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La Curia Romana  
 

 

 
 

S.Em. Cardinale Robert Sarah                      
Presidente,                                                                         
Pontificio Consiglio Cor Unum 

26 agosto 2011

VOLONTARIATO E AZIONE INTERNAZIONALE
(Incontro al Meeting di Rimini, 26 agosto 2011)



Buongiorno a tutti.
Non mi capita spesso di avere di fronte una platea di questo tipo e mi sento investito di una grande responsabilità. Ringrazio gli organizzatori del Meeting per avermi dato la possibilità di incontrarvi e di essere qui con voi oggi. Parlare qui oggi non è facile. So che non amate gli incontri formali. A essere sincero non li amo neppure io. Ho un po’ timore delle grandi masse, perché il vero incontro è quello personale. Ma so che sono sostenuto dalla vostra simpatia.


1. Volontariato e servizio internazionale

Da qualche mese mi è stata affidata la presidenza del Pontificio Consiglio Cor Unum, voluto nel 1971 da papa Paolo VI. Il nostro compito è in generale quello di coordinare l'attività caritativa della Chiesa cattolica. Ma interveniamo anche per organizzare le azioni umanitarie della Santa Sede in caso di catastrofi o di crisi. Il nostro interesse punta soprattutto alla pastorale della carità che è uno degli aspetti fondanti di tutta la Chiesa universale soprattutto per legare insieme Vangelo e carità. Abbiamo a che fare tutti i giorni quindi col tema del volontariato e del servizio internazionale. Nel corso degli anni abbiamo potuto osservare le evoluzioni degli scenari internazionali, che si sono modificati per numero di enti coinvolti e per nazioni emerse all’attenzione globale, e abbiamo potuto osservare anche alcuni fattori che sono rimasti dei punti fermi. Il volontariato è uno di questi punti fermi. Anche nella sua declinazione di servizio internazionale ovviamente.

Infatti il volontariato è tutt’oggi la linfa vitale dei programmi di sviluppo e della cooperazione internazionale. Io stesso ne posso dare la prova perché se sono qui, e sono ancora vivo e posso parlarvi, probabilmente è grazie ai missionari che, anche senza essere volontari in senso attuale, senza chiedere nulla in cambio hanno portato la parola di Dio nel mio paese, mi hanno dato la fede, un’istruzione, si sono presi cura di me e mi hanno aiutato nei momenti di difficoltà. Da allora sono convinto, avendo la possibilità di vedere in azione personaggi di quello spessore, nella stragrande maggioranza dei casi si può essere missionari e aiutare una popolazione in difficoltà senza sprecare troppe parole: anzi la testimonianza più grande è la semplice coerenza tra il proprio essere convintamente cattolico e quello che si fa nella vita di tutti i giorni.

Mi fa piacere raccontarvi un fatterello che però è esemplificativo di cosa voglio dire quando parlo di coerenza come prima testimonianza della nostra fede. Dovete sapere che in Africa non esiste una distinzione tra vita privata e vita pubblica così netta come la intendiamo qui in Europa e in generale nel mondo occidentale. Ci si aspetta sempre che se una persona dice di essere una cosa si comporti pubblicamente e privatamente in modo coerente. Per dirla molto banalmente: se uno dice di essere cristiano ci si aspetta per lo meno che la domenica vada a messa. Chiamiamolo il minimo sindacale. Questo per chi viene dall’Europa forse non è più tanto scontato: quanti vostri amici si dicono cristiani non praticanti? Comunque, tornando all’aneddoto: c’era questo ragazzo che era venuto volontario a lavorare in una missione. Dopo le prime cinque settimane della sua permanenza, dove si è fatto conoscere come persona volonterosa e impegnata, qualcuno è venuto a chiedermi, un po’ scandalizzato, come mai quel ragazzo non andasse a messa nonostante lavorasse e alloggiasse in una missione cattolica. Decisi di andargli a parlare personalmente e lui mi disse che credeva in Dio, ma che aveva una serie di problemi con la Chiesa e che non ne accettava alcuni aspetti. Sicuramente la Chiesa, che è madre paziente, non aveva problemi con lui e quindi ho deciso di esortarlo, ma aspettare e vedere come si aggiustavano le cose. Gli ho detto certamente che per la popolazione vedere un volontario che non è coerente con la propria fede non è un bell’esempio. Anzi questo crea un certo danno alla stessa missione. Per fortuna dopo qualche tempo il ragazzo ha cominciato ad andare spontaneamente a messa e alla fine dei suoi due anni nella missione aveva riscoperto la bellezza del vangelo e l’esperienza vitale dei nostri rapporti personali con Dio ed era diventato un vero testimone sia della fede sia di cosa voglia dire avere la responsabilità di dover essere un esempio per chi ti guarda.


2. Il dubbio e la certezza

Questo che vi ho raccontato è un piccolo esempio di come un’esistenza, magari apparentemente povera e periferica, può diventare un’immensa certezza. Sì: una certezza.
Sono contento che il Meeting di quest’anno abbia preso a tema una questione così forte: la certezza. Infatti viviamo in un tempo dove sembra regnare il dubbio, il dubbio assoluto, metodico. Sembra che la lezione di Descartes e del razionalismo abbia trovato un varco significativo, ma si sia trasformata in un boomerang. Mi spiego: Descartes ha voluto, forse giustamente, trovare un fondamento certo alla sua filosofia e ha messo sistematicamente in dubbio ogni passaggio del suo pensare, al fine di arrivare ad una certezza che non era altro che il suo stesso io dubitante. La ragione della ragione diventa allora non tanto questionare - perché questo invece è la sua grandezza -, ma dubitare. Nel XIX secolo il dubbio è diventato sospetto, rafforzando così la sua connotazione negativa, ma allo stesso tempo la negazione della possibilità di conoscere e di dire il vero, mentre resta solo l’io dubitante. Questo atteggiamento ha fatto una grande scuola: viviamo in un mondo in cui caratteristica dell’uomo forte sembra quella del dubitare, e quindi del rifiutarsi e del negarsi all’alterità. Dubbio, non fiducia. Questo vale anche per la fede: il dubbio si è riversato contro Dio e contro il suo amore per l’uomo. L’uomo di fede viene percepito come un fondamentalista e il vero credente quello che fa domande, ma non giunge mai ad una verità.
Ma questo dubbio lacera l’esistenza, perché non si può vivere senza verità definitive, vincolanti, orientanti. Una nave senza bussola è in balia delle onde. E in balia delle onde è la nostra esistenza senza certezza. Anche san Paolo descrive così la vita senza Cristo: “Fanciulli in balia delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore” (Ef 4,14). Paradossalmente il dubbio sistematico, invece di offrire un fondamento ragionevole all’esistere, rende l’uomo più incline all’errore, all’inganno, alla delusione.
La vostra presenza qui, oggi, dice che esiste una certezza. Io non sarei qui oggi, e così molti di voi, se non avessimo incontrato in Cristo la verità, una roccia, una certezza incrollabile sulla quale costruire la propria vita. Questa è l’esperienza del cristianesimo, cioè del cristiano. La certezza che abbiamo e che offriamo al mondo è una verità che non viene da noi, ma sappiamo essere per noi e per la nostra salvezza. Una certezza che modella la nostra vita e che le dà la capacità dell’amore gratuito. Un amore che trasforma la nostra vita, ma che trasforma il mondo intero. La fede in Cristo è stata una certezza per tanti uomini che così hanno cambiato il volto della terra.
Io leggo qui la grande chance del volontariato. La certezza che plasma la vita del cristiano gli dona di essere uomo che si dà. E questo vale per ogni cristiano! E può suscitare così benefici interrogativi in chi non crede. Un esempio che vi riguarda: Diceva Giussani ai volontari del Meeting di Rimini del 1985: “E la meraviglia più grande del Meeting, che è realmente una delle più grandi meraviglie del movimento, siete voi”.
Quando, alcuni mesi fa, la Signora Guarnieri è venuta a trovarmi per chiedere di partecipare al Meeting ho detto inizialmente di no. Ve lo confesso. Ho detto che io vengo da una realtà di Chiesa molto piccola. Non sono abituato alle masse. E non possiamo negarci che ci sono pericoli nel vivere come massa. Ho detto che ho sempre compreso il nostro essere cattolici in un mondo musulmano come una piccola radice piena di vita che però lentamente, silenziosamente, ma sistematicamente e insistentemente spacca la roccia in cui è piantata.
Alla fine sono venuto perché voi siete questa radice. La Chiesa è questa radice piena di vita divina. Dobbiamo rompere la roccia del dubbio sistematico, della derisione della verità, della ricerca volutamente senza méta che definisce la cultura moderna. E non dobbiamo scoraggiarci, anzi: la nostra radice spacca la roccia di un mondo pervaso dal dubbio, perché ha la forma della croce. Possiamo spaccare e penetrare la roccia dura del nostro mondo moderno comunicandogli il gusto di Dio se davvero siamo radici piene di Cristo, di vita divina e dello Spirito Santo. I primi cristiani hanno spaccato con la loro esistenza un mondo che viveva da millenni di idoli e di divinità naturali. Noi possiamo essere come loro in un mondo che ormai è neo-pagano e che vive di consumismo e piaceri passeggeri. Siamo chiamati a essere una certezza in questo mondo scosso dal dubbio. Dico noi: perché di fronte al fatto dell’esistenza concreta modellata da Cristo, non c’è dubbio che tenga.


3. Il volontariato, frutto della carità di Cristo

Vorrei dire che ci teniamo al volontariato perché offre al mondo questa testimonianza concreta, personale, innegabile.
Da dove nasce questa esperienza? Certamente c’è un impulso naturale nell’aiutare l’altro. Lo vediamo molto bene oggi nel fiorire di attività filantropiche. A Cor Unum lo osserviamo ogni volta che il mondo è colpito da una catastrofe naturale o da crisi umanitarie, come recentemente in Somalia: la risposta dal mondo intero per aiutare chi sta male è impressionante. Ma lo vediamo molto bene in noi stessi, nell’immediatezza con cui rispondiamo ad un bisogno intorno a noi: un’anziana bisognosa, un compagno in difficoltà, una madre abbandonata. Noi siamo così, perché siamo creati da Dio a sua immagine e somiglianza. Dio è amore e ha lasciato in noi le tracce di questo suo amore, della sua compassione, in credenti e in non credenti. Ma Cristo ci dice di più: Cristo raccoglie questo nostro desiderio umano e lo nobilita, perché ci insegna in primo luogo che l’amore, prima di darlo, lo abbiamo ricevuto da Lui. Lui per amore ha dato la vita per primo. Ha dato la sua vita a me, perché io possa donarla all’altro (Gal 2, 19-20; 1 Gv 4, 7-16; 1 Gv 3, 16-24). Perciò per un cristiano la parola - chiave per spiegare la sua disponibilità ad essere volontario è una parola della Scrittura: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10, 8).

Siamo molto grati a Benedetto XVI che ha riscattato il termine carità, lo ha rimesso nella sua originaria luce e ce lo ha riconsegnato nella sua valenza più autentica con l’enciclica Deus caritas est. Infatti è bene fare delle distinzioni: amore non è uguale a carità. Il termine amore esisteva già prima di Cristo, ma Cristo ci ha insegnato l’apice dell’amore che è appunto la carità, cioè il dono di sé per l’altro. Purtroppo lo stesso termine “carità” anche nel nostro linguaggio cristiano è semplicemente scaduto nel banale significato di elemosina. Oppure viene vista come una forma insufficiente di aiuto all’altro perché non intaccherebbe le cause profonde dell’ingiustizia. Invece Papa Benedetto ci ha ricordato che la carità è la natura stessa di Dio. Questa radice trinitaria si manifesta a noi in Cristo e così la sua carità dà forma alla nostra. Amare e servire il povero, il prigioniero, il malato, l’ignorante, senza chiedere nulla in cambio, come Cristo ci ha insegnato, questo è il volontario cristiano. Capite che questo non è pensabile senza l’aiuto della grazia. La gratuità del dono viene dalla gratuità della grazia: un dono ricevuto e immeritato. E proprio la gratuità è qualcosa di cui solo l’uomo è capace, perché risponde ad un più, a qualcosa di irriducibile all’utile, al pratico, al dovuto.
Anche per questo senza Cristo non si realizza appieno il desiderio di aiutare l’altro, che pure ogni uomo ha in sé. San Paolo stesso ci dice che la legge suprema che ci ha lasciato Gesù è quella dell’amore ovvero della carità. Senza questa ogni sforzo umano, anche quelli dagli intenti più alti, è inutile e svuotato di senso. Per questo attraverso le iniziative che promuovono il dono di sé, si può educare alla responsabilità verso se stessi e verso gli altri cominciando a ridare il giusto valore anche alle cose. Se è vero che la prima carità è l’educazione, per me e per voi è altrettanto evidente che la prima educazione deve essere alla carità.
Ed è proprio questo, lo dico con tutta chiarezza, che impedisce al volontariato cattolico di diventare una religione civile. Per noi il volontariato non scaturisce semplicemente dall’impegno per un mondo nuovo e redento dall’impegno dell’uomo stesso. Per un cattolico, il volontariato non sostituisce la fede, ma la esige.


4. Alcune considerazioni sul volontariato oggi

Trattando ora più in specie il tema del volontariato, vediamo svilupparsi con un costante aumento, accanto a quello puramente gratuito, un modo di intendere e fare volontariato che non è gratuito né dal lato del volontario, che spesso riceve un rimborso forfetario per svolgere con costanza le prestazioni richieste, né dal lato delle organizzazioni che non garantiscono la gratuità delle prestazioni chiedendo all’utenza, su base obbligatoria o facoltativa, un corrispettivo per le prestazione ricevute. In francese si distingue per esempio tra “bénévolat” e “volontariat” ovvero il volontariato basato sulla gratuità e il volontariato di coloro che producono competenze professionali per dei fini collettivi e senza fine di lucro, ma che comunque ricevono un compenso per le loro prestazioni e attività. Il pericolo più insidioso è che questa diventi la strada per un volontariato puramente “professionale”. L'eccessiva professionalizzazione finisce per mettere al primo posto il profitto e il risultato al posto della cura e dell'attenzione alla persona; ciò snatura l'intero senso della donazione agli altri. Non confondiamo però volontariato con improvvisazione: evidenziare il valore della gratuità non significa affatto confondere il buon cuore con la professionalità, anzi questa la esige, perché la sua mancanza farebbe perdere il valore anche alla donazione verso gli altri, considerando che chiunque deve possedere qualcosa, che sia competenza o un bene, prima di poterla donare.

Quali sono i fattori che stanno spingendo il mondo del volontariato cattolico, e non solo, nella direzione di una totale professionalizzazione? Le cause sono diverse, ma una tra le principali è sicuramente il sempre maggiore interesse degli enti pubblici nei confronti delle opere di carità cattoliche. Ospedali, comunità, scuole, università, centri di assistenza o mense che da sempre arrivano li dove l’ente pubblico non riesce ad essere presente. Le organizzazioni cattoliche sono molto ben radicate e offrono servizi che lo stato non riesce a garantire. Perciò vengono reclutate e sovvenzionate con fondi pubblici. Questo comporta che gli enti pubblici tendano a caricare le associazioni di volontariato di compiti di gestione di servizi che obbligano o a cambiare natura e a trasformarsi in imprese sociali. L'eccessiva burocratizzazione inoltre finisce per soffocare le associazioni di volontariato più semplici o non permette a quelle realtà come quelle che nascono nelle parrocchie o tramite centri religiosi di affermarsi; ciò è il caso frequente in Italia. Questo tipo di impostazione dell’utilizzo del volontariato, infine, tende a privilegiare l'efficienza piuttosto che la gratuità, e perciò favorisce le grandi organizzazioni a danno dei piccoli gruppi di volontariato di quartiere, di paese, di parrocchia, totalmente fondati sulla gratuità e in grado di mobilitare la solidarietà della comunità. La concretezza e i risultati vengono quindi prima della persona a lungo andare.

Significa allora che dobbiamo rinunciare ai fondi pubblici? Qui tocchiamo un tema evidentemente delicato, perché ne va della sopravvivenza di molte istituzioni. Vediamo che in diverse nazioni si sta creando un vero e proprio abisso tre le associazioni di volontariato e tutte quelle realtà altruistiche che sono diventate imprese sociali, perché usate dall’ente pubblico per le sue attività di sostegno alla popolazione. Ben diversa la situazione per quelle realtà ecclesiali, incentrate sulla gratuità, che non hanno accesso a determinati tipi di fondi. In poche parole stiamo vivendo la maturazione del terzo settore che va via via sempre più differenziandosi dal volontariato. Ovviamente la Chiesa non è contraria al fatto che organizzazioni di matrice cattolica vengano finanziate dallo Stato perché ciò rientra in un normale ed equo discorso di sussidiarietà: lì dove lo Stato non può arrivare sovvenziona qualcuno che già è presente. Non solo: è giusto che lo Stato favorisca e rafforzi l’intervento delle diverse componenti della società civile, che sanno spesso affrontare e risolvere i problemi in maniera più diretta e meno costosa. Ovviamente l'accesso ai finanziamenti pubblici non deve essere discriminante rispetto all’orientamento religioso, perché molto spesso la società civile si esprime attraverso istituzioni della Chiesa.

Tuttavia bisogna stare altrettanto attenti a non cadere in una sorta di torpore che questi finanziamenti potrebbero creare. Ricevere soldi dal pubblico e diventarne in qualche modo un suo prolungamento o una sua agenzia non può farci dimenticare la nostra origine. Il problema non è dunque se ricevere sovvenzioni pubbliche o no, ma se riusciamo a riceverle senza perdere la nostra identità. Il fatto che istituzioni cattoliche, anche di lunga tradizione, perdano il loro afflato originario, non dipende semplicemente dal fatto che le fonti di finanziamento sono laiche, ma che al loro interno è venuto meno il senso di appartenenza alla Chiesa e, ancor più, è venuto meno il senso della testimonianza di Cristo. Su questo versante si gioca la vera sfida, di fronte alla quale non possiamo non porci, anche oggi. Per questo è fondamentale per un volontario cattolico riscoprire la sua dipendenza dalla grazia, come dicevo prima, perché solo così la nostra testimonianza può continuare.


5. L’incontro con il Santo Padre

Lo stesso Santo Padre, Benedetto XVI, ha molto a cuore il tema della carità e dell'identità degli organismi cattolici. Anche per questo motivo ha voluto un incontro che si terrà in novembre in Vaticano con i rappresentati del volontariato cattolico europeo, in questo anno che l’Unione Europea dedica al volontariato. Che direzione stiamo prendendo? E soprattutto: possiamo riscoprire il volontariato come luogo di testimonianza cristiana e di crescita nella fede? Come possiamo tenere viva l’esperienza della fede e della preghiera nei nostri organismi di volontariato? Senza questi aspetti in cosa si differisce infatti l’azione di un cattolico da quella di un qualunque filantropo? E’ proprio nel vedere Gesù negli altri, nel pregare prima e agire dopo, che noi cattolici siamo diversi e più ricchi di senso rispetto a ogni altra realtà. Il volontario cattolico deve tornare a considerarsi strumento di Dio e non illudersi che il suo mettersi a disposizione degli altri si esaurisca nell’azione. Il volontario deve tornare a essere innanzitutto un testimone di fede dalla quale nasce il suo bisogno di aiutare gli altri. E già 50 anni fa lo affermavano con forza quei ragazzi che erano stati fonte di ispirazione per scrivere “Il senso della caritativa” di Giussani. Per chiudere il mio intervento non posso non citare queste frasi così appropriate: “è solo cominciando a fare, a donare del tempo libero come integrale gesto di libertà, che la carità cristiana diventerà mentalità, convinzione, dimensione permanente. Non importa tanto la molteplicità delle attività, la quantità del tempo libero che si dedica. E’ importante invece che nella nostra vita e nella nostra coscienza si affermi il principio del condividere attraverso almeno qualche gesto, anche minimo, purché sia sistematicamente messo in preventivo e realizzato”.

 

 

 

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