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MARTIROLOGIO CISTERCENSE

I tre Padri Fondatori dellÂ’Ordine Cistercense:
San Roberto di Molesme, Santo Stefano Harding, SantÂ’Alberico

 

 

 

 

 

 

 

San Roberto di Molesme 

Incisione

 

 

 

 

La nascita di Roberto avvenne con tutta probabilità tra gli anni 1028-1029. Ancora adolescente entrò nellÂ’abbazia di S. Pietro di Celle, dove nel 1050 ca. fu nominato priore claustrale. Stimato per la santità della vita,probabilmente dopo il 1068, i monaci di S. Michele di Tonnerre lo vollero loro abate, ma egli li lasciò presto perché riluttanti ai suoi tentativi di riforma. Nel 1073 fu richiesto dai monaci di S. Aigulfo, che erano rimasti senza priore. Con lui la fondazione dellÂ’abbazia di Molesme avvenne alla fine del 1075. Grandissima fu la sua devozione alla Madonna. Spirò nel 1111, nella serenità del Signore, dopo tante fatiche e lotte per un ideale di santità monastica che avrà il suo trionfo in Cistercium, ma che lui, il fondatore, non poté vedere. 
LÂ’Abate Roberto era assecondato da alcuni fedeli animati da vero zelo, tra i quali S. Alberico (+1108) che nominò priore claustrale e, a sua volta, fiancheggiato dal monaco inglese S. Stefano Harding (+1134). Tutti e due furono i suoi seguaci nella guida di tanti monasteri e risolsero  tante difficoltà insieme.

 

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S. Bernardo da Chiaravalle

 

MARTIRI CISTERCENSI BEATIFICATI

 

B. PIETRO DI CASTELNAU 

 

 

 

 

 

 

Arcidiacono della chiesa di Maguelonne, Pietro fece professione nel monastero cistercense di Fontfroide, vicino a Narbonne.  

Nel 1203 venne designato dal papa Innocenzo III come suo legato nella crociata contro gli albigesi. Le difficoltà straordinarie dell'impresa, tra le folle ribelli, la nobiltà piena di diffidenze e i tiepidi prelati, sembrarono esaurire le energie di Pietro, che pregò il papa di permettergli di ritirarsi nella solitudine di Fontfroide. Ma questo permesso non gli venne concesso: " Rimanga dov'è, gli scrisse Innocenzo, in questo momento l'azione è migliore della contemplazione".  

Tuttavia quest'opera richiese presto degli aiuti efficaci e il sommo pontefice chiese a Diego, vescovo di Osma, e ad un suo giovane canonico, Domenico di Guzman (il futuro fondatore dell'Ordine dei predicatori) di collaborare con i cistercensi. Il 15 gennaio 1208, Pietro venne assassinato con un colpo di giavellotto, mentre si preparava ad attraversare il Rodano. L'opinione pubblica attribuì la responsabilità di questo delitto a Raimondo VI, conte di Tolosa, principale promotore della causa degli albigesi, con il quale Pietro aveva avuto un tumultuoso colloquio il giorno precedente.  

Fissando in volto l'assassino, Pietro disse: "Che Dio ti perdoni come ti perdono io" e, dopo aver lungamente pregato, morì.  

Pochi giorni dopo la sua morte, Innocenzo III lo dichiarò vero martire di Cristo. I suoi resti mortali furono bruciati dagli Ugonotti nel 1562. Pio IX confermò il culto ab immemorabili. La sua festa si celebra il 15 gennaio.  

(Hag.36 / Lekai, I Cist., V, pp. 68-69, Certosa di Pavia 1989 / R. Desreumaux in Bibl. Sanct., 931-32, vol. III)

  

BEATE MARTIRI D'ORANGE

Tableau de Marius Barthelot (1925) - Cathédrale Notre-Dame d'Orange 

Les 32 Bienheureuses Martyres d'Orange 

 

Nell'elenco dei martiri cistercensi figurano due sorelle, tanto secondo la carne che secondo la vita religiosa: Margherita Eleonora e Maddalena Francesca dei nobili di Justamont, che divennero monache del monastero di S. Caterina ad Avignone col nome di suor Maria di S. Enrico e suor del S. Cuore di Maria.

Nel 1790, espulse dal monastero in seguito alle avvisaglie della rivoluzione, trovarono rifugio nel convento delle Orsoline, in cui si trovavano, anch'esse consacrate al Signore, un'altra loro sorella ed una zia materna, con le quali avrebbero in seguito condiviso il martirio.  

Scacciate anche di lì, vissero per qualche tempo tra i disagi e i pericoli della vita nel secolo, continuando ad osservare scrupolosamente e fedelmente la regola, gli usi e tutte le pratiche di pietà del loro stato. Nel mese di maggio del 1794 vennero rinchiuse nel carcere di Orange dove, trasformando la prigione in monastero, moltiplicarono il loro fervore religioso senza venir meno neppure alla più piccola pratica di pietà, per potersi presentare degnamente a Dio, vedendo avvicinarsi sempre più l'ora della morte.  

La beata Maria di S. Enrico, assieme ad altre tre compagne, tradotta dalla prigione al tribunale, si rifiutò di prestare il richiesto giuramento di libertà e uguaglianza, proibito dalla Chiesa e per questo venne condannata come "ribelle e fanatica" alla decapitazione, sentenza che fu eseguita il 12 luglio dello stesso anno. Cantando inni in onore della beata Vergine, salì il patibolo assieme alle compagne di martirio all'età di quarantotto anni.

La più giovane, suor del S. Cuore di Maria, che per la sua angelica carità e pietà veniva chiamata dalle compagne di prigionia "la santa", dopo aver ringraziato i giudici che con il loro verdetto le spalancavano le porte del cielo, seguì la sorella alle nozze dell'Agnello dopo quattro giorni. Aveva pregato per quindici anni la Madre di Dio di concederle di morire in un giorno di festa a lei consacrato. Assieme all'altra sorella, la beata suor del S. Cuore di Gesù e altre quattro religiose Orsoline, fu esaudita, consumando il martirio nel giorno dedicato alla Vergine del Carmelo.  

Con altre trenta religiose di diverse Congregazioni, che avevano sofferto il martirio ad Orange nel 1794, le due sorelle furono proclamate beate da papa Pio XI il primo maggio 1925.

 (Hag.59-60 / Bibl. Sanct., IX, pp. 1219-22) 

 

MARTIRI DEI PONTONI 

 

  
Nelle ore più oscure della rivoluzione francese sacerdoti e religiosi, ormai considerati nemici del popolo, sono inseguiti, arrestati e ammassati nelle carceri dei diversi dipartimenti, prima di essere condotti - spesso con marce forzate - verso la costa, per essere deportati. Questa deportazione nella Guyana per molti di loro non avverrà mai.  

Nella primavera del 1794 soggiorneranno nelle fortezze della Gironda o su delle navi negriere, soprattutto la "Deux Associés" e la "Washington", ancorate nella rada dell'isola di Aix, vicino a Rochefort.  

Su queste navi, "i pontoni", le condizioni di vita sono tali che, in qualche mese, due terzi dei deportati trovarono la morte: 547 morti su 829. 

L'affollamento eccessivo, le fumigazioni mattutine che impestavano le stive invece di purificarle, il nutrimento malsano e insufficiente e, ben presto, il tormento dei pidocchi fecero dei pontoni un vero inferno.  

Il colpo di stato del 9 Termidoro addolcirà un poco quella che sarà chiamata "la ghigliottina secca". Sull'isola Madame verrà rizzato un ospedale di tende, dove moriranno ancora numerosi prigionieri.  

Il 1° ottobre 1995 il Papa Giovanni Paolo II beatificò 64 di questi martiri, fra cui due monaci di Sept-Fons e uno della Trappa, della cui pietà, carità e spirito d'abbandono sono rimaste le testimonianze in diverse relazioni.  

Fra' Elia Desgardin, infermiere a Sept-Fons, dopo la chiusura del monastero si trasferì con la comunità a Montluçon. Il rifiuto di prestare giuramento causò la dispersione dei fratelli. Fra' Elia fu arrestato, imprigionato a Moulins e condotto a Rochefort con il terzo convoglio dei deportati. Detenuto sulla Deux Associés, si prodigò nella cura dei malati, amato e ammirato da tutti. Contagiato, morì a quarantaquattro anni, martire della carità, il 6 luglio 1794 e fu sepolto nell'isola di Aix.  

Don Paolo Charles era priore a Sept-Fons, quando assunse la guida della comunità, perché l'abate in carica si era rifugiato presso la sua famiglia. Con 19 monaci occupò il convento dei Cappuccini di Montluçon, continuando a condurre la vita monastica ed esercitando una tale opera di carità, malgrado le scarse risorse, da attirarsi la riconoscenza della municipalità.  

Il rifiuto di prestare giuramento da parte dei monaci obbligò le autorità municipali ad applicare il decreto di evacuazione delle case religiose, nonostante la stima e l'amore da parte della popolazione.

I monaci si dispersero. Don Paul Charles fu arrestato il 30 marzo 1793 e avviato a Rochefort. Detenuto sulla "Deux Associés", stimato e amato dai compagni di prigionia, morì il 25 agosto 1794 all'età di cinquantun anni e fu sepolto nell'isola Madame.  

Il terzo martire beatificato è Don Gervasio Brunel, morto a cinquant' anni nell'ospedale di tende allestito nell'isola Madame. Colpito da tifo e ridotto agli estremi, morì il giorno stesso dello sbarco, il 20 agosto 1794.  

Il suo calvario fu simile a quello di Don Paul di Sept-Fons: superiore della Trappa dal 1790, si oppose al progetto di Don Agostino di Lestrange, maestro dei novizi, di cercare un rifugio all'estero per condurvi in pace la vita monastica. Col precipitare però degli eventi, Don Agostino fu lasciato libero e la comunità si disperse progressivamente. Espulso con gli ultimi 28 monaci il 3 giugno 1792, Don Gervasio tentò di raggiungere la Svizzera, ma fu arrestato.  

Condannato alla deportazione, fu imbarcato sulla "Bonhomme Richard" e poi trasferito sulla "Deux Associés". In una relazione si fa menzione di lui come di un condannato fra i più conosciuti, religioso fervente, uomo di pietà e di grande virtù.  

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A questi 64 beatificati di vari Ordini, come probabilmente a molti altri condannati deceduti sui pontoni, è forse possibile applicare la dichiarazione pronunciata da uno di loro: “Se noi siamo i più infelici degli uomini, siamo anche i più felici dei cristiani.”   

(Hag. 289-293-294 / Y..Blomme, Les prêtres déportés sur les pontons, ed.Bordessoules 1994 / Chronique de Sept-Fons 1992‑94 / 0sservatore Romano, 1-X-1995: articoli commemorativi) 

 

I martiri del XX secolo

LUIGI GONZAGA BLEY (1865-1904)

In un'isola dell'Oceania che oggi si chiama Nuova Britannia e che apparteneva al vicariato apostolico di Rabaul, moriva nel 1904 fra' Luigi Gonzaga Bley, converso del monastero di Mariastern, in Bosnia-Erzegovina.

Era tedesco di origine e viveva la sua vita religiosa molto fedelmente, con grande spirito di sacrificio, con gioia e molto amore fraterno. Fu inviato con un altro fratello per preparare una fondazione in Oceania.

Era provvisoriamente ospite dei missionari del luogo e stava lavorando come falegname per portare a termine una cappella nella stazione missionaria di S. Paolo, quando avvenne un assalto da parte degli indigeni canachi, sobillati da uno di loro chiamato To Mari, già cristiano, di cui il superiore della missione, p. Matteo Rascher, cercava di impedire l'adulterio. Luigi Gonzaga fu ucciso assieme a due padri del S. Cuore, a due fratelli coadiutori e a cinque suore.

L'altro fratello trappista sfuggì alla morte perché assente. Nel 1933 è stata introdotta a Roma la causa di beatificazione di questi dieci martiri.

Ecco come viene descritta la morte di fra' Luigi nell'Informatio del processo di beatificazione: "Fra' Luigi corse in fretta nella casa e chiese ragione dell'assassinio di P. Rascher. Quando To Mari volle prenderlo di mira egli fuggì fino alla vicina vallata. Se avesse voluto avrebbe potuto fuggire verso la costa, ma egli ritornò. Quando To Mari lo prese di mira, Tande, il capo di S. Paolo, si mise davanti a lui per proteggerlo. Ma Tande fu allontanato con violenza e ferito. Allora, quando F. Luigi allontanò dalla sua faccia un pezzo di tavola, ricevette una piena carica di pallini alla faccia. Dopo ciò continuò a camminare in avanti e ricevette un secondo colpo nel fianco, e cadde a terra. To Mari gridò ai suoi complici di ucciderlo coi coltelli". 

(Hag.306-suppl.p.3 - Positio super introductione causae, Roma 1950, pp.25-28.39)

 

FILIPPO DORMEYER (1845-1920)

A Cheiklé, vicino ad Akbès in Siria, il monastero del S. Cuore, in cui aveva vissuto per qualche tempo Charles de Foucauld, fu abbandonato durante la prima guerra mondiale, ma nel 1919, dopo lÂ’armistizio, fu rioccupato da due fratelli, che tentarono di farvi rivivere la vita monastica.

Uno di essi era un vecchio padre di nome Filippo, monaco di coro ma non sacerdote, che era venuto in Siria fin dal 1882. Nel marzo 1920 alcune bande Kemaliste invasero il villaggio e perquisirono il monastero. Tutti gli abitanti e lÂ’altro fratello trappista fuggirono ad Akbès, ma non riuscirono a persuadere il P Filippo a lasciare il luogo: egli era infatti conosciutissimo e pensava di non avere nulla da temere, avendo molto beneficato gli abitanti del posto, banditi compresi.

Una persistente tradizione orale racconta che la sua morte avvenne così: ai perquisitori che gli chiedevano chi fosse il crocifisso che portava sul petto, rispose tranquillamente che si trattava del Redentore, il nostro Signore Gesù Cristo. "Ma tu credi a lui?", gli domandarono allora. "Certamente", rispose. "Allora faremo a te quello che è stato fatto a lui". E presolo, lo inchiodarono all'architrave di una porta, come un crocifisso.

Morì dopo un'agonia durata due giorni. Altre fonti, sempre orali, affermano che fu massacrato nel cortile del monastero o fucilato, mentre tentava di rifugiarsi sulla montagna.  

(Hag.307 / P. Jalabert in ‘ Les EtudesÂ’, t. 163, 1920, p.578 / A. Robert in ‘Histoire de N.D. des NeigesÂ’, 1961, archivio del monastero di N.D. des Neiges)

 

MARTIRI DI VIACELI 

Trentotto monaci di Viaceli, nella provincia di Santander, in Spagna, furono espulsi dal loro monastero l'8 settembre 1936 da agenti della Federazione degli anarchici iberici.

Imprigionati, furono rimessi in libertà: alcuni si dispersero in case private, altri raggiunsero Bilbao dove la religione non era perseguitata in modo violento, altri si raggrupparono a Santander, formando tre piccole comunità che cercavano di mantenere nascostamente la vita monastica.

Probabilmente a causa di qualche delazione, il 1° dicembre un gruppo che comprendeva soltanto fratelli conversi fu arrestato. La polizia marxista voleva sapere da dove prendevano i mezzi di sussistenza. Avendo dichiarato che era il padre priore che si occupava della cosa, fornirono forse agli agenti rossi il pretesto per arrestare un secondo gruppo, che comprendeva il priore e altri monaci sacerdoti.

Pío Heredia, il priore, non volle assolutamente dichiarare il nome di chi forniva loro degli aiuti. Dopo penosi interrogatori e maltrattamenti durante il processo istruito nella notte del 2 dicembre per dare una parvenza di legalità alla condanna dei religiosi, ma in realtà in odio alla fede e per cercare di impadronirsi del loro denaro o per sapere l'indirizzo dei benefattori, avvenne l'esecuzione. 

Secondo la testimonianza di un oblato di quindici anni, che si trovava con i monaci e che fu poi rilasciato, i religiosi furono caricati su un autocarro in due gruppi separati, uno nella notte del 3 dicembre, l'altro nella notte successiva.

Non se ne seppe più nulla. Gettati in mare dalla scogliera a picco del faro di Santander o condotti in barca e sommersi nelle acque profonde della baia oppure, come risulterebbe da una testimonianza indiretta, fucilati vicino al cimitero della città? La prima ipotesi sembra la più probabile.

Il 29 dicembre un converso a voti temporanei, Leandro Gómez Gil (1915-1936), fu scoperto dai miliziani in una casa privata: apparteneva al gruppo di monaci studenti e fratelli conversi che si era prudentemente dissolto dopo la scomparsa del padre Pío e dei suoi compagni. Gli altri si rifugiarono a Bilbao, ma Leandro non osò farlo, dato che rientrava nella categoria per la quale era giunto l'ordine di mobilitazione. La polizia rossa lo maltrattò in modo orribile, fino a farlo tanto sanguinare dalla bocca, dal naso e dalle orecchie che un lenzuolo ne fu inzuppato. Il giorno successivo fu cacciato a forza in un'auto e scomparve per sempre. Anche lui fu forse annegato o fucilato. Si seppe in seguito chi lo aveva assassinato in odio alla fede e alla Chiesa: gli uccisori furono perdonati.

La passione di questi monaci fu preceduta da quella di due confratelli che erano rimasti al monastero. Infatti il giorno dell'espulsione i banditi marxisti avevano trattenuto con loro due sacerdoti, il segretario padre Eugenio García Pampliega (1902-1936) e il padre Vincenzo Pastor Garrido (1905-1936), probabilmente nella speranza di poter mettere le mani sul denaro dell'abbazia, che ritenevano ricca. Le loro investigazioni non dettero però alcun risultato.

Il 21 settembre gli anarchici offrirono ai due padri di accompagnarli in macchina a Santander, ritardando la partenza fino a notte inoltrata, ma a una ventina di chilometri dal monastero li uccisero a colpi di pistola, abbandonandone i cadaveri sul ciglio della strada. Ritrovati il giorno seguente, la gente del posto li seppellì nel cimitero di Rumoroso. Soltanto nel 1940, dopo essersi accertati di tutte le voci che correvano, i monaci di Viaceli esumarono le due spoglie (sepolte senza cassa, uno sopra l'altro) e le trasportarono al monastero, seppellendole nel chiostro della lettura dietro il seggio abbaziale. 

Ecco l'elenco dei martiri del 3 e 4 dicembre:

1. Pío Heredia Zubía (1875-1936), priore, sacerdote
2. Giovanni Battista Ferrís Llopis
(1905-1936), sacerdote  
3. Amedeo García Rodríguez
(1905-1936), sacerdote  
4. Ezechiele Alvaro de la Fuente
(1917-1936), converso a voti temporanei 
5. Antonio Delgado Gonzáles
(1915-1936), oblato di coro 
6. Marcellino Martín Rubio
(1913-1936), novizio di coro  
7. Valeriano Rodríguez García
(1906-1936), sacerdote  
8. Eustachio García Chicote
(1891-1936), sottomaestro dei conversi  
9. Angelo de la Vega Gonzáles
(1868-1936), converso  
10. Alvaro González López
(1915-1936), professo corista a voti temporanei 
11. Eulogio Alvarez López
(1916-1936), converso a voti temporanei 
12. Benvenuto Mata Ubierna
(1908-1936), novizio converso 

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Di tutti questi martiri è stata introdotta la causa di beatificazione. Il processo diocesano è stato aperto nel 1996, a sessant' anni dal martirio.          

(Coll. O.C.R. 1937, p. 17 ss. / Coll. 1939, pp. 85-91 / Coll. 1945, p. 220 / D.P.Moreno Pascual, Como incienso en tu presencia, Viaceli 1996 / Cistercium, 1987, pp. 214-216 / Cistercium, 1996, pp. 413-416)

  

SANTIAGO RABA, ILDEFONSO TELMO E MOSÉ JOSÉ CAMI 

Ai quindici martiri di Viaceli, uccisi nel 1936, bisogna aggiungere altri tre membri della comunità che perirono in circostanze differenti.

Santiago Raba Río (1910-1937), professo corista e suddiacono, all'inizio della guerra civile e nell'imminenza dell'espulsione e dispersione della comunità, fu rimandato in famiglia.

Mobilitato nell'esercito comunista, fu subito segnalato come monaco e, a causa di questo, minacciato di morte. Egli stesso confessava: "Io durerò poco. Certamente mi ammazzeranno, dato che sanno che sono religioso". In effetti nel maggio 1937, sul fronte di Vizcaya, fu trovato morto in una trincea, colpito alla nuca. Aveva ventisei anni. Suo fratello testimoniò che il capo sezione si era reso conto che 'il frate' non si trovava con gli altri e, cercandolo, lo trovò in preghiera: gli scaricò allora tutto il caricatore della pistola sulla testa.

Un destino quasi simile toccò al confratello Ildefonso Telmo Duarte (1912-1937), di ventiquattro anni, professo corista a voti temporanei. Allo scadere dei voti, date le circostanze, i superiori non osarono ammetterlo alla professione solenne, attendendo tempi migliori. Si rifugiò in casa della nonna materna, ma fu denunciato e arrestato. Furono prese delle informazioni e il Fronte popolare di Cóbreces, confermò che il giovane era effettivamente un religioso. Anch'egli lo confessò con coraggio.

Assegnato a un battaglione di disciplina, fu trattato durissimamente e il 30 aprile 1937 un guardiano, che era uno dei suoi torturatori, gli lanciò contro una bomba a mano, uccidendolo sul colpo. Fu sepolto in una fossa comune.   

José Camí Camí (1907-1936) era un sacerdote di ventinove anni, che desiderava entrare a Viaceli, dove era già stato accettato. Allo scoppio della guerra si trovava nel suo paese di Aytona, per salutare i familiari prima dell'ingresso in monastero.

Bloccato a causa delle ostilità, fu convocato davanti al comitato del popolo, ma fu poi rilasciato. Nella notte del 27 luglio 1936 fu cercato di nuovo: volevano 'il prete'. Fu legato con il vice-parroco di Aytona dietro ad un'auto, che partì a tutta velocità, trascinando i due sacerdoti per diversi chilometri. Giunti a un crocevia, i due ebbero ancora la forza di alzarsi, abbracciarsi e perdonare agli assassini.

Furono finiti a fucilate e schiacciati dalle ruote della macchina che passò diverse volte sui loro corpi. Un testimone oculare riferì i dettagli dell'uccisione alla sorella di José.

Di tutti i martiri di Viaceli è in corso il processo di beatificazione.  

(D.P.Moreno Pascual, Como incienso en tu presencia, Viaceli 1996)

 

LORENZO OLMEDO ARRIETA (1888-1936) 

Il superiore del monastero di Huerta fu un'altra vittima della persecuzione avvenuta in Spagna durante la guerra civile che costò la vita a circa seimilacinquecento sacerdoti, religiosi e religiose.

Lorenzo Olmedo Arrieta aveva quarantotto anni. Entrato bambino a San Isidoro de Dueñas, a vent'anni fu inviato a Viaceli dove fu poi maestro dei novizi e cellerario. Nominato superiore della fondazione di Huerta, si era recato presso le monache di Brihuega, nella provincia di Guadalajara. Sorpreso lì dallo scoppio della guerra fu prelevato nascostamente, poi rilasciato e arrestato di nuovo.

Sembra che sia stato ucciso il 28 luglio 1936 nel cimitero di Guadalajara, alle cui porte furono trovati resti di un breviario cistercense.

Anche di lui è stato introdotto il processo di beatificazione, assieme ai confratelli di Viaceli. 

(Hag.308 / D.P.Moreno Pascual, Como incienso en tu presencia, Viaceli 1996)

 

MICAELA BALDOVI' (1869-1936) e NATIVIDAD MEDES (1880-1936) 

Nel luglio del 1936 le monache di Fons Salutis, monastero di bernardine situato a Algemesí, vicino a Valencia, in Spagna, furono espulse dai comunisti.

La badessa, Micaela Baldoví Trull, molto amata dalle sue figlie, aveva esercitato il suo governo con molto spirito materno e profonda comprensione delle umane debolezze. Dopo l'espulsione si rifugiò in casa di sua sorella, ma tre mesi dopo furono entrambe arrestate e condotte al monastero di Fons Salutis, convertito in prigione. Durante la notte del 9 novembre furono tratte dal carcere e condotte al crocevia di Benifayó, sulla strada di Valencia, dove furono assassinate.

Al termine della guerra, dopo molti accertamenti per scoprire il luogo in cui era avvenuta l'uccisione, i loro resti furono esumati e si trovarono le due teste separate dal tronco, il che lascia supporre che le due sorelle furono decapitate.

Un'altra monaca di Fons Salutis, María de la Natividad Medes Ferris, dopo l'espulsione si rifugiò presso la sua famiglia, dove la raggiunsero due suoi fratelli, religiosi carmelitani. Arrestati assieme a un quarto fratello, furono tutti detenuti nel monastero di Fons Salutis. Nella notte del 10 novembre i quattro fratelli furono condotti in luogo imprecisato fra Alcira e Carlet e fucilati.

E' in corso la causa di beatificazione. 

(Hag.309 / Cistercium, 1962, pp. 208-9 / Cistercium, 1987, p. 215 / Dichiarazioni per il processo diocesano)

 

MONACI DI ENGELSZELL 

Alcuni monaci di Engelszell, in Austria, morirono a Dachau nel 1940.

Durante l'occupazione tedesca dell'Austria, il 1938 passò relativamente tranquillo, ma l'anno successivo, che segnava il 650° anniversario della fondazione dell'abbazia posta sulle rive del Danubio, fu funesto per i trappisti austriaci.

Il 27 luglio 1939 la Gestapo fece un'improvvisa irruzione a Engelszell e arrestò l'abate e il priore. Poco dopo furono messi in prigione anche il sottopriore ed altri religiosi. Tre mesi più tardi, il 2 novembre 1939, Engelszell cessò di esistere, perché il prefetto dell'Austria superiore ne ordinò la soppressione.

La proprietà fu confiscata 'come proprietà nemica e ostile al popolo e allo Stato'. Il priore e il sottopriore uscirono ben presto dalla prigione, mentre l'abate vi rimase due anni. Buona parte della comunità si rifugiò nella casa-madre di Oelenberg, mentre un padre e tre fratelli conversi furono internati a Dachau: nessuno di loro riuscì a sopravvivere.

 P. Gottfried Becker morì il 7 ottobre 1942.
F. Severinus Laudenberg
si spense il 18 ottobre 1941.
F. Pacomius Schäfer
il 2 gennaio 1941.
F. Alred Haselböck
il 1° settembre 1940.

Solo nel 1946 l'Ordine poté avere notizie precise dei monaci di Engelszell. 

Il 27 settembre di quell'anno fu loro resa la proprietà del monastero, ma nel 1947 delle quarantatre persone che componevano ormai la comunità, la metà si trovava ancora in esilio all'estero, non avendo fino a quel momento potuto varcare le frontiere. 

(Coll.Cist., 1940-45, pp.221-2 / Coll.Cist. 1947, pp.364-6 / T. Merton, Le acque di Siloe, Milano 1953, p.266)

 

FRATELLI E SORELLE LOEB 

Ignazio, Nivardo, Lino, Edvige e Teresa Loeb furono tutti vittime delle persecuzioni naziste.

All'abbazia olandese di Koningshoeven, a Tilburg, il 2 agosto 1942 verso le tre del mattino mentre i monaci stavano cantando l'Ufficio notturno, la Gestapo si presentò a chiedere due padri e un fratello laico che erano ebrei convertiti. Si trattava di tre fratelli di sangue: padre Ignazio, padre Nivardo e fra' Lino. Le loro due sorelle, madre Edvige e madre Teresa erano monache cistercensi nell'abbazia di Berkel. Anch'esse vennero arrestate insieme ad un'altra ebrea convertita, una sorella esterna, che nel mondo aveva esercitato la professione di medico. Tutti i fratelli e le sorelle avevano espresso la loro disponibilità, nel caso che Dio lo chiedesse, a portare la passione di Gesù nel loro corpo, perché attraverso di essi la vita di Gesù potesse manifestarsi nelle altre vittime della persecuzione, i loro fratelli ebrei.

Nel campo di concentramento di Amersfort i cinque trappisti facevano parte di un gruppo di quindici religiosi, fra cui Edith Stein. In seguito furono trasferiti al campo di Westerbork.

Non si seppe nulla di loro per molto tempo, fino a che non si ricevette la notizia indiretta che i tre fratelli erano stati fucilati in Polonia il giorno della festa di Pentecoste del 1943.

Delle suore non si seppe più nulla. Un'altra sorella, madre Veronica, dopo numerose persecuzioni e sofferenze, morì nel suo monastero di Berkel il 1° agosto 1944. 

(T.Merton: Le acque di Siloe, X, Milano 1953, pp. 271-272 / Cistercium 1986, pp. 349-50)

 

CRISOSTOMO CHANG e i suoi 32 compagni 

Una delle più belle pagine del martirologio cistercense fu scritta dai monaci di Nostra Signora della Consolazione, in Cina, la cui passione fu vissuta negli anni 1947­48.

La trappa di Yang-Kia-Ping, fondazione di Tamié nel vicariato apostolico di Pechino, fu la prima comunità trappista in estremo Oriente, fiorente di vocazioni e di attività. Nel 1945 si trovò al centro della guerra civile iniziata dopo il conflitto cino-giapponese, a causa del quale aveva già molto sofferto negli anni precedenti. Il villaggio prossimo al monastero venne infatti a trovarsi sulla linea di demarcazione tra l'armata rossa di Mao-Tze-Tung e l'esercito nazionalista di Chiang-Kai-Chech. 

Nell'estate 1947 il monastero fu preso di mira dai comunisti con false accuse: dimentichi dei grandi benefici che per sessantaquattro anni i trappisti avevano assicurato ai poveri e al popolo, sottoposero i monaci a tumultuosi processi popolari e ad interrogatori su questioni riguardanti lo stato e sui segreti del culto, con pubbliche bastonature e disumane torture fisiche e morali per far loro abbandonare la religione, considerata dai comunisti una superstizione ormai da cancellare.

I diciotto monaci sacerdoti, che avevano rinnovato per l'ultima volta al monastero il sacrificio di Cristo, compresero che le loro vite si sarebbero trasformate ben presto in una autentica Messa.

Il 30 agosto 1947 iniziò il martirio: distrutto con un incendio quanto restava del monastero, i comunisti in fuga deportarono in massa tutti i monaci, circa settantacinque, senza riguardo né all'età, né all'infermità, lungo itinerari impervi delle montagne del Nord tra le gole selvagge della Ta-Long-Men (la porta del gran dragone), in quella che fu chiamata la "marcia della morte".

Le mani legate con catene o fil di ferro che metteva a nudo le ossa, sotto piogge torrenziali, gli anziani e gli infermi portati a spalla dai fratelli già carichi di pesanti fardelli, costretti a prendere cibo come gli animali, impediti di comunicare tra loro a segni come erano soliti e frustati perché sorpresi nel dormiveglia a muovere le labbra in preghiera, ne morirono fino a tre al giorno lungo il percorso, per lo sfinimento e la miseria. Molti sacerdoti morirono di morte improvvisa,forse avvelenati: i cadaveri dei monaci erano abbandonati sul terreno pressoché insepolti.

Nel gennaio 1948, dopo un ultimo giudizio popolare a Panpou, furono fucilati P. Crisostomo Chang, e altri cinque religiosi. Il giovane sottopriore, scelto come capofila del gruppo dei martiri, che già dall'inizio della persecuzione aveva subito con coraggio battiture e vessazioni, esortò i suoi compagni dicendo: "Noi moriamo per la causa di Dio. Innalziamo per l'ultima volta il nostro cuore verso di lui in un'offerta totale del nostro essere".

Poiché la sentenza di morte pronunziata dai comunisti non era mai stata confermata, i superstiti furono via via liberati, ma altri tra loro morirono poco dopo per le conseguenze della prigionia.

Di questi fratelli che sopportarono tribolazioni così grandi, perseverando generosamente fino alla morte nella confessione della loro fede, è possibile affermare ciò che disse di uno di loro la giovane guardia rossa incaricata di annunziarne la morte ai fratelli: "Questo è morto molto pacificamente ed è molto simile all'Uomo in croce che ho visto nel vostro monastero".

Alludeva al Crocifisso della chiesa di Yang-Kia-Ping.

Diamo l'elenco dei trentatré martiri: erano tutti di nazionalità cinese, tranne tre monaci sacerdoti francesi, uno olandese e un altro canadese. 

1- Crisostomo Chang (1920-1948), sottopriore
2- Michele Hsü (1901-1947), superiore
3- Antonio Fan (1885-1947), priore
4- Elredo Drost (1912-1947), sacerdote, francese
5- Alfonso L'Heureux (1894-1947), sacerdote, canadese
6- Agostino Faure (1873-1947), sacerdote, francese
7- Bonaventura Chao (1902-1948), sacerdote
8- Emilio Ying (1886-1947), sacerdote
9- Stefano Maury (1886-1947), sacerdote, francese
10- Guglielmo Cambourien (1878-1947), sacerdote, francese
11- Odilone Chang (1897-1947), sacerdote
12- Simone Haü (1897-1947), sacerdote
13- Serafino Che (1909-1948), sacerdote
14- Teodoro Yuen (1915-1948), sacerdote
15- Basilio Keng (1915-1948), suddiacono
16- Ugo Fan (1881-1947), accolito
17- Alessio Liu (1897-1948), converso
18- Amedeo Liu (1899-1947), converso
19- Bartolomeo Ch'in (1893-1947), converso
20- Bruno Fu (1868-1947), converso
21- Clemente Kao (1899-1947), converso
22- Corrado Ma (1872-1947), converso
23- Damiano Hwang (1893-1948), converso
24- Eligio Hsü (1918-1948), converso
25- Ireneo Wang (1884-1947), converso
26- Giovanni Gabriele Tien (1861-1947), converso
27- Gerolamo Ly (1873-1947), converso
28- Luigi Gonzaga Jen (1872-1947), converso
29- Malachia Ch'ao (1872-1947), converso
30- Marco Litchang (1885-1947), converso
31- Giovanni Maria Miao (1919-1948), converso
32- Martino Haü (1899-1947), converso
33- Filippo Wang Liu (1877-1947), converso 

(P.Beltrame Quattrocchi, Monaci nella tormenta-La Passio dei monaci trappisti di Yang-Kia-Ping e di Liesse, testimoni della fede nella Cina di Mao-Tze-Tung, in "Cîteaux", Textes et documents, vol III , Cîteaux 1991 / T.Merton, Le acque di Siloe, Milano 1953, pp. 299-312 / G. Politi, Martiri in Cina, E.M.I, 1998)

 

VENDEL ENDREDY (1895-1981) 

L'abate di Zirc, in Ungheria, fu un vero confessore della fede.

Nato nel 1895, era il quartogenito di una famiglia di agricoltori composta da dieci figli. Entrò a ventidue anni nell'abbazia di Zirc, dopo gli studi di teologia all'università di Budapest. Divenuto sacerdote nel 1919, insegnò fisica e matematica per diciannove anni nel liceo dell'Ordine e nel 1939 fu eletto abate del suo monastero.

Quando Mindszenty nel 1943 diventò vescovo di Veszprèm, diocesi in cui si trova l'abbazia di Zirc, fra lui e l'abate Vendel nacque una bella amicizia. Durante la guerra e negli anni successivi l'abbazia subì gravi perdite materiali: nel 1948 le scuole vennero statalizzate. Alla fine di novembre dello stesso anno l'abate Vendel fece un viaggio officiale a Roma, ma ricevette il suo passaporto con grande difficoltà. A Roma venne a sapere da fonti fidate che Mosca aveva ordinato di arrestare il Cardinale Mindswenty e cinque altre personalità della Chiesa Cattolica, fra i quali era lui stesso. Avendo dato la sua parola a due amici che avevano garantito per lui, tornò in patria nel tempo previsto. Si recò immediatamente dal Cardinale Mindszenty che era già stato messo agli arresti domiciliari, portandogli il messaggio del Papa. Data però la forte reazione a livello internazionale per l'arresto del Cardinale, gli altri arresti furono ritardati. Fu nel 1950 che i monaci furono espulsi dal monastero di Zirc. Dopo soli quattro giorni dall'espulsione, Vendel fu arrestato, il 29 ottobre 1950. 

 Dapprima gli vennero dette cose oscene e offensive sul conto di religiosi, religiose e personalità della Chiesa, specialmente riguardo al loro comportamento sessuale. Confessò più tardi: "Non volevano fare di me un martire, al contrario, volevano distruggere la mia personalità e trasformarmi in una non-persona demoralizzata e umiliata". 

Poi seguirono gli interrogatori durante i quali fu bastonato, preso a calci, torturato con vari strumenti, narcotizzato, bruciacchiato con la corrente elettrica, sottoposto ad elettrochoc; in cella non poteva dormire a causa della luce sempre accesa, del freddo e dei continui controlli. 

Le umiliazioni di ogni genere e le torture continuarono a lungo, tanto da fargli perdere a volte la conoscenza: l'unica sua richiesta al Signore era che lo chiamasse a sé, per evitargli di tradire qualcuno con delle confessioni estorte. Nonostante le ferite ormai tutte infette, il deperimento e la mancanza di sonno, l'abate Vendel doveva raccogliere tutte le sue forze per poter rispondere in fretta e bene alle domande insidiose che gli venivano poste: se taceva o esitava, questo equivaleva a una confessione.

In attesa della sentenza, faceva conti matematici scritti col carbone sulle unghie, per poter conservare le facoltà mentali; pensava alle cose positive della sua vita passata, rivivendole di nuovo nella memoria. Fu condannato a quattordici anni di carcere. Trascorse sei anni in varie prigioni e benché le condizioni della vita di detenzione fossero durissime (il freddo gli fece congelare un orecchio e alcune dita), trovò anche carcerieri e medici umani. Visse quasi sempre in una cella solitaria, ma quando aveva dei compagni, la prova più dura era la necessità di una vicendevole diffidenza. Per anni nessuno seppe dove era segregato e se era vivo o morto. 

Nel 1956 il comunismo fu momentaneamente rovesciato ed egli riacquistò la libertà, ma il fallimento della rivolta gli valse un nuovo arresto il 1° marzo 1957. Rilasciato in agosto a causa delle sue condizioni cardiache (non si voleva che morisse in prigione), durante ventitré anni fu confinato nella casa sociale dei monaci anziani di Pannonhalma. 

Don Vendel, ricordando le pene sofferte, affermava: "Non cambierei con nessun tesoro al mondo i miei anni di prigionia: essi hanno arricchito la mia vita di un valore al di là di ogni mia immaginazione. Non nutro rancore per nessuno dei miei torturatori".

La sua sentenza non fu mai messa per iscritto ed egli non ottenne mai una riabilitazione. Nel 1980 fu colpito da trombosi che gli paralizzò le gambe e gli rese difficile la parola. Affetto anche da altre infermità, diceva: "Prima della mia morte vorrei ancora soffrire". Si spense il 29 dicembre 1981 e il suo corpo fu esposto nel monastero benedettino di Pannonhalma, da dove fu portato nella chiesa abbaziale di Zirc. Ora riposa sotto l'altare di S. Bernardo. 

(Racconto autobiografico tradotto dall'abate di Dallas, U.S.A. / Dizionario biografico ungherese, 1978-1991, Budapest 1994 / Mària Örfi, Arde e risplende, Budapest 1997 / 'Prison Memoirs', in 'Cistercians in Texas', The 1998 Jubilee) 

 

DOMINGO FELIX BADIA (1937-1976) 

Al monastero di Nostra Signora di Bela Vista, in Angola, il 14 luglio 1976 avvenne la passione di Domingo Felix Badía, monaco e sacerdote. Professo del monastero di S. Isidoro, in Spagna, dove era entrato nel 1958, si era offerto di partire per la casa-figlia di Bela Vista, bisognosa di aiuto, nel desiderio di collaborare all'impiantarsi della vita monastica in Africa. Lasciò la Spagna nel giugno del 1974 quando, data la situazione politica dell'Angola, tutti consideravano temeraria una simile impresa.

Nel 1975 la situazione si aggravò tanto che parecchi missionari cominciarono a lasciare il paese, prevedendo una completa e duratura catastrofe. Anche ai monaci spagnoli di Bela Vista fu offerta la possibilità di tornare alla casa-madre. Come la quasi totalità, padre Domingo scelse liberamente di restare e continuò a prodigarsi nel suo ufficio di cantore e di maestro dei novizi. Il 14 luglio 1976 si stava recando in macchina con un altro fratello a portare aiuto alle suore della vicina missione, che era stata assaltata la sera prima da un centinaio di guerriglieri, i quali avevano anche rapito tre missionari. 

A millecinquecento metri dal monastero una raffica traditrice stroncò la vita del generoso monaco a soli trentotto anni di età. Morì istantaneamente, con sulle labbra un ultimo grido, udito distintamente dai presenti: "Dio mio!" La morte colse Domingo inaspettatamente, ma era già stata liberamente accettata, quando aveva scelto il rischio di restare nell'Angola martoriata dalla lotta fratricida, per offrire la sua presenza e il suo aiuto ai fratelli angolani nella prova. Con la morte il rischio si era trasformato in olocausto. 

(Cistercium, 1976, pp.257-58 / O.C.S.O.-Roma- Bulletin d'information n. 40, 22 sept. 1976)

 

I SETTE FRATELLI DELL'ATLAS 

Nella notte dal 26 al 27 marzo 1996 sette monaci del monastero di N. D. de l'Atlas, a Tibhirine, in Algeria, venivano sequestrati dai terroristi appartenenti ad una cellula del Gruppo islamico armato.

Dopo parecchi negoziati falliti fra rapitori e governi algerino e francese, i sette fratelli venivano assassinati, probabilmente il 21 maggio 1996. Le teste, troncate dai corpi, ritrovate il 30 maggio, erano seppellite il 4 giugno nel cimitero del monastero, dopo la solenne celebrazione dei funerali nella cattedrale di Algeri. Le circostanze precise dei due mesi di detenzione e della loro morte restano ancora avvolte nel mistero.

La loro scelta di restare in Algeria nonostante il crescente clima di terrore e l'assassinio di numerosi preti e religiosi era maturata comunitariamente, dopo una visita intimidatoria da parte dei ' fratelli della montagna ' la notte di Natale del 1993. Questa libera decisione esprimeva la loro volontà di restare insieme nel luogo della loro stabilità, condividendo con i vicini i pericoli della violenza che colpiva soprattutto i più indifesi, solidali con la sparuta minoranza ecclesiale, donati a Dio e all'Algeria, offerti come Cristo per la salvezza del popolo.

La loro consapevolezza di andare incontro alla morte acconsentendo senza riserve e la consegna della loro vita perdonando agli aggressori ci sono testimoniate dal mirabile testamento del priore­ (tre brevi pagine tra le più profonde della spiritualità contemporanea), dal diario del maestro dei novizi e dalle lettere degli altri fratelli ai familiari.

Ecco il nome dei monaci uccisi:

Padre Christian de Chergé (1937-1996), priore titolare del monastero, vero padre e animatore di un cammino spirituale sofferto che ha condotto la comunità ad accettare lucidamente la possibilità del martirio. Aveva cinquantanove anni.

Il fratello converso Luc Dochier (1914-1996), di ottantadue anni, medico, divenuto leggendario nella zona per il suo servizio ai malati e che scriveva: "Non c'è vero amore di Dio senza acconsentire senza riserve alla morte" e che non rimpiangeva assolutamente nulla della sua lunga vita donata all'Algeria.

Padre Christophe Lebreton (1950-1996), il più giovane, appartenente alla generazione della rivolta studentesca del '68, che crebbe in breve tempo nella fede fino all'offerta della vita, secondo la testimonianza profonda e poetica del suo diario.

Fra' Michel Fleury (1944-1996), ex-membro del Prado, uomo semplice, silenzioso e lavoratore instancabile.

Padre Bruno Lemarchand (1930-1996), superiore della casa annessa di Fes, nel Marocco, ponderato e profondamente umile. Aveva sessantasei anni.

Padre Celestin Ringeard (1933-1996), di sessantadue anni, ricco di sensibilità e molto dotato per la relazione interpersonale.

Fra' Paul Favre-Miville (1939-1996), abilissimo nei lavori manuali.

Questi sette fratelli, molto diversi fra loro, provenivano da tre monasteri differenti: li accomunavano l'amore per il popolo algerino, il rispetto per l'Islam, il desiderio della povertà. Questa loro seconda vocazione, innestata nella grande vocazione cristiana e cistercense, li ha condotti insieme a testimoniare il mistero pasquale di Cristo nell'offerta della loro vita.

(Sept vies pour Dieu et l'Algérie, Textes recueillis et présentés par Bruno Chenu, Paris 1996 / Martiri in Algeria, a cura di Bernardo Olivera, Milano 1997 / M.Duteil, Les martyrs de Tibhirine, Paris 1996 / M.C.Ray, Christian de Chergé, prieur de Tibhirine, Paris 1998)

   


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