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IL VOLONTARIATO:

DINAMICA CENTRALE DELLA MISSIONE ECCLESIALE

  

1. VOLONTARIATO O LAVORO?

 Il titolo assegnatomi, per questa relazione, mi ha inizialmente sorpreso, perché mi è giunto nel momento in cui si acuiva in Italia la polemica tra chi richiedeva anche al volontariato criteri di maggiore imprenditorialità e di efficienza economica (assimilando tout court il volontariato ad altre forme organizzate di cooperazione sociale), e chi difendeva il volontariato come portatore gratuito dei valori della persona e della tutela dei più deboli.

Non ho una particolare esperienza di tali questioni, ma, riandando alla storia bimillenaria della Chiesa, si scopre che, quasi sempre, la "carità cristiana" dapprima anticipa la risposta ai bisogni sociali emergenti - quando ancora la società civile non è in grado di dare e, forse, neppure di immaginare o di voler dare risposte (il che può durare dei secoli) - poi, per un certo tempo, le opere e le imprese della carità convivono assieme alle risposte che la società e gli stati imparano a dare (risposte che pian piano diventano, in senso proprio, "lavoro"), e infine queste ultime s'impongono e si assumono quasi totalmente la risposta sociale a quelle determinate necessità; ma nel frattempo la "carità cristiana" ha intravisto nuovi e disattesi e più gravi bisogni, e ha iniziato a dare nuove risposte...

E non è affatto escluso che certi nuovi bisogni e certe nuove risposte siano esigite proprio dal fatto che il lavoro che ha ereditato le opere della carità ha, nel frattempo, dimenticato la "compassione".

Personalmente, dunque, penso che allo stesso modo oggi dovrebbe essere considerata positivamente sia l'insistenza irriducibile di chi vuole difendere il proprium del volontariato (soprattutto di quello cristiano) -individuato nella gratuità-, sia la convinzione di chi vede, in tutto il cosiddetto "terzo settore" e nelle varie forme di "economia sociale", il bacino più ampio che, da un lato, potrebbe saggiamente garantire il proprium gratuitum del volontariato, ma, dall'altro, potrebbe proiettare esigentemente le stesse realizzazioni del volontariato nel più vasto campo della solidarietà sociale e della politica.

Dopo queste brevi osservazioni, che non vogliono avere alcuna pretesa risolutiva, ritorno al tema fissatomi che lega strettamente tra loro l'esperienza del volontariato e la missione ecclesiale; e le lega a tal punto da voler scoprire nel volontariato "la dinamica centrale della missione".

 

2. VOLONTARIATO E MISSIONE ECCLESIALE?

 Domandiamoci: non è questa un'esagerazione o una pretesa eccessiva nel momento in cui molte espressioni di volontariato non amano dirsi cristiane e rivendicano la più completa laicità?

Da un certo punto di vista ciò e innegabile, e la Chiesa non pretende certo di appropriarsi di qualcosa che è -come si è espresso Giovanni Paolo II nel- "quasi una legge dell'esistenza", che si radica "in quel moto innato del cuore che stimola ogni essere umano ad aiutare il proprio simile"1.

E tuttavia, anche in questo caso, il Papa non ha esitato a cercare in Cristo "la ragione profonda di questa universale esperienza umana".

Perciò, pur rispettando l'identità e le posizioni ideali di tutti i volontari, è giusto anche esplicitare quale sia in proposito il punto di vista di una Chiesa che sa "di non aver mai cessato in due millenni di testimoniare l'amore", camminando sulle orme di Cristo e scrivendo pagine edificanti grazie a santi e sante che hanno segnato la storia".2

 La storia insegna che, fino alla nascita del cristianesimo, quasi non si parla di carità, né tanto meno di volontariato nel servizio ai poveri e ai derelitti, se non parzialmente nella ristretta cerchia della società giudaica.

Nel mondo greco-romano si parla, al più, di una vaga filantropia che raggiunge i poveri nella forma dell'evergetismo (da euverge,ths: benefattore dello Stato), avente lo scopo di esaltare la liberalità e la magnificenza del benefattore.

In un recente studio sociologico, dedicato a questo tema, leggiamo:

"Le paganisme abandonnait sans grands remords l'affamé, le vieillard ou le malade; asiles des vieillards, orphelinats, hôpitaux, etc. sont des institutions qui n'apparaissent qu'à l'époque chrétienne; leurs noms mêmes sont nouveaux en latin et en grec3; il suffit de parcourir le titre 1,2 du Code Justinien relatif aux églises et à leurs privilèges. (Sur l'importance de ces innovations dans l'histoire de la civilisation, voir Jean Daniélou et H. I. Mouroux dans Nouvelle Histoire de l'Eglise, Seuil, 1963, vol. I, p. 369). Les païens déposaient bien des esclaves malades dans certains temples, mais était surtout pour s'en débarrasser décemment en les confiants au dieu. Le paganisme ignorait tellement les institutions charitables que, lorsque Julien l'Apostat, voudra battre avec ses propres armes le christianisme (qu'il appelait athéisme) il trouvera tout à faire: 'Ne voyons-nous pas ce qui a le plus contribué à rehausser l'athéisme?' -écrit-il- 'C'est la philanthropie4 envers les étrangers, l'attention qu'ils apportent à ensevelir leurs morts!'. (C'est le christianisme, en effet, qui a valu à tout homme d'être enterré avec quelque cérémonie, quel que fût son statut social; chez les païens les corps des esclaves et des miséreux étaient jetés à la voirie). 'Comme nos prêtres ne se souciaient pas et ne s'occupaient pas des miséreux', continue Julien, 'les impies Galiléens ont inventé de s'adonner à cette forme de philanthropie pour populariser leur exécrable entreprise'" 5.

 Aggiungiamo a questa lunga citazione il fatto che Giuliano l'apostata si spingeva fino a fustigare i suoi con questa ammissione: "E' una vergogna per noi che tra i giudei nessuno mendica, e che gli empi galilei nutrono non solo i loro poveri, ma anche i nostri!".

Se quest'analisi corrisponde al vero, bisogna dunque ammettere che la carità sociale è un'invenzione cristiana perfino nella terminologia, e che qualcosa di originariamente cristiano resta sempre in ogni forma di volontariato che non si basi soltanto su una generica filantropia o su forme riesumate di evergetismo.

E il pensiero cristiano ne ha sempre sottolineato l'abissale differenza. Si tratta di una differenza già clamorosamente evidente quando filantropia significa, come abbiamo appena detto, evergetismo; ma lo è anche quando significa: volontà di intervenire sul bisogno altrui e sulla miseria:

Mi permetto di citare da un'altra relazione da me già tenuta su invito del Pontificio Consiglio "Cor Unum", in occasione del Giubileo:

"La filantropia ha di mira il bisogno, la sofferenza. La filantropia dura quanto dura il bisogno altrui, non è eterna6. Essa si ferma alla pietà: è un mezzo per alleviare l'indigenza, non è un fine. La carità invece, di per sé, non suppone il bisogno della persona alla quale si rivolge. Se incontra il bisogno, certo, lo solleva. Ma essenzialmente essa ha di mira la dignità e la bellezza sacra dell'altra persona - la sua preziosa appartenenza a Cristo Gesù - a prescindere dalle sue eventuali minorazioni. I Santi "vedono i poveri in Gesù" perché essi hanno imparato a vedere la loro divina dignità. Ma occorre ricordare che tale dignità essi la scoprono anzitutto in se stessi e in qualunque uomo si accosti loro. Se si appassionano ai poveri, con amore travolgente, è perché in costoro tale dignità ancor più grida e, a suo modo, meglio rifulge nei volti crocifissi. Allo stesso modo essi "vedono Gesù nei poveri" perché costoro offrono a Gesù, ormai asceso in cielo, una specie di prolungamento di umanità che può essere "toccata" e "onorata". In una sola parola: nei Santi, anche la carità verso il prossimo va immediatamente a Gesù e alle sue membra, soprattutto a quelle sofferenti perché meglio rivelano la sua interminabile Passione".

 Siamo già entrati, quasi inavvertitamente, nel cuore più profondo del mistero cristiano, anche se per ora vogliamo sottolineare soltanto questo: che il volontariato cristiano guarda con simpatia ogni altro volontariato, non solo perché sa di essere nascostamente alle sue origini (anche quando queste non vengono più riconosciute), ma anche in forza di una suprema oggettività cristiana.

Come il cristiano crede che Cristo facendosi uomo "si è unito in certo modo ad ogni uomo", e che "ciascun uomo è stato compreso nel mistero della Redenzione" (RH, 13), tanto da chiamare "Vangelo" lo stesso "profondo stupore" che prova nei riguardi della dignità di ogni uomo (cfr. RH, 10), così crede che esista un oggettivo riferimento a Cristo tutte le volte che tra gli uomini si instaurano legami di reciproca salvezza, a prescindere che se ne abbia o no esplicita coscienza.

Dire perciò - e torniamo così al nostro titolo - che il volontariato è al centro della missione ecclesiale, non significa cooptare a forza tutti i volontari in questa missione, ma significa che il cristiano è lieto di percepire - oltre ogni confine visibile ed esplicito - l'"unico cuore" ("cor unum") che batte in chiunque si dedichi al suo prossimo.

 

3. LA "BUONA VOLONTÀ" DI DIO ALLE ORIGINI DEL VOLONTARIATO CRISTIANO

 Dopo una visione quanto più possibile ampia, ci interessa comunque precisare i contenuti di coscienza e di azione specifici del volontariato cristiano.

Se non vado errato, nelle attuali lingue europee, solo la lingua francese, mantiene un certo ricordo delle origini cristiane della parola volontariato, parlando di bénévolat (per cui l'infermiera volontaria è una "infirmière bénévole"), con un certo oggettivo riferimento a quel testo evangelico natalizio che sembra fatto apposta per mettere subito in evidenza la discriminante teologica del nostro problema.

Tutti sanno, infatti, che gli "homines bonae voluntatis", (ai quali il canto angelico augurava la pace natalizia), sono diventati tradizionalmente gli "uomini di buona volontà", anche se il testo intendeva più propriamente parlare della "buona volontà di Dio" che si manifesta agli uomini con la venuta del Salvatore.

Questa è propriamente la discriminante della carità cristiana che fluisce sì benevolmente da uomo a uomo, ma solo perché l'onda dell'amore sgorga dal seno stesso della Trinità e riempie il cuore della creatura.

Noi cristiani siamo tutti abituati a parlare della inscindibile unità dei due grandi comandamenti - l'amore di Dio e l'amore del prossimo - ma non siamo altrettanto abituati a riflettere che l'unità è più un avvenimento che un'indicazione morale.

Che altro è l'evento dell'incarnazione del Figlio di Dio se non l'avvenimento di Dio che si fa prossimo? Se è vero che il bambino è il primo prossimo della sua mamma, in Maria accade appunto il miracolo dell'unificazione assoluta dei due comandamenti: Maria ama il suo Dio che è il suo prossimo e, in questo amore, è ricambiata da un prossimo che è il suo Dio.

La stessa meravigliosa scoperta faranno poi gli apostoli, nel tempo della prima sequela, imparando giorno dopo giorno che il loro amico e maestro è anche il loro Dio.

A rivelazione conclusa, dopo che lo sguardo dei discepoli si sarà fissato successivamente sul Crocifisso e sul Risorto e sul pane eucaristico e sulla contemplazione del mistero nascosto da secoli (quello, per ripeterci, che lega Gesù ad ogni uomo), l'unione dei due comandamenti diventerà per il mondo intero la buona novella: tutti siamo stati amati da un Dio fattosi nostro prossimo, e tutti siamo divenuti prossimo che merita infinito, divino amore.

 Ci sono molti modi di definire la Chiesa e nessuno di essi è esaustivo, soprattutto se la si contempla - come facevano i Padri della Chiesa - già esistente "fin dalla creazione del mondo, o prima ancora" ed estesa "usque ad ultimum electum".

 Un modo sufficientemente rispettoso delle dimensioni del mistero, ci sembra tuttavia questo: la Chiesa è sempre là dove il mondo impara a conoscere ed amare Dio: la Chiesa è il mondo che conosce è ama il suo Creatore.

E poiché Dio ha voluto rivelare il suo volto in quello del suo Figlio unigenito, la Chiesa può essere definita come "il mondo che impara a conoscere ed amare Gesù Cristo": dal centro della massima coscienza amante (quella di Maria e, in subordine, dei santi) alla massima circonferenza dove si realizzi un rapporto ancora inespresso, anche solo in forza di un presentimento, di un desiderio, di un orientamento oggettivo.

Ed è chiaro che questo amore, che dal mondo si protende a Cristo, altro non è che la risposta fragile ma vera dell'amore che il mondo ha ricevuto e continuamente riceve in Cristo.

 La Chiesa altro non è che questo scambio d'amore che la grazia di Dio realizza nel mondo, anche se si tratta di un amore ancora amalgamato a mille impurità.

Ed è questo amore, questa carità, che costituisce la Chiesa.

 

 4. QUALCHE APPUNTO SULLA CARITÀ ECCLESIALE NEL PRIMO MILLENNIO

 A voler ripercorre la storia della carità ecclesiale, ci si accorge che devono anzitutto essere superati almeno due stereotipi.

Il primo stereotipo è quello di chi pensa all'attività caritativa come ad un fiore che nasce e si sviluppa là dove si estenua o non giunge la Chiesa-istituzione.

Storicamente è vero esattamente il contrario: la storia della carità, nella Chiesa, è anzitutto la storia ufficiale della carità dei vescovi da subito considerati e chiamati "padri dei poveri" (così già nelle Costituzioni Apostoliche). Ed è questa loro carità che - fin dall'epoca costantiniana - si sostituisce all'evergetismo degli antichi notabili, con nuove motivazioni di vera e intelligente compassione, di vera e responsabile paternità per la massa dei diseredati.

Ai vescovi gli imperatori delegano "l'ufficio della carità sociale", e il Codice di Giustiniano sancirà - come abbiamo visto - il fatto, descrivendo i compiti e i privilegi delle Chiese.

Se vogliamo scegliere, tra tutte, una pagina celebre, merita d'essere ricordata qui l'esperienza del grande Basilio che "completò", per così dire, la sua diocesi di Cesarea edificandole accanto "Basileide", la città della carità, la città di tutte le opere di misericordia saggiamente organizzate.

Certo, con i vescovi collaborarono subito i nobili cristiani costruendo e offrendo ospedali (come quello di Fabiola a Roma), e ospizi dei poveri (come quello di Pammachio ad Ostia).

Tra il sec. VI e il sec. IX, quando il mondo antico cede definitivamente il passo e nasce, dall'incontro della Chiesa con i popoli barbari, una nuova civiltà cristiana, l'azione caritativa diventa un fatto istituzionale con le "diaconie" che nascono qua e là nella Chiesa e la cui organizzazione si afferma soprattutto a Roma.

Al tempo di Leone III, si contano già 24 diaconie: esse tengono le liste dei poveri, provvedono alla conservazione e distribuzione di generi alimentari, offrono ospitalità a forestieri e malati, gestiscono magazzini, bagni, e sono dotate di proprietà rurali e urbane.

Vi lavoravano, in qualità di dirigenti e inservienti, preti, monaci e laici, anche se il "pater diaconiae" era quasi sempre un laico.

Ospedali e xenodochi, a volte venivano assorbiti dalle diaconie, a volte si sviluppavano in proprio.

E resta da menzionare, negli stessi secoli, la nascita di scholae (francorum, frisonorum, saxonum, longobardorum, che col tempo si organizzeranno in colonie e corporazioni, con scopi anche militari) tenute da stranieri per ospitare e assistere i pellegrini della propria nazione7.

La nascita di liberi "carismi" più esplicitamente finalizzati a promuovere movimenti di carità, risale al Medioevo, quando la Chiesa cominciò ad essere spogliata dei suoi beni dai signori feudali e il disordine sociale crebbe a dismisura.

Ma, anche allora, è la casa del vescovo che continua ad essere punto di riferimento per poveri, malati, pellegrini e stranieri; e, accanto ad essa, vengono spesso costruiti opportuni edifici destinati al loro sollievo.

Quando il potere vescovile s'indebolisce, sono i monasteri (tra cui si distinguono quelli cistercensi) a prendersi cura anche dell'assistenza materiale e sanitaria delle popolazioni loro affidate.

 Ciò ci ricorda che un altro stereotipo da superare è quello di chi pensa al fiorire delle opere di carità come ad un avvenimento alternativo o almeno parallelo al fiorire delle istituzioni monastico-contemplative.

Si proietta, cioè, indietro nel tempo quell'apparente dualismo che oggi c'è tra istituti religiosi dediti alla carità (alla cosiddetta "vita attiva") e istituti esclusivamente dediti alla contemplazione che invece si preoccuperebbero solo di Dio e della dimensione trascendente.

In realtà il monachesimo (sia quello antico che quello benedettino) non ha mai messo a tema la cosiddetta "carità sociale" (che a tanti contemporanei sembra l'unica comprensibile e accettabile), ha messo semplicemente a tema la scelta totalizzante di Cristo: il fatto che il monaco "non deve avere al mondo nulla di più caro di Cristo", il fatto che "nulla assolutamente deve esser anteposto all'amore di Cristo".

Ma, su questa base e per questo scopo, i monaci si mostrarono capaci della più grande carità verso l'uomo al punto da salvaguardare l'umano, la società, la civiltà, sotto tutti gli aspetti.

Seppero così ricostruire un mondo in rovina, e difendere, ristabilire o riscoprire tutti i nessi sociali, sia materiali che spirituali, della carità.

Il ricordo di S. Benedetto è qui di rigore.

Mi permetto di citare una pagina del profilo che gli ho dedicato nei miei Ritratti di Santi:

 "L'esistenza che la Regola (benedettina) descrive e prescrive è tutta organizzata attorno a un duplice "lavoro" ("opus"): il lavoro per Dio e il lavoro delle mani. I monaci sono infatti "operai del Signore". L'opus Dei (la preghiera comune di tutti i monaci) è un lavoro che dev'essere compiuto "al cospetto degli angeli" e deve scandire le ore del giorno e della notte. Esso dà un orientamento verticale e purificatore a tutte le tensioni dell'esistenza (...). L'opus manuum è il lavoro a cui tutti devono applicarsi negli altri tempi della giornata. In un'epoca in cui il lavoro è affare di schiavi, Benedetto lo fa diventare questione di umana dignità, di fraterna solidarietà e di spirituale offerta. Perfino gli strumenti di lavoro vanno trattati "come i vasi sacri dell'altare". Ora et labora, il motto sintetico che diverrà poi tradizionale, descrive il monaco che sa di lavorare con Dio e per Dio, ma sa che anche Dio lavora con lui e in lui. Fu così che i monaci, guidati da questa Regola impararono a rendere "eroica la vita quotidiana e quotidiana la vita eroica" con lo stesso ritmo con cui apprendevano "a dissodare terre e a darle alla civiltà", dopo aver dissodato e offerto a Dio il loro cuore. Col passare dei secoli "l'Europa sarà rinserrata in una rete di fattorie modello, di centri di allevamento, di focolai di alta cultura, di fervore spirituale, di arte di vivere, di volontà di azione, in una parola: di civiltà ad alto livello che emerge dai flutti tumultuosi della barbarie. San Benedetto è senza alcun dubbio il Padre d'Europa. I Benedettini, suoi figli, sono i padri della civiltà europea": così ha scritto Léo Moulin. Col tempo i monaci impareranno a dissodare terre, bonificare, irrigare, fino a gestire vere e proprie aziende agricole, allevamenti, vivai, serre sperimentali. Impareranno e insegneranno la viticultura, lo sfruttamento delle foreste, l'uso delle piante medicinali. Si preoccuperanno di ricopiare nei loro freddi "scriptoria" tutte le opere dell'antichità classica che oggi noi conosciamo soltanto per loro merito. I monasteri diverranno perfino centri finanziari, e adempiranno per secoli anche alla funzione di banche di depositi e prestiti. Dicono che in Europa non c'è luogo in cui non si trovino tracce dell'azione dei monaci, e molte città ebbero il loro primo nucleo in un'abbazia. La Regola è all'origine di tutto questo: ha salvato e costruito l'Europa non perché offrisse un progetto dettagliato e credibile di ricostruzione, ma perché trasmetteva un modello di vita in cui "la dignità umana aveva un riconoscimento quotidiano" (Bernard de Jouvenel) e - aggiungiamo noi - tale dignità era riconosciuta in ogni azione del giorno: dalla più sacra alla più umile. Lo scopo di Benedetto - e poi quello dei suoi monaci - non fu quello di supplire alle deficienze di una società in sfacelo, ma quello di poter semplicemente realizzare la vocazione che Dio dona all'uomo. Benedetto credette, insomma, che era possibile anche nel deserto (geografico e morale) aprire una "schola dominici servitii": "una scuola per imparare a servire il Signore"; ma comprese che, in quell'anno e in quei secoli, una simile "scuola" doveva semplicemente farsi carico di insegnare tutto, anche tutto l'umano: dalla cortesia al senso della misura, dalla tenerezza alla serietà, dall'onorare Dio all'onorare i propri fratelli e le proprie responsabilità"8.

 Se abbiamo citato questa pagina di storia benedettina, è solo per combattere -lo ripetiamo- lo stereotipo di chi considera la vita monastica-contemplativa come socialmente inutile in confronto alle esistenze dedicate alla carità sociale.

Tutte le soppressioni degli istituti dei secoli scorsi furono giustificate con questo assurdo criterio. Ma la validità sociale delle istituzioni contemplative, e l'influsso storico e caritativo dei contemplativi è stato ed è ancora così ampio, che gli stessi fondatori degli istituti più attivi si sono personalmente considerati dei contemplativi e hanno strettamente legato le loro opere a forme di esperienza contemplativa.

La vita monastica-contemplativa esercita sempre un'oggettiva funzione di traino sociale, anche quando non si dedica esplicitamente a opere di carità. Si dedica infatti ad affermare -per dirla alla maniera di Pascal- che "l'uomo supera infinitamente l'uomo".

Senza questa affermazione, anche la promozione sociale dei derelitti finisce per essere, nel migliore dei casi, il passaggio da una forma inferiore di schiavitù a una forma di schiavitù superiore, più raffinata e disperante.

 

5. QUALCHE APPUNTO SULLA CARITÀ ECCLESIALE NEL SECONDO MILLENNIO

 E' vero comunque che nella storia della Chiesa si assiste a un progressivo chiarirsi di due dimensioni costitutive, ambedue essenziali e portanti: quella istituzionale e quella carismatica.

Due dimensioni sempre esistite, sia chiaro, come espressione dell'unica guida dell'unico Spirito Santo, ma che esplicitano man mano il loro rispettivo scopo: stabilire e guidare la Chiesa come corpo organico di Cristo (dimensione istituzionale) e animarla con carismi molteplici, come Sposa amante di Cristo, occupata nella salvezza del mondo (dimensione carismatica).

Doni gerarchici e doni carismatici non si oppongono né si elidono a vicenda; costituiscono anzi assieme l'unico "corpo della carità", ed è assieme che tali doni permettono al mondo di sapersi e sentirsi amato da Dio.

Fu soprattutto nell'epoca comunale, quando l'istituzione ecclesiale era particolarmente appesantita, che la carità divenne per così dire una questione "carismatica".

Nacquero allora comunità religiose laicali destinate alla cura degli infermi e dei poveri che si concepirono e si strutturarono come veri e propri ordini religiosi ospedalieri; si diffuse soprattutto il sistema delle Confraternite o Compagnie o Misericordie che esplicitamente radunavano i cristiani attorno a qualche particolare opera di carità.

Ma fu soprattutto per l'indubbio influsso del movimento francescano che i poveri vennero percepiti e indicati, come non mai, come "amici di Dio".

Segno particolare dei tempi è la cura dei lebbrosi, che incutevano sì terrore, ma venivano anche chiamati "infermi di Dio", "martiri di Cristo". Si costruirono lebbrosari (pare circa 3000) e non mancarono cristiani che si misero al loro servizio. Come non mancarono lebbrosari che si autogestivano totalmente nella forma di comunità religiosa.

Se la giovanissima Elisabetta di Turingia o d'Ungheria (1207-1231) è considerata nel calendario della Chiesa "patrona delle associazioni caritative, e di vedove, orfani, malati, mendicanti e dei perseguitati ingiustamente e di tutti i sofferenti" non è perché sia capostipite di un particolare movimento carismatico al riguardo9, o perché sia stata fondatrice di almeno due ospedali, ma perché personifica lo spirito di tutta un'epoca che, al seguito di Francesco d'Assisi, si innamora di Cristo povero e quindi dei "poveri cristiani", quale che sia la miseria che li affligge. Ed è uno sguardo così totalizzante ed esigente che Theodor Schnizler l'ha paradossalmente definita "la santa della giustizia".

 Un altro passo significativo venne poi compiuto nell'epoca moderna, soprattutto quando la miseria e i miseri cominciarono ad essere considerati dagli Stati più come un problema di ordine sociale e di "polizia" che come stimolo per la carità cristiana.

In questo senso gli influssi negativi della Riforma protestante furono considerevoli.

Per fortuna, incrollabile fu la forza cattolica nel riaffermare la dottrina della necessità delle opere per la salvezza.

Il vivaio di una poderosa rinascita delle "opere di carità" fu allora quella "compagnia del Divino Amore" che si assunse il peso della riforma cattolica e che aveva come scopo primario quello di "piantare in li cori il Divino Amore", raggruppando e "mettendo in movimento" cristiani di ogni estrazione: cardinali, preti, frati, laici, uomini e donne.

E' in tale contesto che la carità diventa evidentemente opera di personalità carismatiche che si sentono chiamati a rinnovare e riformare la Chiesa, non con la polemica e il dibattito teologico, ma con un rinnovato amore al mistero dell'Incarnazione, e con l'assunzione missionaria di qualche particolare bisogno ecclesiale.

Gli ammalati negli ospedali, i mendicanti, gli appestati e gli incurabili, gli orfani e i trovatelli, le donne perdute, i carcerati e i galeotti, i condannati a morte, i vecchi abbandonati, i pazzi, gli schiavi, i moribondi vengono non solo assistiti, ma "onorati" come Cristo stesso (soprattutto questo è l'aspetto -propriamente contemplativo- che caratterizza il carismatico).

Nominare grandi figure come S. Giovanni di Dio, S. Camillo de Lellis, San Girolamo Emiliani, S. Angela Merici, S. Carlo Borromeo è qui di rigore.

La loro opera tenderà quasi tutta a confluire -non giuridicamente ma idealmente- in quella di colui che è chiamato per antonomasia "il Santo della Carità", S. Vincenzo de' Paoli, sulle cui braccia sembrano cadere, nella Francia del sec. XVII, tutte le necessità e tutte le povertà: ed egli tutte le accoglie spiegando sempre a discepoli e seguaci, che quell'ammasso di miserie è un fiume di grazie con cui Dio privilegia i suoi chiamati.

Oltretutto Vincenzo de' Paoli ebbe il merito d'essere il primo a saper liberare per la carità -in maniera organica- un'immensa forza fino ad allora pochissimo utilizzata: quella delle donne, costruendo per loro una sorta di "clausura della carità" nella quale il servizio ai poveri è strutturato ed esigente come lo sono gli spazi, i tempi, i ritmi di un monastero.   

A partire dalla rivoluzione francese le grandi opere e i grandi istituti votati alla carità vengono laicizzati e praticamente distrutti, da un illuminismo insipiente.

Per grazia di Dio, il secolo XIX vede la nascita o rinascita di numerose congregazioni religiose maschili e femminili votate alle più diverse forme di carità (Giovanni Bosco, Cottolengo, Orione, Francesca Saverio Cabrini, Maria Crocifissa Di Rosa, Antida Thouret, Maddalena di Canossa sono i primi nomi che vengono in mente) contemporaneamente al fiorire di numerose associazioni di laici, direttamente o indirettamente partecipi dell'uno o dell'altro carisma.

Il nome più noto è quello di Federico Ozanam e delle sue "Conferenze di S. Vincenzo de' Paoli", nelle quali il servizio ai poveri era vissuto come espressione e salvaguardia immediata della fede.

E' questa la storia dei carismi che, nel corso del secondo millennio, ha espresso, assimilato, stimolato un flusso inarrestabile e molteplice di carità organizzata a bene della Chiesa e del mondo.

 

6. DESCRIZIONE TEOLOGICA DEI CARISMI

 Ma poiché il nostro tema è pur sempre quello del volontariato (di osservare cioè l'onda dell'amore cristiano là dove essa genera un cuore capace di atteggiamenti gratuiti verso il prossimo), è necessario studiare almeno un po' la natura di questi particolari carismi che nel corso della storia della Chiesa hanno generato opere e opere di carità.

Teniamo dunque sullo sfondo la coscienza che la Chiesa è in senso proprio e ultimo una "istituzione di carità" fermamente retta dallo Spirito Santo, e osserviamo come questo stesso Spirito si prenda poi cura di arricchire l'istituzione -o, se si vuole, si prende cura di mettere in movimento la sua stessa Istituzione- attraverso una libera, ricca, fantasiosa distribuzione di carismi.

Per parlarne correttamente è essenziale non trattenere in sé, in maniera acritica, una concezione sociologica del carisma, che lo identifica con le capacità psicologiche e spirituali di un soggetto in grado di mettere in atto una certa leaderhsip e di dare impulso a un certo movimento storico.

Il carisma di cui noi parliamo è invece un avvenimento di grazia, la cui regia è totalmente in mano dello Spirito.

Ed è un avvenimento che può essere più facilmente raccontato che spiegato.

Mi permetto citare da un mio recente pubblicato in questi giorni.

 "Sintetizzando ed esemplificando gli elementi offerti da molti documenti del Magistero e dalla più recente ricerca teologica, l'avvenimento di tale carisma sembra svilupparsi, di solito, con questi passaggi, ben integrati tra loro:

- Lo Spirito Santo, in un particolare momento della storia della Chiesa e per rispondere a particolari necessità dei fedeli, getta, per così dire, una luce nuova sul mistero di Cristo: da tale luce viene illuminato tutto il mistero cristiano (dato che esso non può mai essere frammentato), ma secondo una particolare prospettiva unificante. Ad esempio: lo Spirito fa splendere una particolare luce sul mistero della povertà di Cristo per S. Francesco d'Assisi; sul mistero della Sua obbedienza per S. Ignazio di Loyola; sul mistero della sofferenza e della passione di Gesù per S. Camillo de Lellis, ecc...

- Lo Spirito Santo, con lo stesso unico getto di luce, brucia il cuore del carismatico (del futuro "Fondatore") che s'innamora del Signore Gesù e del suo mistero amorosamente e indimenticabilmente contemplato in quella speciale prospettiva che gli è stata offerta. Ad esempio: S. Francesco si innamora del Bambino infreddolito nel presepio, del nudo Crocifisso che sposa sulla croce madonna Povertà, del "povero" pane eucaristico ecc.; S. Ignazio contempla amorosamente Cristo che si lascia inviare fin sulla croce e obbedisce al Padre fino all'ultimo respiro; S. Camillo ha lo sguardo fisso su Gesù che predica le beatitudini dei sofferenti e che, nell'ultimo giudizio, si manifesterà sotto le spoglie dei più abbandonati...

- Lo Spirito Santo, con questa stessa duplice e indivisibile luce, fa risaltare una specifica drammaticità della situazione ecclesiale, alle cui necessità il carismatico sente di dover dare risposta, con opere molteplici corrispondenti alla illuminazione ricevuta. Ad esempio: per S. Francesco, è il dramma della Chiesa troppo invischiata nel potere e nello sfarzo dei nobili, e quello dei poveri privi di evangelizzazione; per S. Ignazio, è il dramma della Chiesa disunita, culturalmente indebolita e bisognosa di un esercito di missionari disposti a lasciarsi inviare ovunque; per S. Camillo, è il dramma di un'assistenza sanitaria allora priva di carità, priva d'intelligenza cristiana, priva di energia spirituale...

- Lo Spirito Santo mobilita tutte le energie, naturali e soprannaturali, del carismatico perché possa fedelmente adempiere il compito che gli è affidato, e diffonde la sua "luce" anche su coloro che questi raduna attorno a sé come discepoli, non solo nei primi tempi della sua missione, ma anche nel corso della storia durante cui quel carisma si prolungherà e si consoliderà. Nascono così, in diverse epoche storiche, il primo "movimento francescano", la prima "compagnia di Gesù", il primo gruppo di "ministri degli infermi"...: movimenti che poi si evolvono e si rinnovano nei secoli seguenti.

- Lo Spirito Santo illumina anche i responsabili della Chiesa, perché possano discernere il carisma, possano accoglierlo e valorizzarlo, e possano armonizzarlo con gli altri doni, perché serva all'edificazione dell'unico corpo ecclesiale. Per questo tutti i Fondatori sottomettono volentieri ai Papi la loro opera e la loro Regola: ne chiedono la conferma e ne accettano le correzioni.

- Lo Spirito Santo, nei successivi momenti della storia, farà sì che la stessa luce originaria si proietti ancora su necessità nuove e inedite della Chiesa e del mondo: in tal modo la fedeltà allo stesso e identico carisma si coniugherà con forme nuove di servizio ecclesiale e missionario. Un esempio convincente di tale fedeltà e di tale creatività lo daranno -nelle singole famiglie religiose o nei singoli movimenti- tutti quei Santi che vivranno di quel carisma originario conferendogli nuova evidenza e nuovo vigore"10.

 Se si osserva bene l'articolazione dell'avvenimento descritto, ci si accorge subito che il carismatico "personifica anzitutto la Chiesa atteggiata sponsalmente, recettivamente, nei riguardi del Cristo-Sposo, e la missione di cui si sente investito (prima nei riguardi dei suoi discepoli, e quindi nei riguardi della Chiesa e del mondo intero) la sperimenta con la stessa urgenza di una donna resa feconda, e gravida, e desiderosa di dare alla luce il frutto delle sue viscere, e di farlo crescere" (ivi).

Il carisma insomma genera modelli e testimoni ed è perfino superfluo sottolineare l'importanza che essi hanno per rendere credibile il messaggio cristiano.

L'apologetica tradizionale ha insistito molto su questo aspetto, anche se, in verità, tutti i "messaggi" hanno i loro "testimoni", anche quando l'uno e gli altri sfiorano la disumanità e la follia.

Quel che di caratteristico c'è nel cristianesimo è piuttosto il fatto che i testimoni (i santi) rendano credibile il messaggio nei due sensi: illustrano sia la fides qua creditur, (non destando solo ammirazione o stupore, ma mostrando la forza attraente della rivelazione) sia la fides quae creditur (nella sua oggettiva bellezza e divino-umanità).

Detto in altro modo, i santi mostrano semplicemente d'essersi "innamorati", e sono credibili perché dimostrano che cosa valga, in questo mondo e per questo mondo, una creatura innamorata di Dio e consapevole d'essere da Lui infinitamente amata.

 La storia della Chiesa è stata arricchita da un numero incredibile di carismi, e quasi tutti hanno dato origine a flussi stabili di storia e a imprese permanenti, tanto da ricevere, quasi tutti, la qualifica di carismi di fondazione.

Ordini, Congregazioni, Istituti -maschili e femminili- si sono, via via, solidificati nelle più diverse forme di vita consacrata, ognuna finalizzata ad assumersi l'uno o l'altro bisogno di carità (nel campo dell'assistenza, dell'educazione, della sanità ecc.).

Quasi sempre questo nucleo carismatico solidificato nello stato di vita consacrata ha poi mantenuto attorno a sé un alone più vasto di volontariato laicale, al quale ha assicurato sostegno e formazione e dal quale ha ricevuto tesori di collaborazione e di efficienza.

Nell'ultimo mezzo millennio, si può dire che la quasi totalità dei carismi donati dallo Spirito e solidificati in molteplici Istituti religiosi e Congregazioni, hanno avuto di mira la risposta a particolari bisogni del popolo cristiano (e del mondo) nel campo della carità e della missione, tanto che si potrebbe scrivere una storia della Chiesa anche solo elencando nomi e opere di tali istituti.

Non sono mancati i rischi: se al tempo dell'eresia protestante (perché tale essa fu) l'errore fu quello di volere appiattire duramente la carità sulla fede, in tempi recenti l'eresia (per fortuna meno organizzata) è stata, a volte, quella di voler appiattire la fede sulla carità.

Cosa che una più profonda riflessione sui vari "carismi di fondazione" e sulla loro permanenza nei successori -come "grazia vivente"- avrebbe dovuto impedire o correggere.

 Così, fin quasi al Concilio Vaticano II, che permette pian piano l'inizio di una "nuova stagione ecclesiologica".

 

7. UNA "NUOVA STAGIONE ECCLESIOLOGICA" ANCHE PER LA CARITÀ

 Un passo avanti nella storia della carità è certamente stato fatto con la nascita di molteplici e nuovi "movimenti ecclesiali", ma con una sottolineatura particolare: che il "carisma originario" di tali movimenti -anche quando poi genera imponenti intraprese caritative- non è immediatamente finalizzato alla carità e alla sue opere, ma all'integrum dell'esperienza cristiana. Un integrum che riguarda contemporaneamente: l'indissolubilità fra le delle tre virtù teologali; l'indissolubilità tra la dimensione comunionale con quella missionaria; l'indissolubilità ecclesiologica tra la dimensione carismatica e quella istituzionale; l'indissolubilità tra l'azione associata e la buona azione quotidiana.

Ed è soprattutto davanti a quest'ultimo approdo della evoluzione storica ed ecclesiologica, che alcuni interrogativi nuovi devono essere posti.

Qui possiamo solo accennarvi.

Nella storia dei movimenti antichi e nuovi c'è all'inizio l'avvenimento del carisma come l'abbiamo più sopra descritto: un'azione dello Spirito volta a innamorare il carismatico nei riguardi di un certo "volto" di Cristo; di conseguenza una luce ardente su un particolare bisogno della Chiesa e del mondo; poi una forza aggregante e una energia indomabile nell'intraprendere "opere e opere".

Di solito questi movimenti (a volte per una forza intrinseca a volte per interventi preoccupati della gerarchia) tendono a generare al loro interno una forma di vita consacrata. E' un fenomeno che accade anche nei nuovi movimenti, ed è indubbiamente un bene, a causa della particolare sintonia che nativamente esiste tra il carisma e il dono dei consigli evangelici.

Ma qui si nota anche una clamorosa differenza.

Nei nuovi Movimenti, il carisma raggiunge i fedeli, in quanto fedeli, ed esso li abilita a una esperienza di comunione e a una certa missionarietà, anticipatamente rispetto allo stato di vita in cui ognuno si sentirà poi chiamato.

Ne segue che un eventuale carisma orientato alle opere caritative si potrà esprimere in tutte le forme sia quelle laicali che quelle consacrate, sia quelle organizzate che quelle personali.

E ne segue, ancor più, che qualsiasi carisma (anche se non esplicitamente orientato alle opere di carità) avrà una inevitabile componente caritativa, e una inevitabile operosità nel campo delle opere di misericordia.

Nei carismi più antichi, invece, (ma ci riferiamo anche a quelli che hanno originato gli istituti religiosi degli ultimi due secoli), il movimento iniziale di fedeli (a prescindere dallo stato di vita) ha perduto presto la sua primogenitura (per una sorta di ossequio teologico verso lo stato di vita consacrata) ed è quasi interamente confluito nell'unico stato di vita consacrata. La componente laicale (inizialmente presente), se è rimasta, è rimasta come alone "terziario", segnato da una generica spiritualità dell'istituto e da un generico apostolato "volontario".

 Il confronto con i nuovi Movimenti e con la riconosciuta "novità ecclesiologica" di cui essi sono portatori, non può non interrogare seriamente tutti i detentori degli antichi carismi: perché non ricollocare anche questi là dove possano nuovamente fruirne tutti i fedeli, anticipatamente alla scelta dello stato di vita?

Per parlare un linguaggio moderno, molte istituzioni di carità sono iniziate come volontariato carismatico di "fedeli", ma si sono precisate troppo esclusivamente come "forme di vita consacrata": arricchendosi per un certo verso, ma impoverendosi o almeno limitandosi dall'altro.

Oggi ci si dovrebbe chiedere se la risposta propriamente cristiana a un volontariato che sempre più tende ad essere assimilato da altre forme di azione sociale e politica non sia proprio quella di un "volontariato carismatico": un volontariato, cioè, che rinasca dai molteplici carismi (antichi e nuovi) che Dio ha donato e continua a donare alla Chiesa.

Ma a tale scopo, lo ripetiamo, deve farsi strada negli Ordini religiosi, negli Istituti e nelle Congregazioni una coscienza nuova: a un carisma si appartiene in quanto battezzati, in quanto "fedeli", il che non impedisce certo che questi debbano poi scegliere, al momento opportuno, se essere laici o consacrati o ministri. Questo riposizionamento di tutti i carismi farà sì che essi possano esplicitare tutto il loro potenziale caritativo.

Un esempio può aiutare a capire la gravità della posta in gioco. Lo citiamo da un nostro volume esplicitamente dedicato a tale problematica: "Molti Istituti religiosi, nati per l'assistenza sanitaria o per la formazione della gioventù, sono destinati a morire non perché abbiano perso di utilità, ma perché il carisma - che di natura sua potrebbe essere offerto anche ai laici (medici, infermieri, o insegnanti ecc.) - è rimasto "proprietà" di consacrati/e e non è stato offerto ai laici in forma loro propria. Al massimo ci si è accontentati di chiedere loro qualche collaborazione o qualche sostegno. Il carisma di "guardare e curare il malato con gli occhi e le mani di Cristo" dovrebbe affascinare tutti i battezzati che lavorano nel campo sanitario. Dovrebbe essere perciò "naturale" una comunicazione di questo fascino tra consacrati e laici che vivono a continuo contatto "per la stessa missione"" 11.

E' questo che intendiamo per "ricollocare i carismi a livello dei semplici fedeli". E lo si può fare con tutti i carismi.

 

 8. PER CONCLUDERE

 Per concludere, vorrei infine ricordare che c'è una parola che può esprimere, meglio di ogni altra, l'origine, lo scopo e la natura di ogni "volontariato cristiano": è la parola "santità". Essa esprime quella "misura alta" del vivere che la Novo Millennio ineunte ha chiesto a tutti i cristiani. Non possiamo dimenticare che la carità cristiana è questione di santi: non solo perché la volontà di essere caritatevoli coincide con la volontà di essere santi (e in ambedue i casi si tratta di accogliere umilmente un dono di Dio), ma anche perché la carità tende a fare dei santi, come usava dire, in maniera sorprendente, con una arguzia12 e una forza tutte caratteristiche la beata madre Teresa di Calcutta: "Io lavoro per la santificazione dei poveri, per donare a Dio dei Santi...".

 

Città del Vaticano, 6 febbraio 2002

 P. ANTONIO MARIA SICARI

 

NOTE

1 Messaggio al termine dell'anno internazionale del Volontariato, Dicembre 2001.

2 Ivi.

3 Xenodochium, orphanatrophium, ptochotrophium, brephotrophium, gerontocomium.

4 Giuliano sdegna il termine carità, ritenendolo volgare rispetto al più nobile "filantropia".

5 P. VEYNE, Le pain et le cirque. Sociologie historique d'un pluralisme politique, Editions du Seuil, 1976.

6 Già S. Agostino lo faceva polemicamente osservare: "Togli via gli infelici: sarà finita con le opere di misericordia? S'estinguerà dunque il fuoco dell'amore?" (In Ep. ad J., PL 35,2038).

7 Cfr. A. TREVISAN, La carità a Roma nei secoli VII-IX, in Quaderni Carmelitani, 15 (1998) pp. 177-197.

8 A. M. SICARI, Il sesto libro di ritratti di Santi, ed. Jaca Book, Milano 2000, pp. 39ss.

9 Esistono tuttavia le "conferenze femminili della carità", nate dalle "conferenze di S. Elisabetta" fondate nel 1845 a Treviri.

10 A. M. SICARI, Gli antichi carismi nella Chiesa. Per una nuova collocazione, ed. Jaca Book, Milano 2002.

11 A. M. SICARI, Gli antichi carismi nella Chiesa. Per una nuova collocazione, Ediz. Jaca Book, Milano 2002.

12 Davanti al Papa e ai Vescovi riuniti per il "Sinodo sulla Famiglia" del 1980, Madre Teresa osò raccontare appunto questo sogno: "Ricordo che agli inizi della mia opera ebbi una grande febbre, e arrivai vicino a San Pietro che mi disse: "Torna giù, qua non ci sono quartieri poveri!". E io mi arrabbiai molto e gli risposi: "Va bene, ti riempirò il Paradiso con la mia gente, e allora in cielo ci saranno anche i quartieri poveri. E dovrai farmi entrare per forza...!"".

 

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