PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE INTERVENTO DEL CARDINALE RENATO RAFFAELE MARTINO Lunedì, 4 giugno 2007
Testimoni di carità, costruttori di giustizia La carità della Chiesa si esprime in multiformi modalità esistenziali, tutte, in ogni caso, animate e unitariamente sospinte da un unico centro propulsore essenziale: la carità come virtù teologale, come la vita stessa di Dio, che è carità (cfr 1 Gv 4, 7-8), comunicataci nella Chiesa tramite i Sacramenti e in particolar modo mediante il sacramento dell'Eucaristia, la quale "ci svela il disegno di amore che guida tutta la storia della salvezza" (1). Tra le molte modalità di espressione visibile della carità e il loro senso unitario, connesso con la profonda natura trinitaria della Chiesa, c'è quindi una relazione di identità/distinzione. La Chiesa è tutta e interamente carità - frutto della carità, abitazione della carità, espressione vitale della carità - e contemporaneamente la Chiesa manifesta ed incarna la carità in modo diversificato a seconda dei carismi che di volta in volta si esprimono e nel discernimento dei segni dei tempi. Per questo motivo, ritengo di grande importanza che siano evitate separazioni o addirittura contrapposizioni nell'esercizio della carità tra sacerdozio e laicato, oppure tra celebrazione e pastorale, oppure tra amorevole assistenza ai bisognosi e lavoro per la giustizia, tra impegno svolto dall'interno delle realtà associative ecclesiali e quello esercitato nei luoghi "di frontiera" della difesa dei diritti umani, dell'impegno per lo sviluppo dei poveri o della riconciliazione nelle aree di conflitto. Nella Chiesa nessuno ha il monopolio della carità, che appartiene alla Chiesa intera perché "compendia in sé tutto il Vangelo" (2). La visione unitaria della carità I paragrafi dal 19 al 29 dell'Enciclica di Benedetto XVI su Dio-Amore possono essere letti - possiamo dire - come una "piccola enciclica sociale". Infatti in quei luoghi il Papa attinge alle fonti stesse dell'esercizio della carità da parte della Chiesa e, così facendo, spiega l'origine della missione della Chiesa a servizio del mondo. Il primo concetto che il Papa ci trasmette è che la carità è propria di un soggetto attivo nella storia, di natura comunitaria, la Chiesa appunto, la cui realtà intera si esprime come carità, senza esclusioni. Ecco il bellissimo passo in cui Benedetto XVI afferma la naturale unitarietà della carità nella natura unitaria della Chiesa: "Tutta l'attività della Chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell'uomo: cerca la sua evangelizzazione mediante la Parola e i Sacramenti [...] e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell'attività umana. Amore è pertanto il servizio che la Chiesa svolge per venire costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali, degli uomini" (3). Sempre nella Chiesa il servizio sociale è - dal punto di vista della Chiesa - e deve essere - dal punto di vista di ognuno di noi - anche un servizio spirituale: "La Chiesa non può trascurare il servizio della carità così come non può tralasciare i Sacramenti e la Parola" (4). Ancora più chiaro è Benedetto XVI quando dice che l'annuncio, la celebrazione e la carità - tutte e tre le funzioni e non solo alcune tra esse - appartengono inscindibilmente all'"intima natura della Chiesa" (5). Vorrei far notare che l'unitarietà della carità nella sua fonte e nella sua intima dinamica, unitarietà che, prima di diversificarsi in diverse modalità espressive, sgorga dalla vita stessa della Trinità come comunione di amore, rimane tale anche riguardo al suo obiettivo, che è l'integralità della salvezza o, per dirla con Paolo VI, di cui commemoriamo quest'anno la Populorum progressio, l'integralità dello sviluppo (6). Intendeva lo stesso concetto Benedetto XVI quando, alcune settimane fa, ha parlato ad Aparecida della "pienezza di vita che Cristo ci ha portato: "Io sono venuto affinché abbiano vita e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10, 10). Con questa vita divina si sviluppa anche in pienezza l'esistenza umana, nella sua dimensione personale, familiare, sociale e culturale" (7). All'unità della carità, corrisponde l'unità della Chiesa e l'unità della salvezza dell'uomo. La Chiesa è sempre impegnata ad amare tutto l'uomo e a favorire la sua integrale salvezza, per questo essa intende lo sviluppo secondo un'ottica unitaria e di totalità. La prospettiva unitaria della carità è quindi il terminus a quo e il terminus ad quem, per dirla con gli Scolastici, ed è quindi anche il criterio e il metodo per il discernimento e per l'azione concreta. La carità è unitaria anche in un altro senso: essa non è solo un volere ma anche un conoscere. Essa non si oppone alla verità, perché la fonte della Carità è Dio, che è anche Verità. La carità cristiana non è un amore cieco, ma un amore intelligente: "Colui ch'è animato da una vera carità - notiamo l'espressione "vera carità" - è ingegnoso nello scoprire le cause della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel vincerla risolutamente" (8). Solo una carità vera può essere una vera carità. L'articolazione tra carità e giustizia e il primato della carità Per questi motivi, la teologia della carità non può essere altra cosa rispetto alla giustizia e alla Dottrina sociale della Chiesa. Se si limita la teologia della carità alla sola azione caritativa della Chiesa mediante le sue proprie e dirette strutture di assistenza, ne conseguirebbe che tutte le altre modalità di servizio dei cristiani all'umanità sofferente non avrebbero a che fare con la carità ma solo con la giustizia, con la conseguente separazione della teologia della carità dalla Dottrina sociale della Chiesa, che non può avere alcun fondamento teologico. Se torniamo a considerare la "piccola enciclica sociale" contenuta nei paragrafi 19-29 della Deus caritas est, notiamo che tra giustizia e carità il Papa non separa, ma distingue per unire. La giustizia non è la carità, eppure ha bisogno della carità per essere vera giustizia. Ambedue le dimensioni vanno tenute insieme. La giustizia non è la carità, ed infatti "Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore" (10). La giustizia, però, ha bisogno della carità perché altrimenti non riesce a purificarsi "dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano" (11). Bisogna fare a questo punto una breve ma importante approfondimento, per comprendere il rapporto tra giustizia e carità all'interno del più vasto magistero di Benedetto XVI. Poi proseguiremo l'analisi della nostra "piccola enciclica sociale". La questione di fondo è se la realtà in generale, e la realtà umana in particolare, possano reggersi da sé, siano autosufficienti. La giustizia riesce ad essere tale senza la carità? La ragione riesce ad essere pienamente ragione senza la fede? La realtà materiale riesce a comprendersi veramente senza la trascendenza? Attenzione: dalla risposta a queste domande dipende la storicità del cristianesimo e la sua umanità. Dipende se il Dio cristiano sia il "Dio dal volto umano" (12), il Dio che in Cristo rivela l'uomo a se stesso, il Dio-con-noi che ci accompagna sulle strade della storia, oppure se sia uno dei tanti déi del mito. Dipende anche il senso e lo spazio dei cristiani nella costruzione di un mondo a misura di uomo. Se essi siano indispensabili o superflui. Dipende anche il fondamento della "identità" cristiana nell'agire nel mondo. Si incentra qui anche la notevole riflessione di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI sulla laicità e sulla "dittatura del relativismo". Se, infatti, la giustizia, la ragione, la dimensione materiale sono autosufficienti e sono in grado di funzionare benissimo da sole, il cristianesimo diventa superfluo per la vita pubblica e avrebbe ragione la laicità del relativismo a relegarlo nella sfera delle scelte private, a tollerarlo, tuttalpiù, ponendolo nel grande "pantheon" del supermercato degli déi. Ma come il Dio cristiano non fu accolto nel grande "pantheon" dei romani, non può stare nemmeno in questo nuovo "pantheon" postmoderno. Alle grandi domande viste sopra, Benedetto XVI risponde che no, che queste realtà non si reggono da sole e che "i conti sull'uomo, senza Dio, non tornano, e i conti sul mondo, su tutto l'universo, senza di Lui non tornano" (13). La necessità pubblica della dimensione cristiana viene espressa dal Papa con la nozione di "purificazione": la ragione ha bisogno, proprio per poter essere ragione, di venire purificata dalla fede; così la giustizia dalla carità. L'azione di purificazione nulla toglie alla autonomia legittima della sfera specifica che viene purificata, ma nello stesso tempo evidenzia l'impossibilità che essa si mantenga fedele alla propria natura senza un lavoro non contingente ed estemporaneo, ma sostanziale e strutturale, di purificazione. La purificazione è quindi un inveramento. Come esempi della risposta che Benedetto XVI dà a queste domande fondamentali mi limito solo a ricordare qui quanto detto ad Aparecida e quanto testimoniato dal libro Gesù di Nazaret (14). Ai Vescovi latinoamericani egli ha detto: "Solo chi riconosce Dio, conosce la realtà e può rispondere ad essa in modo adeguato e realmente umano. La verità di questa tesi risulta evidente davanti al fallimento di tutti i sistemi che mettono Dio tra parentesi" (15). La nostra fede ha la "pretesa" che non sia possibile conoscere la realtà senza riferimento alla realtà di Dio e che "non c'è vera soluzione della questione sociale fuori del Vangelo" (16). Quanto al libro Gesù di Nazaret si tratta di un esempio di esegesi a partire dalla fede, per evidenziare l'insufficienza del solo metodo storico critico proprio per incontrare il Cristo della storia. La realtà ha bisogno di Dio per essere completamente e veramente se stessa; i sistemi politici hanno bisogno della religione per essere pienamente se stessi; l'analisi razionale e critica ha bisogno della prospettiva di fede per incontrare la storia. Possiamo tornare ora alla nostra "piccola enciclica sociale". Nel paragrafo 29 della Deus caritas est, Benedetto XVI distingue tra "l'impegno per un giusto ordinamento dello Stato" e l'"attività caritativa organizzata". Nei confronti della prima dimensione la Chiesa agisce indirettamente, nei confronti della seconda, invece, direttamente o, meglio "come soggetto direttamente responsabile" (17). Con ciò il Papa non vuol dire in nessun modo che qualcuno dei due livelli non abbia a che fare con la carità. Tutti e due ne sono unitariamente pervasi pur nella distinzione. Il Papa, infatti, dice che "la carità deve animare l'intera esistenza dei fedeli laici" (18), di coloro cioè che si impegnano direttamente nella prima delle dimensioni viste qui sopra. La questione del "luogo teologico" Dicevamo che dalla risposta a quelle domande dipendeva anche l'identità cristiana della carità. I cristiani vivono la carità non solo quando, negli organismi che sono direttamente espressione della Chiesa, aiutano chi è nel bisogno, ma anche quando si impegnano nel mondo, da soli o organizzati, a fianco di fedeli di altre confessioni religiose o di non credenti, oppure quando agiscono nella società civile, nell'economia, nel volontariato, nelle associazioni di "advocacy" per la difesa dei diritti umani. La carità è, come abbiamo più volte detto, profondamente unitaria e nello stesso tempo profondamente articolata. Proprio per questo è importante definire il "luogo teologico" da cui partire per il discernimento delle situazioni in cui siamo chiamati a vivere la carità sociale e politica. Da dove dobbiamo partire? Qual è il punto di vista decisivo per i cristiani? Risponderò rifacendomi ancora a quanto detto da Benedetto XVI nel suo recente viaggio pastorale in Brasile. In passato, molti hanno sostenuto che il luogo teologico appropriato per il discernimento nell'esercizio della carità siano i poveri, nel senso sociologico del termine. Altri hanno sostenuto che il luogo teologico è la prassi, intesa come azione politica per la giustizia. Bisognerebbe partire da lì, dalla situazione di bisogno o di sfruttamento, di indigenza o di ingiustizia. Benedetto XVI, invece, nel discorso rivolto ai Vescovi brasiliani nella cattedrale di San Paolo l'11 maggio scorso ha detto che senza l'istruzione nella fede e la vita dei sacramenti "manca l'essenziale anche per la soluzione degli urgenti problemi sociali e politici". Nel libro Gesù di Nazareth egli afferma: "La povertà puramente materiale non salva, anche se di certo gli svantaggiati di questo mondo possono contare in modo particolare sulla bontà divina. Ma il cuore delle persone che non posseggono niente può essere indurito, avvelenato e malvagio - colmo all'interno di avidità di possesso, dimentico di Dio e bramoso solo di beni materiali"; per questo "Il Discorso della montagna non è un programma sociale [...] ma solo laddove il grande orientamento che ci dà resta vivo nei sentimenti e nell'agire, solo laddove dalla fede deriva la forza della rinuncia e della responsabilità verso il prossimo come verso l'intera società, può crescere anche la giustizia sociale. E la Chiesa nel suo insieme non deve perdere la consapevolezza di dover essere riconoscibile come la comunità dei poveri di Dio" (19). Il modo vero di servire i poveri non è partire dalla loro povertà in senso sociologico, ma partire da Cristo povero. Come la semplice povertà, così anche "la semplice prassi non è una luce" (20). Per questo ad Aparecida il Papa ha proposto di partire dal Cristo della fede apostolica trasmessaci dalla Chiesa e ha incitato i fedeli latinoamericani alla "rivitalizzazione della loro fede in Cristo, nostro unico Maestro e Salvatore, che ci ha rivelato l'esperienza unica dell'Amore infinito di Dio Padre per gli uomini. Da questa fonte potranno sorgere nuove strade e progetti pastorali creativi, capaci di infondere una ferma speranza per vivere in maniera responsabile e gioiosa la fede ed irradiarla così nel proprio ambiente" (21). Il titolo di questa mia conferenza contiene la parola "testimoni". Testimoni di cosa e di chi? Io dico: testimoni di Cristo. Come dice la Centesimus annus, noi dobbiamo inquadrare la lotta per la giustizia "nella testimonianza a Cristo salvatore" (22). Dottrina sociale della Chiesa ed esercizio della carità È proprio a questo punto, a mio parere, che si inserisce a pieno titolo la Dottrina sociale della Chiesa, appunto nel raccordare l'impegno per la giustizia che sta davanti a noi e la carità di Cristo che noi attingiamo dalla vita ecclesiale, nel darci strumenti per il discernimento tramite l'interpretazione del nostro impegno a partire dall'annuncio di Cristo, dalla evangelizzazione. Leggiamo per intero il passo della Centesimus annus che ho parzialmente ricordato poco sopra: "Per la Chiesa insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del messaggio Cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette conseguenze nella vita della società e inquadra il lavoro quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a Cristo salvatore" (23). Vorrei ricordare qui che la Dottrina sociale della Chiesa "annuncia Dio e il mistero di salvezza in Cristo ad ogni uomo" (24) e per questo essa si radica nel Cristo annunciato dalla fede apostolica e da lì cerca di illuminare il cammino di salvezza dell'umanità, anche nei suoi elementi di promozione umana e di lotta per la giustizia. Possiamo quindi dire che "La Dottrina sociale viene organicamente collegata con la carità che, come virtù teologale, è la stessa vita divina che nutre la Chiesa in servizio al mondo, e come virtù umana è quell'amicizia sociale senza di cui i legami comunitari tra gli uomini si indeboliscono e vacillano" (25). Nella Deus caritas est Benedetto XVI dice che la Dottrina sociale della Chiesa è proprio espressione della purificazione della ragione ad opera della fede o della giustizia ad opera della carità e quindi le assegna questo compito: illuminare l'impegno per l'uomo dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà con la luce di Cristo. Si può ritenere, dice il papa, che la giustizia non abbia bisogno della carità ed anzi che essa possa più facilmente raggiungersi mediante il razionale funzionamento delle strutture e delle istituzioni piuttosto che tramite la virtù di uomini caritatevoli. Così, però, non è né può essere, come abbiamo già ampiamente osservato. La giustizia non riesce ad essere veramente se stessa senza la carità, che sola può indurre al sacrificio e al perdono. Senza rifarsi alla Dottrina sociale della Chiesa, chi si impegna per la giustizia e i diritti umani, per lo sviluppo e la difesa dei poveri, corre costantemente il rischio di perdere di vista il "luogo teologico" da cui interpretare propriamente questo suo impegno. Se mi permettete questo veloce accenno, mi sembra essere proprio questa la conseguenza generata dalla teologia della liberazione, almeno nelle sue versioni più radicali. Essa intendeva partire dalla prassi di liberazione anziché da Cristo liberatore ma, così facendo, essa depotenziava la dottrina cristiana e l'insegnamento della Chiesa, ossia il luogo teologico a partire dal quale poteva diventare cristianamente provocatoria anche la povertà del continente latinoamericano. In questo modo, queste correnti radicali della teologia della liberazione hanno avuto un effetto secolarizzante, alimentando alla fine la cultura relativista (26). Capita così, purtroppo, per ogni forma di impegno sociale e di solidarietà, quando si concepisce solo come opera di giustizia e non anche e soprattutto di carità, della carità che ci è stata rivelata da Cristo e che continua ad esserci insegnata dalla Chiesa. A coloro che si impegnano per la giustizia, la Dottrina sociale della Chiesa indubbiamente fornisce la luce dei suoi principî e delle sue direttive di azione. Oggi, però, volutamente non mi sono fermato su questo, per sottolineare invece un aspetto che raramente viene messo in luce ma che rimane per me fondamentale. Oltre a dare la luce dei suoi concetti - dal bene comune alla destinazione universale dei beni... - la Dottrina sociale della Chiesa svolge questo lavoro di "purificazione" e, in quanto annuncio di Cristo, sempre richiama l'operatore di giustizia e di pace, alle autentiche radici - cristologiche ed ecclesiali - del suo impegno per la carità e nella carità. Cenni conclusivi Le organizzazioni cattoliche e i singoli cristiani operano per il bene delle persone e dei popoli in situazioni molto varie. Ora sono a contatto con situazioni di fortissima povertà nelle zone più dimenticate della terra, ora sono impegnate nel ministero della riconciliazione e di "peacemaking" in aree gravate da conflitti, ora si mobilitano per la formazione e l'istruzione o, più in generale, per l'"empowerment" di persone e gruppi sostanzialmente emarginati. Molto spesso si trovano ad agire in contesti pluriculturali e plurireligiosi e collaborano anche con persone non credenti. Talvolta sono fianco a fianco con organizzazioni umanitarie di altre confessioni religiose cristiane o con fedeli di altre religioni. Vorrei dire che questo non deve spaventare, anzi va visto come un importate segno dei tempi a patto però - e questa condizione è veramente discriminante - che il cristiano non rinunci alla propria identità e intenda la propria testimonianza come radicata in Cristo, il Dio dal volto umano, quale è annunciato dalla Chiesa, quale ci è trasmesso dalla fede apostolica, che incontriamo nei Sacramenti e nella liturgia. Cristo ci mostra il volto di Dio, un volto di carità e di verità, inscindibilmente unite. Non pensiamo di poter testimoniare la carità senza la verità; l'annuncio della verità è anche una forma impegnativa di carità ed ogni atto di carità, se è puro, disinteressato e lungimirante, è anche una testimonianza della verità. 1) Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale "Sacramentum caritatis", n. 8, Supplemento a L'Osservatore Romano, 14 marzo 2007, p. II. 2) Leone XIII, Enciclica Rerum novarum, n. 45. 3) Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est, n. 19, in Insegnamenti di Benedetto XVI, I, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, p. 1106. 4) Ivi, n. 22, p. 1107. 5) Ivi, n. 25, p. 1109. 6) Paolo VI, Enciclica Populorum Progressio, n 14. 7) Benedetto XVI, Discorso alla V Assemblea generale del Celam, Aparecida, 14 maggio 2007. 8) Paolo VI, Enciclica Populorum Progressio, n 75. 9) Benedetto XVI, Discorso alla V Assemblea generale del Celam, Aparecida, 14 maggio 2007. 10) Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est cit., n. 28, p. 1111. 11) Ibidem. 12) L'espressione ricorre spesso nei recenti discorsi di Benedetto XVI: cfr Omelia all'Islinger Feld, 12 settembre 2006, in Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo. Viaggio in Baviera, tutte le parole del Papa, Cantagalli, Siena 2006, p. 47; cfr anche il Discorso al Convegno nazionale della Chiesa italiana a Verona. 13) Benedetto XVI, Omelia all'Islinger Feld cit., p. 46. 14) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007. 15) Benedetto XVI, Discorso alla V Assemblea generale del Celam, Aparecida, 14 maggio 2007. 16) Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus n. 5. La frase è ripresa da Leone XIII, (Rerum novarum). 17) Benedetto XVI, Enciclica Deus caritas est cit., n. 29, p. 1113. 18) Ibidem. 19) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret cit., p. 101. 20) Joseph Ratzinger, Conferenza ai Presidenti della Commissione per la Dottrina della Fede delle Conferenze episcopali dell'America latina, Guadalajara, Messico, maggio 1996, in "L'Osservatore Romano", 27 ottobre 1996, p. 7. 21) Benedetto XVI, Discorso alla V Assemblea generale del Celam, Aparecida, 14 maggio 2007. 22) Giovanni Paolo II, Enciclica Centesimus annus, n. 5. 23) Ibidem. 24) Ivi, 54. La Sollicitudo rei socialis diceva: "proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull'uomo" (n. 41). 25) G. Crepaldi, La carità purifica la giustizia, in "L'Osservatore Romano", 13 maggio 2006, p. 4. 26) Il Cardinale Ratzinger aveva mostrato molto bene questo effetto della teologia della liberazione nella Conferenza di Guadalajara già citata.
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