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 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE

CONVEGNO SU "LA CHIESA E L'ORDINE INTERNAZIONALE"

INTRODUZIONE GENERALE
DELL'ARCIVESCOVO RENATO RAFFAELE MARTINO

Pontificia Università Gregoriana, 23 maggio 2003

 

 

Quarant'anni or sono, precisamente l'11 aprile 1963, l'enciclica Pacem in terris del beato Giovanni XXIII faceva risuonare nel mondo l'annuncio del Vangelo della pace. Era una parola antica e nuova nello stesso tempo: antica, in quanto riproponeva con parole umane quanto detto da Gesù alle folle:  "Beati i costruttori di pace"; nuova, perché la parola "pace" veniva pronunciata - allora come oggi, purtroppo - in un momento non privo di tensioni e conflitti tra i popoli della terra.

Giovanni Paolo II, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno (1), commemorando l'enciclica giovannea, ha anche ricordato le gravi tensioni internazionali che allora dividevano l'umanità. Solo due anni prima era stato costruito il Muro che a Berlino divideva e contrapponeva non solo due zone di quella città, ma due visioni rivali circa la costruzione della società umana. La vita quotidiana veniva scandita, al di qua e al di là del Muro, da regole e ritmi opposti e, come sottolinea l'enciclica Sollicitudo rei socialis (2), rispondenti a logiche di contrapposizione e di lotta.

L'altro riferimento storico, richiamato dal Santo Padre, è quello della crisi dei missili a Cuba, che portò l'umanità sull'orlo di una guerra nucleare e rese oltremodo manifesta la costante pericolosità della condizione di "guerra fredda" in cui l'umanità era condannata a vivere, "costantemente sottoposta all'incubo che un'aggressione o un incidente potessero scatenare da un giorno all'altro la peggior guerra di tutta la storia" (3). Nel contesto di quelle tragiche circostanze, "in Giovanni XXIII ebbe il sopravvento il suo congenito ottimismo, o meglio, la sua grande fiducia nella Provvidenza, e cioè la sua profonda persuasione che l'azione di Dio Padre è sempre presente nella vita di ogni essere umano, nella storia di ogni popolo e in quella di tutta la Famiglia umana; e a mezzogiorno del 25 ottobre 1962 lanciava dalla radio vaticana il suo vibrante appello alla pace, nel quale tra l'altro diceva:  "Oggi noi rinnoviamo questo appello accorato e supplichiamo i Capi di Stato di non restare insensibili a questo grido dell'umanità. Facciano tutto ciò che è in loro potere per salvare la pace:  così eviteranno al mondo gli orrori di una guerra, di cui nessuno può prevedere le spaventevoli conseguenze. Continuino a trattare. Sì, questa disposizione leale e aperta ha grande valore di testimonianza per la coscienza di ciascuno e in faccia alla storia. Promuovere, favorire, accettare trattative, ad ogni livello e in ogni tempo, è norma di saggezza e prudenza, che attira le benedizioni del Cielo e della terra"" (4).

Anche nel nostro tempo, l'umanità è attraversata da lacerazioni, da guerre, da divisioni negli organismi internazionali e da loro strutturali debolezze, da confronti serrati delle diplomazie, dal pericolo di nuove sofferenze per uomini e donne innocenti. Il beato Giovanni XXIII non ebbe nessuna titubanza a proporre allora, di fronte alle apparentemente insormontabili difficoltà dovute alla contrapposizione tra i blocchi, il coraggioso messaggio della pace, che non accetta barriere e che sa spingersi oltre tutte le incomprensioni. Con l'enciclica Pacem in terris, la pace gettò il proprio sguardo al di qua e al di là del Muro e dei muri. Così facendo, essa mostrava a tutti gli uomini la loro comunanza nell'unica famiglia umana, li invitava alla rivoluzione dell'uguaglianza e del riconoscimento reciproco, li spingeva ad accogliere e a promuovere i diritti di ogni uomo, che non possono dipendere dal cielo sotto cui si è nati. Il Papa parlava per la prima volta di un "bene comune universale" come obiettivo irrinunciabile per un mondo che ormai era sempre più un'unica realtà e che proprio per questo "soffriva" le contrapposizioni ideologiche, militari ed economiche.

La pace esigeva di venire tradotta nel linguaggio della politica internazionale, pensando ad una "autorità politica mondiale" in grado di orientare a misura d'uomo gli avvenimenti ormai fortemente intrecciati tra loro.

Quanto faceva Giovanni XXIII allora, fa oggi Giovanni Paolo II. Le tensioni internazionali in atto richiedono ancora una volta che la Chiesa offra all'umanità il cuore stesso del suo messaggio eterno, quello del "Vangelo della pace". Noi tutti avremmo preferito che il quarantesimo anniversario della Pacem in terris fosse celebrato in un clima internazionale meno carico di tensione. Le azioni umane e le contingenze storiche hanno voluto che, invece, esso venisse a cadere proprio nel mezzo di una fortissima crisi internazionale. A maggior ragione il suo messaggio acquista oggi particolare importanza, a patto che ne sappiamo cogliere in profondità tutti gli elementi di attualità, con una considerazione più adeguata di un rinnovato ordine internazionale che è negli auspici di tutti gli uomini di buona volontà.

 

Ordine internazionale:  dall'uomo e per l'uomo

Il cuore della proposta cristiana relativa all'ordine internazionale è la visione universale della storia umana e delle vicende individuali che il Vangelo della pace propone. Tale visione si è posta e continua a proporsi come fattore di aggregazione, come vincolo unitario per i popoli della terra.

Ad una considerazione attenta della storia, si può facilmente constatare come il cristianesimo sia stato decisivo per la diffusione della consapevolezza che i popoli tendono ad unirsi non in ragione di vicende politiche, di progetti economici o in nome di un internazionalismo ideologico, ma perché tale è la volontà delle singole persone e dei popoli. Il Vangelo della pace, infatti, sin da quando ha cominciato a pervadere la struttura interna delle società e quella della dimensione internazionale, si è caratterizzato per lo sforzo profuso a far raggiungere un'unità più profonda della famiglia umana.

Evidentemente, la forza unitiva espressa dal cristianesimo non relativizza o distrugge le differenti e peculiari caratteristiche di ogni popolo, ma anzi ne favorisce l'espressione (5), anche se, pur sottolineando le differenti identità, opera sia per distinguerle nettamente dalle varie forme di nazionalismo che tendono ad isolare i singoli popoli (6) o a farli portatori di egoismi nazionali dagli effetti destabilizzanti (7), sia per dare ad esse una cornice unitaria di portata e valore universali.

La vocazione universale del cristianesimo si manifesta esplicitamente nella visione che la dottrina sociale della Chiesa offre dell'ordine internazionale, concepito a partire dall'idea di fondo che l'umanità è un'unica famiglia che aspira all'unità. La dottrina sociale della Chiesa individua la presenza di questa aspirazione - in forme diverse - nella vita di ogni popolo (8). La storia, infatti, ha proposto differenti visioni di "unità", molte delle quali spesso basate sull'arbitrio della forza o sulla volontà di superiorità o di potenza di qualcuno dei membri della Comunità internazionale. La dottrina sociale della Chiesa condanna come illecite le azioni intraprese in queste direzioni e le supera proponendo alla convivenza internazionale le prospettive derivanti dall'assunzione di criteri regolativi ben diversi dell'ordine internazionale, quali sono quelli proposti dalla Pacem in terris la verità, la giustizia, la solidarietà operante e la libertà (9). Questo insegnamento, tradotto sul piano dei principi costitutivi della Comunità internazionale e del suo ordinamento giuridico, esige che le relazioni tra i diversi popoli e le molteplici comunità politiche trovino la loro giusta regolazione nella ragione, nella giustizia, nel diritto, nella trattativa, mentre esclude il ricorso alla forza, alla violenza, alla guerra come pure a forme di discriminazione, di intimidazione e di inganno (10).

Secondo la dottrina sociale della Chiesa, la realtà dell'ordine internazionale sorge, si costituisce e trae alimento dall'uomo e per l'uomo. La famiglia umana deve ispirarsi ai valori di cui è portatrice la persona umana considerata integralmente, nelle sue componenti materiali e spirituali. L'unità si deve costruire ancora oggi con la forza, ma essa deve essere una forza morale e culturale, presente e viva in ogni persona e patrimonio di ogni popolo (11). Questa è la prospettiva offerta dalla dottrina sociale, che, facendo prendere all'uomo coscienza di sé, delle sue componenti e doti materiali, ma anche delle sue aspirazioni spirituali più profonde, concorre a definire gli elementi fondanti dell'ordine internazionale, indicando il senso di una vera Comunità delle genti oltre che nei fondamenti anche nelle linee operative.

La centralità della persona umana e la naturale relazione tra le persone e tra i popoli sono quindi le indicazioni fondamentali della dottrina sociale della Chiesa per la comunità internazionale, la cui regolamentazione deve essere finalizzata a garantire un effettivo bene comune universale dell'umanità, salvaguardando la fisionomia e l'identità proprie di ogni popolo (12). In questa prospettiva, il diritto internazionale è considerato lo strumento di garanzia dello specifico ordine internazionale (13), ovvero della convivenza tra comunità politiche che singolarmente si propongono il bene comune dei propri cittadini e che reciprocamente tendono a garantire quello dell'intera famiglia umana (14).

Nella considerazione dell'ordine internazionale delineato dalla dottrina sociale, la Comunità internazionale rappresenta il grado più significativo di convivenza tra le diverse componenti della famiglia umana, che deve opportunamente reggersi sul principio di sussidiarietà, secondo il quale la società umana si struttura a partire dalla famiglia, si costituisce poi come società civile con le sue forme di organizzazione sociale, quindi si organizza nelle singole comunità statali e si riunisce, infine, nella comunità delle genti (15).

Considerando il profilo sostanziale dell'ordine internazionale, la dottrina sociale presenta la Comunità internazionale come una comunità naturale e necessaria che trova il suo fondamento nella stessa natura umana, nell'uguaglianza di tutti gli uomini e nella loro naturale socialità (16). Tale dottrina guarda alla Comunità internazionale come "famiglia delle nazioni" (17), come vera comunità dei popoli (18), opponendosi a concezioni riduttive che vi vedono una semplice forma di aggregazione. Quella internazionale è inoltre una comunità giuridica che presuppone un'appartenenza degli Stati sulla base delle rispettive sovranità e senza vincolo di subordinazione che ne neghi o anche solo ne limiti l'indipendenza (19).

 

Ordine internazionale:  fondamenti etico-giuridici

La dottrina sociale della Chiesa fonda l'ordine internazionale su valori etici e giuridici come base della solidale convivenza tra le diverse comunità politiche. Si tratta di un'esigenza universalmente avvertita come punto di partenza per la realizzazione della vita internazionale. Diretta destinataria, ma anche costruttrice di tale ordine deve essere la persona umana, riconosciuta nella fondamentale eguaglianza con i suoi simili, prescindendo da considerazioni o limitazioni sociali, etniche, linguistiche, religiose. Proprio questa uguaglianza permette di rilevare come siano presenti in ogni parte dell'umanità i presupposti dell'ordine etico-giuridico, al quale sono tenute a sottomettersi le persone e, di conseguenza, gli Stati, che, formati da uomini e per gli uomini, non possono operare in direzione diversa da quella prescritta dalle norme poste a garantire l'umana convivenza. Tale ordine deve regolare la vita degli Stati, sia nei rapporti con i propri cittadini o comunque con quanti, se pur stranieri, in essi dimorano, sia nelle loro reciproche relazioni.

La mancata adesione degli Stati ai presupposti di un ordine etico-giuridico universalmente riconosciuto e vigente, o addirittura la sua violazione, creano le occasioni per il deterioramento dei rapporti internazionali. La pericolosità di questo fenomeno è stata ripetutamente denunciata dal Magistero sociale, specialmente nelle maggiori crisi che hanno segnato la vita internazionale del nostro tempo. Di qui l'esigenza di una norma morale universale che presenti le caratteristiche della effettività e dell'inderogabilità, in quanto espressione della coscienza comune dell'umanità (20), per realizzare e consolidare un ordine internazionale tale da garantire efficacemente la pacifica convivenza tra i popoli. In questa prospettiva si pone l'obiettivo preminente della dottrina sociale della Chiesa per l'ordine internazionale:  legare le relazioni internazionali ad un concetto di giustizia internazionale quale componente essenziale del bene comune (21). La realizzazione della giustizia, infatti, sia negli aspetti che rientrano nel quadro dei rapporti tra Stati sia nell'ambito della crescita economico-sociale di tutti i popoli, necessita di una regolamentazione in grado di rispondere alle esigenze mutevoli e alle necessità sempre più inedite della Comunità internazionale (22).

Sul piano dei rapporti tra Stati, l'esigenza primaria di tutelare la persona umana ha indotto, infatti, seppure gradualmente, ad elaborare un nuovo "diritto delle genti" (23), connotato da un maggiore riconoscimento del suo carattere vincolante nei confronti dei soggetti dell'ordinamento internazionale. La normativa internazionale, che inizialmente rispondeva all'obiettivo di garantire e tutelare con maggiore efficacia i diritti fondamentali della persona, è stata progressivamente estesa ai diritti dei popoli con parallelo ampliamento del suo ambito, passando dalla considerazione dei soli diritti civili e politici a quella dei diritti a contenuto economico, sociale e culturale. Questa evoluzione e questo allargamento della normativa internazionale sono condizioni necessarie e imprescindibili per aumentare il livello di coesione delle relazioni internazionali intorno a principi fondamentali, tra cui spicca quello del rispetto dei diritti umani (24).

Si tenga presente inoltre che l'abbandono della logica della contrapposizione tra blocchi, che tanto ha condizionato le relazioni internazionali e che giustificava la spesa in armamenti propria delle politiche basate sul principio della deterrenza, ha reso ormai improrogabile la necessità che le eventuali controversie internazionali siano affrontate dagli Stati sulla base di riconosciute regole comuni e che la loro risoluzione sia affidata, quindi, al negoziato e alla trattativa, rinunciando all'idea di realizzare la giustizia mediante il ricorso alla violenza o alla forza (25). Tra i mezzi resi disponibili alla Comunità internazionale dal suo ordinamento giuridico, quello di ricorrere alla forza o minacciare di farlo è stato cancellato e deve essere abbandonato nella prassi concreta anche sulla base dell'esperienza che l'umanità ha fatto:  la libertà e il ripristino del diritto non sono mai stati raggiunti attraverso l'uso della forza (26) e la guerra.

A questo riguardo, si deve affermare che gli strumenti normativi che si propongono come alternativi alla forza armata, già esistenti nel diritto internazionale, devono essere ripensati in modo da renderli rispondenti alle effettive esigenze della contemporanea Comunità internazionale (27), rafforzandone innanzitutto la portata e la cogenza. Istituti quali la mediazione, la conciliazione, l'arbitrato, previsti dal diritto internazionale per la soluzione pacifica delle controversie in quanto strumenti rispondenti ai principi della legalità internazionale e del primato del diritto e garanti, nello stesso tempo, del principio della libertà degli Stati, devono essere istituzionalizzati e trasformati attraverso organi provvisti di autorità e funzione giudicante che operino a livello internazionale (28). La constatazione che spesso emerge dalla lettura degli eventi internazionali, anche recenti, è quella dello scollamento tra la portata di alcuni strumenti per la soluzione dei conflitti e i mutamenti reali che avvengono in modo imprevisto e repentino.

Nella prospettiva delineata dalla dottrina sociale della Chiesa per un rinnovato ordine internazionale, la Comunità internazionale non deve più proporsi come semplice momento di aggregazione della vita degli Stati, ma trasformarsi in una effettiva struttura in cui i conflitti possano essere pacificamente risolti e gli interessi delle singole parti tutelati e ricomposti sulla base di criteri di vera giustizia, che riconoscano il primato del diritto attraverso il rispetto del fondamentale principio della buona fede: "così come all'interno dei singoli Stati [...] il sistema della vendetta privata e della rappresaglia è stato sostituito dall'impero della legge, così ora è urgente che un simile progresso abbia luogo nella Comunità internazionale" (29).

 

Ordine internazionale:  il ruolo degli organismi internazionali

L'azione e l'evoluzione del diritto internazionale, dunque, deve essere finalizzata a regolamentare la pacifica convivenza internazionale anche attraverso un opportuno impiego degli istituti giuridici già esistenti che si dimostrano efficaci per la soluzione delle controversie (30), come pure a favorire un reale sviluppo socio-economico volto a superare i persistenti e drammatici squilibri tra Paesi, aree geografiche e popolazioni (31). Questi sono i due ambiti in cui è sempre più urgente provvedere ad un'azione politica a livello internazionale che miri ai due obiettivi della pace e dello sviluppo mediante l'adozione di misure coordinate (32), rese più che mai necessarie dall'attuale incidenza del fenomeno della globalizzazione che determina una crescente interdipendenza (33).

Secondo la dottrina sociale della Chiesa, l'interdipendenza tra le nazioni è un dato oggettivo essenziale, oltre che un valore morale, ed è il presupposto alla organizzazione internazionale (34). Il mutare delle situazioni, l'accresciuto numero di Stati, il progresso scientifico, l'industrializzazione e le ormai abbattute distanze del villaggio globale rendono sempre più vivo il bisogno di un'organizzazione politico-giuridica internazionale a carattere permanente e con largo margine di efficienza. La problematicità della questione si concentra sui termini istituzionali e più precisamente sul ruolo degli organismi internazionali. L'auspicio costante è che si possa finalmente contare su valide strutture intergovernative con peculiari funzioni di indirizzo sulle politiche e sulle azioni e di sorveglianza e controllo sul loro esito (35). Tali strutture necessitano di un consenso di tutti gli Stati per il raggiungimento del bene comune dell'intera famiglia umana, un traguardo ormai precluso alle potenzialità degli Stati singolarmente considerati, anche se in posizione rilevante quanto a potenza, ricchezza, forza politica (36).

Il cammino verso questa meta, iniziato con l'istituzione dell'ONU nel 1945, proseguì con vigore negli anni successivi, anche sulla spinta dei processi di crescente integrazione tra Stati, avviati sia per raggiungere finalità generali con Organizzazioni internazionali specializzate per singoli ambiti tematici - scienza, lavoro, commercio, salute, infanzia, ecc. -, sia a livello delle diverse aree continentali con forme di Organizzazione e di incontri periodici anch'essi indirizzati ad obiettivi comuni (37).

La dottrina sociale della Chiesa ha incoraggiato sin dall'inizio la istituzionalizzazione della società internazionale, cogliendone la finalità specifica di edificazione di una vera comunità universale dei popoli (38). Nell'attuale fase di accelerazione dell'integrazione interstatale su base stabile, la Chiesa apertamente incoraggia tale processo, continuando a indicarne i principi ispiratori nella giustizia e nell'equità (39). Nella sua lettura sistematica del fenomeno, la dottrina sociale ha sempre auspicato l'attribuzione di un maggiore spazio al ruolo positivo e propositivo che gradualmente le Organizzazioni intergovernative andavano assumendo. Tale ruolo trova nella stessa missione della Chiesa un sostegno ed un incoraggiamento, purché sia ispirato dal rispetto della persona e dei suoi diritti e rivolto all'obiettivo di realizzare il bene comune universale (40).

Per quanto riguarda il problema delle modalità che gli organismi intergovernativi devono seguire per esercitare un'efficace funzione autoritativa nei confronti degli Stati oltre a proporsi come strumento di cooperazione (41), il Magistero sociale della Chiesa sollecita con insistenza la costituzione di poteri pubblici sul piano mondiale, una autorità mondiale, la cui istituzione dipende dall'ordine etico-giuridico che presiede alle relazioni internazionali (42). La presenza di un'autorità mondiale è un'istanza reclamata costantemente nel corso della storia e sempre profilata, seppure nei cambiamenti di prospettiva delle diverse epoche storiche, secondo una connotazione fondamentale:  la sua funzione autoritativa è sempre stata individuata in un ordinamento etico-giuridico piuttosto che in un organo centrale, come avviene invece nel caso dello Stato. A questo riguardo, la dottrina sociale sottolinea la necessità che sia il criterio della democrazia ad ispirare la condotta degli organismi internazionali, anzitutto per permettere una presenza su un piano di eguaglianza degli Stati ed, in maniera particolare, degli interessi e degli obiettivi della famiglia umana universale (43).

La reciproca interdipendenza fra popoli e Paesi costituisce già di per se stessa un motivo necessario e sufficiente per realizzare una collaborazione regolata dal diritto e ordinata al bene comune:  molti dei problemi interni dei singoli Stati finiscono per coinvolgere inevitabilmente tutti gli altri. Un'autorità politica esercitata a livello di Comunità internazionale, anche se reclamata dalla ricerca di rapporti internazionali su base stabile, può svolgere, tuttavia. soltanto una funzione sussidiaria rispetto ai singoli soggetti che concorrono a dare fisionomia alla Comunità stessa, se veramente si persegue l'interesse della famiglia umana, in questo caso considerata su piano universale (44). La strutturazione dei poteri a livello internazionale e la loro attività devono essere in funzione delle singole comunità politiche e non sostituirsi ad esse, contribuendo ad un ordinato esercizio di attività, compiti e funzioni da parte delle diverse comunità interne, così da ottenere un pieno rispetto dei diritti delle persone e dei corpi intermedi operanti al loro interno (45).

Concorrono poi all'instaurazione di un ordine internazionale altri fattori considerati dalla dottrina sociale come necessari all'unificazione e che già stanno a fondamento dell'ordinamento internazionale:  l'eguaglianza e la parità nelle contrattazioni; l'integrità territoriale di ogni Paese e quindi l'intangibilità delle frontiere; il rispetto dei patti e quindi la buona fede ovvero la condivisione delle regole; il rispetto delle minoranze; un effettivo disarmo materiale e la promozione di una cultura della pace; la concreta distribuzione ed un equo uso delle risorse della terra.

 

Ordine internazionale e cooperazione

Gli avvenimenti della storia dei popoli e, in particolare, quelli sfociati in forme di aperto conflitto, inducono alla convinzione che i contrasti tra popoli e nazioni possono essere superati solo attraverso una concertazione, cioè l'instaurazione di una fitta rete di rapporti finalizzati al raggiungimento di obiettivi comuni, ed una effettiva cooperazione (46). La necessaria collaborazione, frutto della socialità propria delle persone e delle differenti comunità politiche e nazioni, deve essere sostenuta e indirizzata da criteri tali da rendere innanzitutto rintracciabili gli obiettivi adeguati ai differenti settori nei quali si articola la vita di relazione internazionale, agli effettivi bisogni e alle reali disponibilità (47). L'esigenza di cooperare parte direttamente dalla volontà dei popoli, che esprime in molte forme il rifiuto di una convivenza abbruttita da scontri e violenze.

La cooperazione è lo strumento di cui dispongono le relazioni internazionali per poter garantire una solidale comprensione, che generi una concreta unità di azione tra gli Stati, le forme di Organizzazioni inter-statali, nonché quelle forme di aggregazione, espresse direttamente dalla società civile, che operano sul piano internazionale. Per raggiungere questo risultato è però necessario colmare il divario provocato dai diversi gradi di sviluppo e dalle differenti situazioni sia a livello economico sia sul piano della forza politica e della capacità da parte di tutti gli Stati di partecipare alle relazioni internazionali come protagonisti, avvalorando così l'autentico significato del fondamentale principio di uguaglianza tra le Comunità politiche che è collocato alla base del diritto internazionale (48). La comune uguaglianza è frutto di una comune origine, della cosiddetta unità di natura, dalla quale scaturisce la legge naturale, i cui principi devono trovare concreta traduzione in scelte ed indirizzi di ordine politico, giuridico ed economico nella vita internazionale (49).

La cooperazione non è soltanto una dimensione essenziale per le situazioni direttamente legate alla vita economica, alla interdipendenza o ai fenomeni della globalizzazione, ma è innanzitutto espressione della solidarietà, virtù e atteggiamento che ogni persona in qualche misura ricerca e si sforza di manifestare nella dimensione individuale della propria esistenza e nei rapporti sociali propri della vita comunitaria (50). Alla cooperazione internazionale puntano, infatti, i diversi settori:  giuridico, economico, sociale, finanziario, tecnologico e scientifico.

Una particolare attenzione merita la cooperazione allo sviluppo, finalità dominante di tutte le iniziative volte ad eliminare ostacoli e situazioni che escludono dallo sviluppo o pongono ai suoi margini tanti popoli, già in condizione di particolare precarietà (51). Per gran parte della popolazione mondiale lo sviluppo resta un dato estraneo, capace perfino di limitare l'andamento di economie già al limite della sussistenza. Cooperare allo sviluppo significa anche denunciare le situazioni di sfruttamento, di povertà e di dominio che coinvolgono interi gruppi umani a cui è negata la possibilità di acquisire le conoscenze essenziali per manifestare le loro differenti creatività e far emergere le potenziali capacità (52).

 

Conclusione

Ho iniziato questo mio contributo con il richiamo alla Pacem in terris e al suo altissimo insegnamento, che, per quanto riguarda le tematiche connesse all'ordine internazionale, resta il documento più organico e illuminante del Magistero sociale. Con il richiamo alla Pacem in terris desidero chiuderlo, proponendo alla vostra attenta considerazione un brano che trovo ispirato e stimolante. Il beato Giovanni XXIII, dopo aver annoverato tra i segni del nostro tempo l'impercettibile ma reale passaggio dal timore all'amore nelle relazioni tra gli uomini e i popoli, così esprime la sua speranza: "È lecito sperare che gli uomini, incontrandosi e negoziando, abbiano a scoprire meglio i vincoli che li legano, provenienti dalla loro comune umanità e abbiano pure a scoprire che una fra le più profonde esigenze della loro comune umanità è che tra essi e tra i rispettivi popoli regni non il timore, ma l'amore:  il quale tende ad esprimersi nella collaborazione leale, multiforme, apportatrice di molti beni" (53). La speranza del beato Giovanni XXIII vuole essere anche la nostra speranza e il cuore del nostro impegno per la realizzazione di un mondo nel segno della giustizia e della pace.


1) Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2003, n. 2.
2) Cfr Ibid. n. 36.
3) Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2003, n. 2.
4) P. Pavan, L'Enciclica Pacem in terris, in Studi sociali, 5/1983, p. 4.
5) Cfr Giovanni Paolo II, Discorso all'Assemblea generale delle N.U. (1995), n. 9.
6) Cfr Paolo VI, Populorum progressio, n. 62.
7) Cfr Conc. Vat. II, Gaudium et spes, n. 82.
8) Cfr Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 69.
9) Cfr Giovanni XXIII, Pacem in terris, nn. 47-48.
10) Cfr Paolo VI, Discorso all'Assemblea Generale delle N.U., n. 3.
11) Cfr Giovanni Paolo II, Discorso cit., n. 12.
12) Cfr Conc. Vat. II, Gaudium et spes, n. 84; Giovanni Paolo II, Discorso cit., nn. 8-9.
13) Cfr Pio XII, Summi Pontificatus, pp. 437-439.
14) Cfr Giovanni XXIII, Pacem in terris, p. 69; Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 52.
15) Cfr Pio XII, Summi Pontificatus, 20 ottobre 1939, in AAS 31 (1939), p. 437.
16) Cfr Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 50.
17) Giovanni Paolo II, Discorso cit., n. 14.
18) Ibid., n. 6.
19) Cfr Pio XII, Alloc. nella vigilia di Natale 1939, n. 5, I.
20) Cfr Pio XII, Radiomessaggio del Natale 1941, 24 dicembre 1941, in AAS 34 (1942), pp. 16-17.
21) Giovanni XXIII, Pacem in terris, pp. 51-53.
22) Cfr Paolo VI, Populorum progressio, n. 59.
23) Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 21.
24) Cfr Giovanni Paolo II, Discorso cit., n. 14.
25) Cfr Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 23.
26) Cfr Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 19.
27) Cfr Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 51.
28) Questa tendenza è rilevabile nei richiami di Benedetto XV, di Pio XII, di Paolo VI fino a Giovanni Paolo II, che in particolare affronta la questione in modo organico nel Discorso pronunciato davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja il 13 maggio 1984 (in AAS 78 [1986], pp. 517-524).
29) Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 52.
30) Cfr Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 21.
31) Cfr Ibid.
32) Cfr Ibid.,
n. 57.
33) Cfr Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 30 dicembre 1987, in AAS 80 (1988), n. 42.
34) Un esempio concreto è dato dalla Sollicitudo rei socialis in cui il concetto dell'interdipendenza è utilizzato come chiave di interpretazione della situazione internazionale, negli aspetti economici, politici e strutturali.
35) Cfr Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 58.
36) Ibid.
37) Cfr Conc. Vat. II, Gaudium et spes,
n. 84; Paolo VI, Populorum progressio, n. 78.
38) Cfr Conc. Vat. II, Gaudium et spes, n. 9.
39) Cfr Pio XII, Radiomessaggio del 1 settembre 1944, n. 20.
40) Cfr Ibid, n. 42.
41) Cfr Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 69.
42) Ibid., n. 71.
43) Cfr Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 58.
44) Cfr Ibid., nn. 71-74.
45) Cfr Ibid., n. 75.
46) Cfr Pio XII, Alloc. 24 dicembre 1945, n. 25.
47) Cfr Conc. Vat. II, Gaudium et spes, nn. 85-86.
48) Cfr Ibid.
49) Cfr Conc. Vat. II, Gaudium et spes,
n. 89.
50) Cfr Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 26.
51) Cfr Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 35.
52) Cfr Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 33.
53) Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 67.

   

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