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QUARTA SEDUTA PUBBLICA DELLE PONTIFICIE ACCADEMIE
Contributo delle Pontificie Accademie all'umanesimo cristiano

Il Martire identificato a Cristo
protomartire fedele.
Una figura dell'umanesimo cristiano.

3 novembre 1999

 

Mercoledì, 3 novembre 1999, si terrà, in Vaticano, la IV Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie. Questa edizione è dedicata al campo dell'archeologia cristiana, della storia della Chiesa e del culto dei Martiri, nella prospettiva del contributo delle Pontificie Accademie all'umanesimo cristiano, all'alba del III millennio.

L'Em.mo Cardinale Segretario di Stato consegnerà, a nome del Sommo Pontefice il Premio delle Pontificie Accademie « attribuito periodicamente a una persona — giovane universitario o artista — o a una istituzione, la cui ricerca, opera o attività contribuisca in modo rilevante allo sviluppo delle scienze religiose, dell'umanesimo cristiano e delle sue espressioni artistiche ».

 

PROGRAMMA

10.30 Orchestra: A. Vivaldi: Sinfonia "al Santo Sepolcro" RV 169

Indirizzo di saluto del Cardinale Paul POUPARD, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie

Orchestra: J. S. Bach: Adagio dal concerto in re minore per violino e oboe BWV 1060

10.45 Relazione del Rev.mo Monsignor Prof. Victor SAXER, Presidente della Pontificia Accademia Romana di Acheologia

11.15 Orchestra: F. J. Haydn: Adagio dal concerto n. 1 in do maggiore per violino ed archi

11.25 Relazione del Ch.mo Prof. Fabrizio BISCONTI, Curator della Pontificia Accademia «Cultorum Martyrum»

11.55 Orchestra: W. A. Mozart: Adagio e fuga per archi in do minore K 546

12.00 Discorso dell'Em.mo Cardinale Segretario di Stato Angelo SODANO

Consegna del Premio delle Pontificie Accademie, a nome di Sua Santità GIOVANNI PAOLO II

Orchestra: G. Rossini: Allegro. Tempesta dalla Sonata n. 6 in re maggiore.

Solisti dell'Orchestra di Roma e del Lazio.


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INDIRIZZO DI SALUTO
DEL CARDINALE PAUL POUPARD

Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie

Eminenza Reverendissima,

E' un grande onore per me, ed insieme una sincera gioia, poterLa accogliere oggi, in questa sala del Sinodo, dove rieccheggiano ancora gli interventi dei Padri Sinodali, per la IV Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie, e per la consegna del Premio delle Pontificie Accademie, giunto alla sua terza Edizione.

Ringrazio innanzitutto l'Eminenza Vostra, che molto cordialmente, e con grande generosità, ha accolto l'invito a presiedere questa Seduta Pubblica in nome del Santo Padre, impossibilitato ad essere presente, e a cui rivolgiamo il nostro deferente e filiale ossequio unito ad un caloroso augurio per l'onomastico che ricorre domani, Festa di San Carlo Borromeo, e per il prossimo, impegnativo viaggio apostolico in India ed in Georgia.

Il Consiglio di Coordinamento delle Pontificie Accademie ha voluto che la Seduta Pubblica di quest'anno fosse curata dalla Pontificia Accademia Romana di Archeologia e dalla Pontificia Accademia "Cultorum Martyrum" ed avesse come tema: "Il Martire identificato a Cristo, protomartire fedele. Una figura dell'umanesimo cristiano".

Tale tematica si inserisce pienamente nella preparazione al Grande Giubileo del 2000, ormai vicino, in cui, tra i segni proposti dal Santo Padre per "vivere con maggiore intensità l'insigne grazia del Giubileo"(Incarnationis Mysterium, n.11), troviamo "un segno perenne, ma oggi particolarmente eloquente, della verità dell'amore cristiano: la memoria dei martiri"(ivi, n. 13). Sua Santità ci ammonisce: "Non sia dimenticata la loro testimoninanza. Essi sono coloro che hanno annunciato il Vangelo dando la vita per amore. Il martire, soprattutto ai nostri giorni, è segno di quell'amore più grande che compendia ogni altro valore" (ibidem).

Il tema del martirio, infatti, lungi dall'essere anacronistico o superato, si presenta di straordinaria attualità, seppure in forme e modi diversi dal passato.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci ricorda: "Nelle situazioni in cui si richiede che si testimoni la fede, il cristiano ha il dovere di professarla senza equivoci...Il dovere dei cristiani di prendere parte alla vita della Chiesa li spinge ad agire come testimoni del Vangelo. Tale testimonianza è trasmissione della fede in parole ed opere...Il martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede" (NN. 2471.2472.2473).

Ebbene, la storia più recente ci dice che non mancano le situazioni in cui, ancora oggi, dei cristiani siano chiamati a rendere l'estrema testimonianza della loro fede: basti ricordare il martirio di Padre Kolbe, quello dei monaci trappisti di Tibhirine, di Padre Christian de Chergé, priore di Notre-Dame de l'Atlas, o, ai nostri giorni, il sacrificio di tanti cristiani e di molti religiosi trucidati, per la loro fede, a Timor Est.

La testimonianza resa a Cristo, che è la Verità, e alla verità del Suo messaggio è richiesta, però, non solo nella forma estrema dell'effusione del sangue, nel dono della propria vita, ma anche nelle situazioni quotidiane, dinanzi alla sfida dell'indifferenza, del qualunquismo, dell'oblìo della Verità che sembra caratterizzare il nostro momento storico.

Proprio per questo non possiamo dimenticare coloro che ci hanno preceduto e ci accompagnano nel cammino della fede e ci hanno consegnato integro il "depositum fidei", uomini e donne coraggiosi che a costo della vita hanno testimoniato il valore della fede e la loro adesione a Cristo, vero ed unico Signore dell'uomo e della storia. La loro memoria è davvero lievito della nostra vita di fede, provocazione e sostegno della nostra quotidiana testimonianza. Abbiamo tutti bisogno, per essere autentici discepoli di Cristo Crocifisso e seguirlo con coraggio sulla via della croce, di rileggere quegli "Archivi della Verità scritti a lettere di sangue" (CCC, 2474) che sono gli Atti dei Martiri.

Il Grande Giubileo del 2000 potrà essere occasione provvidenziale e momento favorevole per il cammino di fede di tanti uomini e donne del nostro tempo se saprà riproporre l'esempio dei martiri, primi fra tutti Pietro e Paolo, le "colonne" della Chiesa di Roma. La visita ai luoghi santi della Città Eterna, alle basiliche martiriali e alle catacombe, diventerà in tal modo vero "pellegrinaggio della vita e della fede" alle sorgenti dell'esperienza ecclesiale.

Il nostro incontro di oggi si realizza proprio alla luce di quella "humanitas" che ha trovato i suoi fondamenti ed i suoi esempi più luminosi proprio nei Martiri, e costituisce una tappa importante dell'azione delle Pontificie Accademie per la costruzione di un nuovo umanesimo cristiano da proporre agli uomini e alle donne del terzo millennio.

Il futuro della società e della cultura, come anche della Chiesa, sarà ricco di traguardi significativi dell'umana avventura se saprà fare tesoro della memoria e della testimonianza dei martiri, di ieri e di oggi, e leggere nella loro vita e nella loro morte, donazione della vita, la presenza di Cristo, Signore della vita, protomartire fedele.

Signor Cardinale, Le chiedo ora cortesemente di volersi fare interprete dei nostri sentimenti di affetto e devozione filiale presso il Santo Padre, assicurandolo della nostra fervida preghiera, specialmente in occasione della festa di San Carlo e del Suo imminente viaggio apostolico in India e in Georgia, e sollecitando per tutti i presenti una speciale Benedizione Apostolica.


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LE ORIGINI DELLA TEOLOGIA DEL MARTIRIO
E DEL CULTO DEI MARTIRI

Rev. Prof. Mons. Victor Saxer
Presidente della Pontificia Accademia Romana di Archeologia

La cultura contemporanea ha in gran parte perduto la consapevolezza delle sue radici cristiane. L'illustrano su un punto particolare recenti ricerche "sul tema del martirio". Infatti, se "il martirio è una testimonianza e il martire cristiano un testimone di Cristo", i "confronti fra ambiti diversi rivelano", non solo "interessanti convergenze", bensì anche "l'evoluzione semantica (per non dire la deriva) del concetto del martirio in "dimensioni culturali, antropologiche, psicologiche", ben lontane dalla sua valenza cristiana originale e talvolta rilevanti da una "etica laica". Per parte sua, la Chiesa ha contribuito all'allargamento del concetto del martirio nelle fedeltà alla tradizione bimillenaria della ri-flessione cristiana sul martirio, da quando, fra altri esempi, fu canonizzata da Pio XII Maria Goretti quale "martire della verginità" e il p. Massimiliano Kolbe, canonizzato da Giovanni Paolo II fel. regn., come lo ricordava opportunamente il Card. Paul Poupard nella Prefazione agli stessi atti, e che rese "l'estrema testimonianza della sua fede" quale "martire della carità", per non parlare dei monaci Trappisti di Tiberim e del vescovo di Oran, non canonizzati.

Perciò, in questa presente solenne seduta congiunta delle Pontificie Accademie, di cui è toccato alle Pontificie Accademie Romana di Archeologia e dei Cultores Martyrum, a nome delle quali ho l'onore di parlare, l'incarico di trattare, da un punto di vista storico, del tema del martirio, puntualizzandolo sul periodo delle origini della riflessione teologica sul martirio e delle prime manifestazioni di un culto reso ai martiri. Vale a dire che mi limitero ad alcune testimonianze maggiori del tema nell'ambito dei primi quattro o cinque secoli cristiani, escludendo dalla mia presente trattazione ogni riferimento a possibili interferenze del culto pagano degli eroi e della tradizione giudaica sulla venerazione dei santi dell'Antitca Alleanza. I testi invece ritenuti sono, oltre all'Apocalisse di Giovanni, il Martirio di Policarpo, le opere di Cipriano e quelle di Agostino, che sono i caposaldi maggiori del tema.


1. Le prime testimonianze: L'Apocalisse 1,2.5.9; 2,13; 3,14 - Il Martirio di Policarpo di Smirne, XVII-XVIII († 23. 2. 167).

Per capire come nacque l'idea cristiana del martirio, occorre partire dal Nuovo Testamento. Nell'Apocalisse, infatti, compare per la prima volta il termine martyr, applicato a un uomo testimone di Cristo al prezzo della sua vita. Si tratta di Antipas, che Cristo stesso chiama "mio testimone fedele, ucciso tra di voi (a Pergamo), dove Satana abita" (2, 13). Più spesso però nell'Apocalisse, è Cristo "il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei rei della terra" (1, 5), "l'Amen, il testimone fedele e vero, il principio del creato da Dio" (2,14). Infatti, come spesso nel Nuovo Testamento, l'archetipo paradigmatico del martire è Cristo, la cui testimonianza (h marturia) è strettamente collegata al carattere profetico del suo messaggio. Il testimone è colui cha ha ascoltato la parola di Dio, ha contemplato il mistero divino e lo comunica ad altri per suscitare in loro una risposta di fede. Nell'Apocalisse e del resto in tutta la letteratura giovannea, Gesù è per eccellenza il testimone che, mettendo anche in gioco la sua propria vita, rivela la propria missione (Mt 26, 63-66) e l'affida pure agli apostoli (At 1, 8). Perciò, ad imitazione di Cristo, anche la comunità cristiana è incaricata di portarne testimonianza in ogni circostanza e luogo e ciò "con fedeltà fino alla morte" (pist cri qantou, Ap 2, 10), come lo fece Antipas, ucciso per questo motivo (2, 13). Risulta chiaramente da questi testi che il concetto cristiano del martirio trovò la sua prima espressione nel Nuovo Testamento.

Però un'utimo passo del libro biblico deve essere preso in conside-razione, quello in cui il veggente descrive la situazione di "coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza (h marturia) da loro portata":

Le loro anime erano sotto l'altare ¼ Gridavano ad alta voce: "Fin quando, Signore, che sei santo e vero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro san-gue su gli abitanti della terra ?" Allora fu data ad ognuno di essi una stola bianca".

I martiri cristiani sono visti "sotto l'altare", perchè vicinissimi a Dio e perchè la morte è un'immolazione ad immagine di quella di Cristo. Per-ciò essi godono, già prima del giudizio finale, la presenza divina nell'eterna felicità. E' importante sapere che questa convinzione appartenga alla rivelazione neotestamentaria

Di questo dato rivelato, la più antica elaborazione teologica e la prima applicazione cultuale furono fatte nel cosidetto "Martirio di Policarpo", vescovo di Smirne in Asia Minore, morto il 23 febbraio 167. Infatti, mentre si avvicinava il primo anniversario della sua morte, un membro della Chiesa di Smirne, in risposta a una richiesta di quella di Filomelio in Frigia, le diede informazioni sulla fine gloriosa di Policarpo. Poi nei cap. XVII, 2-3 e XVIII, 3 della lettera si legge la più antica definizione del culto reso ai martiri, destinata a rispondere ad una obiezione dei Giudei. Così suona il passo:

XVII 2 Questi (Giudei) ignoravano che mai potremmo abbandonare Cristo, colui che ha patito al fine di riscattare tutti coloro per i quali vi sarà salvezza ovunque nel mondo ¼ e che mai potremmo venerare qualcun altro. 3 Lui, infatti, noi adoriamo quale figlio di Dio, mentre ai martiri siamo giustamente devoti in quanto sono discepoli e imitatori del Signore e a causa della loro suprema fedeltà verso il proprio re e maestro. Sia dunque dato pure a noi di farcene compagni e condiscepoli.

XVIII 3 In questo luogo (cioè sulla tomba di Policarpo) radunandoci in esultanza e letizia, per quanto ci sarà possibile, ci consentirà il Signore di festeggiare il giorno anniversario, a memoria di quanti hanno affrontato già la stessa lotta e ad esercizio e preparazione di quanti la affronteranno in futuro.

L'autore smirnese distingue dunque chiaramente il culto di Cristo, Figlio di Dio, da quello dei martiri, venerati perchè imitatori di Cristo, sottolineando cioè la distanza che separa Dio Salvatore dall'uomo salvato. Inoltre, scorgiamo nel testo, correttamente tradotto, la più antica attes-tazione di un culto dei martiri al "giorno anniversario" (hmera geneqliako) della loro morte. Una trentina d'anni più tardi, Tertulliano darà dell'espressione greca l'equivalente latino, quando lo tradurrà con un hapax, parlando del natalicium dei martiri.


2. Il culto dei martiri nelle opere di Cipriano (250-258)

Cipriano di Cartagine, primo vescovo africano martire il 14 settembre 258, non elabora una teologia del martirio, accettando pacificamente quella comune, ma ci fornisce preziose informazioni sul culto dei martiri nella sua città. Così, mentre infuriava la persecuzione di Decio (250-251), egli si nascose fuori città per continuare a diriggere la sua comunità durante la prova. Si preoccupò, fra altre cose, delle cure riservate alle vittime della persecuzione, sia che fossero stati giustiziati dopo un processo, sia che fossero morti in prigione prima del processo. In ogni caso dovevano essere l'oggetto, come dice, di una vigilantia et cura propensior (Ep. 12, 2). Scrive infatti al suo clero di Cartagine:

Se fossi presente, adempirei con prontezza e sollecitudine, come ministero mio ordinario, i doveri funebri di carità nei riguardi dei nostri fratelli coraggiosissimi. Che dunque le vostre cure mi sostituiscano nel compiere quello che conviene per coloro che la divina bontà si è degnata di illustrare per i meriti della loro fede e del loro coraggio (Ep. 12, 1).

Ovviamente Cipriano, che non entra nei particolari di queste cure da riservare ai martiri, intende però conformarsi ai riti abituali in tale circostanza. Ora li vediamo espressamente descritti nel caso di Cipriano stesso negli Atti del suo martirio:

La notte seguente (il martirio), il suo corpo fu rimosso da lì (cioè in un luogo provvisorio in attesa del seppellimente definitivo) e portato tra fiaccole e torce nel cimitero del procuratore Macrobio Candidato, sito nella via degli Mappalia presso la piscina, con grande gioia e tripudio (Acta Cypriani 4, 3)

E' possibile che la fama di cui godette Cipriano già da vivo abbia contribuito a dare una più grande solennità al suo funerale. Rimane però di fatto che le fiaccole servivano ad illuminare ogni funerale notturno e che pure il carattere trionfale che gli Acta attribuiscono al suo poteva essere di ogni martire, giacché il martirio era paragonato à una vittoria.

Cipriano è molto più preciso sull'anniversario dei martiri, anche se ne parla solo a due riprese. La prima volta, lo fà nella già citata Ep. 12, databile ad aprile-maggio 250:

Notate, scrive, i giorni del loro decesso, perchè noi possiamo celebrare le loro commemorazioni fra le momorie dei martiri. E' vero che Tertullus, il nostro fratello fedelissimo e devotissimo, il quale del resto, fra le altre sue occupazioni e preoccupazioni che gli impone il servizio dei fratelli, non manca neppure di assolvere la cura dei morti. Perciò mi comunica per iscritto i giorni del decesso degli incarcerati, quando passano a gloriosa immortalità, e noi celebriamo qui, in loro commemorazione, l'offerta del sacrificio che presto, sotto la protezione del Signore, celebreremo anche con voi (Ep. 12, 2).

Riassumiamo il contenuto del passo: 1° Cipriano si preoccupa di stabilire un registro o calendario dei martiri della sua Chiesa. 2° Il documento deveva regolare la commemorazione liturgica dei martiri nel loro anniversario di morte. 3° La celebrazione si faceva con "l'offerta del sacrificio" eucaristico.

Che quest'uso non fosse una innovazione recente, ce ne informa u-na seconda lettera, l'Ep. 39, dell'inizio del 251, nella quale, annunciando alla sua comunità che il confessore Celerino era stato promosso al lettorato, Cipriano ricorda che, nelle famiglia del giovane, si contavano già parecchi martiri che i cristiani cartaginesi conoscevano bene, poichè ce-lebravano il loro anniversario. Cipriano scrive dunque:

Offriamo sempre, come vi ricordate, dei sacrifici per loro, ogni volta che celebriamo i giorni della loro passione (martyrum passiones et dies) con delle commemorazioni anniversarie (anniversaria commemoratione celebramus, Ep. 39, 3).

Per completare il quadro tracciato, ricordiamo un'espressione della Passio Cypriani, attribuita al suo diacono-biografo Ponzio. I cristiani di Cartagine passarono la notte che precedette la morte del loro vescovo nello stesso modo che celebravano la vigilia di Pasqua, in sacerdotis passione vigilaret (Pontius, Vita Cypriani, 15), cioè con preghiere. Il significato suggerito dal particolare è che la passione di Cipriano imitava quella di Cristo e lo conduceva similmente a una gloriosa risurrezione e che il martirio di Ciriano era stato celebrato ad imitazione della morte di Cristo.


3. Il culto dei martiri secondo Agostino (354-430)

Quanto ad S. Agostino, conviene iniziare la trattazione con il passo delle sue Confessioni (6, 2), nel quale racconta come sua madre Monica, volendo a Milano rendere "ai santi" gli onori che soleva usare in Africa, ne fu impedita dal guardiano del cimitero che agiva dietro ordine del vescovo Ambrogio. Quale era dunque l'uso africano ?

Portava un cestino con le solite pietanze da pregustare e poi distribuire. Ne prendeva per se solo una piccola coppa di vino temperato d'acqua, come conveniva al suo sobrio palato. Se erano parecchie le tombe da venerare, usava la stessa piccola coppa che divideva con un sorsetto con le altre persone presenti.

Quando seppe del divieto fatto da Ambrogio anche a quelli che seguivano l'uso con sobrietà, per evitare che ne abusassero gli ubriaconi e che si celebrasse-ro delle "parentalia" molto simili ai riti pagani, allora Monica se ne astenne volen-tieri. Al posto di un cestino pieno di frutti della terra, imparò a portare alle tombe dei martiri un cuore pieno di voti puri; dava ai poveri quello che poteva e si comunicava al corpo del ignore, la cui passione era stata imitata dai martiri nel-l'essere immolati e coronati.

Monica onorava quindi, senza distinguerle, le memoriæ, cioè i monumenti funebri, dei santi, dei defunti e dei martiri. Ma come li onorava? Portava con se pappa, pane e vino; arrivata sul posto, il vino era mischiato con acqua; di ogni cosa prendeva per se un pochino e distribuiva il resto ai morti su ogni tomba. Gli archeologi cristiani hanno studiato la sistemazione che permetteva di versare pappa et liquido nelle tombe attraverso i cosiddetti tubi di libazione. Si trattava di piccoli condotti fittili che collegavano la tomba sotterranea con la superficie del suolo. Così gli antichi pensavano nutrire i morti, associandosi talvolta a loro con veri banchetti che potevano degenerare proprio in orgie. Questi banchetti sono talvolta figurati nelle pitture delle catacombe. Tubi di libazione si sono trovati anche in tombe cristiane. Cosi in un una del campo P sotto la basilica Vaticana. Infatti, nella sua Ep. 29, scritta all'amico Alipio, Agostino conferma l'uso per S. Pietro di Roma: "Mi si obiettavano le orgie che si facevano ogno giorno a S. Pietro" .Agostino allude all'usanza in modo polemico, ma l'usanza esprimeva in una forma molto primitiva la credenza alla sopravvivenza del defunto. Se era condivisa dai cristiani, ciò significa che aveva perduto ogni connotazione pagana. Tant'è vero che sopravvisse in certi paesi d' Europa fino ai nostri tempi.

Convertito, battezzato da Ambrogio a Pasqua 386, tornato in Africa e ordinato sacerdote poi vescovo, Agostino dedicò gran parte della sua attività pastorale dopo il suo ritorno in Africa a sradicare queste usanze dal culto dei martiri, e ciò con l'aiuto dell'amico Aurelio, diventato vescovo di Cartagine nel 392. Loro due sostituirono i banchetti funebri con quello eucaristico. Sulla base della sua corrispondenza e soprattutto della sua predicazione, si ha un'idea, talvolta molto precisa, ma non sempre completa, dei santuari martiriali d'Ippona e di Cartagine, e del santorale dell'Africa antica. Non è il luogo di ripetere qui questa esposizione.

Quello che invece importa sapere, è il contributo di Agostino alla teologia del martirio, la quale è stata da lui elaborata sulla base della rivelazione cristiana e della tradizione africana e in occasione degli avvenimenti del suo tempo. Particolarmente importanti sono a questo pro-posito gli scritti legati alla presa di Roma da Alarico nel 410.

Nel Serm. 296 risponde alle obiezioni dei pagani secondo i quali i martiri romani non furono capaci di proteggere la città:

Il corpo di Pietro riposa a Roma, il corpo di Paolo riposa a Roma, il corpo di Lorenzo riposa a Roma, il corpo di altri martiri riposa a Roma; eppure Roma è nell'angoscia, è nella devastazione, afflitta, schiacciata, incendiata; tanti sono morti per la fame, la peste, il gladio. Dove sono dunque le memorie degli apostoli ? Sono là, si, ma non nel tuo cuore. Se fosse in te, la memoria degli apostoli! Se potesti pen-sare agli apostoli. Allora capiresti che la felicità promessa non è terrena ma eterna! (PL 38, 404).

Queste parole furono pronunciate sotto lo choc della notizia appena arrivata del disastro. Rimettendo poi il culto dei martiri nel suo posto subordinato a quello di Dio, la Città di Dio ne propone una forma elaborata:

Non dedichiamo ai martiri ne templi ne sacerdozi ne cerimonie ne sacrifici. Non sono loro i nostri déi, il nostro Dio è anche il loro Dio. Onoriamo certo le loro memorie come di santi uomini di Dio che hanno lottato per la verità fino alla morte del corpo ¼ Ma chi di noi ha mai sentito il prete che sta all'altare (anche se quest'altare è costruito sul corpo del martire, l'altare però è stato fatto in onore e per il culto di Dio), sentito dunque il prete dire nella preghiera: Offro il sacrificio a te, Pietro o Paolo o Cipriano ? mentre il sacrificio offerto presso le loro memorie, lo è a Dio che li ha fatto uomini e martiri. Infatti, ogni atto di venerazione dei fedeli presso i luoghi santi dei martiri concorre ad illustrare le loro memorie, ma non sono atti di culto o dei sacrifici offerti a dei morti come a degli déi. Neppure i banchetti sono dei sacrifici in onore dei martiri. Lo sa chiunque è istruito dell'unico sacrificio di Cristo, anche quando è offerto in luoghi santi dei martiri (Civ. Dei; VIII, 27).

Senza dilungarmi sulla polisemia del termine memoria, qui ci preme di sottolineare con Agostino la subordinazione del culto martiriale a quello divino: Dio è anche il Dio dei martiri. Il tema è fondamentale nell'apologetica agostiniana. Abbozzato già nel 390 nella corrispondenza con Massimo di Madauro (Epp. 16-17), riceve poi un primo sviluppo nel sermone in onore dei martiri di Tarragona, Fruttuoso, Augurio ed Eulogio il 21 gennaio 396 (Serm. 273), e dopo una sistemazione definitiva verso il 397-399 nel Contra Faustum, XX, 21, e dopo il 411 nel De civitate Dei: Cambia solo il nome dei martiri, in onore dei quali, e non ai quali è offerto il sacrificio eucaristico. E' notevole che per distinguere questo culto martiriale da quello di Dio, Agostino non usa un'appellazione tecnica, come quello di douleia che gli sarà dato al Concilio di Nicea II nel 787: ma lo chiama semplicemente, come in Fil 6, 5, la seruitus que debetur hominibus. Il culto invece di, Dio, deitati debitus cultus, è detto latreia con una parola traslitterata dal greco, perchè non esiste allora un termine latino adeguato.

La conclusione può essere breve, anche se si potrebbe continuare l'esposizione. La celebrazione dei martiri e la teologia del martirio affondano le loro radici nel Nuovo Testamento e si modellano sulla persona e l'insegnamento di Cristo. Quest'affermazione sembra un'evidenza, ma non è inutile ribadirla in un tempo come il nostro che, pur usando un vocabolario cristiano, lo vuota del suo senso cristiano e perde i suoi riferimenti cristiani. Inoltre, non è pure da meravigliarsi che questa teologia abbia già trovato una definizione molto esatta e che anche il culto dei martiri sia attestato nel 167/68 nel Martirio di Policarpo. Nello stesso tempo a Roma si comincia a venerare l'apostolo Pietro come lo prova il suo cosiddetto "trofeo" conservato sotto l'altare maggiore della sua basilica vaticana. La testimonianza di Cipriano mostra come, dalla prima metà del III secolo in poi, il culto martiriale viene regolato e "disciplinato". Il vescovo di Cartagine è forse il primo ad esigere chiaramente dal martire che la sua vita sia conforme alle esigenze del Vangelo e che la sua morte come testimonianza di Cristo sia ad immagine di quella di Cristo. Altrimenti sarebbe un'impostore. Finalmente l'importanza eccezionale della dottrina agostiniana del martirio non è dovuta inanzi tutto, al suo contenuto, ancora impreciso per certi aspetti, come lo è anche la sua terminologia. Lo è invece all'autorità del Padre africano. E' stato lui a determinare nel seguito l'evoluzione teologica del martirio.


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L'IMMAGINARIO MARTIRIALE
NELLA CONCEZIONE FIGURATIVA CRISTIANA

Prof. Fabrizio Bisconti
"Curator" della Pontificia Accademia "Cultorum Martyrum"

L'arte cristiana nasce e si sviluppa molto lentamente all'interno del contesto figurativo tardoantico, forse memore di quel divieto giudaico che consigliava - in maniera asseverativa - di non scolpire l'immagine degli idoli, "affinché - come si puntualizzava nel Deuteronomio (4, 14-19) - alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle¼ nessuno sia trascinato a prostrarsi dinanzi a quelle cose per servirle". L'ammonimento dal Vecchio Testamento fluisce naturalmente nella letteratura patristica, a cominciare da Minucio Felice che nell'Octavius si chiede "Perché dovrei scolpire un simulacro di Dio, quando, se ben rifletti, l'uomo stesso è simulacro di Dio?" Ed ancora Clemente Alessandrino sentenzia che le statue sono più spregevoli di qualunque essere vivente, mentre Origene, più sottilmente, ricorda che "le statue e le offerte votive, che convengono a Dio, non sono le opere fatte da volgari artigiani, ma quelle manifestazioni plasmate dentro di noi dal Verbo di Dio".

Il quadro patristico dei primi secoli appare, dunque, uniforme e ben definito in tutti i suoi aspetti: non un conflitto continuato tra condanna e giustificazione dell'immagine religiosa - come si è cercato di dimostrare sino ad anni recenti - ma un deciso rifiuto delle "immagini-idolo" e del culto della statua. Molte semplificazioni - come si diceva - hanno condotto, in passato, ad una visione ed ad una presunta posizione anticonica dei primi cristiani, confondendo l'effettiva avversione per la venerazione delle immagini e, dunque, un'insopprimibile tensione antidolatrica, che attraversa i primi secoli del Cristianesimo, con un totale e asseverativo rifiuto delle immagini.

Due brani, oramai celebri, del IV secolo danno il senso di questa distinzione di atteggiamento, o meglio, chiariscono il vero oggetto del rifiuto. Epifanio di Salamina, in una lettera conosciuta anche attraverso la traduzione di San Girolamo, racconta, con dovizia di particolari, di una sua escursione in un villaggio palestinese, dove aveva visto una tela con le immagini di Cristo e di altri santi. La seconda testimonianza viene da Eusebio di Cesarea e riflette da vicino i termini della questione: Costanza, sorella dell'imperatore Costantino e vedova di Licinio, aveva chiesto proprio ad Eusebio l'immagine di Cristo, ricevendo un netto rifiuto, poiché, secondo quanto specifica il biografo di Costantino, non è possibile rappresentare l'invisibile.

A proposito di questo ultimo passo, si è rilevato come la posizione di Eusebio - a questo riguardo - possa apparire oscillante e come, mentre in questo caso condanni la consuetudine tutta pagana di far circolare e di adorare immagini sacre, in altri casi sottolinei positivamente e anche enfaticamente la rappresentazione di scene cristiane, commissionate direttamente dall'imperatore. Nella Vita Constantini, infatti, Eusebio descrive alcune fontane e piazze di Costantinopoli che, su commissione dell'imperatore, erano state decorate con le immagini del buon pastore e di Daniele tra i leoni, né sembra biasimare l'intenzione di chi fece rappresentare il miracolo della guarigione dell'emorroissa a Paneas, pur puntualizzando che l'operazione risentiva di un'usanza pagana. Nelle due diverse posizioni assunte da Eusebio non dobbiamo riconoscere un atteggiamento antitetico e contraddittorio, ma un comportamento e un giudizio diversificati dinanzi a problemi molto diversi. Troppo spesso l'ermeneutica contemporanea tende a giustapporre la tendenza anticonica dei primi cristiani con il successivo e ben diverso fenomeno dell'iconoclastia e dell'iconofobia.

In questo dibattito complesso e non sempre giudicabile si innesta il sorprendente canone 36 del concilio di Elvira, tenutosi nei primi anni del IV secolo, che recita: "placuit picturas in ecclesia esse non debetur; ne quod colitur et adoratur in parietibus depingantur". Il divieto viene proposto in un'epoca in cui i cimiteri, gli edifici di culto, l'oggettistica liturgica e quotidiana avevano pienamente accolto l'uso della decorazione iconica. Il canone risulta, insomma, come un divieto ex post facto, ma la seconda parte dell'ammonimento chiarisce i motivi profondi di tale divieto, sottolineando il pericolo di culto e di adorazione. Anche la presa di posizione del Concilio di Elvira si muove per la stessa strada tracciata dagli asseverativi divieti protocristiani e recupera il senso profondo della legge mosaica.

Mentre, a livello patristico, conciliare e teologico, si consuma questo delicato dibattito, l'arte cristiana è già nata, tra la fine del II e gli esordi del III secolo, in perfetta coincidenza con il pontificato di papa Zefirino, tra il 199 e il 217, quando viene affidata al diacono Callisto - per testimonianza del Liber Pontificalis e dei Philosophumena di Ippolito - la gestione del cimitero ufficiale della Chiesa di Roma, al II miglio della via Appia. Qui sono stati decorati alcuni cubicoli, già negli anni '30 del III secolo, con scene simboliche, bibliche o genericamente allusive al mondo dell'aldilà. E simultaneamente un po' in tutto l'ecumene cristiano sorge un'arte semplice ma fortemente allusiva alle idee della salvezza e della rigenerazione: da Alessandria a Dura Europos, da Cagliari a Siracusa, da Napoli a Cimitile.

In tutte queste precoci manifestazioni figurative si avverte un forte sentimento positivo e gioioso, che elide naturalmente tutte quelle situazioni provvisorie o negative che, invece, avevano avuto molta fortuna nella cultura figurativa del passato, specialmente nell'arte funeraria, dove, assai spesso, si fa riferimento ad episodi e a personaggi mitici dell'oltretomba. Anche nelle situazioni che comportano un evidente momento violento o negativo - quali il sacrificio di Isacco, il vivicomburium dei tre giovani ebrei, e la condanna di Daniele nella fossa dei leoni -, i protagonisti delle scene si ergono nel significativo gesto dell'expansis manibus, per indicare che il pericolo fisico è superato, ma è anche vero che attorno alle loro figure si muovono e si compongono sempre gli elementi di quel loro martirio sventato, fornendo, dunque, una rappresentazione sintetica delle storie, dove il grave momento del supplizio è già superato, ma non è dimenticato nella organizzazione della scena, se addirittura assurge a chiave di lettura dei racconti biblici. Così i tre fanciulli, mentre già intonano i canti di ringraziamento, sono ancora avvolti dalle fiamme, talora molto vive, che escono minacciose delle bocche della fornace; così, mentre l'intervento divino blocca l'intenzione di Abramo che impugna il pericoloso gladium, oramai levato nel colpo mortale, ecco ardere il fuoco sull'altare, ecco comparire il piccolo Isacco ancora prigioniero, ecco sopraggiungere l'ariete, oggetto del sacrificio venturo; così Daniele, pur atteggiato nell'inamovibile gesto della preghiera, è talora centro di interesse delle fiere che ancora si avvicinano nell'arena. All'interno di queste scene del "martirio evitato" è facile leggere, non solo una innegabile valenza paradigmatica, ma anche una significativa prefigurazione veterotestamentaria, un anteprima ed un annuncio degli episodi del martirio reale e storico che la comunità viveva o aveva vissuto da vicino, riferendosi in primo luogo - com'è evidente - al Cristo e ai principi degli apostoli.

Ma nell'arte cristiana delle origini non dovettero mancare anche delle vere e proprie rappresentazioni narrative del martirio ordinario, anche se possiamo ipotizzarlo con l'unico ausilio delle fonti, prima fra tutti quella costituita dal Liber Pontificalis, in relazione alla vita di papa Silvestro, laddove si fa riferimento ad alcuni elementi per illuminazione donati da Costantino e posti dinanzi alla tomba di S. Lorenzo nel santuario tiburtino, i quali accoglievano scene relative alla passionem ipsius.

Ed ancora preziosa si rivela la testimonianza di Prudenzio che, con toni forse un po' drammatici, descrive accuratamente una pittura dove erano fissati i momenti cruciali del martirio di Ippolito, situata proprio sulla tomba del santo nel complesso della via Tiburtina. Nel carme si individua in un crescendo drammatico tipico delle passioni, il processo e poi il supplizio.

Sulla stessa linea si muove un altro inno di Prudenzio, relativo alla decorazione del santuario di S. Cassiano ad Imola, un componimento di Gregorio di Nissa che ci ha lasciato la descrizione del ciclo pittorico che decorava il martyrion di S. Teodoro ad Amasea ed una omelia di Asterio, che riferisce il racconto figurato della fine tragica ma gloriosa della martire Eufemia.

Se dal fronte letterario passiamo a quello archeologico, ci imbattiamo nell'atteggiamento devozionale che promossero nel corso del IV secolo, prima lo stesso imperatore Costantino e poi il papa Damaso. Il primo, come è noto, si preoccupò di rigenerare il paesaggio urbano, facendo erigere monumentali edifici di culto, proprio in corrispondenza dei più importanti centri martiriali, dotando l’Urbe di una sorta di ideale confine santo od, oserei dire, di ulteriore cerchia difensiva che correva tra il II e il III miglio dalla effettiva cinta muraria; il secondo prese a ricercare, a segnalare, a monumentalizzare con sistema le tombe dei martiri sepolti nelle catacombe, creando una densa mappa agiografica nella Roma sotterranea cristiana.

Le due operazioni si propongono come un riflesso monumentale di due diverse tipologie politico-religiose, la prima più coinvolta in una strategia di impronta politica, la seconda meglio calata in un atteggiamento propriamente religioso e devozionale, ma pur sempre riconducibile ad una dinamica del potere, del consenso e di una recuperata coesione interna della Chiesa d’Occidente.

In questo orizzonte così complesso, ora costellato di martyria monumentali o di edifici funerari altrettanto solenni ed originali, come le basiliche circiformi, ora caratterizzato da interventi meno impegnativi, ma profondamente impegnati dal punto di vista della strategia devozionale delle celebri epigrafi damasiane; in questo panorama tanto articolato, nasce e si evolve un atteggiamento spirituale nuovo nei confronti dei martiri, che sembra prendere avvio proprio in ambito privato, seppure in un entourage di famiglie dall’alto potenziale economico e dall’elevato livello sociale o gerarchico.

Si tratta della cosiddetta devozione patronale, che si mette in atto specialmente a livello monumentale e funerario, quando alcune sepolture si addensano attorno al sepolcro dei martiri, come per acquisire il privilegio di una vicinanza con il luogo santo. Tale fenomeno, molto evidente nei complessi catacombali; ma diffuso anche nei santuari sub divo viene comunemente definito, già in antico, come retrosanctos.

Questo singolare atteggiamento devozionale ci parla di un rapporto speciale tra il fedele ordinario e il cristiano eccezionale, un rapporto che, strutturandosi sull’urgenza e sulla semplicità del cristianesimo della prima ora, stabilisce un legame diretto e antropologicamente molto audace tra l’uomo comune ed il martire. Questo suggestivo fenomeno, così chiaro a livello monumentale, è ancor più esplicito se guardiamo alla produzione iconografica che, tra l’altro, mette in evidenza come questa particolare vicinanza si verifica specialmente tra i martiri e i defunti appartenenti alle classi emergenti della societas christiana. In questo senso ci parla, appunto, l’arte delle catacombe, quando la matrona romana Veneranda viene rappresentata in un celebre affresco di un arcosolio situato nei pressi della basilica dei Ss. Nereo ed Achilleo in Domitilla: siamo nella seconda metà del IV secolo e la martire Petronilla, che già godeva di fama e culto estremamente diffusi in ambiente romano, introduce nel giardino del paradiso la nobile defunta, con gesti di grande confidenza, recuperando i rassicuranti atteggiamenti delle antiche introduzioni in paradiso ed annunciando le introduzioni monumentali ed ufficiali dei catini absidali romani, primo fra tutti quello della basilica dei Ss. Cosma e Damiano al Foro.

Tra i martiri e i defunti si stabilisce una sorta di amicizia religiosa, un intimo rapporto inter pares che qualifica i santi come patroni, intercessori e protettori: essere vicino a loro, essere rappresentati in loro compagnia significa rompere quel limite tra terra e cielo, ancor ben presente nell’immaginario collettivo del tempo. L’arte cristiana del IV secolo esprime, senza incertezze, l’abbattimento di questa barriera, mettendo in diretto contatto i defunti o i devoti con i martiri, in un rapporto protetto-patrono, che ben riflette nell’iconografia il fenomeno dei retro-sanctos che – come si è detto – proprio durante la metà del secolo IV, regola lo sviluppo delle catacombe.

Proprio in questo frangente, l’immaginario salvifico elaborato dai rappresentanti della comunità cristiana si articola secondo quanto i rapporti gerarchici regolano la dinamica sociale del tempo. Si immagina e si desidera che nella dimensione paradisiaca si svolge quella catena di situazioni protettive e patronali che caratterizzano l’articolazione del potere nelle più alte cariche sociali ed ecclesiastiche, come se si sistemasse in cielo uno specchio per riflettere fedelmente l’organizzazione sociale terrena. E questa mentalità – lo si è accennato – giunge ad influenzare anche materialmente l’assegnazione delle sedi sepolcrali nei cimiteri o attorno ai santuari del sopratterra, con una articolazione che prevede una scala di valori nell’attribuzione degli spazi funerari attorno alle tombe venerate, il tutto regolato dalla "legge dei privilegi" che vede ai primi posti della scala i vescovi, i presbiteri e i cristiani più in vista della comunità. Ne deriva una piramide di valori, una scala di poteri che vede i martiri fungere da trait-d’union fra lo stato emergente della comunità terrena e la sede paradisiaca, a sua volta tradotta in figura da una piccola piramide, ove il Cristo è collocato al vertex e i principi degli apostoli alle basi.

Proprio mentre i vertici della comunità commissionano tombe e decorazioni, che riflettono le posizioni che essi avevano stabilito con i loro "poteri celesti", la gestione della devozione martiriale sfugge al monopolio di pochi leaders, per divenire un fenomeno veramente popolare, diffuso e sistematico. Lo si arguisce specialmente dalla decorazione degli oggetti d’uso, quando i "martiri protettori" appaiono per decorare i recipienti vitrei con la loro effigie rassicurante, come quelle di s. Agnese, di s. Lorenzo e di s. Ippolito, per non parlare dei principi degli apostoli. Queste tazze decorate, alla portata di tutte le borse, accompagnano i cristiani per tutta la loro vita e anche dopo la morte, in quanto venivano sistemate fuori dal loro loculo, quasi per far perdurare anche nell’aldilà un protettorato martiriale, che si era iniziato nella vita terrena.

Nei primi decenni del V secolo, cambia il ruolo delle catacombe che perdono gradualmente la loro funzione funeraria a favore di un uso esclusivamente cultuale. Le intricate reti cimiteriali vengono risparmiate dal totale abbandono solo nei settori interessati dai sepolcri venerati: i percorsi vengono rivisti, illuminati, decorati; in questi itinerari le rappresentazioni dei martiri, per lo più in forme di icone, visualizzano nell’immaginario dei devoti, delle figure sino ad allora riservate a pochi eletti.

I pellegrini che provenivano prima da Roma e poi dall’hinterland ed, infine, da tutto l’ecumene cristiano giungono alle tombe dei martiri con venerazione, ma anche con molta disinvoltura, come se giungessero finalmente a salutare un caro amico lontano. Si fermano, riflettono sulla fine gloriosa del santo, pregano, accendono lumi dinanzi alla tomba, lasciano i loro nomi o altre preghiere di intercessione graffite nelle pareti delle cripte. Sono gesti semplici che ci parlano di una devozione urgente, di pratiche quotidiane che recuperano i riti funerari ordinari. Questa semplicità e questa confidenza con il martire tradiscono un’immediatezza di rapporto che soltanto una struttura elementare come quella della più antica comunità cristiana poteva concepire.

Al di là di questo rapporto facile e, in un certo senso, audace, si deve intravvedere anche una concezione particolare e un poco più complessa del rapporto tra il cristiano delle origini e il Cristo. Pregando e venerando i martiri, i primi fratelli indirizzano la loro attenzione e la loro riflessione spirituale a chi aveva riproposto la fine tragica ma trionfale del Cristo. Questo paradosso semantico ci aiuta a comprendere come, già nei primi secoli, il martire veniva identificato a Cristo, che, per questo, a sua volta era considerato un protomartire fedele.

Seguire e tentare di comprendere la dinamica devozionale che mette in contatto il cristiano delle origini con il martire e, quindi, con il Cristo, serve perfettamente e coerentemente a definire in tutti i suoi aspetti e nelle sue evoluzioni la parabola della nuova evangelizzazione a cui tiene tanto il Sommo Pontefice. Tornare con il pensiero e con l’atteggiamento spirituale a quei primi meccanismi, che si innescarono nella fede primitiva, aiuta sicuramente il cristiano dei nostri giorni a recuperare i tempi e i modi di una conversione e di una devozione che mette l’uomo in primo piano, sulla stessa linea dei martiri che fungono da exempla significativi e da introduttori al cospetto del Cristo.

Delineando questi concetti e questo modo di vivere la fede, tornano alla mente molti monumenti del cristianesimo antico; le pitture, i mosaici, i sarcofagi, le arti minori, durante i primi secoli e nell’altomedioevo, schierano in un medesimo habitat paradisiaco ed epocale il Cristo, protomartire fedele, i martiri della storia, i santi, i pontefici, i cristiani ordinari. In questo allineamento, in queste solenni teorie possiamo riconoscere il manifesto di una concezione spirituale alta ed attuale, tesa ed estremamente moderna. In queste immagini, di così grande impatto ma di tanto facile decodificazione, si può leggere un atteggiamento culturale e spirituale valido nel tempo e sino ai nostri giorni, si può individuare una concezione del martirio integrale e globale, che, recuperando la memoria dei primi martiri, si allarga in una visione cristologica, che vede nella fine del martire un’emulazione della passio Christi e nella insopprimibile devozione nei confronti dei primi campioni della fede, un’attitudine continuata ed inestinguibile che esprime appieno e nelle sue più profonde radici il tema dell’umanesimo cristiano.


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DISCORSO DEL CARDINALE ANGELO SODANO
SEGRETARIO DI STATO DI SUA SANTITA'
AI PARTECIPANTI ALLA QUARTA SEDUTA PUBBLICA
DELLE PONTIFICIE ACCADEMIE

Eminenze ed Eccellenze,
Illustri Accademici,
Signore e Signori!

Mi sento particolarmente onorato nel presiedere la vostra IV Seduta Pubblica a nome di Sua Santità Giovanni Paolo II, che mi ha incaricato di esprimere a tutti i partecipanti il Suo personale apprezzamento per l'opera di rinnovamento istituzionale e di impegno culturale svolta dalle vostre Pontificie Accademie nel corso degli ultimi anni.

Desidero rivolgere innanzitutto una cordiale parola di ringraziamento al Signor Cardinale Paul Poupard, per il nobile indirizzo con cui ha interpretato i comuni sentimenti, incaricandomi di recare al Santo Padre gli auguri onomastici, cosa che non mancherò di fare. Esprimo poi vivo apprezzamento ai due Relatori di questa Seduta, Monsignor Victor Saxer ed il Prof. Fabrizio Bisconti, che hanno illustrato con grande competenza il tema di questa Tornata Accademica: Il martire identificato a Cristo, Protomartire fedele. Una figura dell'umanesimo cristiano.

A poche settimane dall'apertura della Porta Santa, che segnerà l'inizio del Grande Giubileo dell'Anno 2000, diventiamo ancor più consapevoli, soprattutto dopo aver ascoltato le due interessanti relazioni odierne, dell'importanza della figura del martire nella vita della Chiesa e nella spiritualità cristiana.

Quello di "martire" è il titolo più glorioso che si possa avere nella Chiesa. Il sangue versato per la più nobile causa, l'attaccamento permanente alle realtà invisibili, la forza d'animo che supera le debolezze della natura, la carità perfetta offerta a Dio nei tormenti inflitti in odium fidei, insomma: tutto ciò che eleva l'uomo al di sopra di se stesso per amore di Dio, ecco quel che richiama in noi il concetto di martirio.

Certo, l'uccisione del diacono Stefano, glorificato più tardi quale araldo di Cristo, sul momento fu occasione di pianti e lamenti (At 8, 1-2). E qui a Roma, l'immensa turba dei cristiani giustiziati dagli imperatori suscitò dapprima angoscia e dolore tra i fedeli. Questi, però, superato il primo sconcerto, seppero accogliere con fiducioso abbandono le parole del Salvatore: "Quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di cosa dovrete dire... sarete odiati da tutti a causa del mio nome: ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato... Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il Regno dei Cieli" (cfr Mt 10, 19.22; Mt 5, 10).

Gli Apostoli stessi danno questa testimonianza: sono lieti di essere stati giudicati degni di soffrire per il nome di Cristo (At 5, 40-41). Paolo si gloria delle sofferenze sopportate per Cristo (cfr Rm 5, 3; 2 Cor 11, 23-32); Giovanni contempla sotto l'altare del cielo le anime di coloro che sono stati immolati per la parola di Dio (Ap 6, 9-11).

Non c'è dubbio: il martire è il cristiano perfetto, l'imitatore di Cristo, protomartire fedele, immolato per amore del Padre, per attuare il grande disegno della salvezza. Non c'è quindi da meravigliarsi se il popolo cristiano proclama i suoi martiri "beati" e se arricchisce i loro nomi con titoli di onore e di benedizione: Μακ_ριoς beatus, beatissimus, benedictus, fortissimus. Beate sono anche proclamate le Chiese alle quali Dio ha concesso il supremo onore di avere uno o più martiri tra i loro membri, perché, come il nome di Gesù è elevato al di sopra di tutti i nomi, così il martire è elevato al di sopra di tutti i giusti (cfr Celestino Del Noce -Il Martirio - Testimonianza e spiritualità nei primi secoli - Studium, Roma 1987).

Lo scopo delle relazioni che abbiamo ascoltato era quello di mettere in risalto il significato del martirio cristiano.

Non sarà però fuori luogo che continuiamo a ricordare il significato apologetico del martirio. In realtà, gli studiosi di tutti i tempi si trovano di fronte ad un fenomeno impressionante che rimanda ad una forza misteriosa, che sola può aver reso possibile tale miracolo morale. Durante i miei studi di teologia all'Università Gregoriana, cercai anch'io di approfondire lo studio del numero delle vittime delle persecuzioni romane, soffermandomi sul noto scritto del Padre Hertling S.J., intitolato "Die Zahl der Märtirer bis 313", in Gregorianum 25 (1944, pagg. 103-129). Si parlava di 100.000 e talora anche di 200.000 martiri. E dire che la popolazione italiana non superava forse i sette milioni, secondo le indicazioni dell'Enciclopedia Treccani (XXVII, 915).

Oggi è stato ben messo in risalto il significato del martirio cristiano ed il messaggio che ci viene da tanti testimoni della fede.

Per i pagani che non conoscevano il segreto interiore del loro eroismo, la loro costanza era oggetto di singolare meraviglia. Il disprezzo della vita presente, la fretta di correre verso la morte per Cristo, diventavano ai loro occhi, un atteggiamento che faceva riflettere. Era il muto linguaggio della testimonianza cristiana!

*  *  *

Al concludere questa solenne tornata accademica, mi sia però consentito di ricordare che i martiri non sono soltanto una gloria della storia passata della Chiesa. Il loro sangue è stato versato abbondantemente anche in questo secolo, che sta per tramontare, con eroismi forse ancor maggiori di quelli sofferti da tanti fratelli e sorelle nella fede, nei primi secoli di storia cristiana.

Proprio in questi giorni si sta ricordando il decennale della caduta del muro di Berlino. E’ una data che ci fa anche pensare al grande numero di martiri che sono morti a causa della loro fede nei vari Paesi dominati dai regimi comunisti. Si rimane davvero stupiti nel venire a conoscenza di tanti eroismi! Spiace solo notare come tali nuovi martiri non siano sufficientemente ricordati dall'opinione pubblica.

In alcuni ambienti pare che esista ancora il "muro di Berlino mentale" che impedisce di riconoscere la realtà. Agghiaccianti sono infatti, le cifre che da qualche anno vengono alla luce, dopo le conclusioni della stessa Commissione ufficiale russa, presieduta dal noto Alexsander Jakoblev, circa le persecuzioni religiose durante il regime sovietico (cf. i quotidiani L'Avvenire e La Repubblica del 28 novembre 1995).

Ciò detto, mi è particolarmente gradito consegnare a nome del Santo Padre il Premio delle Pontificie Accademie per l'anno 1999.

Quest'anno il bando di concorso era dedicalo all'archeologia, alla storia e al culto dei martiri, nell'intento di sottolineare il valore del patrimonio archeologico, liturgico e storico al quale la cultura cristiana deve tanto e dal quale può tuttora attingere i valori di un autentico umanesimo.

Dopo avere raccolto il giudizio del Consiglio di Coordinamento fra le Accademie Pontificie, Sua Santità Giovanni Paolo II ha deciso di attribuire il premio delle Pontificie Accademie 1999 alla Dottoressa Lucrezia Spera, laureata in lettere presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" e specializzata in Archeologia presso la Scuola Nazionale di Archeologia, per il suo studio: "Ad limina Apostolorum: santuari e pellegrini a Roma tra la tarda Antichità e l'alto Medioevo", inserito nel volume "La geografia di Roma e lo spazio del sacro. L'esempio delle trasformazioni territoriali lungo il percorso della visita alle sette chiese".

Prima di consegnare il Premio alla Dottoressa Lucrezia Spera, a cui rivolgo anche le mie personali congratulazioni ed il mio augurio di un sempre proficuo impegno culturale, vorrei, infine, ringraziare, a nome del Santo Padre, tutti coloro che hanno reso possibile questo incontro: il Cardinale Paul Poupard, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie, i Presidenti delle due Accademie che hanno curato la realizzazione della Seduta Pubblica, i due illustri Relatori, i Solisti dell'Orchestra di Roma e del Lazio, che hanno reso ancor più prezioso questo momento con la loro magistrale esecuzione.

Sono infine lieto di partecipare ad ognuno di voi e ai vostri cari la speciale Benedizione Apostolica, che il Santo Padre concede con vivo affetto, implorando su ciascuno l'abbondanza delle grazie del Signore.


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A NOME DEL SANTO PADRE
IL CARDINALE SEGRETARIO DI STATO ASSEGNA
IL PREMIO DELLE PONTIFICIE ACCADEMIE

Nel corso della IV Seduta pubblica delle Pontificie Accademie, tenutasi nell'Aula del Sinodo dei Vescovi, il Santo Padre, tramite il suo Segretario di Stato, l'Em.mo Cardinale Angelo Sodano, ha assegnato per la terza volta il Premio delle Pontificie Accademie. Presentata dal Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie, la Dott.ssa Lucrezia Spera, Laureata presso l'Università degli Studi di Roma " La Sapienza " e specializzata in Archeologia presso la Scuola Nazionale di Archeologia della predetta Università, è stata premiata per il suo lavoro intitolato: Ad Limina Apostolorum: Santuari e pellegrini a Roma, tra la tarda antichità e l'alto medioevo.

Lo studio presentato rientra perfettamente nel tema del bando, giacché il pellegrinaggio e la sistemazione monumentale e urbanistica che facilita l'accesso alle tombe dei santi martiri nel suburbio di Roma dalle origini nel III secolo all'epoca carolingia circa l'anno 800 sono le manifestazioni maggiori della pietà del popolo cristiano e delle autorità ecclesiastiche verso i grandi testimoni della fede.

Assieme ad un assegno di Lit. 60.000.000, e a nome del Santo Padre, il Cardinale Segretario di Stato ha consegnato alla Premiata una pergamena con la seguente scritta in latino, a firma del Cardinale Poupard, Presidente del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie: summus pontifex ioannes paulus ii proponente consilio pro academiarum pontificiarum coordinatione optimae dominae lucretiae spera e dioecesi potentina-murana-marsicensi praemium academiarum pontificiarum benevole tribuit. Ex Aedibus Vaticanis, die iii mensis Novembris A.D. mcmxcix.


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