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Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

V Congresso Mondiale 

della Pastorale per i Migranti e i Rifugiati

(Roma, 17 - 22 novembre 2003)

 

Conferenza Stampa

11 novembre 2003

Il mondo dei rifugiati e degli sfollati

Rev. P. Michael A. BLUME, SVD, 

Sotto-Segretario del Pontificio Consiglio della

Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

Introduzione

Una casa di fango, bassa, di una sola stanza. Una piccola apertura triangolare di circa 20 centimetri, per finestra. Un logoro tetto di tela impermeabile dell'UNHCR, teso e fermato con otto grosse pietre. Altri pezzi di plastica chiudono i buchi. Lì vive un catechista, con sua moglie e cinque bambini. Egli era fuggito con la sua famiglia dal Sudan. Impiegarono tre mesi per arrivare al confine: tutta strada fatta a piedi. Vicino alla sua casa ce ne sono altre, ma alcune sono crollate. E così egli ospita altre quattro persone e durante la notte dormono in undici in quell'unica stanza.

Essi vivono in questo luogo dell'Africa Orientale, che essi chiamano casa, da cinque anni, mentre altri sono qui già da undici anni. Sono ottantasei mila le persone che vivono assieme a loro in questo campo-rifugiati, tutte dipendenti dalle razioni amministrate giornalmente, poiché non è consentito loro di lavorare o di allevare animali. Il cibo, tuttavia, non sempre arriva. L'anno scorso, per esempio, i fondi della comunità internazionale sono stati sufficienti per acquistare alimenti - soprattutto mais - soltanto per un totale di 1700 calorie al giorno. Non sorprende, dunque, un tasso di malnutrizione superiore al 17%, tenuto anche conto che le persone hanno bisogno di cibo variato. Questo è soltanto un caso tra migliaia, nei paesi più poveri del mondo.

Le persone fuggono dalla loro patria a causa di guerre e violazioni dei diritti umani, di siccità. Alcuni cercano soltanto condizioni di vita decenti. Cercano, cioè, di sottrarsi a un'agricoltura di sopravvivenza, a condizioni di lavoro e a livelli di reddito che nessun sindacato tollererebbe nel "mondo industrializzato". Insomma, fuggono anche da situazioni economiche disastrose. Emigrando, essi sono pronti ad assumersi rischi, anche gravi, sull'orlo della disperazione.

La realtà odierna e la risposta degli Stati

Per limitarci, nella considerazione, ai rifugiati, essi sono 12 milioni, sotto mandato dell'apposito Alto Commissariato delle Nazioni Unite (UNHCR), e altri quattro milioni sotto quello dell'Agenzia delle Nazioni Unite di Soccorso e Lavoro per i rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA). Inoltre vi sono rifugiati de facto, non inclusi nella protezione dei suddetti mandati. Bisogna poi contare gli sfollati, cioè quei profughi che non hanno varcato il confine nazionale, il cui numero è salito in modo spettacolare a circa 25 milioni di persone. Se avessero abbandonato il proprio Paese, dovrebbero anch'essi aver ricevuto una qualche protezione internazionale. I loro Governi stessi potrebbero essere però i loro persecutori o, comunque, sono privi della capacità o della volontà di offrire loro un minimo di benessere e sicurezza. Rifugiati e profughi affrontano spesso la fame, e fra di loro sono alte le percentuali di malattie che potrebbero essere evitate, mentre non mancano gravi abusi in fatto di diritti umani.

In ogni caso dobbiamo purtroppo rilevare oggi una crescente disparità tra gli impegni assunti dagli Stati nella legislazione internazionale esistente e la pratica corrente. Molti Stati hanno cioè messo in atto stratagemmi tesi ad eludere le loro responsabilità, per non dover affrontare i problemi delle migrazioni forzate, e tenerle così al di là dei propri confini. Dietro questi atteggiamenti restrittivi si celano ragioni interdipendenti, come, ad esempio, il numero sempre maggiore di richiedenti asilo che giunge nei Paesi occidentali, l'asilo trasformato in elemento di propaganda elettorale, un giornalismo che alimenta atteggiamenti ostili nei confronti degli stranieri e il crescente timore del terrorismo internazionale. I migranti forzati vivono quindi, al presente, in condizioni peggiori di prima, anche nei Paesi del Sud, che risultano sempre più stanchi di affrontare lunghe crisi le quali coinvolgono centinaia di migliaia di rifugiati, con sempre minore sostegno da parte dei donatori internazionali. Le speranze di troppi rifugiati e delle loro famiglie stanno quindi progressivamente svanendo.

La presenza pastorale della Chiesa

Poiché ogni essere umano è nostro fratello per il quale Cristo è morto e risuscitato, vediamo, dietro le notizie e le statistiche, degli esseri umani, individui con volti e famiglie, che amano e sono amati, ciascuno con una sua storia di speranze, aspirazioni e timori da condividere in mezzo a sofferenze individuali e collettive. I luoghi che diedero significato e dignità alla vita dei rifugiati sono lontani, mentre le loro esperienze storiche e la propria cultura rischiano l'esaurimento. Spesso i traumi lasciano poi un'impronta indelebile nella loro vita. Alcuni possono anche sentirsi colpevoli perché hanno potuto salvarsi, mentre amici e vicini si sono persi durante la fuga.

La Chiesa, comunità e ministri, è già parte, comunque, di questa realtà, che è chiamata a trasformare grazie alla Buona Novella di Gesù Cristo. Ciò può comportare anche tanti servizi, dall'essere con i rifugiati e i richiedenti asilo all'aiutarli materialmente, dal promuovere una migliore legislazione e il rispetto umanitario alle attività pastorali di una parrocchia pienamente strutturata. Mentre la cura pastorale dei rifugiati può assumere forme diverse, a seconda delle circostanze, il suo punto di partenza dovrà peraltro sempre essere la comprensione della situazione in tutte le sue dimensioni - personali, sociali, economiche, politiche - alla luce della Parola di Dio e della Dottrina Sociale della Chiesa. Questo significa soprattutto avere occhi ed orecchie attenti. Qualcuno è certo al loro fianco - un sacerdote, una suora, un laico, un catechista - e ascolta le drammatiche esperienze del loro passato, li assiste come persone, offre loro la forza e la consolazione della Parola di Dio e dei Sacramenti e li rispetta. Questa presenza intende far sentire loro che valgono veramente come esseri umani e che sono amati da Dio e dagli uomini, in modo particolare attraverso la comunità ecclesiale. È questo per noi il primo passo verso la reintegrazione della dignità dei rifugiati, dei profughi.

Benché i campi-profughi non siano luoghi ideali, in alcuni ci sono équipes pastorali e perfino normali parrocchie, che li rendono più vivibili. Ciò contribuisce a rafforzare le persone nella loro fede e permette di trovare conforto negli altri, nonché di farsi essi stessi presenza incoraggiante per i fratelli e le sorelle in difficoltà. Così strutture e attività, familiari nei loro Paesi, assumono nuovo significato, come, ad esempio, il catechismo, i cori, le piccole comunità ecclesiali, la formazione delle persone per ministeri particolari non ordinati. Sono, questi, tutti modi di ripristinare relazioni, creando comunione e consentendo alle persone, le cui vite sono tanto oppresse da forze esterne, di prendersi carico delle dimensioni più intime di sé e del proprio futuro. Inoltre, comunità vitali, pur in circostanze avverse, evangelizzano e invitano a comprendere le ragioni delle loro speranze (v. 1 Pt 3,15).

In altri luoghi la Chiesa, in collaborazione con le varie Organizzazioni esistenti, è impegnata ad assistere i richiedenti asilo e i rifugiati in varie attività, come la ricerca di un alloggio, o quelle derivanti dall'essere al loro fianco nei periodi difficili (p. es., durante l'attesa di una decisione in merito alla loro domanda d'asilo), o ancora dall'offrire corsi di lingua, dall'operare per un loro reinsediamento definitivo, o dal sostenere la integrazione nella società d'accoglienza. Molte volte la Chiesa locale parla anche in difesa dei rifugiati e dei profughi e perché sia rispettata la loro dignità umana. Le attività pastorali mettono dunque la Chiesa in contatto con questioni umanitarie e anche "politiche" con le quali i rifugiati debbono confrontarsi. Così, spesso, gli operatori pastorali diventano qualificati paladini della loro causa. Essi possono, quindi, invitare le Istituzioni politiche al rispetto delle leggi internazionali, a interpretarle nel modo migliore, a usare la loro autorità morale per affrontare questioni derivanti da razzismo, xenofobia, pregiudizio e discriminazione. La Dottrina sociale della Chiesa è il sostegno di fondo di queste attività, in cui si affrontano pure le radici delle crisi dei rifugiati, ricercandosi una pace giusta, la riconciliazione, il perdono e lo sviluppo integrale della persona, alla luce del bene comune delle nazioni coinvolte e dell'intera comunità internazionale.

Da più di 50 anni i Romani Pontefici hanno voluto una struttura universale di supporto alla cura pastorale (dal 1970 la Pontificia Commissione, poi Pontificio Consiglio, della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti) per l'umana mobilità, con invito, poi, alle Conferenze Episcopali di rinnovata sollecitudine per le molte forme di migrazione. È stata sollecitata così l'istituzione di Commissioni per la cura pastorale dei migranti, concordandosi i modi di cooperazione tra le Chiese di origine e quelle di destinazione e provvedendo alla formazione di sacerdoti, seminaristi, religiosi e laici per questo apostolato specifico. In molti Paesi non sono mancati, al riguardo, positivi risultati. Comunque, ci sono certamente ancora moltissimi rifugiati e sfollati che necessitano di una più significativa attenzione pastorale e di una maggiore presenza della Chiesa in mezzo a loro, ma purtroppo questo è un momento in cui molte Chiese particolari si sentono oberate dai problemi quotidiani e impoverite dalla mancanza di personale e di risorse.

 Noi ci auguriamo che il Congresso Mondiale possa dare un nuovo slancio a tali attività pastorali in tutto il mondo, e che sia d'incoraggiamento a una strategia pastorale fondata su riflessioni ben fondate per gli enormi compiti che si trovano davanti a noi. Ciò aiuterà ad identificarci più strettamente con i richiedenti asilo, i rifugiati, gli sfollati, nei quali dobbiamo sempre riconoscere il volto di Cristo.
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