Martedì, 30 gennaio 2001
1. La Chiesa di fronte ai cambiamenti economici e sociali
Il mondo del lavoro è sempre stato al centro dell'attenzione della Chiesa. Soprattutto con l'avvento della rivoluzione industriale la Chiesa si è fatta prossima ai lavoratori ed ha contribuito ad "umanizzare" il mondo del lavoro attraverso la dottrina sociale cristiana e la testimonianza dei valori evangelici.
Oggi il pensiero sociale cristiano si trova di fronte ad uno scenario economico e sociale molto diverso da quello della rivoluzione industriale. Sotto la spinta della globalizzazione e delle nuove tecnologie, l'economia - da industriale e fordista - è divenuta un'economia dell'informazione e dei servizi. L'inserimento delle nuove tecnologie nei processi produttivi ha reso possibile un incremento della produttività delle aziende, ma ha anche generato una riduzione della forza lavoro impiegata.
Oggi, nel processo produttivo, si dà sempre più peso all'informazione e alla conoscenza, cioè al fattore umano; quindi, grazie alle nuove tecnologie, si prospettano ottime opportunità di lavoro "buono", qualificante e creativo. Non si pensa più al "posto di lavoro" fisso, ma ad attività dinamiche in strutture produttive in continuo cambiamento. Diventa fondamentale, pertanto, acquisire e riqualificare di continuo le proprie capacità per anticipare il cambiamento tecnologico ed organizzativo delle imprese. La conoscenza e la capacità tecnologica sono diventate la vera chiave di accesso al lavoro del nuovo Millennio.
Ciò non elimina, tuttavia, l'espansione in tante parti del mondo di "cattivi" lavori, cioè di lavori mal pagati, precari e degradanti, che non assicurano una "inclusione sociale" e finiscono per aumentare gli squilibri tra pochi fortunati e molti tagliati fuori, tra Paesi avanzati e Paesi lasciati ai margini del progresso tecnologico.
In poco tempo, competizione e flessibilità si sono affermate come il "credo" della nuova economia. Flessibilità dei mercati e flessibilità delle imprese, che si organizzano in reti più elastiche o in sistemi integrati e decentrati. A seguito della liberalizzazione dei mercati, della crescente concorrenza e dell'aumento del costo del lavoro nei Paesi più avanzati, le imprese nazionali hanno deciso di spostare parte delle loro attività in Paesi dove il costo del lavoro è molto basso.
Già nel 1986, i Vescovi statunitensi constatavano con preoccupazione, nella loro Lettera pastorale sull'Economia, che "(...) molte imprese hanno chiuso i loro impianti negli USA ed esportato i loro capitali, la loro tecnologia e i posti di lavoro nelle filiali estere (146)".
Il passaggio a modi di produzione e mercato del lavoro post-industriali riducono man mano l'area dell'occupazione stabile e garantita, creando percorsi lavorativi più mobili, che alternano l'impiego al non impiego, l'impiego "tipico" a quello "atipico". I vecchi modelli di protezione sociale appaiono inadeguati per affrontare una situazione nella quale è sempre più generalizzato il rischio per grandi masse di dover vivere con poco lavoro o addirittura in uno stato di cronica disoccupazione.
2. Il contributo della Chiesa
Di fronte al profondo cambiamento della società attuale, quale riflessione può proporre la Chiesa sul mondo del lavoro?
Innanzi tutto, mi sembra molto importante sottolineare proprio oggi l'approccio antropologico cristiano al lavoro, che induce a mettere il lavoro in rapporto con l'uomo, con la persona e non giustifica la sottomissione della persona alle esigenze dell'economia e del lavoro.
Giovanni Paolo II scrive nell'enciclica Laborem exercens: "Come persona, l'uomo è quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione ad essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità" (N. 6).
Dall'antropologia cristiana ci deriva il compito di ripensare il lavoro e, con il lavoro, il fondamento della società. Di fronte alle trasformazioni economiche e sociali, non possiamo evitare la domanda chiave: su quale uomo e quale donna vogliamo fondare la nostra civiltà e cultura del lavoro?
Ci accorgiamo infatti che la pretesa di un lavoro che basti a sé stesso impoverisce il lavoro e l'uomo nella globalità delle loro dimensioni. Tanto più fa torto alla persona umana e alle sue più profonde aspirazioni un lavoro che sia finalizzato solo ad un accrescimento illimitato ed insostenibile della produzione e dei consumi. I bisogni più profondi delle nostre società, soprattutto in questa era post-industriale, non si esauriscono nel modello consumista di una produzione spasmodica di nuovi beni materiali, ma abbracciano piuttosto i servizi alla persona, la famiglia, le relazioni interpersonali, la solidarietà fra generazioni. Ricollocare il lavoro in questo contesto globale della persona umana significa ridare senso e valore al lavoro, aprire la strada ad una civiltà veramente nuova.
Il lavoro, infatti, come insegna la dottrina sociale della Chiesa, non è solo un mezzo per vivere con dignità, ma un'attività culturale, lo spazio in cui si possono esprimere la personalità, la creatività, la libera iniziativa e le conoscenze di ognuno. È strumento di partecipazione alla vita della comunità. Noi viviamo oggi il paradosso di un sistema economico e sociale che non sa valorizzare appieno le potenzialità ed i bisogni delle persone.
Nel passaggio di civiltà in cui le nuove tecnologie ci hanno introdotto, non si può persistere nel riproporre come modello la civiltà dell'homo faber e del soggetto produttore/consumatore, che ormai ha da tempo - e ampiamente - manifestato i suoi grossi limiti. Bisogna avviarsi verso una convivenza sempre più qualificata dall'incremento dei beni immateriali, che sono i beni che soddisfano le relazioni tra persone. Occorrono certamente anche le risorse materiali per dare contenuto alle relazioni tra persone, ma è necessario invertire l'ottica finora prevalsa: non devono essere le relazioni tra persone a sottomettersi alla logica dei beni materiali, ma sono i beni materiali a dover essere assoggettati ai bisogni delle persone e delle relazioni tra persone. Si tratta di un rovesciamento di cultura, che nelle abitudini quotidiane esige gusti nuovi e un diverso investimento del tempo.
Nessuna struttura di mercato può sussistere stritolando la dignità e i bisogni più profondi della persona umana. Le nostre istituzioni sociali ed economiche non si possono sottomettere al gioco di una competizione esasperata e selvaggia e di una flessibilità illimitata. Al contrario, esse hanno il compito di elaborare quelle regole che finalizzano al bene di ogni uomo e di tutto l'uomo anche il mercato, rendendolo, in tal senso, veramente efficiente. Un mercato efficiente ha bisogno di maggiore, non di minore solidarietà; di più e non di meno protezione sociale.
3. Per una protezione dei diritti degli uomini e delle donne del lavoro
La realtà del lavoro umano - affermava Giovanni Paolo II nel discorso in occasione della sua visita all'Organizzazione Internazionale del Lavoro nel 1982 - "è la stessa in ogni punto del globo terrestre, in tutti i Paesi e in tutti i continenti... nella diversità e nell'universalità delle sue forme il lavoro umano unisce gli uomini..." (n.6).
Sulla base di questa convinzione profonda, la Chiesa ha salutato con favore l'adozione, da parte dell'86 Conferenza internazionale del lavoro, della solenne Dichiarazione dei diritti fondamentali dei lavoratori, nel giugno del 1998. Tale documento, oltre a testimoniare l'universalità dei diritti umani "in una situazione di interdipendenza crescente", non contraddice l'altro principio, quello della loro indivisibilità, poiché tratta dei diritti definiti fondamentali. Universalità e indivisibilità - non lo si dirà mai abbastanza - sono da considerarsi caratteristiche essenziali della nozione stessa di diritti dell'uomo (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1998).
Il problema cruciale che unisce gli uomini e le donne del nostro tempo, nei Paesi ricchi come in quelli poveri, è, prima di tutto, l'avere un lavoro. Direi, quindi, che il primo diritto è il diritto al lavoro, alla cui tutela deve attendere il "datore di lavoro indiretto", come lo definisce la Laborem exercens, cioè "persone e istituzioni di vario tipo che determinano tutto il sistema socio-economico o da esso risultano", in primo luogo lo Stato. Orbene, queste persone, queste istituzioni di vario tipo, lo Stato devono essere sempre attenti a mantenersi, oggi più che mai, nella dimensione della collaborazione internazionale mediante trattati e accordi (cfr LE, n.18).
Alcuni diritti nel lavoro meritano, nell'attuale quadro internazionale, una particolare attenzione. Sono quelli che riguardano le persone più vulnerabili: bambini, donne e migranti.
Riguardo ai bambini, constatiamo con compiacimento una crescita di sensibilità da parte della comunità internazionale, visti gli strumenti di cui si è dotata. La già citata Dichiarazione sui diritti fondamentali, infatti, condanna il lavoro minorile chiedendone l'abolizione e invoca l'eliminazione di ogni forma di lavoro forzato o obbligatorio. Il 19 novembre scorso, inoltre, è entrata in vigore la Convenzione contro le forme estreme e intollerabili del lavoro infantile; questa Convenzione è il documento che è stato ratificato più rapidamente in tutta la storia dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro. Il fatto che i primi Paesi firmatari siano i Paesi poveri dimostra quanto essi siano consapevoli che il lavoro infantile non è solo una conseguenza della povertà, ma ne è anche una causa.
Sempre a proposito dei bambini, non si deve passare sotto silenzio un'altra forma esecrabile di lavoro minorile, quella dei ragazzi e delle ragazze obbligati a prestare servizio nelle formazioni militari delle parti in lotta: "il futuro di questi fanciulli in armi - scriveva Giovanni Paolo II nel Messaggio per la pace del 1996 - è spesso segnato".
Un'altra questione che sta molto a cuore alla Chiesa è il lavoro della donna, sia per il ruolo chiave che la donna occupa nella famiglia, sia per il fatto che la povertà, oggi è - nella maggioranza dei casi - femminile e si quantifica nell'alta percentuale di donne disoccupate, sottoccupate, occupate in modo precario o addirittura sfruttate economicamente in modo illegale.
Ebbene, la Chiesa auspica che al "genio" della donna sia fatto più spazio nell'insieme della vita sociale, senza penalizzare il dono della maternità. "È urgente ottenere dappertutto l'effettiva uguaglianza dei diritti della persona e dunque parità di salario rispetto a parità di lavoro, tutela della lavoratrice-madre, giuste progressioni nella carriera" (Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, n.4). Nell'era della globalizzazione e dell'informatica, ciò comporta soprattutto la necessità di favorire al massimo l'accesso delle bambine e delle giovani all'educazione e all'istruzione.
Né dobbiamo dimenticare i lavoratori migranti, in quanto, per la facilità degli spostamenti, i movimenti migratori acquistano oggi dimensioni mai sperimentate prima. A fronte di un fenomeno migratorio che è fra i più rilevanti su scala mondiale, si constata, purtroppo, una scarsa volontà politica da parte dei Paesi che maggiormente utilizzano mano d'opera straniera di affrontare sul piano dei diritti la questione dei lavoratori immigrati. A dieci anni di distanza, la Convenzione dell'ONU sui lavoratori migranti del 1990, non era stata ancora firmata da nessun paese dell'Unione Europea...
Certo, quella dell'emigrazione è una questione complessa e delicata e l'emigrazione per lavoro, pur essendo un fenomeno antico, rappresenta, sotto certi aspetti, un male necessario, come rileva la Laborem Exercens, ma "si deve far di tutto - scrive il Papa - perché questo male in senso materiale non comporti maggiori danni in senso morale... in questo settore moltissimo dipende da una giusta legislazione, in particolare quando si tratta dei diritti dell'uomo del lavoro" (LE, n.23).
C'è, infine, un'altra realtà del mondo del lavoro che nell'ultimo scorcio del secolo scorso ha subito un grande cambiamento, quella del sindacato. A tale istituto la Chiesa ha sempre attribuito grande importanza, proprio in virtù di uno dei diritti fondamentali dell'uomo nel lavoro: il diritto di associarsi (cfr LE, n.20).
I sindacati, che pure hanno avuto un ruolo positivo e determinante nei processi di democratizzazione in tutto il mondo, si trovano, oggi, di fronte a non poche difficoltà, dovute essenzialmente alla diminuzione della loro forza contrattuale provocata dall'aumento della competitività, che è connaturale al fenomeno della globalizzazione. Ciò si verifica nei Paesi ricchi e, a più forte ragione, in quelli poveri.
Sensibile a questo aspetto del mondo del lavoro, il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace che ho l'onore di presiedere organizzò, nel 1996, un incontro unico in questo genere: ventitré esponenti sindacali di esperienze e provenienza geografica assai diverse si riunirono in Vaticano proprio per riflettere sulla fase delicata che attraversavano le loro organizzazioni nel processo di globalizzazione dell'economia.
4. Per una civiltà del lavoro che non escluda le popolazioni dei Paesi in Via di Sviluppo
In questa riflessione sul futuro del lavoro non possiamo dimenticare che gran parte dell'umanità vive in un mondo in cui scarseggiano i beni materiali e milioni di persone lottano quotidianamente per la sopravvivenza. Il divario tra ricchi e poveri potrebbe allargarsi in maniera drammatica, perché in quest'epoca della comunicazione globale, dominata dal potere della conoscenza e della tecnologia, si assiste ad una concentrazione sempre più forte del sapere e della proprietà intellettuale in pochi Paesi ricchi della Terra.
Diventa sempre più evidente che la scarsità, l'arretratezza del lavoro, e il livello del sapere inadeguato, nei Paesi poco sviluppati hanno tra le loro cause l'uso egoistico delle nuove tecnologie e delle conoscenze da parte dei Paesi economicamente più avanzati.
Tutto ciò aumenta le disuguaglianze e provoca un'esclusione di massa, soprattutto fra i poveri (in America Latina è stata coniata l'espressione masses sobrantes: masse in eccedenza, che non servono), che non hanno la preparazione culturale per stare al passo con la corsa tecnologica.
Il Santo Padre, Giovanni Paolo II, ha detto ai partecipanti della Campagna "Jubilee 2000" per il condono del debito dei Paesi poveri: "Troppo spesso i frutti del progresso scientifico, invece di essere messi al servizio dell'intera comunità umana, sono distribuiti in modo tale da aumentare o addirittura rendere permanenti le ingiuste disuguaglianze. (...) La Chiesa Cattolica ha sempre insegnato che vi è una "ipoteca sociale" su tutta la proprietà privata, concetto che oggi deve essere applicato anche alla "proprietà intellettuale" e alla "conoscenza". Non si può applicare la sola legge del profitto a ciò che è fondamentale per la lotta contro la fame, la malattia e la povertà".
Ci colpisce il fatto che le strutture comunicative moderne arrivino in misura assai ridotta ai Paesi più poveri. In Africa, ad esempio, vi è solo l'uno per cento dei computer prodotti nel mondo. Quanto alla formazione primaria, in America Latina si è parlato di una media di 5,2 anni di formazione; molti fondi vengono spesi per la formazione universitaria (cui accedono di fatto i più ricchi), e pochissimi fondi vengono destinati alla scuola primaria.
Dunque, affinché miliardi di persone non siano tagliate fuori dal sapere, dal lavoro e dai frutti di questi, sono necessari una forte solidarietà internazionale e dei massicci investimenti, privati e pubblici, nella salute e nell'educazione, nelle infrastrutture e nella "capacity building". Questo discorso non vale solo per i Paesi in Via di Sviluppo, ma anche per i gruppi sociali più poveri dei Paesi industrializzati (Cfr Centesimus Annus, n. 33).
In questo contesto i grandi principi della "destinazione universale dei beni" e "della preminenza del lavoro sul capitale" assumono una straordinaria attualità. Come ha sottolineato la Santa Sede in preparazione della Conferenza di Rio sull'ambiente: "Tutti i popoli e i paesi hanno diritto al fondamentale accesso a quei beni - naturali, spirituali, intellettuali e tecnologici - che sono necessari per il loro sviluppo integrale" e ancora: "Nel campo della tecnologia gli Stati, in accordo con il dovere alla solidarietà e data la dovuta considerazione ai diritti di quanti sviluppano tale tecnologia, hanno l'obbligo di assicurare un giusto ed equo trasferimento della tecnologia appropriata, adatta a sostenere il processo di sviluppo e a proteggere l'ambiente" (L'Osservatore Romano, 6 giugno 1992, p. 2).
Qui si apre un enorme campo di azione non solo per i governi, sostenuti dalla cooperazione internazionale, ma anche per il settore privato, che ha acquisito un forte potere a livello nazionale e trans-nazionale e non può ora non assumersi anche una grande responsabilità etica e sociale nei confronti sia dei poveri marginalizzati sia delle generazioni future.