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La Curia Romana  
 

 

 
 

Mons. Giampietro Dal Toso                      
Segretario,                                                                         
Pontificio Consiglio Cor Unum 

24 febbraio 2014

Il motu proprio INTIMA ECCLESIÆ NATURA: RAGIONI teologiche e canoniche


Sommario

1. Il Pontificio Consiglio Cor Unum

2. L’origine storica del Motu Proprio Intima EcclesiF natura

3. L’ispirazione teologica:
- La Chiesa soggetto della carità
- La responsabilità del Vescovo
- L’organizzazione della carità

4. Il contesto di applicazione:
- L’applicazione stessa
- Le Chiese orientali
- 6 principi
- La terminologia

5. I soggetti della normativa:
- La comunità cristiana e il fedele
- L’autorità nella Chiesa
- Gli organismi

6. Alcuni punti specifici:
- La collaborazione con enti pubblici
- Il finanziamento



Cari partecipanti a questa assemblea,

Desidero in primo luogo esprimere la mia gratitudine alla CEI per l'invito che ci è stato rivolto a prendere parte a questo incontro e soprattutto a presentare il Motu Proprio Intima EcclesiF natura. E' un'occasione preziosa, che ci consente di far ulteriormente conoscere questo testo, che rappresenta una grande novità dal punto di vista canonistico e storico e la cui diffusione è stata affidata al nostro Pontificio Consiglio Cor Unum.
Lasciatemi dunque brevemente dare qualche cenno sul nostro dicastero, per poi prendere in analisi il testo del documento e, segnatamente, la sua origine storica, la sua ispirazione teologica, il suo contesto di applicazione, alcuni punti specifici in esso contenuti.

1. Cor Unum è stato fondato nel 1971 da Paolo VI, lo stesso che da Sostituto volle Caritas Internationalis e da Papa nello stesso 1971 Caritas Italiana. La sua intenzione era di creare presso la Santa Sede un luogo di coordinamento universale dell'azione di carità della Chiesa, come peraltro suggerito dal Concilio Vaticano II (GS 88). Nel corso del tempo il profilo del Consiglio si è sempre più chiarito ed ora sintetizzerei in tre ambiti i compiti che ci impegnano. Il primo è quello di aiutare a nome del Papa in casi di emergenza o di crisi umanitaria. Qualche settimana fa il nostro Cardinale Presidente si è recato nelle Filippine a nome del Papa. In questo ambito ricade la responsabilità per due fondazioni pontificie, la Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel e la Fondazione Populorum Progressio per l'America Latina, che, oltre al capitale iniziale, funzionano soprattutto grazie all'apporto dei cattolici italiani. Il secondo ambito e quello del coordinamento e orientamento, con le parole di Benedetto XVI in DCE 32, degli organismi cattolici di carità, che hanno dunque il loro referente istituzionale nella Santa Sede nel nostro Pontificio Consiglio. In questo senso va ricordata in particolare Caritas Internationalis, per la quale abbiamo una speciale competenza, definita in dettaglio con un decreto del 2.5.2012 a firma del Segretario di Stato. Infine il terzo ambito e quello di favorire la catechesi e la teologia della carità, dunque la riflessione teologica e la sua diffusione circa i grandi temi legati alla carità e al volontariato. Il presente Motu Proprio ci attribuisce nuove competenze: il compito di applicare la normativa e la facoltà di erigere in personalità in personalità giuridica organismi di carità di carattere internazionale. In questo modo il nostro Pontificio Consiglio è, insieme al Pontificio Consiglio per i Laici, l’unico che ha anche potestà giurisdizionale.

2. L'origine storica del Motu Proprio
Le origini del testo sono da ricercare nell’enciclica DCE, del 25.12.2005, la prima enciclica di Benedetto XVI, nella quale ha voluto per la prima volta nella storia delineare le caratteristiche teologiche e pastorali dell’attività caritativa della Chiesa. In quell’enciclica, al nr. 32, Benedetto XVI rileva una lacuna nel CIC, che descrive sì in dettaglio i compiti del Vescovo nella catechesi e nella liturgia, ma è molto limitato per quanto riguarda il servizio della carità. Si limita al dettato del can. 394 § 1: “Il Vescovo favorisca nella diocesi le diverse forme dell’apostolato e curi che in tutta la diocesi o nei suoi distretti particolari tutte le opere di apostolato, mentre conservano l’indole propria di ciascuna, siano coordinate sotto la sua direzione”. E’ vero che il Direttorio pastorale dei Vescovi ne parla, ma non si tratta di un testo propriamente giuridico e dunque vincolante. Così nel 2008 fu convocato un gruppo di lavoro presso il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, composto da canonisti e da rappresentati dei Dicasteri interessati. Da quella discussione è nata una bozza che fu sottoposta alla Segreteria di Stato, e, tramite essa, a diversi altri Dicasteri e ad alcune Conferenze Episcopali. Da questo intenso lavoro si produsse un documento che è stato promulgato l’11 novembre 2012, pubblicato il 2 dicembre successivo ed entrato in vigore il 10 dicembre 2012. Suo scopo è, come recita il Proemio: “fornire un quadro normativo organico che serva meglio ad ordinare, nei loro tratti generali, le diverse forme ecclesiali organizzate del servizio della carità, che è strettamente collegata alla natura diaconale della Chiesa e del ministero episcopale”.
Il testo si compone di due parti: una introduzione che richiama alcuni principi teologici fondamentali e svolge una breve lettura del fenomeno, e una parte dispositiva che contiene 15 articoli. Di per sé il testo, dal punto di vista canonico, contiene poche novità normative. Tuttavia si tratta di una legge universale ed ha il grande pregio, per la prima volta, di raccogliere e di specificare una regolazione del servizio della carità. In tal modo ha una funzione piuttosto complementare e integrativa rispetto al Codice. In ogni caso, vorrei sottolineare l’opportunità della presente legislazione almeno per i seguenti motivi: a. si acquisisce ora anche canonicamente in maniera chiara che questa dimensione è costitutiva della Chiesa; b. si assume la necessità di un’organizzazione del servizio della carità ecclesiale; c. la legislazione canonica assume l’importanza dell’aspetto dottrinale di questo servizio, oltre che delle questioni legate alla gestione del personale e delle finanze.

3. L'ispirazione teologica
Prima di addentrarmi nell’analisi del Motu Proprio, o, perlomeno di alcune questioni di ordine canonico che esso pone, desidero riferirmi alla enciclica DCE per rinvenire in essa tre ambiti di riflessione, che a loro volta illuminano dal punto di vista dei principi, il testo che analizziamo. Ovviamente non posso esaurire la ricchezza teologica dell’enciclica, e suppongo che essa sia conosciuta da tutti. Voglio solo ribadire che il grande contributo che questa enciclica ha dato e continua a dare al nostro ambito di lavoro è l’aver situato nel Dio rivelato da Gesù Cristo la fonte di ogni carità, e dunque l’averla strappata da ogni considerazione puramente sentimentale o umanistica o sociale. Cristo ha detto che Dio è carità, ma ha anche vissuto questo forma di amore che dà la vita per l’altro, una forma fino ad allora sconosciuta al pensiero umano. Essa vive nel cristiano grazie all’azione dello Spirito santo e si manifesta da subito nella vita della Chiesa come una delle sue dimensioni costitutive. Per il nostro tema, dunque, voglio enucleare tre affermazioni importanti.
La prima è l’affermazione di Benedetto XVI che “è ormai risultato chiaro che il vero soggetto delle varie organizzazioni cattoliche che svolgono un servizio di carità è la Chiesa stessa” (DCE 32). Precedentemente il Papa aveva sottolineato che il servizio di carità è parte essenziale della vita della Chiesa, così come la predicazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti. Dunque il servizio di carità viene collocato nell’intimo della vita stessa della Chiesa, perché ne è dimensione costitutiva. Per questo la titolarità del servizio di carità deve essere sempre riportata a questa origine ecclesiale, al di là delle singole forme che tale servizio ha assunto. Questa soggettività si estende agli organismi di carità: “Le organizzazioni caritative della Chiesa costituiscono invece un suo opus proprium, un compito a lei congeniale, nel quale essa non collabora collateralmente, ma agisce come soggetto direttamente responsabile” (DCE 29). Con questo evidentemente non si vuole negare la molteplicità e la pluralità di ispirazioni, ambiti di servizio, modelli, ma si vuole sottolineare che c’è una dimensione comune che lega tutti coloro che, in nome della Chiesa, svolgono un qualche servizio nell’ambito della carità. Vorrei quasi parafrasare san Paolo nel capitolo 3 della lettera ai Corinti: “Chi è Paolo, chi è Apollo, chi è Cefa?”. Ci sono tante e lecite e auspicabili etichette alla nostra diakonia, tanti gruppi che vi si dedicano, ma deve emergere che nessuno agisce per conto proprio, ma che siamo presenti in questo vasto mondo dei vari bisogni in quanto Chiesa, dunque con una chiara antropologia, un chiaro stile, una chiara ispirazione, e una chiara chiamata ad essere in comunione, che è la prima forma di carità. Dunque è la Chiesa il soggetto del servizio della carità.
Una seconda considerazione teologica, che ha dato molti spunti alla legislazione sul servizio della carità è che la natura ecclesiale del servizio della carità richiede il coinvolgimento del Vescovo. Cito al nr. 32: “Alla struttura episcopale della Chiesa, poi corrisponde il fatto che, nelle Chiese particolari, i Vescovi quali successori degli Apostoli portino la prima responsabilità della realizzazione, anche nel presente, del programma indicato negli Atti degli Apostoli (cfr. 2,42-44)”. Qui il Papa fa riferimento alle dimensioni fondamentali della prima comunità cristiana di Gerusalemme, di nuovo Parola, sacramenti e carità, e sottolinea che, in quanto ecclesiale, il servizio di carità deve avere nel Vescovo il suo responsabile ultimo. Dunque tale responsabilità non va concepita come qualcosa di avventizio, o come un’imposizione dall’alto, ma come esigenza che nasce dalla natura delle cose. Se il servizio della carità è ecclesiale, naturalmente gli è inerente il rapporto con l’autorità della Chiesa, che si incarna nella persona della Vescovo.
Infine una terza considerazione che ha una precisa valenza anche per il nostro incontro odierno. Cito alcune frasi da nr. 20 della DCE: “L’amore del prossimo radicato nell’amore di Dio è anzitutto compito per ogni singolo fedele, ma è anche un compito per l’intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella sua globalità. Anche la Chiesa in quanto comunità deve praticare l’amore. Conseguenza di ciò è che l’amore ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato”. Potete intendere facilmente da queste frasi perché, anche in questo settore, si imponga la necessità di un intervento del legislatore. C’è bisogno di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato. Ci troviamo infatti in un campo in cui ci si può chiedere se l’intervento normativo non sia quasi una contradictio in terminis con la carità. Anche questa critica è stata concretamente rivolta. La carità sembra essere qualcosa di spontaneo, vorrei dire di naturale, e una normativa in proposito potrebbe essere considerata quasi come una inutile barriera allo svilupparsi libero di tante buone iniziative di carità. La legge non è forse qualcosa di limitante, quasi un impedimento ai nostri propositi di bene? La legge può essere combinata con la carità? Qui dobbiamo fare riferimento al significato di “legge” nella Chiesa, e vorrei ribadirlo anche di fronte a questo pubblico. La legge interviene lì dove il rapporto interpersonale va regolato. E va da sé che la nostra esperienza di fede è per sua natura una esperienza interpersonale. Nessuno si dà la fede da solo. Nessuno partecipa da solo alla vita della Chiesa. La stessa fede della Chiesa si è condensata in formule, non solo per garantirsi, ma per essere comunicabile, così come ci ricorda san Paolo: „Vi annuncio quello che anch’io ho ricevuto” (1 Cor 15). Così anche il campo della carità è un campo in cui dall’inizio si manifesta un carattere comunitario; basti pensare alla creazione dei primi diaconi. Proprio per questo carattere comunitario della fede cattolica nelle sue diverse espressioni è importante individuare dei caratteri che consentano a tutti di accedere a quel tesoro di fede e di carità che con il battesimo ci è stato dato. Dunque quando entra in gioco la comunità, e dunque il rapporto tra le persone, subentra anche la dimensione giuridica, che per natura tale rapporto deve regolare. Ma questo non è contro l’efficacia della carità, ma proprio per rendere più incisiva e più testimoniale la nostra carità. I vari interventi a salvaguardia dell’identità cattolica degli organismi di carità non devono essere visti come una inutile coartazione, ma come una purificazione che ci aiuta ad rendere sempre migliore il nostro specifico servizio. Questo anche lo scopo della legge che vi presento oggi. Va da sé che il diritto non considera la carità nella sua valenza di virtù morale, ma in quanto affetta l’ordine della giustizia, cioè del cuique suum all’interno di una comunità. Piuttosto dal carattere costitutivo del servizio della carità per la vita della Chiesa ne devono discendere precise conseguenze anche per il diritto canonico.

4. Il contesto di applicazione
Di per sé, il testo menziona esplicitamente i destinatari di questa legge. Si tratta tuttavia di una legge universale sul servizio della carità nella Chiesa e nel suo specifico sottolinea il ruolo del Vescovo nell’esercizio di questo servizio, anche se non vuole limitare la libera iniziativa dei fedeli. La normativa non ha validità retroattiva, e dunque non tocca tutte quelle situazioni già regolate dal diritto o da statuti specifici, che però, nel futuro, sono tenuti ad adeguarsi alla nuova normativa. Siamo dunque in fase di attuazione. In una lettera del maggio scorso a tutte le Conferenze episcopali abbiamo chiesto di volerci comunicare le iniziative prese in tal senso. Ci risultano cambiamenti di statuti, tentativi di creare o di migliorare il raccordo con le istituzioni nate da Istituti di vita consacrata o Società di vita apostolica, nuovi accenti sulla formazione, e in genere una più marcata attenzione alla dimensione ecclesiale della diakonia. Ci rendiamo conto che questa fase attuativa è appena iniziata, e che va favorita e implementata ai diversi livelli.
Ci si è chiesti se tale normativa tocchi anche le Chiese orientali, dato che non vengono nominate esplicitamente, mentre il can. 1492 CCEO ricorda che solo in caso di menzione specifica le Chiese orientali diventano soggetto passivo di una normativa universale, con limitate eccezioni. Tuttavia va riconosciuto che il Motu Proprio IEN si riferisce ripetutamente al Codice delle Chiese Orientali in modo parallelo. Dunque in qualche modo il legislatore aveva in mente anche le Chiese orientali nel formulare la norma. D’altro canto, se il servizio della carità è costitutivo per la Chiesa in quanto tale, se ne deduce che la normativa che lo riguarda sia applicabile a tutta la Chiesa. Evidentemente a questa considerazione di fondo si devono imporre dei limiti che vengono dalla peculiarità delle Chiese orientali, per es. quando si tratta delle competenze riservate al Pontificio Consiglio Cor Unum, o al ruolo delle Conferenze episcopali, che devono invece cedere il passo al rispettivo Sinodo dei Vescovi. Dunque a mio avviso si applica con le menzionate limitazioni.
In funzione dell’applicazione del documento, il prof. Helmuth Pree, dell’Università di Monaco, ha enumerato 6 principi che governano la mens del testo e che devono essere tenuti in conto nella interpretazione e applicazione del testo (Impostazione giuridica del servizio della carità). Essi sono contenuti in un articolo che sarà pubblicato prossimamente con gli atti di un convegno di canonisti che abbiamo promosso lo scorso 13 dicembre, insieme agli altri che cito in questa relazione. Ecco i principi:
1. La responsabilità dei pastori in base al carattere costitutivo del servizio della carità;
2. La irrinunciabile salvaguardia dell’identità cattolica di qualsiasi ente o iniziativa caritativa;
3. Il rispetto della dovuta autonomia degli enti con fini di carità, secondo l’identità giuridica propria di ciascuno di essi;
4. Il rispetto della volontà dei fondatori e degli offerenti;
5. Il principio della trasparenza finanziaria;
6. Il rispetto della legittima legislazione civile in materia.
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione, menziono ora uno dei temi cruciali del testo, e cioè a quali organismi esso sia applicabile. Non è facile mettere ordine e, ancor meno, ridurre ad unum, le diverse tipologie che nel concreto il servizio della carità nel corso della storia ha assunto, sia nella denominazione che nella forma canonica. Lo stesso documento in esame utilizza diverse espressioni in proposito: iniziative, iniziative organizzate, opere, fondazioni, organizzazioni, organismo – institutum; quest’ultimo termine è quello prevalente nella parte dispositiva. Non va infine dimenticato che negli ultimi decenni stanno prendendo sempre più piede ONG di ispirazione cattolica – e questo fenomeno è dovuto anche ad una presenza più forte di iniziative cattoliche in ambito internazionale e sulle quali non c’è molta chiarezza dal punto di vista canonico. In ogni caso, come sappiamo, attualmente il CIC prevede due tipologie di persone giuridiche, le associazioni e le fondazioni (can. 115 § 1), laddove nel primo caso prevale l’aspetto personale, nel secondo quello dei beni. In ambito caritativo abbiamo a che fare normalmente con situazioni miste. Per inciso mi piace ricordare che neppure nel mondo Caritas la situazione è uniforme, dato che per es. per ragioni storiche in Italia Caritas italiana è una fondazione, mentre nei paesi di lingua francese le rispettive Caritas hanno piuttosto carattere associativo. Oggettivamente mi sembra – ma siamo nel campo del de iure condendo – che le sole due figure siano abbastanza limitanti, e prova ne è la difficoltà di trovare una denominazione chiara nel campo della carità che ora stiamo analizzando. Sulla base del proemio e della parte dispositiva enumererò poi i tipi di organismo a cui la legislazione si rivolge, mentre per ragioni di sintesi utilizzerò il termine di “organismo” per indicarli nel loro insieme, sottolineando fin da ora la difficoltà di censirli e di ordinarli in maniera esatta.

5. I soggetti della nuova legislazione
Li menziono senza enumerare i loro rispettivi doveri.
a. La comunità cristiana. Essendo il servizio della carità una dimensione costitutiva della Chiesa, esso rientra anche nel dovere di ogni singolo fedele. Inoltre la normativa insiste sulla dimensione pedagogica degli organismi di carità cattolici, che non hanno solo lo scopo di realizzare iniziative di carità, ma anche di animare i fedeli a compierle (art. 9 § 1). Del resto anche il Codice garantisce al can. 215 il diritto dei fedeli di creare associazioni con scopi di carità e al can. 216 il diritto dei fedeli di sostenere l’azione apostolica con specifiche iniziative, mentre il can. 222 § 1 sancisce il dovere del fedele di sovvenire alle necessità della Chiesa. Tale dovere è ribadito dai cann. 1261 e 1262 e indirettamente nel can. 394 § 2. Dunque il primo soggetto della carità è la stessa comunità dei fedeli. Il prof. Giacomo Incitti, nel suo commento circa la responsabilità del Vescovo, cerca di interpretare questa proprio come sforzo suppletivo di tutela e di promozione del diritto del fedele ad esercitare la carità, allargando “la nozione di responsabilità e collegandola non solo alle conseguenze delle azioni poste da altri, ma alla dimensione di giustizia radicata nella natura di un bene, in questo caso la carità: cioè il diritto del fedele cristiano, diritto che comporta la necessità ad avere un Vescovo carico di carità pastorale e, pertanto, capace di sviluppare, tutelare e garantire allo stesso fedele, la titolarità della missione che Cristo ha affidato alla sua Chiesa” (Responsabilità del Vescovo diocesano nel servizio della carità).
b. L’autorità nella Chiesa. La normativa enumera diversi compiti del Vescovo, per dare espressione a quel dovere di coordinamento contenuto nel can. 394 § 1. L’art. 3 § 1 del Motu Proprio applica a questa legislazione quanto il Codice prevede per autorità competente ai diversi livelli nel can. 312 § 1: in ambito diocesano il Vescovo, in ambito nazionale la Conferenza Episcopale, in ambito universale la Santa Sede. Come indicazione di principio, è bene ricordare che il documento definisce il Vescovo “Pastore, guida e primo responsabile” del servizio della carità (art. 4 § 1).
c. Gli organismi. Questo è forse il punto più interessante della normativa ed anche il più difficile, in quanto da una parte il servizio della carità della Chiesa passa attraverso tanti soggetti che lo praticano, dall’altra è estremamente difficile individuarli, enumerarli e classificarli. Il legislatore si è trovato qui a dover cercare un equilibrio tra il citato can. 394 § 1 sul coordinamento, da parte del Vescovo diocesano, delle opere di apostolato e tra il can. 215 che riconosce il diritto dei fedeli di associarsi con scopi di carità. Dunque la normativa, che ha lo scopo di garantire l’ecclesialità dell’attività caritativa di determinati soggetti, doveva trovare dei criteri che individuassero tali soggetti, ma senza risultare restringenti rispetto alla legittima libertà dei fedeli. Dal dettato del testo, sia nel proemio che nella parte dispositiva, mi sembra si possano elencare i seguenti tipi di organismi.
+ Le Caritas ai diversi livelli, che ricadono evidentemente nella normativa in quanto sono gli strumenti ufficiali del vescovo per realizzare la pastorale della carità nella sua diocesi. Va detto che la predisposizione di questo Motu Proprio è andata di pari passo con la preparazione di nuovi statuti per Caritas Internationalis, che ovviamente è un soggetto a sé e che rappresenta la confederazione in ambito universale delle Caritas nazionali. Tale entità lascia del tutto indipendenti ed autonome le singole Caritas, ma svolge un ruolo di coordinamento e di rappresentanza tra di esse. Nel decreto del Segretario di Stato che approva gli Statuti viene anche riconosciuto il ruolo speciale di Caritas nella Chiesa cattolica, e dunque nelle singole diocesi, per il suo legame speciale con il Vescovo, e, in ambito universale, con la Santa Sede.
+ Il proemio menziona poi “opere specifiche” promosse dalla Gerarchia, attraverso le quali “provvede istituzionalmente ad incanalare le elargizioni dei fedeli”. Si tratta di iniziative specifiche dei rispettivi Vescovi, di creare organismi ad hoc, che non sono Caritas. Ricadono in questa fattispecie per es. le diverse, cosiddette “Opere Quaresimali”, presenti in particolare, ma non esclusivamente, nei Paesi dell’Europa Centrale.
+ Una ulteriore tipologia sono “gli organismi e le fondazioni promossi con fini di carità dagli Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica”, come scrive l’art. 1 § 4, un fenomeno peraltro in crescita. Sono facilmente identificabili e riconducibili alla loro origine cattolica.
+ Infine abbiamo associazioni, fondazioni, organismi creati dalla libera iniziativa dei fedeli (art. 1 § 1 e 2). E qui la distinzione si fa complicata. Scrive mons. Arrieta nel suo commento al Motu Proprio: “Questo settore appartiene principalmente alla spontanea liberalità di chi a titolo gratuito intende praticare la virtù della carità, e, di conseguenza, muove in ambiti giuridici di libertà (conditio libertatis). Detto connotato impone di limitare al massimo gli interventi normativi…”. Tuttavia esistono degli spazi, per cui tali organismi si possono identificare come ecclesiali e allora ricadono sotto la normativa in esame. Il Motu Proprio scrive che dovrebbero risultare “collegati al servizio di carità dei Pastori della Chiesa e/o intendono avvalersi del contributo dei fedeli” (art. 1 § 1). Alcuni criteri per individuarli: l’essere in qualche modo riconosciuti dalla rispettiva autorità ecclesiastica; portare il nome cattolico; richiamarsi esplicitamente nei propri statuti alla dottrina cattolica; raccogliere offerte e collette in spazi ecclesiali. Probabilmente si tratta di orientamenti non esaustivi, dati proprio dalla pluralità di iniziative.
Nell’art. sopra menzionato, il prof. Pree si pone una domanda che giudica “di straordinaria rilevanza pratica”, e cioè se ricadano sotto la legislazione anche enti civili di ispirazione cattolica. Qui tocchiamo a mio avviso uno dei punti più importanti del Motu Proprio, proprio in vista di tante situazioni che si sono create in moltissimi paesi, certamente anche in Italia. Infatti esistono moltissime iniziative nate dallo spirito cattolico, che, per ragioni pratiche, hanno un riconoscimento civile nei singoli paesi. Parliamo di iniziative di assistenza, di cooperazione missionaria, di volontariato, di finanziamento che sono sorte in ambito cattolico per la buona volontà di qualche sacerdote, o di laici impegnati. Queste istituzioni chiedono un riconoscimento civile per poter agire in concreto, per ragioni fiscali o amministrative, o organizzative, ma hanno con la comunità cristiana dalla quale sono emersi solo vincoli ideali oppure si limitano alla persona del fondatore. Si applica ad essi il Motu Proprio? La domanda non vale solo per l’oggi, ma diventerà sempre più cogente in futuro. Infatti, dato il numero sempre minore di personale consacrato che garantisce di per sé l’identità cattolica di una istituzione, il problema che dovremo risolvere è se mantenere e come mantenere tutte queste istituzioni nella loro appartenenza ecclesiale. Con questo non intendo dire che dovremo mantenerle, perché anche da un punto di vista economico il peso si farà sentire sempre più, ma se vogliamo mantenerle, allora il Motu Proprio rappresenta uno strumento concreto per definire l’appartenenza ecclesiale di una istituzione . In questo senso ritengo che il Motu Proprio valga anche per le istituzioni riconducibili al servizio di carità della Chiesa che hanno solamente un riconoscimento civile. Mi sembra che debbano cercare anche un riconoscimento canonico, in modo che sia garantita la loro azione secondo un profilo ecclesiale. In questo senso, potranno formulare degli statuti che l’ordinario della rispettiva circoscrizione ecclesiastica potrà approvare. Una delle novità del Motu Proprio – anche a detta del prof. Luis Navarro (Diritti dei fedeli e servizio della carità “organizzato”) – è che per la prima volta in una legislazione canonica sono enumerati all’art. 2 § 1 gli elementi che devono essere considerati negli statuti di un organismo cattolico: principi ispiratori, finalità, gestione dei fondi, profilo degli operatori, rapporti con l’autorità ecclesiastica e informazioni da presentarle.

6.Alcuni punti specifici
a. La collaborazione con enti pubblici. Mi risulta peraltro che per la prima volta in una legislazione canonica sia previsto un articolo (il nr. 5) in cui si prescrive l’osservanza della legislazione civile nella rispettiva materia. Collegandomi tuttavia all’ultimo punto del precedente capitolo sul campo di applicazione della nuova normativa, vorrei riprendere un pensiero del prof. Dalla Torre, il quale vede proprio nella tutela della identità una delle ragioni fondanti per la necessità dell’organizzazione, e dunque dell’intervento giuridico, nel campo del servizio della carità ecclesiale (L’organizzazione della carità). E’ una questione sulla quale ritengo che dobbiamo concentrare la nostra attenzione, data la forte incidenza di istituzioni cattoliche nel tessuto sociale, direi anche e soprattutto in Italia. Tale incidenza mi sembra fortemente aumentata negli ultimi anni, anche forse per le scelte pastorali che sono state adottate. Paradossalmente, mentre si abbassa la presenza nel settore scolastico, quella nel settore assistenziale ci vede ancora molto vivaci. Questo avviene per almeno tre ragioni. La prima è l’oggettivo interesse della Chiesa a vivere la sua vocazione alla diakonia – e questa sensibilità è forse più marcata rispetto al passato, o perlomeno è entrata maggiormente nell’orizzonte pastorale e meno lasciata agli specialisti di qualche congregazione religiosa. Una seconda ragione è l’interesse che la mano pubblica dimostra di avere, affidando a istituzioni religiose compiti assistenziali per la fiducia nella competenza e capacità della Chiesa in questo settore. Una terza ragione risiede nel fatto che anche il settore dell’assistenza risponde sempre più alle leggi del mercato, della domanda e dell’offerta, ma soprattutto del sostegno pubblico, il quale garantisce l’offerta di determinati servizi da parte di istituzioni ecclesiali. Parlerò poi della questione finanziaria, ma ora mi concentro sul fatto che questo ci permette grazie a Dio di offrire molti servizi. Ma non possiamo nasconderci che in molti casi alla vastità dei servizi non ha corrisposto un’ altrettanto oculata attenzione alla qualità del personale, al tipo di servizio, all’ispirazione ecclesiale del nostro agire, con il rischio di trasformare organismi caritativi in grandi aziende di servizi. L’insistenza del Motu Proprio sulla questione identitaria non vuole essere monito motivato dalla paura di perdere qualcosa, ma dalla sincera preoccupazione che il nostro servizio sia all’altezza di ciò che crediamo. E’ fondamentale svolgere una riflessione, che la normativa vorrebbe suggerire, circa le iniziative che prendiamo per garantire il profilo cattolico delle nostre istituzioni in campo caritativo, proprio oggi che la loro incidenza si fa più forte. Ma lasciatemi anche dire – sulla scorta dell’esperienza di altri paesi europei – che non mi sembra fuori luogo anche una riflessione sulla quantità dei servizi e dunque sulla nostra effettiva capacità di realizzarli nello spirito che ci corrisponde. Dobbiamo anche avere il coraggio di riconoscere che la giusta collaborazione con enti pubblici non può significare che dobbiamo abdicare alle nostre convinzioni o che i nostri organismi diventino organismi “laici” perché operano nel settore pubblico. Resto convinto che il servizio della carità resta una chance pastorale come poche altre, proprio per raggiungere tante persone altrimenti lontane.
b. Le finanze. Il Motu Proprio tratta della questione in diversi passaggi. L’art. 4 § 3 rimanda, per la gestione degli organismi, alle norme del diritto; in particolare evoca la necessità di rispettare le volontà dei fedeli circa donazioni o lasciti per specifiche finalità. Riprende così il dettato del can. 1300 CIC sulla scrupolosa attuazione delle volontà dei fedeli in caso di donazione tra vivi oppure in caso di morte. All’art. 9 § 3 si chiede di evitare che attraverso strutture parrocchiali o diocesane vengano pubblicizzate iniziative che non sono in consonanza con l’insegnamento della Chiesa. Questo va applicato evidentemente anche alla raccolta di fondi o a collette per entità non cattoliche in spazi ecclesiastici. E’ però l’art. 10 a dare delle indicazioni più precise circa le finanze. Statuisce al § 1 la competenza del Vescovo di vigilare sui “beni ecclesiastici degli organismi caritativi soggetti alla sua autorità”. Questa norma applica in particolare agli organismi quanto statuito al can. 1276 § 1. Al can. 1267 circa la destinazione delle offerte fa invece riferimento il § 2, che stabilisce il dovere del Vescovo di assicurarsi circa la effettiva destinazione delle collette per la finalità per la quale sono state raccolte. Di particolare rilievo, e nuovo in questa formulazione, è il § 3 dell’art. 10 circa il finanziamento da parte di terzi. Questa norma nasce da problemi concreti insorti negli ultimi anni e che hanno spinto il legislatore universale ad offrire un appoggio agli episcopati locali. In particolare in Europa e nell’America settentrionale, il finanziamento pubblico in alcuni casi è stato sottoposto a condizioni inaccettabili per la parte cattolica. Mi riferisco all’obbligo di sottoscrivere impegni riguardanti il controllo delle nascite, l’ideologia del gender o l’adozione a coppie dello stesso sesso per poter usufruire di finanziamenti pubblici. Ci sembra che di tale questione dobbiamo essere tutti consapevoli, anche perché presumibilmente si porrà in maniera ancora più forte in futuro, nel clima culturale dominante, sia nei singoli Stati, che, per es., nei rapporti con l’Unione Europea. Per tale motivo si è voluto sostenere l’azione di orientamento dei Vescovi in questa materia con delle norme specifiche al riguardo. Esse rispondono a mio avviso a due criteri teologici: evitare la cooperazione al male ed evitare lo scandalo dei fedeli. La normativa prevede al riguardo tre attenzioni: non accettare finanziamenti da parte di istituzioni che, in sé, perseguono fini contrari alla dottrina cattolica; non accettare finanziamenti sotto condizioni contrarie alla fede cattolica; non accettare finanziamenti per progetti specifici contrari alla fede cattolica. Si è posta negli ultimi mesi anche la domanda circa il finanziamento da parte di agenzie cattoliche a istituzioni che, tra gli altri, svolgono anche progetti da risvolti che non sono in linea con la fede cattolica. In questo ambito, tutte le questioni riguardanti la vita hanno ovviamente una collocazione particolare e richiedono massima attenzione. E qui invitiamo tutti ad una vigilanza speciale secondo i due criteri che ho menzionato prima della cooperazione al male e dello scandalo. Va da sé che dobbiamo accettare anche un ridimensionamento della nostra azione di carità, se una cooperazione di questo tipo deve comportare dei compromessi di natura dottrinale. Nota in tal senso è la vicenda, risolta con lettera di Giovanni Paolo II ai Vescovi di Germania del gennaio 1998 sulla consulenza a donne incinte in consultori cattolici.
Infine le norme dell’art. 10 prevedono una sobrietà nella gestione amministrativa, anche nei compensi, che possono trovare nelle spese della Curia diocesana una proporzione di riferimento e la consegna di un rendiconto annuale all’ordinario competente da parte degli organismi di carità, “nel modo indicato” dallo stesso Ordinario. Quindi a nostro avviso è bene che, per mettere ordine nelle numerose iniziative di carità, i singoli organismi stendano Statuti canonici che contengano anche questa provvisione.
Riguardo alla collaborazione con istituzioni pubbliche, desidero sottolineare che il finanziamento da parte della mano pubblica, che è così diffuso, non è in questione in quanto tale. Tuttavia dobbiamo a mio avviso sviluppare due attenzioni, che mi permetto di sottoporre anche per l’esperienza in altri paesi europei e per la considerazione che il finanziamento pubblico in futuro andrà piuttosto diminuendo, a motivo dei tagli allo stato sociale che l’attuale congiuntura impone. Dunque per un verso non si esaurisce mai il compito di mantenere la specificità dei servizi che offriamo, lo spirito profondo che li anima, la testimonianza che traspira dal nostro agire. Dunque il finanziamento pubblico non deve mettere in ombra l’appartenenza ecclesiale dell’organismo e, segnatamente, delle persone che vi operano. Dall’altra credo che sia giunto il momento di una certa prudenza nell’assumersi nuovi oneri e nuovi servizi di tipo assistenziale, per evitare di gonfiare strutture che con il tempo non saremo più in grado di finanziare. La vastità dei bisogni, proprio in un momento di crisi, non deve farci però perdere il senso della misura, perché non tocca alla Chiesa svolgere compiti che sono propri dello Stato. Vale sempre più il concetto di “opere-segno” che indicano un cammino esemplare per tutti, ma senza voler risolvere ogni problema sociale.

Purtroppo non ho potuto affrontare altri temi che ci stanno particolarmente a cuore, in particolare riguardo al personale, e che il Motu Proprio affronta. Confido però nella disponibilità delle diocesi in Italia di utilizzare questo strumento come verifica e come nuovo stimolo per una testimonianza di carità che sia sempre più conforme alla fede in Cristo.


cf. L'OSSERVATORE ROMANO, mercoledì 12 marzo 2014, p. 8.

 

 

 

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