PONTIFICIA COMMISSIONE PER I BENI CULTURALI DELLA CHIESA Associazione Italiana Santa Cecilia INTERVENTO DI S.E. MONS. MAURO PIACENZA La musica sacra nel novero dei beni culturali della Chiesa Assisi 15 marzo 2006
1. La circostanza di questa Tre giorni di formazione liturgico musicale, promossa dall’Associazione Italiana Santa Cecilia, mi offre l’occasione di ricordare il chirografo con cui il Santo Padre Giovanni Paolo II, di santa memoria, ha voluto celebrare nel 2003 il centesimo anniversario del Motu proprio di San Pio X Tra le sollecitudini, che delinea ancora validamente le caratteristiche della musica sacra, secondo la concezione della Chiesa cattolica (Giovanni Paolo II, Chirografo sulla musica sacra Mosso dal vivo desiderio, 22 novembre 2003, n. 1; cfr Pio X, Motu proprio sulla musica sacra Tra le sollecitudini). La musica sacra, si configura essenzialmente come parte integrante della divina liturgia, avendo come fine “la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 120). In questo la musica sacra si colloca in una tradizione viva, che affonda le radici sin nelle primitive comunità cristiane, esortate dall’apostolo Paolo “a cantare a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali” (Col 3, 16; cfr Ef 5, 19). Ma perché la musica sacra possa dirsi tale deve possedere alcune caratteristiche ben delineate nei testi del magistero pontificio. Deve esprimere anzitutto santità, possedere cioè il senso della preghiera e costituire quindi sia un mezzo di elevazione dello spirito a Dio sia un aiuto per i fedeli nella “partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa” (Tra le sollecitudini, Proemio); deve presentare aderenza ai testi biblici ed eucologici, consonanza ai tempi liturgici e corrispondenza ai gesti e ai contenuti di una celebrazione. Un secondo principio caratterizzante è individuato nella bontà delle forme, per cui la musica sacra deve essere “vera arte”, insignita di dignità e bellezza capaci di introdurre nei sacri Misteri. Infine – ed è questo un punto particolarmente delicato – deve saper congiungere alle legittime esigenze di adattamento e di inculturazione – richieste sia dalla diffusione della Chiesa presso vari popoli e culture, sia dall’adeguamento ai tempi – il requisito della universalità, che si individua quando una composizione è ovunque e in ogni tempo percepita come sacra. 2. Quando il magistero passa concretamente ad esemplificare quale musica soddisfi alle caratteristiche sopra ricordate, inevitabilmente pone al primo posto il canto gregoriano. Oltre ai testi sopra citati, si possono ricordare ancora papa Pio XII, che definisce il canto gregoriano “patrimonio” della Chiesa (Lettera enciclica Musicae sacrae disciplina, 25 dicembre 1955, parte III) e il Concilio Vaticano II, che nella costituzione sulla liturgia afferma che “la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana” (Sacrosanctum Concilium 116). Certamente, si deve considerare, accanto al canto gregoriano, anche la polifonia sacra e tutta quell’immensa produzione di messe, mottetti, corali ecc., la cui “sacralità” è tanto meglio percepibile quanto più i compositori, oltre che esperti nell’arte musicale, erano “imbevuti di senso del mistero” e partecipi della vita della Chiesa (Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 4 aprile 1999, n. 12). Tali composizioni, accanto al repertorio propriamente “religioso”, come gli oratori, con intenti squisitamente didattici o tutta quella produzione, talora di altissimo livello, formalmente liturgica, costituiscono uno dei frutti più consistenti dell’umanesimo cristiano e uno dei contributi della fede alla cultura dell’uomo. Sebbene non tutta la musica religiosa possa essere considerata liturgica, per le ragioni sopra esposte, essa costituisce un patrimonio culturale che è vivo e ancora oggi, apprezzato e da valorizzare pienamente nelle opportune sedi. Se il canto e la musica propriamente liturgici del passato dovrebbero essere ancora utilmente eseguiti durante le celebrazioni, il restante repertorio può trovare il suo pieno apprezzamento in apposite manifestazioni, affidate ad istituzioni culturali il cui fine è il reperimento, la conoscenza e l’esecuzione della musica sacra antica più nota e più rara, sia per la liturgia, sia, a seconda dei casi, per esecuzioni comunque spiritualmente feconde. Pertanto si comprende bene la definizione di musica come “bene culturale” inteso, in primo luogo, come patrimonio da conservare, tutelare, valorizzare e promuovere. In questo ambito vanno incoraggiati la catalogazione dei fondi manoscritti musicali presenti in moltissime biblioteche ed archivi ecclesiastici, la loro pubblicazione, gli studi di filologia musicale. In tale settore la Chiesa può ricercare la collaborazione con istituzioni universitarie e scientifiche e avvalersi delle provvidenze pubbliche che, a volte, si riescono a reperire. 3. Tuttavia, quello appena citato non è l’unico e principale concetto di “bene culturale” nella mens della Chiesa. Infatti, essendo la musica espressiva di una realtà creatrice di cultura, come lo è la Chiesa, essa è, a pieno titolo, un “bene culturale della Chiesa”, ma da intendersi come cosa viva. Così si esprimeva Giovanni Paolo II alla Prima Plenaria della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa: “[…] si è voluto dare un significato preciso e un contenuto immediatamente afferrabile anche allo stesso concetto di “bene culturale”, comprendendo in esso, innanzitutto, i patrimoni artistici della pittura, della scultura, dell'architettura, del mosaico e della musica, posti al servizio della missione della Chiesa […]” (Allocuzione 12 ottobre 1995, n. 3). Come si capisce chiaramente, il bene culturale, nella mente della Chiesa, non è una realtà statica, da conservare in un museo, in una biblioteca o in un archivio, ma, come sempre si esprimeva Giovanni Paolo II, “I ‘beni culturali’ sono destinati alla promozione dell'uomo e, nel contesto ecclesiale, assumono un significato specifico in quanto sono ordinati all'evangelizzazione, al culto e alla carità” (Chirografo alla Seconda Plenaria, 25 settembre 1997, n. 2). La Pontificia Commissione che presiedo, dal canto suo, si è sempre sforzata di inculcare tale concetto con i suoi scritti ed interventi. In un documento dedicato alla formazione dei futuri presbiteri al riguardo della necessaria attenzione verso i beni culturali della Chiesa, affermava: “Oltre a realizzare un proprio apporto alla promozione integrale dell'uomo mediante varie iniziative educative e culturali, la Chiesa ha infatti annunciato il Vangelo e perfezionato il culto divino in molteplici modi attraverso le arti letterarie, figurative, musicali, architettoniche; nonché attraverso la conservazione di memorie storiche e di preziosi documenti della vita e della riflessione dei credenti. Il messaggio della salvezza si è comunicato, e ancora oggi si comunica, pure attraverso tali mezzi a intere moltitudini di credenti e non credenti” (La formazione dei futuri presbiteri, 15 ottobre 1992, n. 1). Pertanto, anche quando guarda al passato, la Chiesa in realtà guarda sempre al presente e, anche per quanto concerne la musica, la considera un patrimonio sempre vivo da utilizzare nella liturgia o, comunque, per l’annuncio del Vangelo o l’elevazione spirituale, a seconda delle caratteristiche che ogni composizione possiede. 4. Ispirandomi alla proposizione 36 del recente Sinodo dei Vescovi che, secondo il dettato del Concilio Vaticano II (cfr Sacrosanctum Concilium, n. 36) esorta a non trascurare l’uso della lingua latina nella celebrazione della Santa Messa, specie nei ritrovi internazionali, e a valorizzare il canto gregoriano (cfr Sacrosanctum Concilium, nn. 116-117), soprattutto in questi contesti, vorrei soffermarmi su alcune considerazioni generali su tale tradizione musicale. Il latino e il canto gregoriano, intimamente uniti alle fonti bibliche, patristiche e liturgiche, fanno parte di quella lex orandi che si è forgiata nell’arco di oltre un millennio. Oggi si parla molto di radici e della loro riscoperta: ebbene, il latino e il canto gregoriano costituiscono, per così dire, le radici della musica liturgica. In questo senso, il canto gregoriano dovrebbe essere guardato come punto di riferimento e, secondo le possibilità, ripristinato anche per l’assemblea. E questo nell’ambito di quel ritorno, da tutti auspicato, alla serietà della liturgia, alla santità, bontà di forme e universalità, che devono caratterizzare ogni musica liturgica degna di questo nome, che rientra nell’ottica della dovuta obbedienza alla riforma liturgica così come è stata intesa dal Concilio Vaticano II. A volte si ha l’impressione che i pastori sottovalutino le capacità del popolo cristiano nell’apprendimento: e pensare che l’assemblea un tempo conosceva melodie gregoriane, che ora è stata quasi costretta a dimenticare, a vantaggio di altri canti a volte veramente mancanti nella forma e nel contenuto! È ovvio che non tutto il repertorio è proponibile al popolo, ma è anche vero che nel canto, così come nella liturgia, non tutti devono fare tutto, ma, come sottolinea Giovanni Paolo II nel recente chirografo: “Dal buon coordinamento di tutti – il sacerdote celebrante e il diacono, gli accoliti, i ministranti, i lettori, il salmista, la schola cantorum, i musicisti, il cantore, l’assemblea – scaturisce quel giusto clima spirituale che rende il momento liturgico veramente intenso, partecipato e fruttuoso”. D’altra parte, anche nella tradizione cristiana orientale, in cui il canto liturgico – al pari dell’arte figurativa – ha una funzione essenziale, le parti del presbitero, del diacono e del coro, a volte complesse, sono diventate talmente popolari da essere cantate a memoria anche dai semplici fedeli. Un “rilancio” del canto gregoriano assembleare potrebbe iniziare dalle acclamazioni, dal Pater noster, dai canti dell’ordinario della messa, specie il Kyrie, il Sanctus, l’Agnus Dei. In molti paesi il popolo conosceva bene il Credo III e l’intero ordinario della messa VIII (de Angelis), e non solo! Sapeva pure il Pange lingua, la Salve Regina e altre antifone, che oggi pochissimi conoscono. Un repertorio minimo è contenuto nel famoso “Jubilate Deo” di Paolo VI, o nel “Liber cantualis”. Se si abitua il popolo a cantare quel repertorio gregoriano che gli si confà, sarà allenato a imparare anche i canti nuovi nelle lingue vive, quei canti, si intende, degni di essere eseguiti in chiesa e di stare accanto al repertorio gregoriano. Tuttavia, la cosa più grave è che si è, per così dire, reciso il “cordone ombelicale” della tradizione, con l’effetto di educare nuovi compositori di musiche liturgiche nelle lingue vive, a volte anche bene preparati dal punto di vista tecnico, mancanti però dell’humus indispensabile per comporre in consonanza con lo spirito della Chiesa. E’ un po’ come certa committenza in campo architettonico e in quello delle arti plastiche, come pure degli arredi. Occorre sensus fidei e non idee preconcette o ideologie o osmosi con il pensiero secolarizzato. 5. Ci si può chiedere allora quali obiettivi porsi. Certamente il primo lavoro da fare riguarda la formazione, innanzitutto del clero, chiamato a sua volta ad essere promotore di musica sacra. Purtroppo sempre più diffusamente si constata una carenza quanto mai grave nei seminari e nei luoghi di formazione di religiosi e religiose, di una vera educazione alla grande tradizione musicale della Chiesa, anzi spesso della più elementare formazione musicale e il prosperare di banalità e di cattivo gusto. San Pio X capì benissimo, e con lui tutto il susseguente magistero della Chiesa, che è impossibile qualsiasi opera di “riforma” senza un’adeguata formazione, sia di chierici sia di laici. Tra i frutti più sostanziosi del Motu proprio, che perdura nel tempo, è il Pontificio Istituto di Musica Sacra, ormai avviato al suo centenario di fondazione. Da tale tanto benemerita istituzione sono usciti maestri di canto gregoriano, di polifonia, organisti, operatori della musica sacra, sparsi in ogni angolo del mondo. Un lavoro molto prezioso è svolto anche da altre Scuole superiori di Musica sacra, dalle scuole diocesane, e dai vari corsi e seminari di formazione liturgico-musicale. In queste sedi non si dovrebbe mai omettere l’insegnamento, anche approfondito, del canto gregoriano. 6. Si potrebbe affermare che il canto gregoriano è il canto della Chiesa, non nel senso che la Chiesa non ammetta altre forme musicali, ma perché è paradigmatico nel suo rapporto fra testo liturgico e musica. Anzi, anche da un punto di vista tecnico, i grandi maestri della polifonia hanno basato le loro innovazioni sul canto gregoriano, mutuandone le tematiche, la modalità e la poliritmìa. Possiamo ritrovare il gregoriano alla base delle composizioni di Palestrina, Lasso, Victoria, Guerrero, Morales, e altri autori della riforma tridentina. Il canto gregoriano è anche sullo sfondo delle composizioni di grandi musicisti contemporanei che hanno accompagnato la “lunga durata” della riforma liturgica del XX secolo: Perosi, Refice e Bartolucci. Il gregoriano lo si avverte come in filigrana. Non mi riferisco solo alle composizioni complesse o corali, ma anche alle varie melodie, in latino o in volgare, sia per la liturgia che per gli atti devozionali. Il vero canto popolare sacro, tanto più sarà valido e sostanzioso quanto più si ispirerà al canto gregoriano. Giovanni Paolo II ha fatto integralmente suo il noto principio di San Pio X: “Una composizione di chiesa è tanto più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nell’ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme” (Tra le sollecitudini, n. 3; Chirografo, n. 12). È ovvio che non sarà mai possibile affrontare la creazione di un repertorio di qualità per la liturgia, anche nelle lingue vive, se i compositori continueranno ad ignorare il canto gregoriano. 7. Naturalmente ogni cosa bella e buona ha un costo. Sebbene sia molto importante la buona volontà, a volte questa non basta. Per ottenere buoni risultati, è necessario investire delle risorse, soprattutto nella formazione, nella quale vanno impiegati veri professionisti anche a tempo pieno. Pure a livello di scholae, almeno quelle delle cattedrali, occorre affidarsi per la direzione e l’accompagnamento organistico a figure professionali con una formazione liturgica e musicale appropriata. Neppure va sottovalutata la committenza di nuove opere musicali, appositamente pensate per la liturgia festiva e dei tempi forti dell’anno liturgico, le quali, tenendo presente la grande tradizione liturgica musicale della Chiesa, siano adeguate alla sensibilità odierna. Ricordava sempre Giovanni Paolo II: “L’aspetto musicale delle celebrazioni liturgiche, quindi, non può essere lasciato né all’improvvisazione, né all’arbitrio dei singoli, ma deve essere affidato ad una ben concertata direzione nel rispetto delle norme e delle competenze, quale significativo frutto di un’adeguata formazione liturgica”. Mauro Piacenza
|
|