La Santa Sede Menu Ricerca
La Curia Romana  
 

 

 
 

S. Em. Cardinale Paul Josef Cordes                                    19 settembre 2008
Presidente                                                          Seminario per i nuovi Vescovi
Pontificio Consiglio Cor Unum       
Congregazione Evangelizzazione dei Popoli
 

  Il vescovo e le organizzazioni caritative
nei paesi di missione

      Preparandomi a questo nostro incontro ho avuto occasione di avere un colloquio con Sua Santità. Ho potuto riferirgli del risultato degli esercizi spirituali organizzati dal nostro dicastero Cor Unum nel giugno passato a Guadalajara in Messico. Vi erano stati invitati tutti i presidenti e direttori Caritas e di altre organizzazioni dell’America del Nord e del Sud. Questa nostra iniziativa ha riscosso grande plauso da parte di tutti i partecipanti – ca. 500 persone. Per questo motivo ho chiesto al Pontefice se fosse da prendere in considerazione una cosa analoga anche per altri continenti – eventualmente per l’Asia. Ed egli prontamente: “Proprio nei paesi di missione l’impegno ecclesiale verso il prossimo che si trova nel bisogno è di particolare rilevanza.” Questo commento del Santo Padre sottolinea l’importanza delle odierne riflessioni. E sono molto grato per l’invito rivoltomi dal Cardinale Dias. Certamente ha fatto bene ad includere in questo seminario la tematica dell’impegno verso i bisognosi nella Chiesa e nel mondo e a non tralasciare, come superflua, una materia che sembra tanto nota a tutti.

Filantropia diffusa

      Che il sofferente vada aiutato, al giorno d’oggi nessuno lo mette in dubbio. A volte pare proprio che la parabola del buon samaritano sia accolta in tutto il mondo. Il comandamento dell’amore al prossimo ha trovato nei contemporanei senz'altro una eco maggiore di tutti gli altri comandamenti biblici. Qualche anno fa, atterrato in uno degli aeroporti del Vietnam comunista, a Saigon, rimasi non poco sorpreso quando vidi un grande cartello recante la scritta “Charity”. Anche le religioni asiatiche si sono abituate a prendersi cura dei bisognosi. In passato ritenevo il Buddismo una religione che non lotta contro le afflizioni, ma che piuttosto destina tutti i sofferenti al nirvana, abbandonandoli a se stessi, ignorando così dolore e miseria. Finché in seguito, dopo il terremoto a Taiwan (gennaio 2000), mi sono imbattuto in un campo di sfollati finanziato da una monaca buddista per un milione di dollari americani. Gli storici delle religioni parlano infatti di “neobuddismo” come di una corrente religiosa oggi in vigore, perché evidentemente alcune figure guida buddiste hanno appreso dal cristianesimo di dover curare il misero. Anche l’induismo, lasciandosi ispirare dal cristianesimo, ha sviluppato un’etica dell’aiuto al prossimo e, come “neoinduismo”, invita all’amore verso il prossimo (cfr. H. Bürkle, Heiluniversalismus, in IKZ 37 (2008) 243-253).

      Chi si imbatte nella indigenza umana nota in primo luogo le necessità materiali di chi soffre. In caso di catastrofi, come terremoti, inondazioni, atti di terrorismo o fiumane di profughi, le persone si lasciano muovere dalla televisione e dalla stampa a donare soldi. A volte si racimolano collette ingenti, come nel caso dello tsunami in Asia. E si vengono a creare situazioni curiose. A Cor Unum entrarono talmente tante offerte che ci lasciavano presagire problemi per utilizzare in maniera responsabile quel danaro – soprattutto perché le istituzioni pubbliche richiedono bilanci precisi e tutte le agenzie devono prestare attenzione a non perdere la loro buona reputazione presso l’opinione pubblica. Fu per questo motivo che in quell'occasione pregai il presidente della Croce Rossa Tedesca, il Dott. Seiters, che era venuto a farmi visita, di accettare un po’ di soldi da parte nostra. Ma lui rifiutando disse: “Ne abbiamo così tanti noi da non sapere come poter sorvegliare la realizzazione di potenziali progetti.”

      Anche se noi a Cor Unum non arriviamo mai ad avere a disposizione mezzi materiali sufficienti e non si possa generalizzare l’esperienza vissuta in seguito allo tsunami, la generale disponibilità ad aiutare persone che si trovano nel bisogno è senz’altro un “segno dei nostri tempi”, cosa della quale non ci si può che rallegrare. L’amore al prossimo indubbiamente fa ormai parte della cultura del mondo civilizzato.

Cooperazione degli organismi di carità

      In tal modo gli organismi cattolici di carità sono spinti a guardare oltre i confini della Chiesa. La Caritas in Italia, Spagna o Germania, o Trocaire in Irlanda o altre associazioni collaborano con enti e uffici statali, con ministeri per lo sviluppo o con sponsor pubblici. Sono obbligati a presentare bilanci esatti. Talvolta tale esattezza per i vescovi dei paesi in via di sviluppo risulta spiacevole. I donatori appaiono pignoli, poco fraterni. Certamente assistiamo allo scontro di culture differenti. D’altra parte nei paesi benestanti la disponibilità di dare offerte dipende dalla fiducia che è in grado di garantire chi le raccoglie. Quando per esempio alcuni anni fa in Germania poco prima della grande colletta di Adveniat – prima di Natale – nei media si davano notizie di utilizzo dubbio del danaro, ci fu un crollo significativo delle donazioni.

      La cooperazione con enti pubblici ha senz’altro i suoi aspetti positivi. Occasionalmente, però, può rivelarsi una trappola. Le organizzazioni ecclesiali non si limitano più ad affrontare i bisogni, ma divengono imprese. Ho avuto notizie di una diocesi in Africa dove una istituzione caritativa voleva costruire in città un sistema di canalizzazione per le acque. La Caritas di un paese appartenente alla ex-Unione Sovietica gestisce un’autorimessa. In un altro continente un vescovo chiedeva a Cor Unum un sostegno finanziario per la costruzione di un cimitero.

       Tutte queste opere sono di indiscussa utilità, ma fanno sorgere la domanda: Gli organismi caritativi ecclesiali devono sostituirsi alle istanze civili e assumere compiti dalla mano pubblica? Ovviamente qui e là dovranno operare in modo pionieristico, specie dove le forze statali non sono in grado di assicurare le necessità primarie delle persone, ledendo così la dignità umana. Ma non devono in nessun caso semplicemente sbrigare le incombenze della società nella sua interezza. Ciò contraddirebbe la dottrina sociale della Chiesa, che distingue chiaramente tra i compiti dello Stato e quelli della Chiesa e afferma l’autonomia delle realtà temporali (cfr. DCE 28a).

Gesù, la via

      Nel grande cosmo degli aiuti umanitari, al quale fortunatamente l’umanità odierna si è aperta, sorge così la questione sulla specificità del ministero cristiano di carità verso i bisognosi.

      L’orientamento fondamentale lo indica innanzitutto Gesù stesso. La buona opera compiuta verso il prossimo nel nuovo testamento è realmente un identificativo di Gesù di Nazareth. Negli Atti degli Apostoli viene caratterizzato come segue: “Egli è andato dappertutto facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo” (10,38). Nel contesto della predicazione della fede ciò risulta come l’inconfondibile descrizione della sua persona. Riassume tutte le azioni benefiche di cui i vangeli parlano a più riprese: Egli cura gli infermi, sfama chi vive di stenti, consola chi sta nella prova e libera i posseduti. In lui si compie la parola del profeta Isaia: “Il Signore mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l'apertura del carcere ai prigionieri” (61,1). L’evangelista Luca cita questa formula di invio di Gesù nella scena inaugurale a Nazareth (4,18s.). Sia nel profeta che nell’evangelista la frase conserva un doppio significato: in relazione alla bontà del Padre che lo invia e in relazione alla radice di ogni miseria umana, vuol dire al male e al maligno.

      Mi pare opportuno soffermarci ancora sull’esempio di Gesù, poiché la sua prassi insegna ai membri della Chiesa che la miseria nel mondo va sì combattuta concretamente, ma che il servizio caritativo della Chiesa verso il prossimo non si limita al mero soddisfacimento dei bisogni immanenti e terreni. Non si può mettere su un piano identico Caritas e Croce Rossa.

      Nella missione di Gesù s’intrecciano sempre l’annuncio del Regno di Dio e l’azione di aiuto. Le due intenzioni si sostengono a vicenda.

      Il vangelo di Marco pone costantemente in rilievo la connessione tra la dottrina di Gesù e i fatti che la confermano. Nella guarigione del paralitico, per esempio, che era stato calato con il lettuccio verso Gesù scoperchiando il tetto (cf. Mc 2,1-12) si parla prima in modo dettagliato dell’opera dei portantini.

      Inoltre viene evidenziata la fede incondizionata con la quale si induce il Signore a compiere il miracolo. E per questo pronuncia la parola risanatrice. Ma questa sua parola verte innanzitutto su di una realtà spirituale, sul perdono dei peccati. Il peccato è la causa di ogni male e merita un’attenzione primaria. Gesù fa trasparire attraverso la sofferenza del malato la radice della miseria. La discussione con gli scribi riprende infatti questa logica salvifica. E il Signore riafferma la potenza della sua parola per la seconda volta. Opera la guarigione fisica che conferma la sua promessa spirituale. Predicazione e cura per gli infermi si compenetrano e sono correlate.

      La parola predicata da Gesù e le sue mirabili opere nelle controversie con i suoi avversari spesso vanno di pari passo (cf. Mc 1,40-3,6): nella guarigione del lebbroso (cf. 1,42) e dell’uomo dalla mano inaridita (cf. 3,5) egli afferma e conferma la sua missione; egli compie la legge mosaica rivelando la salvezza spirituale come vero contenuto delle guarigioni fisiche, anche se questo percorso lo conduce alla croce (cf. 3,6).

      Così pure la serie di miracoli che Gesù non compie in pubblico – la tempesta sedata, la guarigione del Geraseno posseduto, la risurrezione della figlia di Giairo (cf. Mt 4,35-5,43) – hanno prevalentemente intenzione catechetica. Hanno lo scopo di rivelare ai discepoli il mistero del regno di Dio; egli li ammaestra in modo speciale. Anche il senso dei miracoli negli altri Vangeli culmina nel suscitare la fede alla parola e alla missione di Gesù.

Ecclesialità

      Che la sollecitudine verso il prossimo bisognoso per il cristiano è strettamente legata al doppio comandamento dell’amore a Dio e al prossimo lo ha spiegato nel suo modo inimitabile Papa Benedetto XVI nella sua prima enciclica Deus caritas est. Purtroppo ora non ho il tempo di mettere in luce la profondità e la bellezza di questo testo. Vorrei semplicemente dimostrare come la scrittura insegni che nell’attività caritativa l’azione materiale e quella spirituale devono interagire. Lo faccio consapevolmente davanti a Voi, pastori ordinati, perché la responsabilità dell’impegno nella lotta contro il bisogno, nelle diocesi ricade primariamente sui vescovi – che tale impegno sia a livello individuale-privato o comunitario.

      Il legame indissolubile tra ministero ecclesiale e servizio caritativo viene chiarito nell’enciclica già con la panoramica storica che il Papa espone facendo riferimento a grandi figure come Sant’Ignazio di Antiochia († ca. 117), San Giustino martire († ca. 155), Tertulliano († ca. 220) e a tanti successivi (cfr. 40) che cita per la sua argomentazione come modello per l’aiuto cristiano. Questo impegno riguarda tutti i livelli – a partire dalle parrocchie, passando per le chiese locali fino a giungere alla Chiesa universale. È inconfutabile nella misura in cui l’operatore della carità non ripone la sua forza in se stesso, ma ha come riferimento Dio quale sorgente di amore. Come potrebbe dunque colui che accoglie la logica dell’enciclica “Dio è amore” operare indipendentemente dal magistero ecclesiale o addirittura in contrapposizione ad esso, se è solo nel corpo mistico di Cristo che Dio gli dona la forza necessaria?

      Ero al Congresso Eucaristico Mondiale del 1976 a Filadelfia negli Stati Uniti. Fu lì che incontrai per la prima volta la beata Madre Teresa. Insieme al Cardinal Pignedoli del Vaticano si trovava a dover affrontare un’intervista su scandali attribuiti alla Chiesa. Il reporter attaccò il cardinale: Provocazioni vergognose nel mondo cattolico e fatti imbarazzanti negli USA e in Europa. “Certo” continuava il giornalista “ci sono anche persone di Chiesa che per la loro umanità godono di grande reputazione – come ad esempio Madre Teresa. Ma le sue buone opere non si possono attribuire alla Chiesa!”. Madre Teresa fino a quel momento aveva assistito silenziosa. A quel punto però prese la parola. “Anche se non sono stata interpellata, vorrei dire qualcosa” osservò. “Non condivido questa distinzione tra me e la Chiesa. Io appartengo alla Chiesa, sono parte di essa e da essa ho ricevuto la mia missione. È attraverso di essa che Dio mi dona la forza per il mio operare.”  Il testo magisteriale del Papa non è altro se non una formulazione astratta di ciò che Madre Teresa viveva.

Competenza del vescovo

      Papa Benedetto XVI caratterizza per i nostri giorni la competenza del vescovo in ambito caritativo dando l’indicazione che “la Chiesa in quanto famiglia di Dio deve essere, oggi come ieri, un luogo di aiuto vicendevole e al contempo un luogo di disponibilità a servire anche coloro che, fuori di essa, hanno bisogno di aiuto”. Poi parla del sacramento dell’Ordine nel quale il vescovo per l’imposizione delle mani riceve la pienezza dello Spirito per la guida della Chiesa. Nella liturgia dell’ordinazione episcopale, prima di ricevere questo sacramento, è previsto un dialogo piuttosto prolungato nel quale il celebrante rivolge alcune domande al candidato. L’ordinando si impegna ad assumere specifica responsabilità per particolari ministeri. Egli “promette espressamente di essere, nel nome del Signore, accogliente e misericordioso verso i poveri e verso tutti i bisognosi di conforto e di aiuto”. Certamente questa promessa non esclude il fatto che il vescovo nella sua sollecitudine caritatevole si faccia aiutare da collaboratori. Ma non può demandare ad altri la sua responsabilità ultima di questo elemento essenziale del suo ufficio – così come coloro che si occupano della diakonia a livello individuale o all’interno di una istituzione non possono eludere il compito di guida e la competenza ultima del vescovo (cf. nr. 32).

      Questa competenza episcopale va tenuta ferma, anche se l’impegno al servizio come il buon samaritano è dato immediatamente con l’essere cristiano ed è compito di ogni fedele.

        Per questo il Papa da una parte distingue le organizzazioni ecclesiali che sorgono per motivi di maggiore efficienza. Menziona inoltre il volontariato con le svariate forme di attività caritativa (cf. 30b). Non tralascia di promuovere però dall’altra “la carità di ciascun singolo cristiano” (cf. 29).  Le organizzazioni devono favorirla, poiché conferisce alle comunità parrocchiali risonanza per la credibilità e la propagazione del vangelo. La sollecitudine verso i bisognosi soprattutto nei paesi, nei quali i cristiani sono una minoranza, è il primo passo dell’evangelizzazione, come dicevo all’inizio.

Il cuore dell’aiuto

      Oltre ad indicare che l’operatore della carità è socialmente integrato nella Chiesa con il suo pastore, lo scritto pontificio formula alcune aspettative per la sua vita spirituale. Esse risultano immediatamente da un esatto concetto di Chiesa. “I collaboratori che svolgono sul piano pratico il lavoro della carità nella Chiesa” afferma il Papa “devono farsi guidare dalla fede che nell'amore diventa operante (cf. Gal 5,6)”. Enuncia quindi l’alto postulato: “Devono essere quindi persone mosse innanzitutto dall'amore di Cristo, persone il cui cuore Cristo ha conquistato col suo amore, risvegliandovi l'amore per il prossimo” (nr. 33). Quale dimensione di dedizione ciò comporti, lo illustra il passo della seconda lettera ai Corinzi che il Papa cita a questo punto come “parola guida” dell’impegno: “L'amore del Cristo ci spinge” (5, 14) – un versetto molto citato. Ciò che però realmente è contenuto in questo passo lo riconosce soltanto colui al quale non sfugge tutta la profondità dell’amore di Cristo che l’apostolo delle genti manifesta. Ecco allora che il Santo Padre ci ricorda anche la continuazione del verso paolino: “La consapevolezza che in Cristo Dio stesso si è donato per noi fino alla morte deve indurci a non vivere più per noi stessi, ma per Lui, e con Lui per gli altri” (ibd.). L’impegno verso il prossimo, dunque, non ha soltanto un risvolto tecnico-pratico generalmente riconosciuto. Esso coinvolge anche il cuore – non principalmente inteso come emozione, bensì come decisione molto razionale di volere il bene dell’altro, costi anche la rinuncia a se stessi. Tale interpretazione biblica supera immensamente un amore al prossimo che oggi comunemente viene considerato come caratteristica standard di un’esistenza borghese: per chi coglie la carità alla luce del vangelo diventa una provocazione.

Preghiera

      Necessariamente questa alta sfida muove l’operatore a chiedere l’ausilio di Dio. L’enciclica ricorda come un cantus firmus l’indicazione che l’amore disinteressato presuppone lo Spirito dall’alto. Senza dubbio questo riguarda quindi la prassi di fede di tutti coloro che sono impegnati in questo settore.

     Qui bisognerebbe tematizzare l’ascolto della parola di Dio, i sacramenti dell’eucaristia e della penitenza. Ma il tempo permette semplicemente una sommaria menzione della pietà personale. A questa il Pontefice nel suo scritto magisteriale relativamente breve dedica due interi paragrafi (36s).

      Il Papa mette in rilievo la preghiera affinché all’operatore non venga meno la fede. Perché questa fede viene minacciata dalla “esperienza della smisuratezza del bisogno” che, come scrive Benedetto XVI, può diventare tentazione all’inerzia ed alla rassegnazione; o potrebbe indurre a non aspettarsi più nulla da Dio che governa il mondo e perciò a voler imporre la salvezza autoproclamandosi messia, sacrificando però per questa superbia la dignità umana e distruggendo invece di costruire (cf. nr. 36). Non di rado i collaboratori esterni o interni alla Chiesa hanno l’impressione che il loro sforzo sia come quello di Sisifo nella mitologia greca: come costui, che costantemente rotolava una pietra risalendo il monte invano perché tutte le volte che arrivava in cima essa ruzzolava giù di nuovo, così anche ad essi il peso quotidiano del lavoro appare vano e senza speranze. Per questo la liberazione dalla miseria alcuni la attendono da un rovesciamento politico; allora investono in ciò tutti gli sforzi; in vista di questo cercano partner locali conflittuali capaci di cambiare le relazioni di potere.

      Per il Santo Padre l’impegno caritativo riceve la sua forza dall’intimo legame al Signore del cielo e della terra. La pietà non indebolisce la lotta contro la povertà e la miseria del prossimo. “Chi prega non spreca il suo tempo,” scrive, “anche se la situazione ha tutte le caratteristiche dell'emergenza e sembra spingere unicamente all'azione” (nr. 36). La beata Madre Teresa è un esempio eloquente contro l’errore di pensare che i tempi dedicati all’adorazione di Dio vadano a discapito della carità al prossimo. La religiosa albanese nella sua lettera quaresimale alle sue consorelle del 1996 scriveva: “Noi abbiamo bisogno di questo intimo legame con Dio nella nostra vita quotidiana. E come possiamo ottenerlo? Attraverso la preghiera”.

Unità con Dio

      Tenendo presente l’attivismo spesso frenetico o l’ateismo incombente dei tempi odierni, il Papa ribadisce l’importanza di tempi di preghiera a Dio. La richiede proprio a chi si impegna nell’amare il prossimo. Ovviamente il cristiano con le sue parole non può pretendere di cambiare i piani di Dio, di correggere quanto Dio ha previsto. Cerchi piuttosto “l'incontro con il Padre di Gesù Cristo, chiedendo che Egli sia presente con il conforto del suo Spirito in lui e nella sua opera”. Ancor meno si erige a giudice di Dio, accusandolo perché permette la miseria o perché la natura si abbatte senza pietà sulle creature di Dio. “Chi pretende di lottare contro Dio”, afferma il Sommo Pontefice, “facendo leva sull'interesse dell'uomo, su chi potrà contare quando l'azione umana si dimostrerà impotente?” (nr. 37).

      Sono state la sensibilità verso gli uomini e la sensibilità verso Dio che hanno reso grandi tante figure della Chiesa. Quanti Santi e Beati della carità! In loro pietà ed aiuto efficace, aderente alla realtà, si compenetrano. La loro biografia rappresenterebbe una storia della Chiesa integrale e molto convincente. Ad una di essi sia concessa nuovamente la parola, a Madre Teresa. Non perché spicchi più eminentemente di altri, ma piuttosto perché è nostra contemporanea. Ci ha lasciato una meditazione che conferma l’indissolubilità tra amore per Dio e amore per il prossimo.

“Gesù è – Dio
              Il Figlio di Dio,
              La seconda Persona della santissima Trinità,
              Il figlio di Maria,
              La parola diventata carne.

Gesù è  –  la parola che pronuncio,
         La luce che accendo,
         La vita che vivo,
         L’amore con il quale amo,
         La gioia che dono,
         La pace che porto,
         La forza che impiego,
         L’affamato che nutro,
         Il nudo che vesto,
         Il senza patria che accolgo,
         Il malato che curo,
         Il bambino al quale insegno,
         L’abbandonato che consolo,
         Il rifiutato che accetto,
         Il confuso di cui sono amica.

Gesù è  –  il senza aiuto – al fianco del quale sto,
              Il mendicante – che saluto con gioia,
              Il lebbroso – che lavo,
              L’alcolizzato – che accompagno,
              Il pane di vita – che io mangio,
              L’offerta – che presento,
              La croce – che porto,
              Il dolore – che patisco,
              La preghiera – che pronuncio,
              La solitudine – cui prendo parte,
              La malattia – che accetto.

Gesù è  –  il mio Dio,
              Il mio Signore,
              Il mio Sposo,
              Il mio tutto,
              Il mio tesoro,
              Il mio unico,

Gesù è colui, cui sono legata nell’amore,
              a lui io appartengo,
              egli è mio,
              io sono sua”                                        (19 giugno 1983)

Missione

      Noi di Cor Unum, il dicastero al quale incombe realizzare la diakonia del Papa, siamo particolarmente grati per l’enciclica “Dio è amore”. Benedetto XVI descrive in essa il nostro Consiglio “quale istanza della Santa Sede responsabile per l'orientamento e il coordinamento tra le organizzazioni e le attività caritative promosse dalla Chiesa cattolica” (nr. 32). In questo modo descrive la nostra competenza e il nostro compito nel settore ecclesiale che si occupa di aiuti, riprendendo l’indicazione di Giovanni Paolo II che nel suo Chirografo del 16.9.04 affidava al nostro Pontificio Consiglio “il compito di seguire ed accompagnare l’attività di Caritas Internationalis, sia in ambito internazionale che nei suoi raggruppamenti regionali.” Più importante della definizione canonica delle competenze di Cor Unum però è il fatto che il Santo Padre abbia dato inizio alla sua attività magisteriale come Pontefice con questa enciclica e che ci sia finalmente un documento sulla Caritas di tale rango. Ecco perché da parte nostra abbiamo voluto contribuire a dare a questo testo una grande risonanza. Alla sua uscita organizzammo un congresso per il quale convocammo a Roma cardinali e vescovi responsabili, altri membri della Chiesa e personaggi della cultura di spicco di tutto il mondo. 250 personalità accolsero l’invito. Il Santo Padre ci ricevette in udienza privata pronunciando un grandioso discorso (23.1.06) che per mancanza di tempo non posso qui ricordare. In esso sintetizzò in modo unico – come riesce a lui e a pochi altri – il contenuto della sua enciclica e la logica della sua argomentazione. Vorrei concludere citando alcune sue parole che vogliono chiarire la filosofia del mio intervento.

      “La fede non è una teoria che si può far propria o anche accantonare. È una cosa molto concreta: è il criterio che decide del nostro stile di vita. In un'epoca nella quale l'ostilità e l'avidità sono diventate superpotenze, un'epoca nella quale assistiamo all'abuso della religione fino all'apoteosi dell'odio, la sola razionalità neutra non è in grado di proteggerci. Abbiamo bisogno del Dio vivente, che ci ha amati fino alla morte. Così, in questa Enciclica, i temi "Dio", "Cristo" e "Amore" sono fusi insieme come guida centrale della fede cristiana…”.

 

 

top