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PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI INTERVENTO DEL PRESIDENTE
11. Relazione all'Assemblea Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 25 febbraio 2002.
LA DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA E IL DIRITTO
I. L'essenzialità dei diritti fondamentali della persona umana, e tra questi il diritto primario alla vita, ha consistito sempre nel fatto che essi non possono essere né concessi né derogati da alcun potere umano: perché questi diritti hanno il loro fondamento non in un atto di umana volontà ma nella stessa natura e dignità dell'uomo. Già prima della grande tradizione dottrinale e giurisprudenziale romana sul diritto naturale, l'esistenza di una legge non scritta, fondamento dei diritti naturali dell'uomo, compare nel pensiero di molti filosofi e scrittori della cultura greca, come Eraclito, il quale parla di una legge universale fondata sul logos divino, o come Sofocle, per il quale gli agrapta nomina, cioè le leggi non scritte ma presenti nello spirito umano per opera degli Dei, sono l'ultimo baluardo contro la tirannide (Antigone, vv. 454-460); o come Epiteto, che parla (cfr. Diatribai I, 3, 1) della comune e alta dignità morale e giuridica dell'uomo in quanto creatura di Dio[1]. Anzi il problema attuale, ma in realtà antichissimo, sulla differenza fra un ordinamento statale legittimo ed uno snaturato — anche in regime democratico —, fu trattato da Polibio nella sua Storia di Roma seguendo i risultati a cui erano pervenuti prima Platone ed Aristotele. Da notare che per quanto riguarda la democrazia, Polibio afferma anzitutto che non può chiamarsi democratico uno stato in cui una qualsiasi massa di cittadini — anche maggioritaria — è padrona di fare ciò che le piace (cfr. Pol. 6, 4, 4-5). “Certamente — insegnava Cicerone — esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere e i suoi divieti trattengono dell'errore (…) È un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi ha la possibilità di abrogarla completamente” (De re publica, 3, 22, 33). Fin dai tempi dell'antichità precristiana era chiaro, perciò, che la democrazia può esistere come tale soltanto se la maggioranza rispetta certe premesse basilari dell'ordinamento sociale, tra cui i principi del diritto o etica naturale e i diritti umani inviolabili che in esso hanno il loro fondamento[2]. Quanto al diritto alla vita, concretamente, è anche da considerarsi una pietra angolare nella civiltà giuridica il fatto che il diritto romano considerava come un essere o individuo umano il concepito ancora non nato (il nasciturus) e, come tale, era soggetto di diritti, potendo perfino essere destinatario di beni testamentari. Così nei Digesta di Giustiniano viene riconosciuta al nascituro la condizione giuridica di essere umano (“Qui in utero sunt ... intelliguntur in rerum natura esse”: D.1.5.26); e, perciò, esso è da considerarsi titolare di diritti, come se fosse nato (“Nasciturus pro iam nato habetur”: D.1.5.7), quando si tratti del suo vantaggio (commodum). Questo principio, introdotto dalla giurisprudenza romana nel sistema dello ius civile[3], operò un mutamento qualitativo nelle strutture del pensiero sociale e giuridico non solo romano ma dell'intera civiltà giuridica. Infatti, il principio di considerare giuridicamente essere umano — anche quando non lo si qualifica come persona — il concepito non nato — che va protetto — è stato raccolto lungo i secoli posteriori in molti codici costituzionali e civili di aree geografiche e culturali assai lontane: non soltanto del mondo latino, romano e iberico (Italia, Spagna, Argentina, Brasile, Uruguay, Peru, Cile, ecc.), ma anche nel diritto germanico (cfr. per esempio la relativa sentenza della Corte Costituzionale della Repubblica Federale Tedesca, del 28 maggio 1993) e perfino nel codice civile del Giappone (cfr. art. 721). Tutta questa grande tradizione giuridica è stata possibile per quasi trenta secoli — fino al moltiplicarsi nella seconda metà del secolo XX delle legislazioni permissive dell'aborto —, perché il rispetto di ogni vita umana innocente, in ogni momento del suo sviluppo, si era andato solidamente formando, anche se non sempre tutelato, sulla base della ontologia dell'essere umano, della persona — della sua singolare dignità e superiorità nei confronti degli altri esseri o creature —, e non delle semplici considerazioni accidentali di ordine politico, pragmatico o psicologico. L'avvento poi del Cristianesimo e la sua diffusione nel mondo non soltanto ha rispettato tutte queste acquisizioni della “recta ratio” nella filosofia morale e nella scienza giuridica della grande cultura greco-romana, ma le ha confermate ed arricchite ulteriormente. Per il Cristianesimo — e in qualche modo anche per le altre religioni monoteistiche — l'essere umano, la persona, non è soltanto l'essere più alto nella scala degli esseri a ragione dell'intelligenza e della libertà di cui gode, ma è anche l'unica creatura che Dio abbia creato per se stessa[4]. Ogni essere umano è creato a immagine e somiglianza di Dio. In ogni essere umano, anche se debole, malato o handicappato, c'è un riflesso divino, una vita che tende all'eternità. Infatti, “la ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio”[5]. Perciò ha proclamato Giovanni Paolo II nell'Evangelium Vitae: “In Cristo, infatti, è annunciato definitivamente ed è pienamente donato quel Vangelo della vita che, offerto già nella Rivelazione dell'Antico Testamento, ed anzi scritto in qualche modo nel cuore stesso di ogni uomo e donna, risuona in ogni coscienza «dal principio», ossia dalla creazione stessa”[6].
II. L'ordinamento civile democratico, affermatosi progressivamente a partire delle rivoluzioni borghesi della fine del secolo XVIII — prima in America e poi in Europa —, si basa su due principi imprescindibili: il principio democratico, che assicura la partecipazione di tutti i cittadini nella formazione delle leggi e delle relative decisioni politiche, e il principio costituzionale che limita giuridicamente il potere politico nel nome dei diritti soggettivi fondamentali, considerati come preesistenti o anteriori ad ogni istituzione politica o potere sociale. È classica la “Dichiarazione dei Diritti” dello Stato di Virginia, del 12 giugno 1776, che affermò nell'art. 1º: “tutti gli uomini sono per natura ugualmente liberi e indipendenti e possiedono certi diritti innati dei quali, all'atto di costituirsi in società, non possono privare se stessi né la propria posterità; e tali diritti sono il fondamento della vita e della libertà, con i mezzi di acquistare e possedere beni in proprietà e la ricerca e il conseguimento della felicità e della sicurezza”. Gli stessi concetti si ritrovano, con termini più o meno simili, nelle Dichiarazioni di Diritti della Pennsylvania (art. 1), del Massachusetts (art. 1), ecc., che affondavano le loro radici storiche nei movimenti politico-religiosi dell'Inghilterra dei secoli XVI e XVII ed alla sua autentica tradizione del diritto consuetudinario o comune (common Law). È stato rilevato dai costituzionalisti[7] che la valenza dei diritti fondamentali della persona umana è stata interpretata in chiave diversa in queste Dichiarazioni dei diritti anglo-americane e nei successivi sistemi costituzionali europei-continentali. Nel primo caso l'anteriorità e la conseguente inviolabilità dei diritti fondamentali rispetto ad ogni potere statale positivo, compreso quello costituzionale, ha sempre rappresentato la pietra miliare su cui è stato costruito l'intero edificio costituzionale. Invece, negli ordinamenti giuridici dell'Europa continentale, a cominciare della Rivoluzione francese, l'anteriorità e l'inviolabilità dei diritti fondamentali, pur affermate in linea di principio, sono state frequentemente relativizzate sul piano del diritto positivo e dell'attività politica. Nel caso dei primi sistemi costituzionali il concetto di “diritti soggettivi” introdotto nella dogmatica giuridica liberale, pur evidenziando un cambio di impostazione dottrinale riguardo al “realismo giuridico” (il “suum quique tribuere”, la res iusta[8]) proprio della cultura giuridica classica, non ha rappresentato una “rottura” con il passato. Infatti, i due grandi movimenti ideali — il giusnaturalismo e il contrattualismo — coincidevano nel riconoscere due cose: 1º) che l'inviolabilità dei diritti soggettivi fondamentali risiede nel loro carattere di diritti innati, radicati cioè nella stessa natura umana; 2º) che tali diritti innati e inviolabili sono per principio beni non-negoziabili, quindi non sottoponibili ai patti sociali che stabiliscono le regole della convivenza e, tanto meno, ai poteri politici costituiti in base ai medesimi patti. Nei sistemi giuridici invece successivi alla Rivoluzione francese, la chiamata “volontà generale del popolo” (o, nella versione tedesca, il concetto di Stato-persona o ente politico sovrano) l'inviolabilità dei diritti fondamentali è stata alquanto relativizzata, se non a livello di legge costituzionale, sì mediante leggi ordinarie tendenti a regolare e talvolta a limitare e perfino sospendere l'esercizio di tali diritti. Questo fenomeno, conseguenza nel secolo XIX del positivismo giuridico e della sua concezione relativista della razionalità delle leggi, si è ulteriormente aggravato nel secolo XX, per i due ben noti motivi: le aberrazioni giuridiche contro la dignità della persona umana proprie dei regimi politici totalitari e, nei regimi democratici, il crescente influsso di ideologie filosofiche e politiche improntate al relativismo morale e al permissivismo libertario[9]. Così è avvenuto riguardo concretamente al diritto alla vita.
III. Nell'anno 1948, quando dalle rovine materiali e morali della 2ª Guerra mondiale emergeva il bisogno di riaffermare la dignità della persona umana e i suoi diritti inalienabili fu solennemente approvata dall'ONU la “Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo”. È ben saputo che in essa, all'Art. 3º, si legge: “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza”. Alcuni anni dopo, nel 1959, la “Dichiarazione dei diritti del bambino”, sempre delle Nazioni Unite, stabiliva nel suo preambolo che: “il bambino ha bisogno di una protezione speciale, e concretamente giuridica, tanto prima della nascita che dopo”. Dal canto suo l'Assemblea Medica Internazionale, del 1948, rielaborando il giuramento d'Ippocrate, faceva promettere a tutti i medici: “Io osserverò il rispetto assoluto della vita umana dal momento stesso della concezione”. Da queste ed altre solenni dichiarazioni ed accordi internazionali, nonché dall'esame dei diritti costituzionali e civili delle nazioni più progredite, è stato giustamente dedotto che fino alla metà del secolo XX c'era nel mondo una rilevante omogeneità legislativa di fronte alla tutela della vita umana, anche del concepito non ancora nato: sia nella sfera del diritto romano-germanico che nel sistema della common law delle legislazioni anglosassoni, l'aborto e l'eutanasia erano valutati e proibiti come delitti.“Jusqu'alors, aussi bien dans la sphère du droit romain germanique que de lacommon law les législations européennes et américaines interdisaient l'avortement, sauf en cas de danger pour le mère, ainsi que l'euthanasie. La premier grande rupture avait été produite en 1920 par l'URSS de Lénine, suivie de la parenthèse du régime nazi, avec ses lois eugéniques et le génocide”[10]. A questa prima grande negazione in Russia del carattere inalienabile del diritto alla vita seguirono, negli anni '50, le legislazioni abortiste delle altre nazioni dell'est europeo sottomesse al comunismo. Nel mondo occidentale invece, dove l'influsso del materialismo pratico non ha avuto l'impeto rivoluzionario del materialismo dialettico come dottrina filosofica dello Stato, la legislazione permissiva dell'aborto arrivò solo 47 anni dopo l'Unione Sovietica, con l'Abortion act inglese del 1967. Successivamente tale legislazione si è andata diffondendo a poco a poco in altre nazioni, non senza trovare forti opposizioni dottrinali e popolari: nel 1973 negli USA, Germania e Danimarca; nel 1974 in Svezia; nel 1975 in Francia; nel 1978 in Italia, Lussemburgo e Grecia; nel 1984 in Portogallo; nel 1985 in Spagna; nel 1990 in Belgio, ecc. Vale a dire: nella seconda metà del secolo XX si è consumato il più grande capovolgimento immaginabile — giuridico ma anche etico — del diritto alla vita: la perdita —almeno nella prassi legislativa di molti Stati talvolta in sorprendente contrasto con le loro Costituzioni — del suo carattere di diritto inalienabile. Anzi, nell'Enciclica Evangelium vitae ha fatto notare Giovanni Paolo II che gli attentati contro la vita nascente e terminale “presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di ‘delitto' e ad assumere paradossalmente quello del ‘diritto', al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato”[11]. Ma: quali sono state, in concreto, le cause di questo capovolgimento giuridico che sta portando le legislazioni di molti Stati allalegalizzazione dell'aborto e, successivamente, anche dell'eutanasia e di altri attentati contro la dignità della persona umana? Si sa che la legalizzazione dell'aborto in Russia, nel 1920, ubbidì ad una ragione totalitaria di natura socio-politica: facilitare l'inserimento della donna nel lavoro extra-domestico, a beneficio dell'economia socialista. La sentenza della Corte Suprema degli USA (“Roe v. Wade”) che nel 1973 aprì le porte in quella Nazione all'aborto legale lo fece, invece, sotto una apparente ragione democratica di difesa della libertà personale della donna: “la Corte — si legge nell'opinione maggioritaria dei giudici — non deve risolvere la difficile questione di quando la vita comincia” (need not resolve the difficult question of when life begins) e, pertanto, fu permesso alla donna di abortire e negato conseguentemente all'embrione e al feto il relativo diritto alla vita. La ragione data in Russia — in uno stato comunista — e la ragione data negli USA — in uno stato democratico — furono motivazioni apparentemente diverse, ma in realtà ubbidiscono ambedue alla medesima concezione agnostica del diritto, quella cioè dello stretto positivismo giuridico, basato sulla negazione della legge naturale e sul conseguente divorzio morale tra libertà e verità. Si potrebbe dire che l'intero Magistero sociale della Chiesa nel secolo scorso è stato guidato soprattutto dalla necessità di difendere le coscienze dei cristiani e la stessa dignità della persona umana contro due grandi utopie ideologiche diventate anche sistemi politici a scala mondiale: l'utopia totalitaria della giustizia senza libertà e l'utopia libertaria della libertà senza verità. Ha detto, infatti, il Papa: “Totalitarismi di opposto segno e democrazie malate hanno sconvolto la storia del nostro secolo”[12]. La prima utopia e con essa i sistemi politici che in varie forme l'avevano incarnata in Europa e in altri continenti è ormai in via di declino e di estinzione, ma non senza aver lasciato dietro di sé un immenso cumulo di rovine spirituali e sociali. La seconda utopia, invece, quella della libertà senza verità, è purtroppo in fase di crescente espansione. Essa, maturata nell'habitat filosofico dell'illuminismo e del relativismo agnostico, ha trovato il suo grande strumento legislativo (e quindi, sociale e politico) nello stretto positivismo giuridico. Infatti, per questo sistema che esplicitamente o implicitamente nega i postulati della legge naturale non è la verità oggettiva che assicura la razionalità giuridica e la legalità morale della norma o delle sentenze, ma soltanto la verità relativa o convenzionale, frutto pragmatico del compromesso statistico o politico. Non a caso il massimo esponente del positivismo giuridico, Hans Kelsen, commentando la domanda evangelica di Pilato a Gesù: «Cos'è la verità?» (Giov. 18, 38), scriveva che in realtà questa domanda del pragmatico uomo politico conteneva in se stessa la risposta: la verità è irraggiungibile; perciò Pilato, senza attendere la risposta di Gesù si indirizza alla folla e domanda: «Volete che liberi il re dei giudei?». Agendo così conclude Kelsen Pilato si comporta da perfetto democratico: affida cioè il problema di stabilire il vero e il giusto all'opinione della maggioranza, nonostante che egli fosse convinto della completa innocenza del Nazareno[13].
IV. Mary Ann Glendon, investigando l'origine e l'elaborazione della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo” ha illustrato bene la chiarezza di pensiero che guidò i lavori di Charles Malik, relatore di questa Magna Carta presso l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Malik, cristiano libanese di confessione greco-ortodossa, seguì dal principio sino alla fine l'intero iter di preparazione del documento: prima come estensore e successivamente come relatore del primo progetto sui diritti umani, e dopo come presidente del Comitato per gli Affari sociali. Cosciente dei molti problemi di ordine politico e cultural che implicava l'elaborazione di una Carta di diritti umani che potessero essere universalmente accettati come inviolabili e inalienabili, Malik prospettò sin dal principio ai suoi colleghi della Commissione una questione previa e pregiudiziale. Quando si tratta di diritti umani — disse loro — si pone “l'interrogativo fondamentale: cos'è l'uomo?”[14]. Da qui, dall'attenta considerazione storica, filosofica, sociologica e ética della natura della persona umana e della dignità che le è propria — comunemente riconosciuta dalle diverse culture umane degne di tale nome —, scaturirono e furono tecnicamente formulati i diritti fondamentali di questa Dichiarazione Universale, una delle più alte espressioni della coscienza e della cultura giuridica del nostro tempo. Si legge, infatti, nel Preambolo della Dichiarazione: “Il riconoscimento della dignità personale e dei diritti uguali e inalienabili di tutti i membri della famiglia umana costituiscono il fondamento della libertà e della pace nel mondo”. Giovanni Paolo II, nel messaggio indirizzato al Segretario Generale delle Nazioni Unite nel XXXº anniversario della stessa Dichiarazione scrisse sul fondamento dei diritti umani fondamentali: “Indiscutibilmente questa base è la dignità della persona umana. Papa Giovanni XXIII lo spiegava nella Pacem in terris: « In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona […]; e quindi è soggetto di diritti e doveri, che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili » (n. 158)”[15]. In questi diritti inalienabili se riflettono le esigenze obiettive e i valori imprescindibili di una legge morale universale, i cui primi principi e conclusioni immediate non ammettono frontiere geografiche o condizionamenti riduttivi di ordine culturale, politico o ideologico. “Questi diritti ci ricordano anche— ha detto Giovanni Paolo II all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite — che non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso, ma che, al contrario vi è una logica morale che illumina l'esistenza umana e rende possibile il dialogo (…) La legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo, è quella sorta di «grammatica» che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro”[16]. Però fu ed è molto significativo che il Papa abbia voluto aggiungere immediatamente dinnanzi alle massime Autorità civili del mondo ivi riunite: “Sotto tale profilo, è motivo di seria preoccupazione il fatto che oggi alcuni neghino l'universalità dei diritti umani, così come negano che vi sia una natura umana condivisa da tutti”. Nel dire questo non sfuggiva a Giovanni Paolo II — anzi, lo riconobbe — che culture differenti ed esperienze storiche particolari danno origine a forme istituzionali e giuridiche diverse, ma aggiunse: “una cosa è affermare un legittimo pluralismo di «forme di libertà», ed altra cosa è negare qualsiasi universalità o intelligibilità alla natura dell'uomo o all'esperienza umana”[17]. Con queste parole il Papa ha certamente voluto mettere in evidenza il pericolo che la “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” — non legge internazionale, ma sì “ideale comune per la cui realizzazione tutti i popoli e nazioni devono sforzarsi”[18] — venga progressivamente svuotata di autorità morale e di forza vincolante, a causa della crescente diffusione del pensiero filosofico e politico di individualismo libertario. Con un falso concetto di libertà disgiunta dalla verità, tale individualismo libertarionon riconosce alcun limite etico obiettivo alla condotta personale e sociale e, in ultima analisi, nemmeno ammette l'esistenza di valori obiettivi e universali moralmente e giuridicamente vincolanti. Quest'aberrazione ideologica, che nega il carattere univoco e universale della natura e dignità umana e dei suoi conseguenti diritti inviolabili, ci obbliga a considerare che ciò che qui viene messo in giuoco non è solo il Magistero della Chiesa al servizio della dignità umana e sopranaturale dell'uomo — ciò che potrebbe interessare ai soli cristiani —, bensì è in causa — e ciò riguarda tutti — la stessa legittimità morale del Diritto.
V. Non c'è alcun dubbio che il fenomeno più positivo della moderna scienza giuridica e delle costituzioni democratiche è stato lo sviluppo dottrinale e normativo sui diritti fondamentali dell'uomo, ciò che ha contribuito a mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista: la persona umana, con la sua inalienabile dignità e libertà. Infatti, il Diritto in quanto ordinamento è rappresentato dall'insieme di norme e di rapporti che organizzano gli uomini in comunità sociale. Si è però avuta una progressiva presa di coscienza che tale ordinamento si deve strutturare e continuamente perfezionare tenendo presente che è proprio la persona umana il fondamento e il fine della vita sociale. Questo è stato l'alveo in cui si è sviluppato il diritto contemporaneo, a dispetto delle deviazioni — quando no aberrazioni legislative — dei vari regimi totalitari e la mancanza di onestà intellettuale con cui non pochi fautori del positivismo giuridico hanno ceduto alla pressione sociale di queste ideologie politiche. Ciononostante, parallelamente allo sviluppo della centralità della persona nel diritto, dell'antropologia giuridica — chiamiamola così —, se è prodotto un altro fenomeno che preoccupa seriamente non solo il Magistero ecclesiastico, ma anche i sociologi e i filosofi del diritto, nonché semplice cittadino. Mi riferisco al progressivo impoverimento etico delle leggi civili — disprezzo dell'indissolubilità del vincolo matrimoniale e perfino del concetto stesso di famiglia come istituzione naturale; liberalizzazione dell'aborto, dell'eutanasia, della droga; insufficiente tutela dell'obiezione di coscienza e del diritto alla libertà religiosa, ecc. — e, pertanto, all'impoverimento anche del valore pedagogico di queste stesse leggi, e perfino alla perdita della sua legittimità morale. Purtroppo, l'etica cosiddetta laica, fondamento del diritto agnostico o libertario, non ammette questi concetti di “amoralità” o di “immoralità” in base a valori e verità oggettivi che siano al di sopra delle leggi positive. Perciò, essa propugna la separazione tra “morale privata” ed “etica pubblica” nell'ambito del cosiddetto «pluralismo etico». La morale privata si fonderebbe sui principi filosofici o le convinzioni religiose dell'individuo e, perciò, essa è da circoscrivere all'ambito ed al giudizio della sola coscienza personale di ciascun cittadino; l'etica pubblica, invece, sarebbe quella che viene determinata esclusivamente dal consenso maggioritario della comunità, cioè da quella verità convenzionale che viene concretizzata nella legge. Ovviamente si moltiplicano le leggi “permissive” (“anti-proibizioniste”) anche in materie e istituzioni che per un motivo od un altro sono importanti per il bene comune e l'ordine pubblico, come sono il diritto di famiglia, l'educazione, la moralità pubblica, ecc. “I problemi della vita, della procreazione ivi compresi quelli dell'aborto e dell'eutanasia vengono affidati alla coscienza privata e la legge dovrebbe soltanto garantire in merito la libertà di coscienza e di comportamento, la scelta individuale. Si tratta dunque oggi non soltanto di meglio definire e fondare il rapporto tra bioetica e biodiritto, ma anche di rivendicare la legittimità di un discorso etico in ambito sociale e la sua rilevanza in ambito giuridico”[19]. “Oggi — ha detto Giovanni Paolo II — in non poche società non è raro assistere a una specie de «regresso de civiltà», frutto di (…) una concezione soggettivistica della libertà, svincolata della legge morale”[20].Bisogna, perciò, dire chiaramente e con forza — per difendere il diritto inalienabile alla vita, ma anche per prevenire le intelligenze oneste contro i sofismi dei falsi democratici — che questa riduzione meramente soggettivista e agnostica della libertà e del diritto è contraria non soltanto alla dottrina sociale cristiana ma anche al concetto tradizionale e sano di Diritto e di Democrazia. A questo punto del nostro discorso qualcuno potrebbe obiettare, valutando le precedenti affermazioni in chiave moralista e perfino fondamentalista:ma non ci si accorge che parlando così si confondono pericolosamente la Morale e il Diritto? Non ci si accorge che il precetto morale si appella alla coscienza, mentre la norma giuridica riguarda invece i rapporti esterni, la condotta sociale dell'uomo? Non ci si accorge che in tutto questo ragionamento, oltre a detta commistione concettuale, traspare una certa nostalgia dello Stato confessionale cristiano, opposto alla libertà religiosa? Non ci lasciamo impressionare dal subdolo sofisma nascosto sotto queste domande. A prescindere del fatto — già ricordato — che prima del Cristianesimo la preminenza della legge naturale, della recta ratio, sulla legislazione positiva, era patrimonio giuridico della cultura giuridica classica ed anche del costituzionalismo moderno, è anche l'attuale concezione personalistica della sociologia e della scienza del Diritto quella che richiede che tutti gli ordinamenti giuridici rispettino i postulati del diritto naturale[21]. Infatti, è vero che la Morale e il Diritto sono due scienze diverse, che riguardano l'uomo da prospettive e con finalità differenti. La Morale si occupa primariamente dell'ordine dell'uomo come persona: riguarda cioè l'insieme di esigenze emananti dalla struttura ontologica dell'uomo in quanto essere creato e dotato di una particolare natura, dignità e finalità. Il Diritto, invece, si occupa primariamente dell'ordine sociale: riguarda cioè — stiamo parlando del Diritto come ordinamento — l'insieme di strutture che ordinano la comunità civile, la società. Ma se il fatto più rilevante e positivo del progresso della scienza del Diritto nel secolo XX è stato proprio quello di mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista, l'uomo, fondamento e fine della società, è ovvio che il Diritto di una sana democrazia — nell'ordinare le proprie strutture sociali — deve tenere conto di quale sia la struttura ontologica della persona umana: la sua natura di essere non soltanto animale e istintivo ma intelligente, libero e con una dimensione trascendente e religiosa dello spirito che non può essere ignorata, né mortificata. Qualora si negasse questa verità universale sulla natura e la dignità della persona umana — una verità che non può essere convenzionale né dipendere dalla opinione della maggioranza —, non solo si indebolirebbe pericolosamente il concetto di libertà religiosa — e degli altri diritti fondamentali dell'uomo —, ma ci si troverebbe dinanzi ad un diritto antinaturale essenzialmente immorale, strumento di un ordinamento sociale totalitario, anche se lo si volesse chiamare democratico. VI. Si sa che nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo non appare con precisione giuridica chi è il soggetto a cui va attribuita la titolarità dei diritti umani. Nel Preambolo viene designato come tale ogni “membro della famiglia umana” e si adopera anche il termine “persona umana”. Invece all'Art. 1 si dice che: “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti”, mentre agli Artt. 2 e 3 si parla rispettivamente di “persona” (come soggetto di diritti in genere) e di “individuo” (come soggetto concretamente del diritto alla vita). La Dichiarazione non ha chiarito il dubbio — posto anche nell'ambito filosofico e biologico — su quando si può adoperare la categoria giuridica di “persona” (con conseguente “dignità personale”) per applicarla all'essere umano come soggetto dei suoi diritti fondamentali. Si tratta di una questione terminologica problematica — presente in non pochi codici civili e costituzioni — che riflette l'altra questione di fondo prima accennata: quale sia la verità sull'uomo. Mi sembra doveroso, a chiusura di questa mia relazione fare qualche modesta considerazione in merito, lasciando ad altri più specifici e qualificati interventi gli ulteriori approfondimenti sul problema. Non c'è dubbio, infatti, che nell'attuale crocevia della storia ha acquistato una particolare importanza ed urgenza la necessità di mettere ben in chiaro quale sia la natura della persona umana, radicalmente diversa da tutti gli altri esseri esistenti. Perché questa questione ha le più gravi e decisive conseguenze per il futuro dell'umanità: sia nel campo della scienza e specialmente della biologia e della genetica, che in quello del diritto, della sociologia e della politica. Per i credenti la “verità sull'uomo” non è una questione problematica ma una verità pienamente acquisita, rivelata. “Qual è dunque l'essere che deve venire all'esistenza circondato da una tale considerazione?” domandava San Giovanni Crisostomo considerando la grandezza di questo essere singolare creato da Dio “a sua immagine” (Gen. 1,27) e, perciò, intelligente e libero, cosciente e responsabile; redento dal peccato e dalla morte mediante il sacrificio dello stesso Dio fatto uomo; elevato alla condizione di figlio adottivo di Dio e chiamato a condividere, nella conoscenza e nell'amore, la vita del suo Creatore. E rispondeva lo stesso San Giovanni Crisostomo: “È l'uomo, grande e meravigliosa figura vivente, più prezioso agli occhi di Dio dell'intera creazione; è l'uomo, è per lui che esistono il cielo e la terra e il mare e la totalità della creazione”[22]. Glossando questa nozione biblica dell'uomo, l'antropologia cristiana spiega: “Essendo ad immagine di Dio, l'individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno”[23]. Perciò: l'essere umano “va rispettato e trattato come persona fin dal suo concepimento”[24]. Infatti, ormai non c'è dubbio anche per le scienze positive che l'embrione non è solo un individuo ben definito della specie umana, ma abbraccia anche tutte le potenzialità biologiche, psicologiche, culturali, spirituali, ecc. che l'uomo svilupperà nel corso della sua esistenza. Perciò, ha ribadito Giovanni Paolo II a conclusione del Simposio internazionale “Evangelium vitae e Diritto”: “Non possiamo non assumere come punto di partenza lo statuto biologico dell'embrione che è un individuo umano, avente la qualità e la dignità propria della persona. L'embrione umano ha dei diritti fondamentali, cioè è titolare di costitutivi indispensabili perché l'attività connaturale ad un essere possa svolgersi secondo un proprio principio vitale. L'esistenza del diritto alla vita quale costitutivo intrinsecamente presente nello statuto biologico dell'individuo umano fin dalla fecondazione costituisce, pertanto, il punto fermo della natura anche per la definizione dello statuto etico e giuridico del nascituro”[25]. Per avere, infatti, « la qualità e la dignità propria della persona » non si richiede che questa abbia già sviluppato in maggior o minor grado le sue potenzialità. Ma: qual è per i non credenti, per le intelligenze non illuminate ancora dalla fede, la “verità sull'uomo”? La risposta a questa pressante domanda – da parte della filosofia e delle scienze biologiche – comporta gravi e decisive conseguenze per il futuro, non solo del diritto e della democrazia ma dell'intera umanità. Perciò, è proprio su questa primaria questione dove sembra che sia più urgente – come Giovanni Paolo II auspica nella Fides et Ratio – il dialogo sereno e costruttivo tra la filosofia e la Rivelazione, tra Atene e Gerusalemme, tra la ragione e la fede[26]. In questo orizzonte della “circolarità tra fede e filosofia”, del loro dialogo cioè nella ricerca umana della verità, si colloca certamente la primaria questione giuridica — ma non solo — della “verità sull'uomo”, cioè sulla dignità della persona umana. Lo ha ricordato espressamente Giovanni Paolo II: “Anche la concezione della persona come essere spirituale è una peculiare originalità della fede: l'annuncio cristiano della dignità, dell'uguaglianza e della libertà degli uomini ha certamente influito sulla riflessione filosofica che i moderni hanno condotto”[27]. Pensando alla necessità di sviluppare ulteriormente questa riflessione filosofica – metafisica – in dialogo costruttivo con il messaggio biblico sulla dignità dell'essere persona, ma anche in ascolto delle scoperte apportate dalle scienze biologiche e genetiche sull'origine e lo sviluppo dell'essere umano, mi sembra che si ponga in modo pregiudiziale una sfida: quella di superare appunto i pregiudizi. Senza questo primario requisito metodologico, il dialogo “circolare” e costruttivo tra fede, filosofia e biologia non sarebbe possibile. Eppure deve essere possibile. Perché – giova ripeterlo – la nozione di persona umana, la “verità sull'uomo” non è una questione meramente accademica ma un acuto problema esistenziale, senza la cui soluzione – sul piano della ragione – non sarebbe possibile ricuperare il senso ed il valore dell'etica e del diritto. Nel passato – al tempo delle eresie e delle controversie sui dogmi della Trinità e dell'Incarnazione del Verbo – il dialogo in proposito tra teologia e filosofia è stato particolarmente intenso, attesa la necessità di precisare il significato e i relativi rapporti fra i termini “natura”, “sostanza”, “ipostasi” e “persona” (anche perché la nozione filosofica di “persona”, introdotta nella nota definizione di Boezio[28] non esisteva nella filosofia greca). E si sa bene che questo dialogo è continuato dopo, specie nell'epoca moderna, a proposito tra l'altro della distinzione o meno – funzionale solo oppure ontologica – tra i termini “individuo” e “persona” (Hegel, Kierkegaard, Feuerbach, M. Bubber, Mounier, ecc.). Dal canto suo, Giovanni Paolo II, nella stessa enciclica Fides et Ratio incoraggia i filosofi ad approfondire il concetto di persona prestando maggiore attenzione all'antropologia relazionale della Bibbia[29]. Comunque dove l'auspicato dialogo “circolare” sembra che dovrà essere intrapreso con maggiore dedizione e pazienza è nei rapporti della teologia e della filosofia del diritto con le scienze biologiche. Questo dialogo costruttivo – di mutuo arricchimento – forse appare oggi più difficile che nel passato, attesa la notoria tendenza di una buona parte del pensiero moderno a rifiutare la metafisica, ad emarginare l'essere. A ragione è stato detto che nel progetto culturale moderno “l'uomo è visto sdoppiato: c'è un livello in cui lo si considera soggetto inalienabile (la persona interpretata come titolare di diritti), e un altro livello nel quale è oggetto, cioè parte della natura fisico-biologica, sulla quale mette le sue mani la scienza”[30]. Ovviamente questo livello, puramente empirico, delle scienze biologiche la dignità della persona come soggetto inalienabile diventa molto problematico. Pertanto, forse sarà consigliabile che il primo approccio al dialogo della filosofia del diritto con le scienze biologiche – e più concretamente con la bio-genetica umana – non lo si faccia con “postulati” personalisti introdotti “ex abrupto”. “Si dovrebbe piuttosto iniziare – suggerisce un filosofo – con l'analisi e l'osservazione ontologica della realtà – la vita e l'essere dell'uomo –, a partire dalla quale verrà alla luce l'originalità ed il carattere specifico del suo essere persona”[31]. Allo stesso tempo, da parte della biologia si dovrebbe evitare di usare impropriamente il termine “persona”, che viene infatti adoperato da alcuni non più come un confine trascendente tra l'universo umano e quello non umano, ma soltanto all'interno dell'universo umano per operare una arbitraria discriminazione tra una fase e l'altra del suo sviluppo: “persona” sarebbe, secondo loro, soltanto il bambino nato ma non il feto né l'embrione. In questo modo, e contrariamente alla visione teologica e filosofica, la persona non viene definita per quello che è ma per quello che è in grado di fare o di apparire, con le conseguenze normative — sul piano etico e giuridico — che di questa discriminazione si deducono: chi non è ancora “persona” — ma soltanto una realtà o cosa “potenzialmente umana” – non può avere “personalità giuridica”, non può essere cioè titolare di veri diritti, come il diritto alla vita[32]. Ed è questa una chiusura intellettuale che né la fede né la scienza possono ammettere.
[1]Cfr., tra gli altri, A. Bausola, “Il fondamento del diritto alla vita”: in Tarantino A. (a cura di), Per una Dichiarazione dei diritti del nascituro, Milano 1996, pp. 113-114. [2]Cfr. J. Hervada, Escritos de Derecho Natural, Pamplona 1986, pp. 420-443; W.Waldstein, Diritto naturale, Diritti umani e Democrazia, comunicazione presentata al XI Colloquio Internazionale Romanistica-Canonistico (Roma, 22-25.V.1996), promosso dalla Pontificia Università Lateranense. [3]Basta considerare che la giurisprudenza romana cercò sempre di proteggere il nascituro. Per esempio: l'esecuzione della pena capitale contro una donna incinta va differita a dopo il parto; una donna incinta non può essere sottoposta a interrogatorio con tortura (Ulpiano, D.1.5.18; 48.19.3; Paul. Sent. 1.12.4) ecc. Cfr. Catalano P., « Vigenza dei principi del Diritto Romano riguardo ai “Diritti dei nascituri” »: in Tarantino(a cura di), Per una dichiarazione dei nascituri, o.c., pp.134-135. [4]Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 24. [5]Cost. past. Gaudium et spes, n. 19. [6]Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25.III.1995), n. 29; cfr. Cost. past. Gaudium et spes, n. 16; Dich. Dignitatis humanae, n. 3. [7]Cfr. A. Baldassarre, Diritti inviolabili: in Enciclopedia Giuridica Treccani, Vol. XI, Roma 1989, pp. 1-7. [8]Cfr. Ulpiano (Regularum in Digesto, lib. I, 10, 1); Giustiniano (Institutiones, Lib. I, tit. I, 1), S. Tommaso (S. Th., II-II, q. 57, a. 1). [9]Cfr. J. Herranz, « L'agonia del Diritto agnostico »: in Studi Cattolici, aprile 1994, pp. 166-171. [10]R. Minnerath, « Le rôle des traditions juridiques dans les débats internationaux sur les droits à la vie »: in A. López Trujillo, J. Herranz, E. Sgreccia (a cura di), Evangelium vitae e Diritto, Città del Vaticano 1997, p. 269. [11]Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 11. [12]Giovanni Paolo II, « Discorso al mondo della cultura nell'Università di Vilnius », 5.IX.1993: in L'Osservatore Romano, 6.IX.1993, p. 1. [13]Cfr.V. Possenti, Le società liberali al bivio. Lineamenti di filosofia della società, Genova 1991, pp. 345 e ss. [14]Cfr.M. A. Glendon, « Il laico nell'agone pubblico »: in Studi Cattolici, 465, novembre de 1999, pp. 741-748. [15]Giovanni Paolo II, Messaggio « The signal occasion » a S. E. il Dr.Kurt Waldheim, Segretario Generale delle Nazioni Unite, 2.XII.1978: aas, 71 (1979), pp. 122-123. Cfr. W. Kasper, « The theological Foundation of Human Rights »: in Jurist, 50, 1/90, pp. 146 ss. [16]Giovanni Paolo II, «Discorso alla Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in occasione del 50º anniversario della fondazione dell'ONU », 5.X.1995, n. 3: in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, v. XVIII/2, Città del Vaticano 1998, p. 732. [17]Ibidem. [18]Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, Preambolo. [19]E. Sgreccia, « Le legislazioni sulla corporeità. Il saluto della Pontificia Accademia per la Vita »:in A. López Trujillo, J. Herranz, E. Sgreccia (a cura di) “Evangelium vitae e Diritto”, o.c., pp. 28-29. Cfr. anche R. Navarro Vals, « Ley civil y ley moral: la responsabilidad de los legisladores »: in La Causa della Vita, Città del Vaticano 1995, pp. 84-104. [20]Giovanni Paolo II, « Discorso al Simposio Internazionale “Evangelium vitae e Diritto” », n. 3: aas, 88 (1996) 940. [21]Da diverse prospettive e con varie sfumature coincidono in questa idea di fondo, tra gli altri: J. Maritain, L'homme et l'Etat, Paris 1953, pp. 69 ss.; A. del Noce, I caratteri generali del pensiero politico contemporaneo, Milano 1972; V. Possenti, Le società liberali al bivio. Lineamenti di filosofia della società, Genova 1991, pp. 281-314; J. Hervada, “Derecho natural, democracia y cultura”: in Persona y Derecho, 6 (1979), pp. 200 ss.; S. Cotta, « Diritto naturale: ideale o vigente? »: in Iustitia, 1982 (2), pp. 119 ss.; J. Fornés, « Pluralismo y fundamentación ontológica del derecho »: in Persona y Derecho, 9 (1982), pp. 109 ss.; M. Novak, « Dignité humaine et liberté de les personnes »: in Liberté Politique, mayo 1998, pp. 155-166; M. Schooyans, « Démocratie et Droits de l'homme »: in Liberté Politique, ottobre 1998, pp. 57-66; A. M. Rouco Varela, Los fundamentos de los derechos humanos: una cuestión urgente, Madrid 2001, pp. 20-61. [22]Sermones in Genesim, 2,1: PG 54, 587 D–588A. [23]Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 357. [24]Lett. enc. Evangelium vitae, n. 70; cfr. Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede Donum vitae, I.1. [25]Communicationes 28 (1996) 16. [26]Cfr. Lett. enc. Fides et ratio, n. 76. [27]Ibidem, n. 76. [28]“Persona est rationalis naturae individua substantia” (De duobus naturis, cap. 3: PL 64,1343). [29]Cfr. n. 80. [30]V. Possenti, « Sobre el estatuto ontológico del embrión humano »: in El derecho a la vida, AA.VV., Pamplona 1998, p. 117. [31]Ibidem, p. 118. [32]Si tratta, ovviamente, di una tesi che il Magistero ecclesiastico non ammette. Ma anche la bioetica la considera sprovvista di valore scientifico, atteso che “è ormai biologicamente e geneticamente certo che appena avvenuta la fusione dei gameti inizia l'esistenza di un nuovo soggetto umano il quale, sotto il controllo del programma iscritto nel proprio genoma, esegue autonomamente e teleologicamente, in una rigorosa unità funzionale, il proprio piano di sviluppo in modo coordinato, continuo e, per legge generale, graduale”: E. Sgreccia, « Identità e statuto dell'embrione umano »: in Per una dichiarazione dei diritti del nascituro, Milano 1996, pp 24-25.
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