamo solo in 16 padri. Aspettiamo per questo tanti giovani come voi, pieni di buona volonta' e col desiderio di lavorare nelle missioni. Il mio lavoro e' molto semplice. Nei primi tempi ho lavorato con gli indios, visitando le tribu' sperdute in mezzo alla foresta e ai tanti fiumi.
Dopo alcuni mesi mi e' stato chiesto di prendere una parrocchia della periferia della citta' che non aveva padri a disposizione. Abbiamo tentato di organizzarci e di andare avanti. Conoscendo meglio la gente brasiliana e la lingua, ho dovuto assumere anche il seminario della citta'.
Vivo con undici giovani che vanno dai 18 ai 29 anni.
Quasi tutti stanno terminando le superiori e si preparano ad entrare nella teologia. La vita e' molto semplice: studio, formazione e lavoro manuale. Al sabato e alla domenica tutti lavorano nelle parrocchie dando una mano ai catechisti, ai giovani e nelle varie attivita'. A tutto questo bisogna aggiungere il lavoro con i giovani della Prelazia. Stiamo tentando di organizzarli, di modo che prendano in mano la loro storia e siano i principali annunciatori e animatori delle piccole comunita'. Questo implica una serie di incontri, dibattiti e anche l'elaborazione di materiale nostro. Alle volte si rientra a casa stanchi morti.
Ci si dimentica anche di cenare ma sempre mi rallegra il fatto di fare qualcosa di utile per gli altri". Non mancano frasi in dialetto sardo: la lettera termina con le parole forza paris, che significano avanti insieme. Un bel manifesto missionario, ma anche una sorta di testamento spirituale, un promemoria, un passaggio di testimone. A fratel Guglielmo Saderi, missionario saveriano sardo, e' indirizzata la seconda lettera del 16 ottobre: "Qui siamo sempre al lavoro e pieni fino al collo. La mia salute va bene e da molto tempo non ho piu' avuto problemi di amebe o vermi. Quello che fa soffrire un poco e' il caldo terribile e la polvere delle strade. Ma la vita missionaria presuppone anche questi piccoli disagi. Sto passando un periodo di stanchezza dovuto forse ai troppi impegni. Per un certo periodo sono rimasto da solo qui in citta', con tre parrocchie sulle spalle e alle volte attendendo le comunita' della Transamazzonica. A questo si aggiungeva il lavoro in parrocchia, nel seminario e col giornale della Prelazia. Riconosco che era molto davvero.
La vita politica del Brasile continua di peggio in peggio. Non esiste un minimo di programma, i prezzi salgono continuamente e la gente si ritrova con gli stipendi di fame. Ci sono delle lotte ben grandi tra i piccoli e i grandi che continuano a sfruttare i poveri e a ingrandire le loro proprieta'. I problemi sono tanti che alle volte non si sa proprio come fare e come agire. Ma le nostre comunita' continuano con lo stesso ritmo e con una fede molto grande. Forza paris (avanti insieme)".

COME SE DORMISSE

Quel 16 ottobre 1987 a Brasil Novo, 46 chilometri da Altamira, lungo la Transamazzonica, un gruppo di contadini protesta davanti a una sede governativa.
Il vescovo dello Xingu dom Erwin Krautler, sempre dalla parte dei poveri, piu' volte minacciato, decide di andare a dir messa tra loro. Si porta dietro anche Tore, padre Matteo e l'animatrice laica Sonia. La Transamazzonica - spiega padre Savio Corinaldesi, provinciale dei Saveriani del Brasile - "in quelperiodo di scarse piogge e' coperta da un sottile strato di polvere che, al passaggio delle macchine, si alza nell'aria formando una densa nube che toglie per alcuni minuti la visibilita'". Partono dunque i quattro, alla guida c'e' il vescovo.
Tutto bene fino al chilometro 23. C'e' una salita. La macchina incrocia un pulmino in una nuvola di polvere. Dietro, un camion cerca di sorpassare e si trova di fronte l'auto: scontro frontale e violentissimo. I soccorritori estraggono i passeggeri. Tore ha la testa appoggiata sul cruscotto, come se dormisse. "Battei sulla sua spalla per tre volte e lo chiamai per nome. Ma egli non diede nessun segno di vita. La sua morte fu istantanea", racconta il vescovo. Lui, padre Matteo e Sonia, feriti, sono portati all'ospedale.
Padre Salvatore Deiana si ferma al chilometro 23. Una vita col piede sull'acceleratore, forse non poteva finire che cosi'. Tristezza, dolore, disperazione per Tore che non c'e' piu'.
E una domanda: perche'? E un dubbio: incidente o attentato al vescovo scomodo? Dom Erwin Krautler parlera' di "incidente premeditato", ma non ci sara' nessuna inchiesta. Cosi' finisce l'avventura missionaria di Tore a quattro anni esatti dall'inizio: era partito il 16 ottobre 1983, e' morto il 16 ottobre 1987. Mentre lui moriva, ad Ardauli la mamma diceva al papa': "Quattro anni oggi Salvatore e' partito per il Brasile, tra qualche mese verra' in vacanza". Il corpo di Tore, vestito da prete, quella sera viene portato nella cattedrale di Altamira. La gente sfila per tutta la notte accanto alla bara. I giovani pregano, cantano, piangono, ricordano. Il mattino dopo lo riportano nella sua Vila Brasilia, ma prima i seminaristi lo dirottano per un po' nella cappella del seminario: vogliono salutarlo, loro e lui, soli. Cosi' ripassa per l'ultima volta tra quella miseria, in quel degrado, nelle sofferenze che mille volte aveva percorso col piede sull'acceleratore.
Si celebra la messa funebre nella nuova chiesa in costruzione, il sogno irrealizzato di Tore, in mezzo a sacchi di cemento, mattoni, ponteggi. La inaugura e benedice con il suo stesso sangue, la prima messa e l'ultima di Tore in quel luogo.
Altre file interminabili di persone, altre lacrime, altro dolore. Tutti intorno al piccolo missionario sardo che guidava i camion nella foresta, cantava, si faceva da solo le sigarette e aveva sempre fretta. Tutti li' a dirgli grazie, tutti li' a salutarlo, tutti li' a chiedersi perche'.

IL RITORNO

La via crucis continua nella casa dei Saveriani in Bele'm: i suoi confratelli, tantissimi, celebrano ancora una messa con lui. All'omelia, ognuno ricorda qualcosa di Tore.
Padre Francesco Villa riassume un po' i sentimenti di tutti: "Davvero noi Saveriani dobbiamo sentire in questo momento di possedere un martire in piu': egli ha donato la sua vita a Cristo per il Vangelo. Tore e' morto mentre svolgeva il suo ministero apostolico. Si stava recando a celebrare la messa in mezzo ai poveri contadini.
Egli e' morto come Cristo, per amore degli uomini".
Il 20 ottobre la bara di Tore parte in aereo per l'Italia, per la sua Sardegna amatissima. Il 23 e' nella sua casa di Ardauli. Gente, tanta gente anche qui. La mamma, il papa', le sorelle, il dolore e la fede. Il volto di Tore e' visibile attraverso un piccolo vetro. La mamma chiede che non si pianga piu'. Poi parla al figlio, attraverso quel vetro: "Prega, prega il Signore per l'Africa, per il Giappone, per il Brasile, prega per Altamira. Prega il Signore che mandi molte vocazioni al tuo posto in Altamira, ai Saveriani".
Ancora lei guida il rosario, il Miserere, e pronuncia quelle parole straordinarie: "Non capisco, ma benedetto sia il Signore, benedetto sia". Il funerale, tantissima gente, la bara portata a spalle in chiesa dai compagni di leva di Tore. Preghiere, lacrime, canti, baci lanciati verso il figlio di quella terra andato a morire per amore in un'altra terra, lontana e misteriosa. C'e' il vescovo di Oristano Pier Giuliano Tiddia, tanti sacerdoti sardi, tanti Saveriani. Infine, ultimo atto, la sepoltura. Aquelli che passano in casa per dar conforto, papa' e mamma di Tore domandano notizie dei tre feriti nell'incidente e consegnano soldi per Altamira. Dice il papa': "E' un segno per dire che nulla e' cambiato fra noi e la Chiesa dello Xingu. Qualcosa deve essere fatto subito, oggi, per dire che continueremo ad amare e ad aiutare Altamira come se il nostro Salvatore fosse ancora la'".

IL RICORDO DI DOM ERWIN

Il 27 novembre 1988 ad Ardauli arriva dom Erwin Krautler: il vescovo coraggioso e' venuto sulla tomba di Tore, nella sua casa a dir grazie alla sua famiglia, e nella chiesa parrocchiale dove celebra la messa. Confessa che l'hanno colpito quelle parole della mamma: "Non capisco, ma sia benedetto il Signore". Ricorda Tore: "Non si e' mai fermato.
Sembrava che inconsciamente si rendesse conto che il suo tempo di missione fosse breve. In pochi mesi e' conosciuto e amato dai giovani ai quali dedica il meglio del suo lavoro apostolico e il piu' grande affetto missionario. Ascolta i giovani, parla con loro, discute, da' consigli, canta e celebra. Alcuni canti sono fatti da lui ed ancora oggi sono cantati nelle comunita'. Certamente nessuno dimentichera' il dono che Dio gli ha dato di rallegrare ed animare tutti gli incontri". Racconta l'ultimo viaggio, per raggiungere i poveri contadini che reclamano i loro diritti: "Volevamo celebrare una messa insieme a questa gente sacrificata ma resistente, con le mani incallite e con il volto bruciato dal sole. Ma la messa in quel giorno ha avuto un rito differente. Non sono state le parole pronunciate davanti all'altare, il corpo di Gesu' ed il sangue sacramentale presenti sotto le specie del pane e del vino. Il rito crudele e' stato il corpo offerto ed il sangue versato del padre Tore come ultima espressione del suo amore e del suo dono a quella gente che ha voluto servire da quando e' partito dalla Sardegna. Adesso ha mescolato il suo sangue con il sangue del Signore ed il suo ultimo messaggio non e' piu' stato una parola parlata, ma il corpo inclinato dentro i rottami dell'auto, il volto insanguinato. Cosi' padre Tore e'morto. Il Signore ha voluto il sacrificio della vita di chi tanto amava la vita. Non capisco, ma sia benedetto".
Parla anche delle domande senza risposta: "Le circostanze dell'incidente non sono mai state chiarite. Quelli che hanno provocato un dolore ed una sofferenza cosi' grandi sono spariti, sono fuggiti, non si sono piu' visti. I testimoni non sono stati ascoltati. Neppure io che nonostante le gravi ferite in nessun momento ho perso i sensi. E affinche' il macabro servizio fosse completo inventarono false spiegazioni. Una perizia inventata, falsata di proposito, e' stata passata alla stampa. Pilato ancora una volta si e' lavato le mani! Le cause misteriose del disastro sono coperte da un silenzio tombale. La domanda di processo che avrebbe dovuto chiarire i fatti e' stata dimenticata, cestinata.
Mala fede? Complicita'? Soltanto Dio sa tutto e giudichera' i criminali". Nella sua relazione all'Assemblea dei Vescovi del Brasile il vescovo dello Xingu escludera' senza ombra di dubbio l'ipotesi incidente, per parlare di tentato omicidio nei suoi confronti e di omicidio di p. Tore. Forse non avevano previsto che fosse il vescovo alla guida della macchina, il progetto omicida aveva immaginato che il vescovo si servisse dell'autista! Ad Ardauli don Erwin conclude: "Non capisco, ma sia benedetto il Signore!: i cammini del Signore non li intenderemo mai, la croce non la capiamo. La croce non si capisce, la croce si contempla e si accetta. Accettiamo la croce nella quale padre Tore e' morto, accettiamo la croce del dolore, della sofferenza, della tristezza per la quale siamo passati e nella quale siamo stati inchiodati giorni e notti, che sembravano interminabili, perche' Dio ha voluto cosi'. La croce e' sempre frutto di grazia e cammino verso la risurrezione.
Non la capiamo, ma sia benedetto il Signore!".
Non capiamo perche' Tore abbia tolto il piede dall'acceleratore tanto presto.
Ma a Dio e' bastato cosi'.

RENZO AGASSO




ALDO MARCHIOL
Udine 12.3.1930 - Buyengero (Burundi) 30.9.1995




VOCI D'OLTRE MARE

E' morto in ginocchio, padre Aldo Marchiol, missionario saveriano in Burundi. Insieme al confratello Ottorino Maule e alla volontaria laica Catina Gubert. I soldati li hanno messi cosi', prima di ucciderli. Forse per disprezzo. Non sanno quello che hanno fatto.
Padre Marchiol e' vissuto in ginocchio davanti a Dio e ai fratelli. Non poteva desiderare altro che morirvi.
Friulano, nato ad Udine il 12 marzo 1930, sacerdote saveriano dal 1958, ha atteso vent'anni prima di partire per la missione. Nel '78 e' andato in Burundi, nel cuore dell'Africa, e li' vi e' morto e sepolto, dopo diciassette anni di servizio.
Ecco come lui stesso racconta la sua vocazione: "Da piccolo, non so neanch'io perche', avevo il pensiero di diventare uno di quei frati che vanno alla cerca col carretto e col cavallo. Col passar degli anni quel pensiero mi scomparve, ma a diciassette anni,quando pensavo di diventare perito industriale, fui colpito dalla lettura di alcuni libri ascetici di mio fratello Bramante, allora seminarista.
Li leggevo per mio conto e mi piacevano.
Mi venne il pensiero che, oltre ad amare davvero Dio, avrei fatto bene ad entrare in seminario per farmi sacerdote, ma poi allontanai anche quel pensiero, tuttavia rimasi inquieto e incerto sul mio avvenire. Nelle vacanze del 1947 mio fratello porto' a casa i giornalini VOM (Voci d'Oltremare) ed il libro Operarii autem pauci del padre Manna. Fu allora che pensai di farmi missionario, ma non sapevo decidermi e questa indecisione mi era penosissima.
Per rispetto umano e anche per timore del gran passo, non volevo abbandonare la mia scuola, ma continuavo a desiderare la vita missionaria. Finalmente, una sera di settembre, lo dissi a mia madre. Oramai ero deciso.
Ne parlai col parroco e con il padre Ulisse Benetti, superiore dell'Istituto saveriano di Udine. Questi mi incoraggio' e mi indirizzo' alla Casa di Poggio S. Marcello, dove allora c'era il seminario saveriano per i giovani di vocazione adulta".
Un mancato perito industriale entra, dunque, dai Saveriani, figli spirituali di Guido Maria Conforti, il 15 ottobre 1947. Guido Maria Conforti, giovane prete di Parma, aveva dato inizio nel 1895 ad una congregazione con lo scopo, "unico ed esclusivo", della evangelizzazione dei non cristiani. Divenuto vescovo, prima a Ravenna e poi a Parma, aveva diffuso la sua opera dal nord al sud dell'Italia. I suoi missionari - chiamati saveriani perche' li aveva messi sotto la protezione di S. Francesco Saverio - erano andati in Cina fino agli anni cinquanta, poi si erano diffusi in altre nazioni: Giappone, Bangladesh, Indonesia, Sierra Leone, Burundi, ... In questa famiglia di consacrati a Dio per la missione entra a far parte il nostro Aldo.
Da due anni appena e' finita la seconda guerra mondiale, il Paese muove i primi faticosissimi passi della sua ricostruzione morale e materiale dopo la dittatura fascista, sotto la guida del trentino Alcide De Gasperi, mentre dal 2 giugno del '46 l'Italia e' una repubblica.

LA PROFEZIA DEL PARROCO

Aldo Marchiol segue le orme del fratello Bramante, che sara' missionario anch'egli tra gli Oblati di Maria Immacolata, nel Laos per sedici anni e in America Latina per diciotto.
Pochi giorni dopo l'ingresso nella casa apostolica saveriana, Aldo riceve una lettera dal papa': "Noi, tutta la famiglia, parenti e conoscenti, siamo entusiasti della tua scelta". Ai Saveriani scrive anche il parroco per dire che "in Aldo, oltre la scorza, c'e' un animo rettissimo. Egli e' cresciuto in un ambiente sano, semplice, ma profondamente cristiano. Questi sono i giovani che domani sapranno sopportare nel campo missionario i maggiori sacrifici per la dilatazione del Regno di Cristo". Il buon sacerdote non sa quanto sia vera questa previsione: Aldo Marchiol dara' la sua stessa vita per il Regno di Cristo.
In un'intervista di molti anni dopo padre Marchiol sintetizzera' cosi' le ragioni della sua scelta. "Qual'e' l'origine della tua vocazione missionaria? Una buona educazione cristiana in famiglia e in parrocchia e l'esempio di mio fratello Bramante, che era in seminario, e mi ha attirato sulla via del sacerdozio. La conoscenza poi delle missioni e dei Saveriani mi ha invogliato a scegliere il sacerdozio missionario". "Cosa ricordi della tua formazione? Il mio curriculum formativo: tempi belli, sereni, impegnati nello studio e nella conoscenza della vita missionaria, in un clima di famiglia molto sentito".
Un anno a Poggio S. Marcello a studiare il latino, materia assente nei programmi dell'istituto tecnico.
Nel 1948 va a Piacenza per la quarta ginnasio. La quinta la frequenta a Zelarino, presso Venezia, nel '49. L'11 ottobre 1950 entra in noviziato, la prima professione e' del 12 ottobre'51. Il liceo lo va a fare a Desio, fino al 1954. Un anno a Udine assistente dei ragazzi, ritorno a Piacenza per la teologia. 1957: Aldo Marchiol chiede di essere ammesso agli ordini maggiori.
Il rettore della teologia, padre Giacomo Spagnolo, scrive ai superiori: "Dal tempo della preparazione agli esami di maturita' soffre di continui esaurimenti, Quest'anno, grazie al periodo di montagna passato a Bezzecca, e' riuscito a compiere regolarmente l'anno scolastico, pero' e' sempre sofferente. Penso che la vita di movimento lo rimettera' completamente a posto. E' buono, serio, prende le cose sul serio e le svolge con impegno.
E' consigliabile mandarlo presto in missione per dedicarlo ad una attivita' di movimento". Dovra' attendere a lungo, invece, Aldo Marchiol, prima di andare in missione. E dovra' combattere tutta la vita conto terribili emicranie che lo costringono spesso a forzato riposo.

SORRISO E SIMPATIA

Arrivano il diaconato, e, infine, l'ordinazione sacerdotale il 9 novembre 1958. Questo e', dunque, il suo curriculum studentesco. Niente di eccezionale. Ma e' bravissimo nel farsi voler bene. Dice il confratello padre Marcelli: "Fu sempre di una bonta' e di una gentilezza umile e schiva. Il sorriso affiorava spesso sulle sue labbra e qualche volta poteva arrivare anche alla risata accompagnata da un disarmonico gesticolare che ce lo rendeva ancora piu' simpatico. L'ho ammirato sempre per la sua bonta', la sua saggezza e il suo impegno in tutto cio' che intraprendeva".
In morte, qualcuno lo chiamera' "un uomo dal dolce sorriso". E' stato sempre cosi', mite, umile, schivo, lo sguardo buono.
Appena ordinato, nel '59, lo mandano, insieme a due confratelli, a Massa Lucana, in provincia di Salerno, come direttore spirituale di quella Casa saveriana. Ricorda padre Regazzoli: "Noi tre padri novelli dovevamo continuare il lavoro del reclutamento, della scuola e della propaganda missionaria. Per tanti motivi abbiamo passato momenti non facili e proprio in questo ho avuto modo di valutarlo: silenzioso, ma non taciturno;prudente e saggio; calmo e modesto. Sembrava perfino freddo ed era invece di una profondita' e di una sensibilita' non comuni". Ancora padre Marcelli: "Nel 1959 ando' al mio paese a predicare il ritiro in preparazione alla mia prima messa. Il suo successo come predicatore fu scarso, ma la gente apprezzo' la sua bonta' e la sua umilta'". Marchiol dal dolce sorriso.
Dei quattro anni passati a Massa Lucana ricorda ancora padre Enrico Di Nicolo': "Lo rivedo anzitutto nel suo incedere calmo, con un volto che denotava un insistente malessere fisico.
Era stato mandato a Massa proprio perche' si pensava che quel clima favorisse la sua salute. La sua presenza in mezzo a noi (io ero assistente) e ai ragazzi non era frequente perche' la vivacita' di questi ultimi acutizzava il suo malessere. Quando tuttavia era presente ed era evidente il suo stato fisico, si mostrava sempre allegro, sereno e cordiale. Era buono, molto buono. Ispirava serenita' in chi lo avvicinava proprio (soprattutto, vorrei dire) attraverso la serena sopportazione del suo stato fisico. Data la nostra differenza di eta' e la sua accentuata riservatezza, non mi era facile afferrare fino in fondo il suo comportamento, lo spessore della sua vita interiore, la sua forza d'animo.
Era comunque evidente la sua intensa vita di preghiera e di raccoglimento. Nel suo frequente passeggiare in un atteggiamento raccolto aveva sempre in mano la corona e il breviario. Cosi' lo incontrai non poche volte recandomi a fargli visita nella sua stanza. Per noi, presi dall'attivita' richiesta dall'assistenza ai ragazzi, il suo eraun esempio efficace e continuo. Massa Lucana era un po' fuori dal mondo e non era facile avere contatti, esempi, richiami, testimonianze. Padre Aldo per noi era un po' tutto questo. Il suo modo di fare, la sua pacatezza lo mostravano piu' anziano di quello che era ed anche questo era per noi un fattore non insignificante della sua personalita'. Incontrarsi con lui voleva dire incontrarsi con un volto sorridente e sereno, mai preoccupato o eccessivamente serio. Era silenzioso, sovente appartato, sofferente ma non triste. Dalla sua sofferenza fisica traspariva soprattutto la chiara bellezza del suo animo e la sua sentita fraternita'. Con un atteggiamento quasi monacale suscitava rispetto e tanta ammirazione. Ricordo anche la sua sobrieta' nell'uso delle cose (direi la sua poverta': la sua stanza era veramente disadorna) e quella nel suo parlare (preferiva ascoltare piu' che parlare, era schivo nel dare giudizi, preferiva non darne e, quando ne dava, era sempre prudentissimo preferendo capire, comprendere e scusare). Anche i suoi rapporti con l'esterno erano improntati ad uno stile sobrio. A volte mi sembrava che soffrisse di non poter fare di piu', di non poter essere piu' utile alla comunita', dalla quale lo vedevo compreso, stimato ed amato. Dati i suoi malanni fisici, padre Aldo era un fratello particolare ed anche in questa sua particolarita' e per mezzo di essa egli svolgeva un servizio e dava una testimonianza preziosissima che ricordo ancora con simpatia, ammirazione ed edificazione. E' ovvio che oggi questo ricordo e' piu' stimolato perche' e' avvolto da un'atmosfera particolare, ma e' anche vero che questa e' come il coronamento che illumina e da' ragione di tutta la vita di questo confratello".

UNA VIA CRUCIS, TANTE STAZIONI

Marchiol dal dolce sorriso e dall'infinita pazienza. Lui che vorrebbe portare le croci dei poveri del cosiddetto terzo mondo deve invece caricarsi e trascinare la sua qui, in una lunga via crucis tra le varie case saveriane d'Italia. Ancora una testimonianza, quella del confratello padre Clementini, per comprendere il suo stile sacerdotale: "Oltre la sua ben nota semplicita', bonta', laboriosita', amicizia fedele e sincera, fedelta' ai suoi impegni di religioso (il suo breviario sempre a portata di mano), ricordo il silenzio sereno sul male che lo faceva soffrire e che egli mi confido' con tanta semplicita'. Mi confido' un'altra cosa: il continuo freddo che sentiva ai piedi. Ed ebbe per me sempre tanta riconoscenza perche' gli avevo dato una stufetta elettrica tascabile (bastava inserirla per alcuni minuti nella corrente e dava calore per alcune ore). Non voleva accettarla, poi mi ringrazio' e mi disse: Ora confesso meglio quando d'inverno vado nelle parrocchie. Padre Marchiol non sarebbe arrivato a concludere cosi' la sua vita se non vi ci fosse preparato".
Una lunga preparazione, con tante tappe. Lasciata Massa Lucana nel 1963, per sei anni si sposta in varie case: Salerno, Parma, Udine, Cagliari, di nuovo la sua Udine. I superiori cercano il posto giusto per la sua salute, ma non serve granche'. Nonostante i cambiamenti di clima e le cure, la salute non migliora.
Ma lui non perde il sorriso. Torna a Salerno nel 1969 e li' rimarra' per nove anni, fino al 1978, quando, finalmente, andra' in missione. Gli danno alcuni incarichi: confessore, responsabile dei rapporti con i benefattori e di una pagina del periodico Missionari Saveriani, insegnante di matematica. Non chiede nemmeno di partire, teme che in missione la sua salute sarebbe d'inciampo a se' e agli altri. Solo nel '75 scrive in una lettera: "Vogliano il Signore e i Superiori che io possa andare in missione".

IDEE CHIARE

Marchiol dal dolce sorriso intanto fa il suo dovere qui, nella missione che Dio ha preparato per lui in Italia. Scrive tuttavia al Superiore generale il 4 aprile 1974, ormai quarantaquattrenne: "Certo non mi sento del tutto soddisfatto; mi sento piuttosto messo da parte, un po' inutile. So bene che non devo tenere conto delle soddisfazioni umane, ma piuttosto di quello che posso fare per compiere la volonta' di Dio come essa mi si presenta.
E in questo mi sento abbastanza soddisfatto. Quello che mi turba o scandalizza piuttosto sono le idee di alcuni confratelli che non sono conformi a quelle della Chiesa, e un certo rispetto umano da parte di alcuni superiori che non intervengono per esortare ad obbedire, rispettare, venerare il Papa e i vescovi e prestare ascolto al loro insegnamento".
Buono, mite e umile si', ma con le idee chiare, la schiettezza friulana, la fede cristallina. Sono anni di grandi fermenti: c'e' stato il Concilio Vaticano secondo e adesso il papa Paolo VI Montini e' preso in mezzo tra rinnovatori e tradizionalisti, i primi vorrebbero gia' un Vaticano terzo, i secondi sognano il ritorno al primo. I fumi della contestazione sono entrati anche nella Chiesa e la barca di Pietro e' nella tempesta.
Il Papa bresciano terra' saldo il timone, non senza grandi fatiche, prove, sofferenze. La primavera del '74, poi, e' segnata dalle lacerazioni del referendum sul divorzio. Laici contro cattolici e cattolici stessi divisi al loro interno, con qualche vescovo e diversi preti schierati con i divorzisti. E il Papa in mezzo, criticato dagli uni e dagli altri.
Paolo VI non scende in campo, non puo' farlo. Ma dopo la vittoria del divorzio parlera' chiaro: "Sappiamo come una larga maggioranza dell'amatissimo popolo italiano si sia pronunciata in favore di una legge che ammette una certa facile possibilita' di divorzio. Purtroppo. Cio' e' per noi motivo di stupore e di dolore, anche perche' a sostegno della tesi, giusta e buona, dell'indissolubilita' del matrimonio, e' mancata la doverosa solidarieta' di non pochi membri della comunita' ecclesiale. Vogliamo supporre che essi abbiano agito senza rendersi pienamente conto delle gravi incidenze del loro comportamento, anche se l'autorevole e pubblico richiamo fatto alle esigenze della legge di Dio e della Chiesa non avrebbe dovuto lasciare alcun dubbio".

UN PRETE CHE PREGA

Forse c'e' l'eco di questa dolorosa vicenda nelle parole accorate di padre Aldo Marchiol al suo superiore. Lui sta sulla barca di Pietro, senza incertezze ne' timidezze. Pronto a gridare la verita' dai tetti, "a tempo e fuor di tempo", secondo l'esortazione di san Paolo. "Era una persona molto mite - ricorda un confratello - ma al di la' di questo traspariva in lui anche una grande forza. Cio' sembra contraddittorio, ma alla sua fragilita' fisica si sovrapponeva una forza interiore che, secondo me, veniva dalla sua profonda vita di preghiera". Si', padre Marchiol e' un prete che prega, che passa molto tempo in ginocchio, fisicamente e moralmente. Dice un altro confratello: "Scherzando, gli chiedevamo di pregare anche per noi, che pregavamo poco".
Non gli piace troppo quella vita: vuol fare il missionario.
Ma non si scoraggia, non perde l'allegria, non cessa di pregare e di fare il suo dovere. Ancora un confratello: "Era entusiasta della sua vocazione missionaria e soffriva molto per non poter partire a causa della sua salute. Ho un altro bellissimo ricordo: la sua fedelta' alla vita comunitaria. Era sereno, contento, capace di sdrammatizzare le tensioni e di cogliere il bello e il buono in ogni confratello".
Cosi' si prepara alla missione Marchiol dal dolce sorriso. Senza tensioni, rivendicazioni, proteste. Prega e lavora, fa comunita' con gli altri Saveriani. Finche' viene il momento. E' il 15 aprile 1978. Lo mandano in Burundi, Africa centrale.
Ha quarantott'anni, venti di sacerdozio e finalmente parte.
Se ne va mentre l'Italia e' sotto choc: il 16 marzo iterroristi delle Brigate rosse hanno rapito Aldo Moro, il politico piu' importante del momento, e massacrato la sua scorta. Lo ritroveranno morto, dopo che anche il Papa avra' inutilmente domandato la sua liberazione, il 9 maggio. Ma quel '78 passera' anche alla storia come "l'anno dei tre Papi": il 6 agosto, festa della Trasfigurazione del Signore, muore Paolo VI. Venti giorni dopo diventa Papa il patriarca di Venezia Albino Luciani, che prende il nome di Giovanni Paolo I. Un brevissimo pontificato di trentatre' giorni: il 28 settembre e' gia' morto. E il 16 ottobre ecco l'elezione piu' inattesa: si affaccia dal balcone di San Pietro un Papa polacco, il cardinale arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla, che prende il nome di Giovanni Paolo II e invita tutti gli uomini ad aprire, a spalancare le porte a Cristo. Inizia un lungo papato che portera' la Chiesa in un altro secolo, in un altro millennio.
Burundi: 28.000 chilometri quadrati tra Tanzania, Ruanda, Zaire e Lago Tanganika, 6 milioni di abitanti divisi in due etnie principali, gli hutu (oltre l'80%) e i tutsi (circa il 15%).
Ma e' la minoranza tutsi a comandare. Cosi' spesso scorre il sangue. E il Burundi e' uno dei trenta Paesi piu' poveri del mondo. Indipendente dal 1962, colpo di stato e caduta della monarchia nel 1965, altro golpe nel '66, potere al colonnello Micombero, massacro di hutu nel '72-'73, nuovo colpo di stato e presa del potere da parte del colonnello Bagaza nel 1976, persecuzione contro la Chiesa. Questa e' la situazione che padre Aldo Marchiol trova al suo arrivo in Burundi, nella capitale Bujumbura. Si tuffa nello studio della lingua kirundi. Per impararla meglio va a Muyange, nella missione dei Padri Bianchi. Da li', nel marzo del 1979, manda le prime informazioni al Superiore generale: "Lei mi domanda notizie sulle mie fatiche e conquiste.
Niente di tutto questo finora. Un po' di fatica invece c'e' adesso che sto studiando il kirundi, ma essa deriva anche dal tipo di alimentazione che e' in uso qui. Comunque qualcosa riesco ad imparare di questa lingua, tanto che non credevo a me stesso. Non ho avuto finora disturbi particolari per la mia salute, oltre naturalmente a quelli della mia artrosi cervicale che sono pero' minori che in Italia. Mi trovo a 2.000 metri di altitudine e vi restero' fino alla fine di giugno. Sono contento. Certo, non sono piu' giovane e non posso fare granche'. Mi accontento".

VOLTO DI PIETRA

E' contento, padre Marchiol, anche se si avvicina ai cinquant'anni e deve fare i conti con la salute. Ma e' in missione, finalmente, e fara' tutto quel che potra' per annunciare il Vangelo in parole e opere in quel Paese insanguinato. Lo richiamano a Bujumbura e gli danno un incarico direttivo nella Casa saveriana. Ma lui chiede di andare in trincea.
Lo accontentano. Va a Butara, dove trova il confratello padre Ernesto Tome'. Che lo ricorda cosi': "Parlava con quella sua voce tipica e infiorava il suo dire con una mimica simpatica che e' rimasta nel ricordo di tutti, assieme alla sua faccia caratteristica da volto di pietra, come lo chiamavano i suoi compagni di scuola. Abbiamo fatto assieme tanti viaggi".
Nel 1983 a Butara arriva anche un altro saveriano, fratel Mariano Masolo. Ma dopo un po' se ne deve andare. Padre Marchiol prende carta e penna e scrive al Superiore generale "soprattutto per chiedere una grazia: che fratel Mariano resti qui per qualche anno a Butara. E' preziosissimo per metterla un po' a posto.
So che le mie parole sono povere, ma ho sentito il dovere di scriverle per il bene di questa missione e per Mariano che si trova a suo agio qui".
Nell'ottobre del 1983, e' lui stesso a lasciare Butara, dopo quattro anni. Va a Gasorgwe, con padre Fiore D'Alessandri: prende il posto di padre Marchetto rientrato in Italia per motivi di salute. Scrive padre Amedeo Pelizzo nel suo profilo biografico di padre Marchiol: "Ripensando oggi a quella coppia, si deve dire che era veramente singolare. Padre D'Alessandri era dinamico, pieno di progetti, di salute, di zelo, incurante della fatica, degli strapazzi, del cibo, del riposo. Padre Aldo, al contrario, era altrettanto zelante, ma metodico, obbligato com'era a fare i conti con una salute che gli impediva di seguire i ritmi del suo confratello. Aveva inoltre bisogno di momenti di riposo e di nutrimento sano e sufficiente".

MONUMENTO ALLA BONTA' ORDINARIA

Chissa' che fatica, per padre Marchiol, non poter correre anche lui dove la missione chiama. Ma quella e' la sua croce e la porta con la pazienza di sempre. Il Signore, evidentemente, vuole cosi', e' contento cosi'. Padre Tavera, che arriva a Gasorgwe nel 1986, descrive l'attivita' del confratello in questo modo: "Ho vissuto quasi un anno con padre Aldo a Gasorgwe. Se mai venisse eretto un monumento alla bonta' ordinaria, ne sarebbe un candidato meritevole. Quando giunse alla missione seppe accettare il ritmo dell'attivita' pastorale con serenita' e spirito di adattamento. Ricordo come si adoperasse a svolgere il ministero della predicazione, preparando con cura le omelie e le istruzioni che scriveva su un quaderno. Andava nelle succursali per tenere i ritiri e amministrare i sacramenti. Al ritorno gli piaceva segnalare bonta' e difetti notati in quelle comunita'. Curava ancora lo studio della lingua e ne arricchiva la conoscenza con la lettura fedele del settimanale cattolico Ndongozi e l'ascolto del notiziario locale in kirundi. La sera lo si vedeva intento a preparare e scrivere le sue omelie. Si teneva informato su quanto si faceva e si diceva nella Chiesa del Burundi. Non mancava di commentare fatti e detti con sorridente arguzia. Dedicava i pomeriggi liberi al giardinaggio o al lavoro manuale. Era di una metodicita' che definirei rituale. Aveva un contatto molto umano con la gente che accoglieva con rispetto, fosse gente comune o distinta. Quando gli operai commettevano qualche furto, o altra trasgressione, sapeva nello stesso tempo mugugnare e scusarli, sdrammatizzando tutto. Ricordo la sua omelia nel giorno in cui dovette lasciare il Burundi (31 marzo 1987). Niente di sublime, ma un'accorata esortazione ai cristiani perche' non si lasciassero intimidire dalle misure persecutorie in atto e si ricordassero che il Signore e' il nostro Re, capace di vincere tutte le mene umane. I fedeli presenti l'ascoltavano in un silenzio commosso, ma a me pareva di sentire la voce di un profeta in quelle parole scarne".

TEMPO DI PERSECUZIONE

Si', anche padre Marchiol dal dolce sorriso deve lasciare il Burundi. Il dittatore Bagaza vuol far fuori la Chiesa dal Paese, imprigiona ed espelle i missionari, ne limita l'attivita'.
A p. Aldo tocchera' partire il 3 aprile 1987. Lo sapeva, lo temeva. Cosi', il 18 marzo, informa il Superiore generale: "E' meglio andare altrove e cominciare da capo, se e' possibile. Non ho niente da fare tutta la settimana, eccetto il sabato pomeriggio e la domenica mattina. Qui il ministero e' ridotto ai minimi termini. Il prossimo 25 marzo scade il mio permesso di residenza.
Se non mi viene rinnovato, io parto subito e non chiedo prolungamenti". Due giorni dopo, in un'altra lettera al Superiore generale lamenta anche il silenzio e la paura della Chiesa burundese: "Forse sono pessimista, ma,per esempio, negli incontri presbiterali non si ha neanche il coraggio di ricordare con una preghiera i preti che sono in prigione.
E' vero paganesimo. E' vero che dovremmo essere noi missionari a ispirare i veri sentimenti cristiani a vescovi, sacerdoti e cristiani indigeni, ma siamo quattro gatti e per di piu' non calcolati.
Quello che a me dispiace non e' tanto la persecuzione contro la Chiesa, quanto l'accettazione di questa persecuzione, di questo suicidio, da parte della Chiesa. In Burundi tiriamo avanti, ma non so fino a quando. D'altra parte e' anche un bene che questa Chiesa sia un po' provata, perche' sia i pastori che i fedeli si sveglino un po' e piglino piu' coscienza del loro cristianesimo. Siamo arrivati a un punto tale che - secondo me - bisogna decidersi o a dare una testimonianza alla Chiesa di Cristo o a venire via. Frasi come queste: basta essere cristiani, e non occorre far parte della Chiesa gerarchica, basta far del bene alla gente, frasi come queste pronunciate da sacerdoti fanno stare male. Qui in questa Chiesa comandano tutti, eccetto i vescovi. Alla fine di gennaio negli inama del partito, in tutto il Burundi, e' stato letto un librettino verde contro i vescovi e la Chiesa. L'hanno letto vari catechisti senza commento e qualche sindaco in chiesa durante la messa. Che poto-poto! (confusione).
E noi preti siamo invitati dai vescovi a tacere.
Come si difende il gregge di Cristo? E diversi missionari si barcamenano e fanno di tutto per restare ad ogni costo.
Sono tutte cose che non vanno!".

SERVI INUTILI

Il permesso di restare nel Burundi non gli viene rinnovato.
E padre Aldo Marchiol, dopo nove anni, e' espulso da quel povero Paese dove ha fatto soltanto del bene, e torna in Italia. Ma il ricordo del Burundi lo insegue, lo amareggia, lo rattrista.
Il Superiore generale gli scrive il suo incoraggiamento affettuoso: "Solo poche righe per dirti la mia partecipazione alla tua sofferenza per l'espulsione dal Burundi e per assicurarti la mia preghiera in quest'ora di dolore e di perplessita'.
Quello che tu nella tua lettera del 18 scorso prevedevi si e' verificato puntualmente. Sia come Dio vuole. Noi siamo servitori della Chiesa e del Regno di Dio: quando ci dichiarano inutili, ce ne andiamo, anche se ci piange il cuore nel lasciare un lavoro promettente e delle comunita' che resteranno senza pastore.
Ma Dio e' grande e provvedera'. Ti spero bene e ti raccomando di riposare in questi primi tempi. Cerca di fare qualche ministero che ti venga richiesto, ma non stancarti troppo.
Devi incassare un colpo che non e' facile incassare. Sta' attento alla tua salute e fatti visitare da qualche medico.
Vedremo quello che possiamo prevedere per il futuro. Non ci mancano le proposte di lavoro missionario, ma ne parleremo assieme". Fara' cosi', padre Marchiol: riposo, cure, un anno di aggiornamento a Roma.
Intanto in Burundi c'e' un nuovo golpe, Bagaza e' deposto dal maggiore Buyoya. Nell'88 scorre altro sangue tra hutu e tutsi, decine di migliaia di morti e profughi. Il mondo non puo' piu' stare a guardare: pressioni internazionali costringono il governo a fare qualche passo sulla strada della democrazia.
Tra i primi segnali, il rientro dei missionari espulsi. I Saveriani decidono di rimandare li' padre Marchiol.
Ma poiche' le cose vanno per le lunghe lui chiede al Superiore generale di andare ad attendere nel vicino Zaire: "Vengo con questa mia a chiederle il permesso di andare a lavorare nelle missioni dello Zaire, in attesa di entrare in Burundi. I fatti avvenuti in questi ultimi giorni in quel Paese avranno aumentato senz'altro un clima di tensione nella gente e nei governanti e questi ultimi avranno maggiori difficolta' a far entrare i missionari espulsi. Io preferirei proprio andare nel vicino Zaire piuttosto che stare sempre nell'aspettativa di un probabile rientro, cosa che stanca non poco. Qualora poi venga il permesso di entrare, sono sempre disposto a farlo".

IN ETA' DI PENSIONE

Proposta accettata, ma intanto arriva anche l'autorizzazione al rientro in Burundi. Cosi' padre Marchiol torna a Bujumbura il 21 ottobre 1988. A 58 anni ricomincia daccapo. Lo mandano a Gisanze, con i padri Luigino Vitella e Fiore D'Alessandri. Ci restera' fino al 1991. Con una sola testimonianza, una sua lettera del 18 marzo 1989: "Tante grazie degli auguri per il mio compleanno: 59 anni! Non avrei mai pensato di passare diversi anni in terra africana dove resistono gli uomini forti e con una costituzione fisica robusta. Abbiamo fatto i ritiri di Pasqua ma con grande amarezza, per la poca corrispondenza dei cristiani.
Non ne sappiamo i motivi: cerchiamo di conoscerli". La verita' e' che sono ancora in vigore le leggi anti-religiose della dittatura Bagaza.
Padre Marchiol dal dolce sorriso, comunque, e' di nuovo in prima linea. Ad un'eta' che consiglierebbe la pensione, con una salute compromessa, riprende a fare il missionario con la stessa generosita', la stessa disponibilita', la stessa bonta', la stessa umilta' di sempre. Dopo Gisanze va a Ruzo, nel febbraio del '91. Ad aprile 1992 viene spostato a Bujumbura, a fare il responsabile della Casa saveriana. Centro di ritrovo per i saveriani, casa di accoglienza per tutti. E tutti andavano volentieri in quella casa, sempre accolti, sempre ascoltati, sempre rifocillati.
Altri due anni, ad accogliere e aiutare i confratelli, missionari e suore di altre congregazioni, volontari, giornalisti che vengono a seguire le vicende drammatiche che in quel tempo accadono nel vicino Ruanda: ancora sangue, fame, profughi.
Anche di questo periodo ci sono testimonianze di confratelli di padre Marchiol. Eccone alcune. Padre Todeschi: "I due anni di questo servizio sono stati, secondo me, quelli che lo hanno fatto apprezzare dai tanti che vi sono passati. Lo distinguevano e lo facevano amare soprattutto la sua pazienza e bonta'. Arrivava con calma a tutto, senza mostrare mai, o quasi mai, segni di nervosismo o di stanchezza. Aveva una disponibilita' rara in un compito cosi' esigente e pesante". Padre Tome': "Era sornione a sufficienza per il gusto di pizzicare, ma non di piu'. Era pacifico e pacificante, anche se non disarmava dal criticare i soprusi ovunque li vedeva, come faceva contro le ingiustizie che stigmatizzava con parole forti".

FEDELTA' DI CHI CONOSCE IL SIGNORE

Padre Tavera: "Uomo di poche parole, era attento osservatore di persone e di fatti e capace di analisi chiare e di sdegno genuino per le mega ingiustizie che costellano l'universo del Burundi. Nelle discussioni su punti scottanti sapeva riscaldarsi, esporre proposte e critiche, ma senza cadere in disfattismi. Si vedeva che era saggio. Per me resta l'emblema del sacerdote che prega.
Forse non e' riuscito a incantare nessuno con prediche sulla preghiera, ma ha edificato, se non altro, il sottoscritto con il suo fulgido esempio. Pregava con la fedelta' di chi conosce il Signore". Padre Zordanello: "Due cose ricordo in modo particolare: la sua bonta' d'animo e la sua preghiera. Era buono, con noi confratelli e con i cristiani. Ma soprattutto era un uomo di preghiera. Non parlava molto bene il kirundi, ma parlavano la sua bonta' e il suo modo di pregare. Non e' mai stato un costruttore di cappelle o di case, ma sono convinto che con il suo esempio ha scavato e costruito in profondita' nel cuore dei cristiani. Per me era un santo".

"QUESTI DIAVOLI DI GIORNALISTI!"

Un'altra testimonianza sul lavoro di padre Marchiol a Bujumbura e' quella di un giornalista del Giornale del 3 ottobre 1995, dopo la sua tragica morte: "Padre Aldo sosteneva di temere i giornalisti quanto il diavolo. Eppure nel caldo afoso del Burundi, piccolo, misero e violento Paese dell'Africa equatoriale, era ben presto divenuto un punto di riferimento per i cronisti italiani.
Gli inviati che lo scorso anno sono stati paracadutati a raccontare il genocidio nel vicino Ruanda non possono aver dimenticato padre Aldo Marchiol, 64 anni, missionario saveriano, veterano del continente nero, che ha amato fino all'estremo sacrificio della vita. Quando arrivavamo sperduti a Bujumbura, la capitale del Burundi, padre Aldo ci accoglieva nel quartiere generale dei Saveriani con una smorfia dettata dal suo carattere burbero e scontroso. Tutta apparenza: le semplici stanze che ci avrebbero ospitati avevano il letto pronto, il bagno pulito e per noi c'era gia' un posto a tavola dove si mangiava in compagnia di missionari e suore di passaggio. Padre Aldo ci guardava come se fossimo dei marziani venuti in cerca di guai nell'inospitale pianeta africano, ma, fin dai primi giorni di convivenza, pur con qualche segno di protesta, cominciava spontaneamente a ricoprire il ruolo di perfetto segretario di redazione. Raccoglieva le telefonate per tutti i giornalisti, che erano in continuo aumento; ci faceva spedire gli articoli via fax a qualsiasi ora e si prodigava per trovarci la carta dove scrivere i nostri pezzi, per cambiarci i soldi a un prezzo di favore oltre a fornirci mappe, contatti e indicazioni di ogni genere sul suo piccolo mondo africano. Come dimenticare questo anziano missionario che, brontolando, ci cercava dappertutto con il telefono portatile in mano, perche' dall'altro capo del filo c'era la redazione? Oppure, geloso del suo ufficio che chiudeva sempre a doppia mandata, lo metteva a nostra completa disposizione guardando la scena con orrore. Padre Aldo, maniaco dell'ordine e della tranquillita', sembrava essere stato travolto dall'ondata di giornalisti, ma quando mandavamo i servizi in Italia, lanciava una sbirciatina e, in fondo, era compiaciuto che qualcuno denunciasse gioie e miserie della sua terra d'Africa. Non pretendeva nulla in cambio e ci intimava di non fare il suo nome, perche' aveva gia' abbastanza guai. Da friulano tutto d'un pezzo, era introverso e riservato, ma con il passare dei giorni si capiva che questi giornalisti, intrusi e sempre fra i piedi, cominciavano a diventargli simpatici. Mise addirittura a nostra disposizione un'efficiente jeep giapponese, abbandonata da alcune suore in fuga di fronte ai massacri tribali in Ruanda. Da buon missionario, viveva con i ritmi dell'Africa, svegliandosi all'alba e coricandosi presto, ma sopportava senza fiatare i nostri rientri a tarda notte, dopo l'ultimo drink nell'unico hotel decente della citta'.
Al mattino, invece, quando dovevamo partire per qualche lungo e pericoloso reportage ci faceva sempre trovare il caffe' caldo e la colazione pronta. In questi viaggi ci accompagnava con le sue preghiere e, vedendoci tornare incolumi, gli scappava all'angolo della bocca un abbozzo di sorriso, subito represso per non dare a vedere che era contento di rivederci. Talvolta gli altri ospiti della missione si lamentavano sentendosi un po' abbandonati e lui pronto replicava: C'e' la stampa, devo occuparmi di loro, prima. Padre Aldo non sara' piu' ad attenderci, ma il suo ricordo restera' indelebile, sotto il sole cocente con la schiena curva e gli occhiali dalla montatura troppo pesante che nascondevano uno sguardo vispo e intenso, nonostante il peso degli anni.
E soprattutto non possiamo dimenticare quel suo affettuoso brontolare nei nostri confronti, che si concludeva cosi': Ah, questi diavoli di giornalisti!".
Nel giugno del 1993 in Burundi si vota. E, com'e' evidente, vince la maggioranza hutu: diventa Presidente Melchior Ndadaye che, saggiamente, nomina anche ministri tutsi. Fa di piu': in segno di pace permette il rientro del dittatore deposto Bagaza.
Un errore, perche' questi subito trama contro di lui. Il 13 ottobre l'esercito si ribella e uccide Presidente, Vice Presidente e loro collaboratori. Gli hutu reagiscono e torna a scorrere il sangue. Si dividono anche cristiani, preti e suore. Bilancio: 100.000 morti, in gran parte hutu, 800.000 profughi nei Paesi vicini.
Ma non e' finita. Il 13 gennaio 1994 viene eletto Presidente un altro hutu, Cyprien Ntaryamira, subito assassinato, il 6 aprile. Da allora in Burundi si continua a morire, in un tragico, spaventoso gioco al massacro tra le due etnie che ogni tanto finisce sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Ma, intanto, Bagaza riprende la sua personale guerra contro la Chiesa. Muoiono preti, suore, seminaristi, due vescovi subiscono attentati.
Nell'estate del 1994 padre Marchiol e' in Italia per cure e riposo. Tornera' in Burundi nel mese di dicembre. Il 19 novembre concede un'intervista a La vita cattolica di Udine.
Gli chiedono naturalmente le sue impressioni su quel Paese insanguinato che lui conosce bene. Risponde: "Hanno bisogno di una parola di giustizia e di amore nella loro coscienza intrisa di odio, vendette e ingiustizie.
Hanno bisogno di una parola di speranza nella loro miseria materiale e soprattutto spirituale. Hanno bisogno di un ideale in un clima di schiavitu': l'ideale della dignita' dei figli di Dio. Hanno bisogno di gente che viva al loro fianco pronta a testimoniare il Vangelo". Forse pensa a se stesso, al suo ritorno laggiu'. Non sa che dieci mesi dopo non solo vivra' ma morira' al fianco dei burundesi, nel nome del Vangelo. Continua: "Il problema delle etnie di questi due popoli non e' mai stato risolto politicamente e nemmeno il cristianesimo e' riuscito a risolverlo. Le ingiustizie, le violenze, i massacri perpetrati da una etnia contro l'altra sono stati sempre causa di altre violenze e di altri massacri.
L'etnia al potere ha cercato di favorire i suoi in tutti i settori della vita pubblica e anche nel settore della vita religiosa e si e' sempre servita di un esercito tutto suo, fatto di elementi della propria etnia per tenere assoggettati gli altri. Un potere dispotico che talvolta ha reso difficile la denuncia di ingiustizie e la testimonianza del Vangelo da parte della Chiesa e dell'opera missionaria".

UOMINI SAGGI, CERCANSI!

Alla domanda sul futuro del Burundi, padre Marchiol risponde cosi': "E' difficile dirlo. E' ancora troppo presto per prevedere qualche cosa di stabile che porti un po' di pace, perche' gli odi e le violenze hanno lasciato gli animi sconvolti.
Mi sembra che non ci sia altra soluzione che una convivenza delle due etnie in un cammino democratico, anche se lungo.
E per questo occorrono animi molto saggi, sia nella politica che nella Chiesa, che sappiano far regnare la giustizia e l'amore". Pochi giorni dopo aver pronunciato queste parole, lui stesso riprende la valigia e torna in Burundi, a fare la sua parte, a dare il suo contributo di vecchio missionario acciaccato per la pace di quel popolo che ama. Padre Marchiol dal dolce sorriso torna per l'ultima volta nella sua Africa dolente ad annunciare il Vangelo della pace e della giustizia. Stavolta andra' a Buyengero, zona abbastanza tranquilla, dove c'e' un bel centro missionario: chiesa, casa dei padri, locali per le attivita' pastorali. Va a sostituire padre Modesto Todeschi, che e' anche il Superiore regionale e ha deciso di stabilirsi nella capitale Bujumbura per seguire meglio gli avvenimenti.
Padre Marchiol arriva a meta' gennaio del 1995.
Trova padre Ottorino Maule e la volontaria laica Catina Gubert. Ma nel mese di novembre del '94 sono avvenuti due fatti gravi.
Padre Todeschi e padre Maule da tempo alzano la voce contro le ingiustizie e le violenze dell'esercito. Vanno dai comandanti a chiedere spiegazioni e giustificazioni.
Padre Maule ripete spesso, e pubblicamente: "Volete la pacificazione? Togliete i militari.
La gente di qui non ha ucciso nessuno. Se ci sono stati dei morti, e' stato solo per opera dei militari".
Lo dice anche ad un'assemblea per la pace che si tiene appunto ai primi di novembre. Anzi, in quella riunione si decide di scrivere al Presidente della Repubblica.

LA VERITA' AD ALTA VOCE

I militari alla fine reagiscono: fermano padre Maule, perquisiscono la sua auto. Gli impediscono di curare un ragazzo malato che trattengono e bastonano fino a farlo impazzire. Minacciano, insultano, provocano e scherniscono il saveriano in diverse occasioni. Poi, la notte del 14 novembre, a un posto di blocco i soldati ammazzano cinque mandriani. Tra loro ci sono due giovani tutsi, figli di un soldato. Quando capiscono l'errore rastrellano e uccidono una quindicina di uomini e ragazzi.
Poi raccontano per radio che i quindici sono terroristi che li hanno attaccati e i due ragazzi tutsi sono morti accidentalmente nello scontro a fuoco. Padre Maule e padre Todeschi non ci stanno, conoscono la verita' e la dicono a voce alta.
"Il giorno seguente - racconta padre Todeschi -il comandante del campo militare di Rumonge e il suo luogotenente vennero da noi per convincerci che la versione della radio era la vera. Noi sostenemmo che potevamo testimoniare che non c'era stato nessun attacco e nessun combattimento, ma che erano stati uccisi degli innocenti. Due giorni dopo ci fu un comizio organizzato dai militari con il governatore di Bururi. Noi due non fummo invitati. Fu un processo popolare contro i missionari e in particolare contro padre Maule.
Tre tutsi si alzarono a calunniarci con delle accuse assurde. In conclusione si chiedeva che padre Maule fosse espulso. Nessuno oso' aprire bocca per difenderlo perche' tutto era stato montato perfettamente.
In quell'occasione invocammo monsignor Romero! In seguito ritorno' la calma e non ci furono piu' screzi particolari: anzi, sembrava che, fra le missioni, quella di Buyengero fosse la piu' tranquilla e tale rimase fino al 30 settembre '95".
Ma riconosce padre Todeschi che "con padre Maule si parlava abbastanza spesso dell'eventualita' di una vendetta. Ci si scherzava sopra. Eravamo tutti d'accordo che se questo fosse successo si preferiva essere sepolti poveramente come i burundesi".
In questa situazione, dunque, a Buyengero arriva padre Aldo Marchiol. Con padre Maule c'e' subito intesa. Nella zona ci sono piu' di cento colline. Ogni giorno i due padri ne visitano una ciascuno. Vanno in macchina fin dove e' possibile, poi a piedi, si dividono, uno di qua, uno di la'.
E padre Marchiol torna a casa la sera contento: ha potuto fare il missionario sul serio, in mezzo ai poveri piu' poveri.
Padre Maule gli vuole bene e lo stima. E lui, coi suoi sessantacinque anni e i suoi acciacchi, si arrampica su per le salite, vincendo la fatica. Vanno a incontrare i cristiani, a formare i catechisti e i leader di villaggio, a confortare, incoraggiare, condividere.

UOMO GIUSTO, PRONTO A TUTTO

"Padre Aldo e' sempre piu' magro, va piano ma fa sempre le sue cose", scrive padre Maule. E il vescovo di Bujumbura dira' di lui in un'intervista: "Ricordo molto bene padre Aldo che ha vissuto nella mia diocesi quando era a Gasorgwe e Gisanze. Il carissimo padre Aldo, giusto fra i sacerdoti che ho conosciuto nella diocesi, l'uomo che era pronto a tutto, che aveva una carita' fraterna mai smentita. Mi ricordo della sua salute che era cosi' debole. Gli chiesi un giorno: Ma caro Aldo, come fai tu a vivere cosi'? Come fai a continuare a restare qui mentre la salute mi sembra proprio malandata? Mi ha detto: Se potessi compiere la mia missione fino alla mia ultima capacita', sarei felice". Domandano al vescovo: padre Marchiol le ha mai detto che poteva essere ucciso? Risposta: "Questo veramente non l'avevo ancora percepito, ma quando sentii che padre Maule e il confratello che era con lui a Buyengero avevano smentito una truppa di militari di fronte a eventi violenti e cruenti che si erano verificati la', mi sono detto: Possono davvero correre un pericolo molto grosso. Ma per quanto posso vedere io stesso, chiunque dice un po' di verita', chiunque vuole un po' di giustizia, purtroppo e' sempre minacciato in Burundi".
Padre Marchiol dal dolce sorriso l'ha messo in conto.
In una delle ultime lettere al fratello scrive: "Se attaccano i bianchi, i Saveriani saranno i primi ad essere uccisi".
Ma continua a scalare le sue colline. Lui su una, padre Maule su un'altra. Come gli apostoli mandati un giorno da Gesu' a due a due a predicare la Buona Notizia nei villaggi della Palestina. Vanno, armati soltanto della fede.

PER DIFFONDERE AMORE E GIUSTIZIA

Il 21 agosto 1995 a Bujumbura i Saveriani si riuniscono in assemblea per rispondere alla domanda: "Perche' restare?". Gia', perche'? C'e' anche padre Marchiol. La sua risposta l'ha gia' data: si deve restare perche' qui c'e' bisogno di qualcuno che diffonda amore e giustizia. Non si puo' abbandonare a se stesso il popolo del Burundi. Lui, ormai, e' li' da diciassette anni. Vuol restarci finche' avra' forza, finche' lo gambe lo porteranno su per le colline. Il 26 settembre, quattro giorni prima della morte, padre Marchiol partecipa alla riunione per il nuovo anno pastorale a Bururi, sul tema: "Come riportare la pace in Burundi attraverso la verita' e la giustizia". Parla e dice che solo con la pazienza e il coraggio si puo' sperare di costruire la pace, che e' dono di Dio e fatica dell'uomo. La pazienza e il coraggio che lui nasconde dietro il dolce sorriso. Ecco perche' restera', accada quel che accada.
Accade il 30 settembre 1995. Un giorno come un altro nella tranquilla Buyengero. Ma la sera arrivano tre soldati.
Entrano nella casa dei padri. Prendono padre Marchiol, padre Maule e Catina Gubert, apostoli inermi del Vangelo, li fanno inginocchiare al centro della stanza piu' grande e li uccidono. Un colpo alla tempia per padre Maule, due per padre Marchiol, due per Catina. Cadono insieme, nel loro sangue. Credevano di umiliarli. Li hanno innalzati per sempre.
Morti in ginocchio, com'erano vissuti. Si e' spento cosi' il dolce sorriso di padre Aldo Marchiol.
Il 3 ottobre il funerale. Tre Vescovi, missionari Saveriani, Padri Bianchi, Domenicani, Preti burundesi, Suore, il Presidente della Repubblica Sylvestre Ntibantunganya, un ministro, gli ambasciatori d'Italia, Germania e Belgio, il governatore della provincia. E un mare di gente.
Nemmeno la paura ferma il popolo di fronte a quelle morti. Gli assassini sono stati arrestati ma verranno rilasciati.
Dei mandanti non si sapra' nulla.

RESTARE IN AFRICA, PER SEMPRE

Ma non c'e' bisogno di tante parole: i due padri e la volontaria sono martiri della giustizia e della pace, la gente lo sa.
Hanno creduto di farli tacere ma la loro morte e' un grido che giunge fino a Dio, come dice padre Todeschi durante il rito funebre. E aggiunge: "A Ottorino, Aldo e Catina, come gli esperti hanno potuto dedurre da diversi elementi, gli uccisori hanno sparato alla testa, dopo averli fatti inginocchiare.
Lo hanno fatto per umiliarli. Ma per noi, nella fede, quell'atteggiamento, come per il martire Stefano, e' segno di preghiera e di invocazione di perdono per i loro assassini: perche' si ravvedano e si convertano al rispetto della persona e di Dio. Come e' stato per Gesu' sulla croce, quella stessa croce che e' sulle loro bare: Padre, perdona loro perche' non sanno quello che fanno. D'altra parte lo stesso Dio di misericordia ci dice: Non fatevi giustizia da voi stessi, ma lasciate fare all'ira divina. Sta scritto infatti: sono io il vindice, daro' io a ciascuno cio' che merita! Si', siamo sicuri, Dio difende i suoi. Dio difende il povero e l'indifeso, difende i suoi profeti.
Anche se la radio potesse far ingoiare le sue calunnie sfacciate, non si puo' ingannare Dio. Non si puo' dargliela a bere. Si', fratelli, il nostro Dio e' un Dio che non si puo' prendere in giro alla leggera".
Bernard Bududira, vescovo di Bururi, assente al funerale perche' all'estero, manda un messaggio: "Gli atti ignominiosi che sono stati perpetrati nella parrocchia di Buyengero sono il colmo delle calamita' mostruose che conosce il nostro Paese. L'assassinio dei padri Ottorino e Aldo e della signorina Catina Gubert e' una vera vergogna; e' un atto che puo' attirare la maledizione su coloro che agiscono sotto la spinta dell'odio. Ma noi non cadiamo nel tranello dell'odio e della divisione; i padri Maule e Marchiol ci hanno sempre impedito di seguire la via dello scontro. Vi invito piuttosto a pregare Dio nostro Padre perche' possiamo imitare l'esempio dei nostri amici che sono appena stati massacrati sul nostro suolo".
Padre Aldo Marchiol dal dolce sorriso adesso riposa in terra d'Africa, davanti alla chiesa di Buyengero con i due compagni di martirio.
I familiari l'avrebbero voluto in Italia, ma poi hanno accolto la richiesta dei Saveriani. E' giusto. Lui e' partito tardi per la missione. Ma le ha dedicato la vita. Non poteva che restare li', per sempre.
La sua tomba e' un promemoria per il popolo burundese sofferente: l'odio non avra' l'ultima parola, solo la pace e la riconciliazione costruiranno un Burundi, un mondo nuovo. Padre Marchiol la sua parte l'ha fatta, fino in fondo.
Non poteva dare di piu'. E' morto in ginocchio. Il gesto piu' grande della sua vita.

RENZO AGASSO




OTTORINO MAULE
Gambellara (Vi) 7.4.1942
Buyengero (Burundi) 30.9.1995




COMUNIONE DI VITA E DI DESTINO

"Quando sentirai che mi hanno ucciso, dirai un requiem per me". Risponde cosi' padre Ottorino Maule all'amico don Corrado Marangone che lo mette in guardia: attento, in Burundi vai a diventare martire.
E' il luglio del 1995. Padre Maule torna nel Paese d'Africa, insanguinato da un'infinita guerra civile, dopo aver partecipato in Italia al Capitolo generale dei Saveriani. Saluta la mamma Assunta, ottantanovenne, per l'ultima volta.
A settembre e' gia' morto, vittima dell'odio, insieme al confratello padre Aldo Marchiol e alla volontaria laica Catina Gubert. Uccisi da tre soldati che prima li fanno inginocchiare, poi sparano a bruciapelo.
L'ha messo in conto il martirio, padre Maule. E l'ha anche scritto. Il 30 luglio 1995 - due mesi esatti prima della morte - il settimanale della diocesi di Vicenza La Voce dei Berici pubblica un suo articolo. Vi si legge, tra l'altro: "In marzo, in un momento particolare di tensione e di pericolo, il governo italiano ci invitava a rientrare in patria. Alla radio del Burundi avevano parlato di questo invito. Immaginate l'allarme che la notizia aveva portato tra la nostra gente! Un ragazzo mi ha chiesto: E' vero che ve ne andate? Gli ho risposto: Noi abbiamo deciso di restare con voi! Dovreste aver visto il sorriso e la gioia sul suo volto! Non e' facile elencare i motivi che giustificano la decisione di quasi tutti i missionari, molti volontari compresi, di restare sul posto nonostante i pericoli. Viviamo concretamente e giorno dopo giorno quella comunione di vita e di destino con i fratelli ai quali siamo inviati che fa parte della nostra vocazione missionaria: alleviare le sofferenze, cercare e distribuire aiuti, infondere speranza, dire che e' ancora possibile la riconciliazione, il perdono, il vivere assieme.
D'altra parte siamo testimoni scomodi delle continue ingiustizie perpetrate e un po' tuttiabbiamo ricevuto minacce per questo. Se non altro la nostra presenza e la denuncia dell'oppressione e della menzogna hanno impedito o almeno limitato i danni. E di questo la gente ci e' riconoscente. In una parola: nel dramma attuale del Burundi sentiamo quanto e' importante restare vicini a chi e' vittima della violenza, cercare di aiutare materialmente e spiritualmente sia le singole persone (vedove, orfani, perseguitati...) sia le comunita' cristiane che portano le conseguenze delle violenze e della divisione.
E' questa, secondo noi, la modalita' concreta di fare missione che il Signore ci chiede in questo particolare momento".
Vai a diventare martire, dice l'amico prete. Ma padre Ottorino Maule non e' tipo da tirarsi indietro. Ha grinta e coraggio da vendere, un duro quando si tratta di difendere il Vangelo e i poveri. E' troppo buono e generoso per abbandonare la gente del Burundi al suo destino. Lo condividera' a costo della vita. Abbiamo deciso di restare con voi.

UNA FAMIGLIA CRISTIANA

E' veneto di Gambellara, provincia di Vicenza, Ottorino Maule. Vi nasce il 7 aprile 1942, mentre intorno sono i giorni dell'odio, dell'orrore, dell'insensatezza: la seconda guerra mondiale. Famiglia cristiana sul serio la sua.
Oltre a lui ci saranno un fratello missionario e quattro sorelle suore. Il 3 settembre 1959 Ottorino diciassettenne, dopo il ginnasio nel seminario di Vicenza, si presenta dai Saveriani a San Pietro in Vincoli presso Ravenna.
Vuol diventare missionario. Fa la professione religiosa il 3 ottobre 1960. E' ordinato sacerdote il 15 ottobre 1967, venticinquenne, mentre tanti suoi coetanei si preparano alla contestazione sessantottina. Un anno di teologia, poi eccolo a Roma, dove prende la licenza in Liturgia. E' appena finito il Concilio e certamente il giovane saveriano viene coinvolto negli entusiasmi e nei fervori ecclesiali -a volte anche eccessivi - del tempo.

SCOPPIA L'INFERNO

Il suo post-Concilio lo andra' a vivere subito in prima linea. Nel maggio del '70 lo destinano al Burundi, uno dei Paesi piu' poveri del mondo, nel cuore dell'Africa.
Ci arriva il 3 settembre, dopo lo studio del francese a Parigi. Ha ventotto anni, tanta voglia di fare, l'allegria e l'ottimismo dei giovani. E lavora subito sodo.
Racconta un confratello: "Ricordo la sua disponibilita' totale ai lavori umili, e non di rado necessari, che fanno parte della nostra quotidianita'. Si trattava di trasportare con la camionetta sassi, terreno, mattoni e lui era perennemente in viaggio".
Impara la lingua kirundi e nel 1971 e' mandato a Rumeza per un anno di apprendistato. Altro spostamento a gennaio del '72. Va a Minago, con i padri Pedrotti e Marchetto, poi arrivera' anche don Corrado Marangone, prete fidei donum della diocesi di Udine. Dopo tre mesi che e' li', scoppia l'inferno. Le due etnie burundesi, da sempre contrapposte, prendono le armi. Sara' un massacro.
Spiega P. G. Ferrari: "Il Burundi - sei milioni di abitanti in una superficie pari a Lombardia e Liguria - sta vivendo ormai da anni una situazione di conflitto etnico scoppiato poco dopo l'indipendenza (1962). In Burundi infatti sono presenti due etnie, hutu e tutsi, come nel vicino Ruanda. Gli hutu sono la maggioranza (85%), ma fino al 1993 non hanno mai avuto il governo e ad ogni tentativo di chiedere il potere sono schiacciati dall'etnia tutsi (15% della popolazione), che ha sempre dominato, in campo amministrativo e ora soprattutto militare. Nel 1972, in una prima grande repressione, i morti furono trecentomila; Sono poi seguite altre, non meno feroci anche se meno estese".

PREGHIERA E FATICA

Quella guerra, come tutte, lascia sul terreno distruzione, orrore, odio. I missionari provano a ricostruire case, coltivazioni, rapporti. Testimonia don Corrado Marangone: "Fu in questa situazione che padre Ottorino fu portatore di Buona Notizia e di speranza. Nei giorni della strage, quando non si poteva fare niente, e' rimasta proverbiale la sua calma ed il suo modo di sopravvivere psicologicamente ad una situazione impossibile, anche solo da tollerare: leggeva giornalini! Inoltre, non stava mai ad ascoltare discorsi lamentosi che fiaccassero la speranza.
Cercava sempre quel piccolo spiraglio che la vita ti permette per continuare a vivere. Agiva partendo da quello. Se c'era la necessita' di trasportare qualche ferito o malato, egli era sempre disponibile. Quando era possibile (in assenza di geremiadi), si metteva insieme alla comunita' per giocare a carte. Beninteso che il tempo della preghiera e della Parola di Dio rimaneva il piu' importante".
Non si lascia prendere dall'angoscia, padre Maule.
Prega e fatica. E quando serve gioca a carte e si rilassa con i fumetti. Ma lavora per ridare vita, speranza e dignita' alla povera gente. Capisce che bisogna partire dall'economia. Fonda una cooperativa. Gli scopi: far tornare le persone a lavorare, renderle padrone del loro destino, aiutarle a vivere nell'onesta' e nella collaborazione, promuovere un commercio equo. Un successo: tutti corrono a farsi soci. E le cooperative si moltiplicheranno.
Poi pensa alla scuola. Cancellata dalla guerra e dalla paura, perche' chi ha un titolo di studio ed e' dell'etnia sbagliata viene eliminato per primo. Ricorda ancora don Marangone: "A Minago erano quasi tutti sbagliati. Bisognava provvedere ad un minimo di istruzione per i ragazzi.
Cosi' la missione organizzo' la scuola per i figli dei cristiani. Tutti i ragazzi venivano alla missione e vi risiedevano una settimana al mese, a turno. Scuola, giochi, preghiera, cinema, tutto contribuiva adun'aria di festa indescrivibile. Padre Ottorino con una suora ne era il responsabile felice. Quando aveva qualche cruccio andava a farselo passare li'. La simpatia nata da quella scuola durata alcuni anni e' ancor oggi cemento di unione fra quella gente".
Quella scuola si chiama in lingua locale indaro.
Padre Maule ne parla in un articolo per il giornale Missionari Saveriani dell'aprile 1974: "Indaro in kirundi vuol dire alloggio. Nel nostro caso si tratta di un internato particolare. Credo che si potrebbe definire in un senso piu' completo: scuola di preparazione alla vita.
Abbiamo quattro gruppi di persone che frequentano l'indaro: due di ragazzi e due di ragazze, divisi soprattutto secondo l'eta'. Ogni gruppo e' composto da un centinaio di ragazzi divisi in tre classi. Programma: religione, lettura, scrittura, calcolo, igiene e formazione morale, civica, sociale. Scopo: formare futuri cristiani adulti, sfruttando il contatto personale che si puo' avere dopo una conoscenza e un'amicizia realizzate in quattro-cinque anni di frequenza. La permanenza di una settimana al mese serve a formare un senso sociale tra i ragazzi, una conoscenza reciproca. Di tanto in tanto si offrono occasioni propizie. Un esempio: alcuni ragazzi avevano picchiato ed insultato un loro compagno accusandolo ingiustamente di aver rubato cinque franchi. Era di sabato pomeriggio e poco dopo doveva esserci la celebrazione penitenziale. Abbiamo sfruttato il fatto per spiegare come il peccato ci separi anche dagli altri e come sia necessaria la riconciliazione. In chiesa abbiamo invitato i colpevoli a uscire e tre l'hanno fatto spontaneamente (nessuno era stato chiamato) e hanno chiesto scusa all'accusato. Durata: per il momento si pensa ad un ciclo di quattro anni, secondo la formula tradizionale del catecumenato. Di fatto diventeranno almeno cinque. Vengono a otto anni come per le scuole statali, fino al termine del ciclo. Ogni anno si pensa di farli venire 9-10 settimane. In pratica l'indaro rimarra' chiuso in luglio e agosto. In una visione d'insieme, vorremmo dare a tutti, per quanto e' possibile, un'educazione cristiana di base, consistente nell'istruzione religiosa, alfabetizzazione, formazione umana e una spinta verso lo sviluppo e il progresso. Questo e' lo scopo sia dell'indaro che del foyer e del catecumenato. Ognuna di queste tre attivita' ha elementi comuni, anche se con specializzazioni diverse. Riflettendo, vorremmo vedere se e' possibile una certa fusione per semplificare il lavoro, dato che ognuno di questi elementi e' necessario per la formazione globale della nostra gioventu'. Ma siamo ancora sul piano delle idee. Nel nostro piccolo, vediamo che il lavoro non manca. Peccato che si viva nell'incertezza a causa della situazione politica e dell'avvicendamento dei Saveriani!".

AIUTARSI FRA POVERI

Nello stesso articolo padre Maule informa sulle altre attivita' a Minago, denunciando che "nelle difficolta' politiche attuali non ci e' possibile riorganizzare i vari gruppi di attivita'. Sarebbero subito interpretati come movimenti a carattere politico. Visitiamo regolarmente anche le succursali, cercando di curare in modo particolare la gente che ha lavorato con tanto impegno e sacrificio alla costruzione o alla risistemazione delle cappelle. Curiamo il catecumenato e cerchiamo di incoraggiare la gente a far parte della Caritas, l'unica associazione che ci e' possibile tenere in piedi.
Lavora molto bene e abitua i nostri cristiani all'aiuto reciproco. Ogni associato versa la sua offerta in una cassa comune. Sono tutti veramente poveri, ma si tassano ogni mese, di 5 o 10 franchi, per questo aiuto fraterno.
La seconda domenica di ogni mese poi si radunano e destinano le offerte raccolte ad alcuni poveri veramente bisognosi, scelti senza distinzione di razza o di religione".
E spiega ancora cos'e' il foyer di cui ha fatto un accenno: "Per preparare alla vita le adolescenti e' stato istituito il foyer sociale, diretto dalle suore. Ci sono quattro giorni di insegnamento, in due gruppi distinti, ogni settimana. Il programma comprende religione, lettura e scrittura, igiene e formazione umana, preparazione della donnacon cucito, cucina e lavanderia. E' in programma anche un breve corso di agricoltura, che mira soprattutto alla preparazione e alla coltivazione di un orto familiare. Purtroppo, data la ristrettezza degli ambienti e del personale, non e' stato ancora possibile accettare tutte le domande ricevute".
Sempre nello stesso articolo, padre Maule spiega ancora che "per risollevare dalla miseria queste popolazioni e aiutarle a progredire sulla via di un sano progresso abbiamo dato vita ad alcune cooperative. Le prime esperienze in questo campo sono molto positive, sia per i frutti che si raccolgono, sia per la collaborazione che la gente del luogo da'. Pare che comincino a rendersi veramente conto della utilita' di unire le forze per progredire insieme. La cooperativa che fino ad oggi ci ha dato le maggiori soddisfazioni e' stata quella della pesca. Il lago Tanganika e' molto pescoso e gli sforzi congiunti dei cristiani ci hanno permesso di migliorare i mezzi di cui disponiamo e hanno gia' dato a parecchie famiglie una casa migliore e una vita piu' serena. Speriamo di ottenere presto l'autorizzazione dello Stato a sviluppare maggiormente questa e altre attivita', come riparazioni di orologi, radio, macchine da cucire...".

ALLA SCUOLA DEL FONDATORE

Evangelizzazione e promozione umana: padre Ottorino Maule prende alla lettera le nuove parole d'ordine della Chiesa post-conciliare, anzi le realizza prima che siano pronunciate e codificate in tanti documenti. Poco piu' che trentenne ha gia' ben chiaro cosa vuol dire fare il missionario alle soglie del Duemila. Viene dalla scuola del Conforti, il vescovo che quasi un secolo prima ha lanciato i suoi figli spirituali, nel nome di san Francesco Saverio il grande apostolo della missione,nell'avventura della testimonianza del Vangelo ai popoli che ancora non lo conoscono. Dal fondatore aveva imparato che "la sovranita' di Cristo non si limita al santuario della coscienza, all'ambito della famiglia, ai confini di una nazione, essa si estende a tutto il mondo; essa trascende tutti i diritti nazionali, tutte le ragioni di stato, tutte le esigenze politiche. A Lui dal Padre suo celeste furono date in eredita' tutte le genti". E nello stesso discorso pronunciato a Palermo nel 1924 e che aveva avuto un plauso scritto anche da Mons. Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, Conforti aggiungeva: "Milioni di fratelli soffrono sete di giustizia, di verita', di pace, di amore". E ancora: "In questo mondo egli (Gesu') si trova non solo nell'Eucaristia, ma ben anche nella persona dei poveri, degli afflitti, dei derelitti". E' lo stesso mandato di Gesu' ai dodici: "Andate, predicate, guarite". Venti secoli dopo il giovane Ottorino Maule fa proprio cosi', fa ancora cosi'. Cambiano i gesti e le parole, ma il messaggio e' sempre quello risuonato un giorno nelle contrade della Palestina.
Continua don Marangone, sullo stile umano e missionario di padre Maule: "Penso a quegli anni come alla maniera ideale di fare comunita'. Persone che mettono a disposizione una dell'altra esperienza, riflessione, tempo, fede. Si comunicava: cioe' le idee passavano dall'uno all'altro, senza competizioni. Eravamo capaci di parlare per cinque ore di seguito: alla finenon erano le idee di partenza ne' dell'uno ne' dell'altro che facevano prendere le decisioni. Erano decisioni nuove, generate dalla comunione, col contributo di ricerca, passione, interesse degli interlocutori. E dopo aver preso le decisioni insieme, ognuno operava nel campo della sua responsabilita' senza interferenze. Era capace di donarsi, capace di sorridere, capace di amare; ma in maniera virile, cioe' nell'assumersi responsabilita', nel prendere decisioni soppesate e maturate da tutti, nello stimolare ognuno ad assumersi le proprie senza sostituirsi alle altrui, sia della gente che dei confratelli. Bonario, pacato, riflessivo, colto: parlare con lui era arricchirsi. Parlargli era un piacere. Sapeva ascoltare". A fine ottobre del 1975 chiedono a padre Maule di andare per un po' ad aiutare la missione di Murago. Da li', dopo quattro mesi - febbraio 1976 - lo mandano a fare il responsabile di quella di Rumeza, sua prima sede nel 1971. I suoi collaboratori sono i confratelli padre Giuseppe De Cillia e padre Sergio Marchetto e il missionario fidei donum trentino don Ruggero Fattor.
Ci resta tre anni.

UNA MISSIONE, 140 COLLINE

Non si sa granche' di quel periodo. C'e' una sua lettera al Superiore generale del 1° aprile 1978 nella quale fa un po' il bilancio dell'esperienza: "A Rumeza va bene, e i due anni passati qui sono volati via. Con padre Bepi De Cillia e donRuggero si lavora molto e di comune accordo.
Don Ruggero e' stato preziosissimo e impegnatissimo. Padre Bepi, poi, lo conosci bene: safari e costruzioni non gli lasciano un momento libero. Nel 1977-'78 ha seguito la costruzione di quattro scuole a Rukina, quattro a Kizuga, una chiesa a Gasaro nuova succursale (verso Muyama) e tanti altri lavoretti. Per quest'anno vorremmo dare inizio ad un settore a parte della parrocchia con centro a Kanyiunya. La zona si e' sviluppata molto in questi ultimi dieci anni: ci sono 6000 cristiani, circa 750-800 catecumeni e tante famiglie giovani. Non si tratta di una nuova parrocchia, non spaventarti! Vorremmo costruirvi una casetta decente e poi, con l'aiuto della gente e di qualche anima buona, qualche sala per riunioni, animazione sociale, sperando di farvi arrivare anche le suore, almeno per qualche giorno al mese. Per la fine di aprile speriamo di terminare i ritiri pasquali al centro e nelle succursali, per iniziare poi il giro delle comunita' sulle colline, che sono attualmente 140. Buona parte del nostro lavoro e' speso per la formazione dei responsabili di tali colline, nel visitare le comunita' e preparare le loro riunioni mensili. Vediamo che ne vale la pena. C'e' un buono spirito nella gente e, dove i manama funzionano, le comunita' vanno bene. Si rendono piu' indipendenti e cosi' tante cosette le risolvono tra loro senza venire sempre qui.
Qui viene qualcuno di tanto in tanto, quando sulla collina o alla succursale nonsanno che fare. Speriamo di avere imboccato la strada giusta. C'e' il pericolo che dando responsabilita' sia piu' difficile imporre soluzioni (quasi impossibile) o correggere deviazioni, ma vale la pena correre il rischio e fare si' che prendano in mano la vita della loro comunita'. Scusami se ti faccio perdere tempo prezioso con le mie chiacchiere: volevo solo dirti in breve cosa facciamo a Rumeza dove ti ricordano ancora, soprattutto a Horezo dove la chiesa che hai costruito tiene ancora. Quello che desidero e' di poter continuare in questo lavoro che mi fa sentire al mio posto e utile alla Chiesa".

COME UNA CROCE: IL RIENTRO

Teme che lo richiamino in Italia, padre Maule. Accade sei mesi dopo. Risponde cosi' il 1° novembre '78 al padre Trettel della Direzione generale: "Ho ricevuto giorni fa la tua lettera e i due numeri di Comunicazioni. Ho portato tutto con me in succursale e oggi pomeriggio mi sono divertito a leggerne un po' in fretta il contenuto. E' come leggere cose a cui non si pensa mai, che interessano gli altri, lontane, lontanissime, e che sono cosi' complicate da far perdere il filo. Mi sento completamente estraneo, abituato come sono a problemi piu' semplici, a esprimermi in un linguaggio abbordabile per i nostri semplici cristiani.
I miei problemi formativi - e ne ho - sono totalmente diversi: formazione dei catechisti, di animatori delle piccole comunita' (le nostrecolline) e dei vari Movimenti.
E poi ci sono i safari. Mi chiedi del mio rientro.
Non ci penso mai e continuo per la mia strada.
A dire la verita', ci penso di tanto in tanto, ma come qualcosa che verra' a rompere un lavoro e che sara' una croce.
E siccome non ho bisogno di aggiungere croci a quelle che ho gia', cerco di continuare nel lavoro come se non ci fosse nulla che lo interrompera'. Ora poi che padre De Cillia e' in vacanza siamo in due a tirare la carretta, don Ruggero Fattor e il sottoscritto. Ciao, allora, e buon lavoro!". La croce gli arriva addosso ad aprile del 1979. Deve tornare in Italia. Obbedisce. E' gia' in patria da due mesi quando viene espulso dal Burundi: e' tra i settanta missionari cacciati dal dittatore Bagaza.
I superiori l'hanno richiamato per affidargli la formazione dei giovani futuri missionari. Va a Zelarino, presso Venezia, insegnante per l'anno scolastico 1979-'80, rettore dall'81 all'84. Ma il suo cuore e' rimasto in Africa. Il Superiore generale gli scrive il 2 aprile 1982: "Ti spero bene e sempre al tuo lavoro, che non e' facile, e cheso che tu stai facendo molto bene. Sento echi favorevoli a destra e a sinistra. Il tuo impegno e il tuo lavoro, fecondati dalla lontananza certamente dolorosa dalla missione, vanno a beneficio della santa Chiesa molto prima che dei Saveriani. Sentiti quindi al tuo posto nell'attivita' missionaria anche se sei a Zelarino, invece che in missione".
30 aprile 1984: padre Ottorino Maule viene eletto dai confratelli Superiore Regionale d'Italia, cioe' responsabile di tutti i Saveriani e di tutte le comunita' del Paese. Alla scadenza del mandato, nel 1987, e' rieletto per un secondo triennio. In quei sei anni visita, incoraggia, conforta e ammonisce.
Non sono tempi facili: "La situazione sociale e religiosa dell'Italia - spiega padre Renato Trevisan - stava mettendo in crisi gli ambienti tradizionalmente ricchi di vocazioni.
Si viveva nell'incertezza. Le case di formazione andavano svuotandosi. Era realmente difficile gestire quella nuova situazione, cercare non solo il rinnovamento delle strutture, ma anche quello delle persone che fossero disposte a lavorare in quelle condizioni. Qualcuno definisce quegli anni come il periodo della decadenza nell'impegno missionario-vocazionale a tutti i livelli. Padre Ottorino percorre l'Italia da cima a fondo, partecipa alle programmazioni delle comunita', incontra i confratelli, propone, discute, e, qualche volta, proprio per il suo carattere deciso, trova anche delle opposizioni.
Chi lo conosce sa della sua rettitudine e non si meraviglia se, dopo una discussione anche accesa, egli ritorna con estrema facilita' alla serenita', distinguendo sempre la persona dal problema". Aggiunge padre Marini, Superiore generale: "Pochissimi avevano come lui la capacita' di una lettura rapida e precisa delle situazioni, di trovare la soluzione appropriata e di portarla a compimento con decisione e coerenza".

PER FEDELTA'

Esaurito il mandato, il 26 aprile 1990 padre Ottorino Maule e' destinato di nuovo alla missione, di nuovo al Burundi. Passa un anno di studio a Parigi. Poi, il 7 settembre 1991, arriva a Buyengero. Ha quarantanove anni.
Gli domanda prima della partenza un giornalistadella Voce dei Berici: "Perche' torna in Africa alla sua eta'? Perche' non resta qui, dove c'e' tanto da fare?". E lui: "E' cio' che mi chiedono in molti.
La risposta e' semplice: nella Chiesa ci sono tante vocazioni. La mia e' quella di partire, di annunziare Cristo altrove dove non e' ancora conosciuto, dove la Chiesa e' ancora agli inizi o non esiste, di testimoniare tra quelle popolazioni l'amore di Cristo, vivendo con loro, condividendo gioie e sofferenze. Riparto con un atteggiamento di spirito diverso da quello di ventuno anni fa: allora avevo l'entusiasmo della giovinezza, ora invece e' per fedelta' alla vocazione missionaria che ho chiesto di riprendere il cammino". Abbiamo deciso di restare con voi, dira' al ragazzo burundese quattro anni dopo. Ecco perche': per fedelta'.
Fino alla morte, fino al martirio, se necessario. Con lui a Buyengero c'e' padre Modesto Todeschi. Che fa questo bilancio della presenza di padre Maule: "Ripensando e direi meditando sugli anni passati con padre Ottorino nel campo della formazione, prima quando era Superiore regionale in Italia e poi come suo collaboratore per quattro anni in Burundi, sento che e' stato un dono grande. Mi manca per la sua serenita' anche nelle situazioni piu' drammatiche, per la sua stima-amicizia sincera che esprimeva con una delicatezza tutta sua e una finezza che lo caratterizzava. Sono stati anni vissuti in una santa emulazione nello zelo pastorale, nell'amore alla gente, nella gioia di celebrare con loro, nell'essere disponibili il piu' possibile ed utili anche socialmente. Era unico per quanto riguarda la capacita' di organizzare anche i lavori materiali, con le e'quipe che sapeva formare da maestro pur non essendo costruttore. Ha avuto certamente unrecord assoluto in tutta la storia della Chiesa cattolica in Burundi per aver costruito in pochi anni sia la chiesa parrocchiale che le altre nove delle succursali, e inoltre aule scolastiche, dispensario, strade, ecc.
Viene da pensare che un'attivita' cosi' intensa l'ha voluta realizzare perche' sentiva che aveva poco tempo da vivere. Io mi dicevo spesso che non poteva resistere fisicamente ed infatti ne aveva risentito. Aveva molto buon gusto nel preparare e discutere i piccoli o grandi progetti delle diverse opere. Li disegnava con precisione come fosse stato un architetto, si appassionava nel completarli, abbellirli e rifinirli. Sono e saranno certo il ricordo piu' duraturo, o meglio, il piu' visibile. Ma era soprattutto un organizzatore intelligente e tenace della pastorale. Curava la preparazione dei formatori, e cioe' dei catechisti impegnati nell'alfabetizzazione (una ventina), di quelli domenicali per gli scolari (una novita' studiata e realizzata insieme: sono 120 e piu'), dei diversi responsabili dei movimenti di Azione Cattolica. Organizzavamo tre sessioni di due giorni ciascuna in tre periodi dell'anno. Passavano cosi' al centro 340-350 fra giovani e meno giovani. E' stata l'opera piu' importante gia' sperimentata da lui a Rumeza nei tre anni passati la' dal '76 al '79. Importantissima e capillare poi fu l'impostazione delle comunita' di base e delle succursali, come aveva fatto anni prima a Rumeza. Quando arrivo' a Buyengero trovo' 9 succursali: alla sua morte ne lascio' 20, tutte con la loro chiesetta e scuoletta in mattoni, con le fondamenta e i pilastri in cemento.
Ne andavamo fieri, anche se ci erano costate tanto lavoro, perche' avevano trovato la collaborazione entusiastica da parte della gente".

FORMARE LEADERS

Per fedelta', padre Ottorino Maule ormai cinquantenne si lancia senza riserve nella nuova avventura missionaria nel Burundi, dall'odio e dalla poverta' che sembrano irredimibili. E nel marzo del 1992 puo' gia' scrivere al Superiore generale: "Sono arrivato quasi sei mesi fa e mi sento ormai a mio agio e abbastanza reinserito nel nuovo ambiente: nuovo permodo di dire, perche' ho incominciato a conoscerlo piu' di vent'anni fa. Ero un po' preoccupato prima di venire e mi domandavo come sarebbe stato l'impatto con la realta' africana dopo tanti anni di assenza. E' stato piu' facile del previsto, eccetto la lingua che non e' ancora ritornata del tutto, ma riesco ad esprimere tutto quello che voglio e a tenere le sessioni di formazione. La nuova parrocchia del Buyengero, dove mi trovo col padre Modesto, sta organizzandosi e prendendo la sua fisionomia. Ha poco piu' di un anno di vita e sta crescendo anche come territorio. Proprio in questi giorni una parte della parrocchia di Rumonge e' venuta a completare il territorio della nostra missione. Ci siamo dati un programma di massima e le mete che vorremmo raggiungere d'accordo con il vescovo che e' venuto in visita pastorale nel mese di novembre. Ecco il programma: rilancio delle comunita' di collina. Pensiamo di visitarle tutte durante la stagione secca, per ora abbiamo incontrato i responsabili. Formazione dei leaders, dei responsabili dei movimenti e dei ministeri, nel tentativo di moltiplicare i ministeri all'interno della comunita' cristiana perche' diventi sempre piu' soggetto responsabile di se stessa. Attenzione alla gioventu', in particolare agli scolari. Anni fa avevamo corsi molto seguiti di alfabetizzazione, ora si sono moltiplicate le scuole elementari e la maggioranza dei ragazzi le frequenta.
Per assicurare la loro formazione religiosa, dato che la mezz'ora settimanale di religione che ricevono a scuola ci sembra insufficiente, abbiamo lanciato la proposta, accolta dai genitori e da un buon gruppo di cristiani, di far dare loro una lezione di catechismo da catechisti volontari alla domenica, dopo la messa o dopo il servizio domenicale.
Ne abbiamo un numero sufficiente (112), due a due per classe in ogni succursale (uno per i ragazzi e una per le ragazze). Ora si tratta di seguire e formare questi nuovi catechisti, ma la cosa, iniziata dopo le vacanze di Natale, sembra prendere piede ed essere avviata bene. Per la formazione dei responsabili abbiamo gia' tenuto tutta una serie di sessioni (10) che ci hanno visti impegnati per cinque settimane tra gennaio e febbraio con un totale di 394 partecipanti.
Un buon numero di partenza. Non mancano evidentemente le altre attivita' normali. Vorremmo pero' incentrare i nostri sforzi sulla formazione dei leaders e, al tempo stesso, far si' che le comunita' diventino missionarie, attente ai non cristiani ancora numerosi in questa regione dove i cattolici sono solo il 30% circa dell'intera popolazione e dove fioriscono Chiese e sette."

CASA MIA, LE LORO CASE

Il lavoro non manca e mi trovo veramente bene.
C'e' sempre l'interrogativo dell'avvenire, soprattutto di quello politico, come il prossimo referendum sulla Costituzione, le elezioni politiche e amministrative che seguiranno, la democratizzazione del Paese. Sono ottimista e credo che tutto si risolvera' bene. Dal lato sviluppo, almeno nella nostra regione, la gente si da' da fare per migliorare l'habitat, ottenere acqua potabile, migliorare l'agricoltura, anche se la poverta' rimane sempre tanta. Ho poi trovato la Chiesa locale di Bururi totalmente cambiata. Il clero locale si e' rafforzato ed ha in mano l'organizzazione della diocesi e la direzione della maggioranza delle parrocchie. A prima vista si potrebbe dare ragione a quanto scrivete nella relazione della visita fatta dal 3 al 15 gennaio 1992: Nel giro di pochi anni i preti locali prenderanno il nostro posto, ma di fatto non e' ancora cosi' immediata la realizzazione della vostra convinzione. E' chiaro che il clero locale e' in aumento, ma e' ancora insufficiente e il vescovo monsignor Bududira stesso sta cercando altri preti (in Zaire, mi diceva ultimamente) perche' ci sono parrocchie scoperte, altre con personale insufficiente e zone non ancora evangelizzate. Da noi poi solo un terzo della popolazione e' cattolico eci sono le comunita' cristiane da costituire. I danni del periodo Bagaza si notano: mancanza di formazione, defezioni, relativismo religioso. Ci sono poi tante cose da fare: traduzioni, sussidi, formazione... e non tutti sono all'altezza di poterlo fare. Non va dimenticato infine il senso profondo di una nostra presenza missionaria, che tenga viva in questa Chiesa l'urgenza dell'evangelizzazione dei non cristiani qui e altrove".
Il 16 ottobre del '92, sette mesi dopo, padre Maule scrive ancora al Superiore generale e gli confida la sua gioia: "Ad un anno abbondante dal mio arrivo mi sembra di vedere la benedizione di Dio sul nostro lavoro e di aver portato avanti le priorita' fissate dal vescovo per questa parrocchia. Da mesi ormai stiamo visitando le 86 piccole comunita' che la formano. Finiremo la settimana prossima perche' il programma e' stato ritardato dalle misure prese in occasione dell'epidemia di meningite. Sono incontri indimenticabili: cinque-sei ore passate insieme (preghiera, Parola, scambio di riflessioni, Penitenza, Messa e pranzo comunitario). Queste visite ci permettono di incontrare la gente nelle loro case o nei luoghi della riunione mensile. Inoltre, non poche volte, vi partecipano battezzati che hanno abbandonato la Chiesa o vivono ai margini della comunita'. Cosi' ci sentiamo missionari e non solo pastori del gregge affidatoci. La gioia della gente e' tanta, e' la sagra della comunita' cristiana della collina. Quando, finiti gli incontri, ci prepariamo ad andare in un'altra comunita', ringraziandoci ci chiedono di tornare l'anno prossimo".

NON SOLO PASTORE

Ha il chiodo fisso della missione padre Maule. Non vuol essere solo pastore, ma missionario. Il pastore guida il suo gregge, il missionario va in cerca di tutte le pecore. Lui ha quest'ansia nel cuore. Testimonia il confratello padre Mario Pulcini che ha vissuto con lui per qualche mese: "Padre Ottorinoamava il Burundi e la gente e tutto il tempo che aveva lo dedicava a loro. Incominciava la giornata al mattino presto e la concludeva alla sera tardi, dopo innumerevoli attivita' e molteplici incontri. Sembrava temesse di non avere tempo sufficiente per fare tutto quello che aveva in testa.
E di cose ne aveva sempre tante! Si faceva fatica a conoscerle tutte, e forse nemmeno lui le programmava.
Aveva un dono particolare nel saper leggere i piccoli e grandi fatti che succedevano e, di conseguenza, inventare nuove iniziative e nuovi progetti. Forse e' esagerato dirlo, ma, secondo me, aveva qualche cosa del profeta, del vero profeta che non si accontenta del poco che si puo' realizzare, ma, a suo rischio e pericolo, cerca nuove strade e nuove esperienze per rendere sempre vera e coraggiosa la presenza della Chiesa tra la gente". Evangelizzazione e promozione umana: i due compiti del missionario.
Ma lui ripete ai corsi di formazione per catechisti e animatori: "Prima la pastorale, poi il sociale". E i frutti di quest'idea si vedono: "Catechisti, capi comunita', responsabili di movimenti giovanili e non - elenca padre Pulcini - sono una ricchezza voluta e ottenuta da padre Ottorino con sacrifici, preparazione, dedizione, fiducia negli altri.
Amava incontrare la gente nelle piccole comunita', nelle succursali e sulle colline, nelle loro capanne e all'ombra dei bananeti. Non aveva mai fretta di tornare a casa. Si sentiva a casa sua tra la gente. Parlava volentieri e loro lo apprezzavano e lo amavano".

A MISURA D'UOMO

Giornate piene a Buyengero per padre Ottorino Maule.
Padre Maestrini, suo successore, racconta: "Posso testimoniare l'enorme mole di lavoro sia pastorale che sociale che riusciva a portare avanti, nonostantele sue forze fossero state intaccate da una grave epatite virale che lo costringeva ad una determinata dieta e a rallentare gli sforzi. Non aveva mai tempo per riposare. Saltava da un cantiere all'altro.
Seguiva i falegnami, i saldatori, i muratori, gli idraulici, trasportava materiale per i cantieri e nello stesso tempo non toglieva nulla alla pastorale. Ritiri, preparazione degli incontri, momenti di formazione dei responsabili di comunita' e dei settori della vita cristiana (catechisti, capi comunita', responsabili della Caritas e dei movimenti di Azione Cattolica, responsabili dell'Eucaristia nelle succursali, dei presidenti delle assemblee domenicali, preparazione dei sussidi per le celebrazioni festive, amministrazione dei sacramenti, catecumenato ecc.) avevano sempre la precedenza. Tutta questa mole di lavoro lo occupava fino al punto che diverse volte ci vedevamo solo al mattino e alla sera. Nonostante tutto cio', non dava mai a vedere di essere stanco e aveva sempre quel suo sorriso tanto caratteristico.
Aveva avuto la felice idea di suddividere le varie succursali in comunita' ecclesiali di base a' taille humaine per facilitare loro la vita cristiana. Fu cosi' che pote' ricuperare alla pratica cristiana non pochi che, a causa della lontananza dalla chiesa o per altre ragioni, l'avevanoabbandonata. Il fatto poi d'aver formato comunita' cristiane ad una dimensione piu' umana ci permetteva di andare piu' in profondita' nella formazione e nella catechesi. Si diceva che avesse un carattere un po' duretto ed energico e forse l'avra' anche avuto, ma nel mese che ho passato insieme a lui ho notato solo attenzioni verso di me. Quando tornava dai safari o mi vedeva un po' giu' di corda portava in tavola un buon bicchiere del Gambellara bianco e mi diceva: Bevi che ti tira su".

COSI' FANNO I PROFETI

I profeti hanno tutti un carattere "un po' duretto". Ma il cuore, no. E cosi' padre Maule quando vede un confratello in pena stappa per lui il vino buono. E quando vede i burundesi assaliti dalla fame, dalle malattie, dalla guerra e dall'odio si china a curarne le ferite poi indica loro la strada della pace, della giustizia, della liberta', del progresso.
Cosi' fanno i profeti. Cosi' fa lui, come ricorda padre Mario Pulcini: "Padre Ottorino sapeva fare di tutto. Non aveva fatto il muratore, ma ha formato muratori, non aveva fatto il falegname, ma ha formato falegnami e cosi' per tanti altri mestieri. Portava avanti diversi cantieri, proprio per la capacita' organizzativa e per l'intelligenza che lo assisteva. Formava gente capace di lavorare da sola e lui seguiva e consigliava. Le costruzioni realizzate nei quattro anni della sua permanenza a Buyengero sono scuole, chiese, dispensari, centri di formazione per ragazze ecc. Sono strutture semplici, costruite con la collaborazione e partecipazione entusiasta della gente e con l'aiuto di innumerevoli amici italiani. Non ha costruito niente che oggi la gente locale non sia in grado di gestire e portare avanti senza difficolta'. Anche questo e' segno di grandesenso pratico. Ma soprattutto voglio sottolineare che in questi quattro anni di costruzioni egli ha dato la possibilita' di lavorare, imparare, mangiare, avere un futuro a moltissima gente e a numerose famiglie. E penso che questo possa essere uno dei motivi della sua uccisione". La strada del profeta porta spesso al martirio. Padre Maule lo sa. Ma non rinuncia alla profezia. Che per il Burundi vuol dire prima di tutto pace tra le due etnie. Lui aiuta tutti, ma certo gli hutu sono piu' numerosi. E perseguitati. Cosi' per alcuni tutsi diventa un nemico. Da far fuori. Anche perche' lui non tace davanti all'ingiustizia, all'odio, al sangue. Come i profeti della Bibbia alza la voce in difesa dei deboli. Non e' solo un pastore: e' un missionario, e la missione esige di gridare la verita' dai tetti.

ANDARE IN PROFONDITA'

Racconta ancora l'amico don Marangone: "Nel '91 lo vedo arrivare a Buyengero, la nuova missione confinante con la mia, costruita con il sudore ed i soldi del padre De Cillia. Arriva sfiancato dall'esperienza italiana e si mette subito con l'instancabile padre Modesto a visitare una ad una le innumerevoli colline della sua parrocchia: visite che anni prima sarebbero terminate con l'espulsione, ma che anche in anni diversi sono sempre guardate con attenzioni particolari. Fanno un lavoro di animazione straordinario. Nascono gruppi di preghiera, di catechisti volontari, di formazione alla Parola di Dio. E' davvero un cantiere dello Spirito. Con calma, senza chiasso, senza agitarsi troppo, ma con un disegno chiaro e costante, i due padri stanno arando in profondita' il loro campo. E giungono ad una constatazione micidiale: amare significa impegnarsi per gli altri. Impegnarsi significa limitare le ingiustizie, prima di ogni altra cosa. Significa preparare dei cristiani per amministrare la cosa pubblica. Inevitabile a questo punto e' la parola proibita: il cristiano deve fare politica. Quando ho sentito padre Ottorino pronunciare questa parola ad una riunione di preti a Bururi, ho avuto paura". Lui,invece, non ha paura di parlare di politica. Sogna la nascita di un partito che rappresenti e difenda la maggioranza perseguitata. "Se in un Paese un gruppo forma l'85% della popolazione, quel Paese e' suo", dice una volta. Idee rivoluzionarie. Anche per una Chiesa intimorita come quella burundese. Padre Maule spera nelle prime elezioni democratiche del giugno 1993, alle quali partecipa come osservatore, cioe' controllore del loro regolare svolgimento. Naturalmente vince la maggioranza hutu. Ma tre mesi dopo si ripiomba nel caos: assassinato il Presidente della Repubblica, riprende la guerra civile, i morti sono 100.000, diverse centinaia di migliaia i profughi. Nel '94 viene eletto e subito ucciso un altro Presidente hutu. E scorre anche il sangue di preti e suore, che l'ex dittatore Bagaza tornato dall'esilio ricomincia a perseguitare.

CHIESA NON SOLO DI MATTONI

Padre Maule costruisce la chiesa parrocchiale di Buyengero. "Quella fu opera totalmente sua - ricorda don Marangone - dal progetto alla realizzazione, dall'impasto dei mattoni all'ultima rifinitura, dalle campane al crocifisso: tutto e' nato dal suo cuore e dalla sua fede. Un'epatite A sembrava volerlo fiaccare. Semplicemente, quando aveva crisi, specie di stanchezza, si fermava in attesa che passassero per poi riprendere con la sua metodicita'". Ma c'e' un'altra Chiesa che vuol costruire, nelle coscienze e nei cuori dei burundesi. Per questo e' li', missionario e profeta, per questo dice a quel giovane: Abbiamo deciso di restare con voi. Anche a prezzo del martirio. Restare in Burundi vuol dire schierarsi dalla parte dei deboli. Contro i prepotenti e i violenti. Dalla parte della giustizia e della pace, contro l'ingiustizia e la guerra. "Quando i militari commettevano qualche ingiustizia - ricorda padre Todeschi - noi non facevamofinta di niente, ma andavamo a chiederne spiegazione e questo li urtava. Varie autorita' militari, sapendo che eravamo chiari e non lesinavamo critiche, ci avevano presi di mira e cercavano di tenerci buoni. Una frase che padre Ottorino diceva spesso come uno slogan pesava loro terribilmente: Volete la pacificazione?, togliete i militari, la gente di qui non ha ucciso nessuno, se ci sono stati dei morti e' stato solo per opera dei militari". A novembre del '94 c'e' un'assemblea sulla pacificazione. Padre Maule e' presente e ripete le sue accuse all'esercito. Da li' parte un appello al Presidente della Repubblica perche' sposti i soldati. Quarantott'ore dopo a un posto di controllo fermano padre Maule e padre Todeschi. Li fanno scendere, perquisiscono la macchina, la tirano per le lunghe. Passa qualche giorno, padre Maule sta trasportando un ragazzo malato alla missione. I militari lo fermano, trattengono il ragazzo, lo bastonano fino a farlo impazzire. La notte tra il 14 e il 15 novembre, uccidono cinque mandriani, tra cui due giovani tutsi, figli di un soldato.
Per mascherare l'accaduto, rastrellano e uccidono quindici uomini. E raccontano alla radio una storia di comodo: c'e' stato un attacco di terroristi, nello scontro sono caduti anche i due giovani figli del militare. I padri non stanno al gioco: "Sostenemmo che potevamo testimoniare che non c'era stato nessun attacco e nessun combattimento, ma che erano stati uccisi degli innocenti", dice padre Todeschi.

TROPPO BRAVO, ATTIVO, GENEROSO

Passano altre quarantott'ore e i militari tengono una sorta di processo ai padri, assenti perche' non invitati. Ce l'hanno soprattutto con padre Maule. Si chiede la sua espulsione al governatore di Bururi. Nessuno lo difende. Ma non succede niente e torna la calma. Ricorda ancora padre Todeschi: "Con il padre Ottorino si parlava abbastanza spesso dell'eventualita' di una vendetta. Ci si scherzava sopra. Eravamo d'accordo che se questo fosse successo si preferiva essere sepolti poveramente come i burundesi". Perche' tanto odio contro padre Maule? Perche' accanirsi contro un profeta della pace? Si potrebbe semplicemente rispondere: e'nelle cose. Non puo' che essere cosi'. Prendere sul serio il Vangelo in una terra come quella vuol dire finire, prima o poi, nel mirino dei signori della guerra. L'ha detto chiaro Gesu' ai discepoli: "Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi". Ma padre Maule ci ha messo del suo. Spiega padre Todeschi: "Puo' darsi che l'impatto della sua attivita' sociale abbia dato fastidio a qualche personaggio locale. Il suo dinamismo straordinario per la costruzione di scuole, chiese, il dispensario di Muzenga, i ponti, la strada di Zingati, la vendita delle lamiere per i tetti, se per un verso era encomiabile perche' rassicurava, dava lavoro ed era segno evidente di progresso, per un altro verso poteva essere visto di malocchio, specialmente per le opere non strettamente religiose, perche' poteva togliere a qualcuno che sapeva i trucchi del mestiere l'occasione di fare lauti affari". Insomma, padre Maule e' troppo bravo, attivo, generoso. E' anche un duro, un uomo coraggioso. Va fatto fuori, prima o poi.

CON LORO, UNA LEONESSA

A meta' gennaio del 1995 padre Modesto Todeschi, che e' anche Superiore regionale dei Saveriani del Burundi, si trasferisce a Bujumbura, la capitale. A sostituirlo arriva un friulano sessantacinquenne, un po' acciaccato e stanco, ma pieno di voglia di fare. E' padre Aldo Marchiol, da diciassette anni in Burundi.
Coi capelli bianchi, il dolce sorriso e gli occhiali dalla montatura pesante, viene a condividere gli ultimi nove mesi di vita di padre Maule. Insieme a loro c'e' la volontaria laica dell'associazione LVIA di Cuneo, Catina Gubert, "una leonessa" la definisce in una lettera padre Maule, settantatreenne, nata a Fiera di Primiero in provincia di Trento l'8 dicembre 1921. Lei pure ha i capelli bianchi e il sorriso pronto. Lei pure dice a parenti e amici: "Se muoio, lasciatemi laggiu'". Una breve parentesi in Italia, nel maggio 1995, per il XIIICapitolo generale e centenario dell'Istituto saveriano, un saluto all'anziana mamma, che sara' l'ultimo, e padre Ottorino a luglio e' gia' di nuovo in Burundi. Il 21 agosto e' riunito con i confratelli a Bujumbura ad affrontare il tema "Perche' restare?". Ma quel titolo non gli piace e lo dice subito: "E' sbagliato mettere il punto interrogativo. Non dobbiamo mettere in discussione se restare, ma solo il modo di restare". E confida a un amico: "E' vero. Una sana igiene mentale consiglierebbe ogni tanto di staccare la spina, di uscire dal Paese e, per un po' di tempo, di pensare ad altro. Ma come si fa? Loro non possono permetterselo, perche' dovremmo permettercelo noi?".

"NON C'E' PERDONO PER IL BENE"

Abbiamo deciso di restare con voi. La scelta e' fatta. Consapevole. Padre Maule sa di essere in pericolo. Tuttavia all'amico don Marangone che lo avverte: "Guarda che non te la perdoneranno mai, il male puo' essere perdonato, ma non c'e' perdono per il bene che hai fatto e la verita' che difendi", risponde con quelle parole: "Quando sentirai che mi hanno ucciso, dirai un requiem per me". Mancano appena due mesi al martirio. Poi restano solo le sue lettere. In quell'estate scrive spesso ai familiari, quasi ogni giorno. Una sorta di testamento spirituale a puntate. Racconta di se', della pace e della guerra. "La salute va bene, a parte i soliti problemi, ma basta non farci tanto caso" (15 agosto). "La situazione e' quanto mai fluida e incerta. Qui da noi va benissimo e i militari presenti fino a qualche giorno fa si sono comportati molto bene.
Ora dovrebbero arrivarne dei nuovi e speriamo che siano come gli altri. A Bururi ho incontrato il comandante della Regione Sud del Paese e gli ho detto di raccomandare ai nuovi soldati il rispetto della popolazione. Speriamo bene" (20 agosto). "Altrove ci sono sempre storie, distruzioni e morti" (27 agosto). Il 3 settembre ricorda i 25 anni dalla sua prima partenza per il Burundi e commenta: "Come passano in fretta!". Nella stessa lettera scrive che "Catina diceche non finisco mai niente, che dovrei fare una cosa alla volta: ma come si fa? Bisogna pure seguire i ritmi della nostra gente e fare quando e' possibile". 15 settembre: "In questo paio di settimane ho avuto sempre tanto da fare in tutti i campi: pastorale e materiale... Nei ritagli di tempo al mattino e alla sera ho trasportato legna per cuocere piu' di 47.000 mattoni... Mi si chiudono gli occhi anche per la stanchezza dei viaggi e delle camminate". Quando la situazione del Paese pare peggiorare commenta: "Non ci rimane che sperare contro ogni speranza". L'ultima lettera alla famiglia e' del 22 settembre. C'e' qualche segno di apprensione: "La vita procede come al solito, con tante attivita' e non mancano gli imprevisti quasi sempre dolorosi, frutto della guerra che continua, dei soprusi, dei delitti". Ma le ultime parole di quell'ultimo scritto sono di amore e di speranza: "Comunque, coraggio e fiducia nel Signore.
A tutti voi, vicini e lontani, i miei piu' affettuosi saluti e auguri di ogni bene". Nessuno lo sa, ma e' il suo addio. La lettera arriva a Gambellara il 30 settembre 1995. Mentre padre Maule muore. Vengono tre soldati, prendono lui, padre Marchiol e Catina, li fanno inginocchiare, sparano a bruciapelo. Dolore e strazio ai funerali, con vescovi, tanti preti, autorita' civili. Spesso ai profeti tocca il martirio. Cosi' e' accaduto anche a padre Ottorino Maule, morto a 53 anni per amore del Burundi. "Dirai un requiem per me", aveva chiesto all'amico: tanti hanno pregato e pianto per lui. Forse, chissa', il suo sangue portera' la pace. Sara' la sua vittoria. Secondo la parola del beato Conforti, esempio e guida di padre Maule: "E voi pure, vinti in apparenza, sarete alla fine vincitori". Adesso padre Ottorino, con padre Marchiol e Catina, e' sepolto davanti alla chiesa di Buyengero, la sua chiesa. "Abbiamo deciso di restare con voi", ha detto un giorno. E' stato di parola.

RENZO AGASSO



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