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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 87, December 2001

 

Dove io, di carnevale, 
chiedo alla Madonna un miracolo.

Don Giuseppe DE LUCA

Introduzione

Nella mia “presentazione”, in occasione dellÂ’inizio della mia missione di Segretario del Pontificio Consiglio, facevo cenno alla “storia della pietà”, in contesto di santuari e pellegrinaggi – così pensavo fra me e me - , e nominavo don Giuseppe De Luca.
Di lui mi pare oltremodo bello e significativo anche oggi, attualissimo dunque, l’intervento che egli fece l’undici febbraio del 1962, su “L’Osservatore Romano”, sotto la sua rubrica “Bailamme”, intitolato come sopra.
Esso è stato ripreso, recentemente (Roma 2000) dalle “Edizioni di Storia e Letteratura” e abbiamo pensato quindi riprodurlo, qui di seguito, perché ci riporta “al centro”, allÂ’essenziale, nei nostri pellegrinaggi, a Cristo cioè, al Quale ci fanno da guida pure Maria Santissima, tutti i Santi e le Sante di Dio. “La gioia è soltanto Gesù. Questo miracolo vogliamo!”.
Aggiungo, per chi volesse approfondire la conoscenza di don De Luca, lÂ’indicazione di due volumi da consultare, e cioè:

Giovanni ANTONAZZI, Don Giuseppe De Luca, uomo cristiano e prete (1898 – 1962),Marcelliana, Brescia 1992, pp. 438 
Romana GUARNIERI, Una singolare amicizia. Ricordando don Giuseppe De Luca,Marietti 1820, Genova 1998, pp. 304.

Buona lettura, che è meditazione e contemplazione e Â… azione, pure.

( S. E. Mons.Agostino Marchetto)

C'è un inno latino in onore di sant'Antonio di Padova, dove ricorre un verso che è poi restato famoso: Si quaeris miracula ... ; come chi dicesse: Quando vuoi miracoli, va da sant'Antonio.

Quanti siamo ad aver oltrepassato il mezzo secolo di età, ricorderemo di certo come, al tempo dei tempi (eravamo fanciulli), per le vie tortuose e solitarie del paese echeggiasse, ora vicino ora lontano, il grido lamentoso e lungo dei venditori ambulanti. Quelle grida, strazianti da quanto erano accorate, le hanno ora un poÂ’ dappertutto raccolte, con relativa musica, perché, dal punto di vista del folklore, formano nientemeno che una preistoria di quella che è la moderna réclame: e la réclame è l'anima del commercio, come si suol dire, e il commercio è l'anima - chiamiamola anima - della civiltà contemporanea.

Bene: ciurmatori, fattucchieri, maghi, stregoni, spiritisti, e altri Dulcamara alla stessa stregua e della stessa genìa, vendono e svendono meraviglie anche loro, al modo loro, quasi fossero mercanzia minuta, nastri multicolori, aggeggi ingegnosi, chincaglierie, robettòla d'uso. Pare incredibile, cÂ’è chi, non diversamente da costoro, osa vendere i miracoli, ancorché non vada per le vie spandendone il grido: Miracoli, chi li vuole i miracoli? Vendono, infatti, il miracolo, ma a domicilio, in segreto, per via di lettere a catena, telefonate anonime, misteriose comunicazioni, preci suggerite e mormorate tra mille segni come incantesimi.

Nelle epoche più remote, quando imperavano indisturbate e sole le religioni prettamente naturali, fu per l'appunto il miracolo a creare il santuario. Nel cristianesimo no, è stato invece il santuario a creare i miracoli: il santuario sorse sopra la memoria del Santo che vi riposa, oppure dal ricordo che non cade d'una avvenuta apparizione, o in occasione d'un evento quanto glorioso quanto troppo doloroso. Chi ha fatto l'edificio della chiesa, l'arte, i riti, l'adunanza dei fedeli, è stato il sacrificio dell'altare, è stata la predicazione, sono stati i sacramenti. Non viceversa.

Se non che la natura dell'uomo, ferita in origine dal peccato, ne porta le conseguenze, anche nei sentimenti; e forse peggio che in altri, nello stesso sentimento religioso, che è il più cagionevole, appunto perché è il più delicato e alto. All'uomo pertanto è accaduto, e accade, e accadrà, nel seno stesso del cristianesimo, qualcosa di somigliante che all'infedele accade e al pagano accadeva nella loro religiosità: la massa si è lasciata via via invescare, persino invasare, dalla lusinga di fatti portentosi; e questi ha confuso, insensibilmente ma invincibilmente, quasi universalmente purtroppo, coi fatti religiosi. Cosicché miracoli e religione per l'uomo rozzo, o inerudito spiritualmente, son venuti a significare una stessa e medesima cosa. Per l'uomo rozzo, e per i dotti non più credenti...

Che Iddio si avvalga spesso e volentieri del miracolo, suo intervento esplicito di là dalle leggi di natura, nell'intento di accusare e testimoniare così la sua presenza immediata, non c'è dubbio. È risaputo per altro che anche al demonio venne rilasciato, e non gli è ancora stato ritirato, il potere di operare fatti secondo ogni apparenza prodigiosi, pur di indurre in errore, quando che fosse possibile, gli eletti: Surgent enim pseudochristi et pseudoprophetae: et dabunt signa magna et prodigia, ita ut in errorem inducantur, si fieri potest, etiam electi[1].

Né sempre è molto agevole discernere tra il segno di Dio e quello dell'Avversario. Resti ben chiaro, comunque, che nessun miracolo mai per un cristiano può essere cosa tale che valga di più e di meglio che non la presenza nuda e cruda del Signore, l'accento della sua parola, l'aura della sua grazia. Gesù presente val bene qualsivoglia suo dono. Vale tutta la natura, vale tutta la soprannatura. Gesù è Gesù, e Gesù è tutto. Sentire pertanto il desiderio d'un miracolo, è lecito, non ci mancherebbe altro; ma è desiderare Iddio quello che importa; e se il desiderare costituisce la prima metà dell'amore, la seconda è l'ottenere. Fare dunque del miracolo la sostanza della fede, no, mai. La sostanza della fede è Dio conosciuto e amato. Nessun miracolo di Dio sostituirà mai Iddio presente. Il suo miracolo maggiore è lui in noi. La conoscenza e l'amore di Dio, questo è il cristianesimo: Haec est autem vita aeterna: ut cognoscant te solum Deum verum, et quem misísti Jesum Christum[2] 

La sostanza della religione sta dunque nell'amore di Dio, Padre nostro, e di quanti, figli suoi al pari di noi, sono perciò a tutti gli effetti nostri fratelli. Primogenito dei fratelli, Cristo. La famiglia costituita di codesti fratelli, in quanto si riconoscono tali, e come tali vogliono vivere e morire, questa è la Chiesa. Madre di Gesù e nostra, sebbene altrimenti, Maria. Anche Iddio è padre di Gesù ed è Padre nostro, ma altrimenti. Gesù non ha mai detto al Padre insieme con noi: Padre nostro. Padre suo, da un lato: Padre nostro, dall'altro: due cose molto differenti. Una la fede, uno il rito, una la legge, una l'autorità, una la vita in comune: ecco la Chiesa nel tempo, pellegrina verso l'eterno.

Decine, centinaia, migliaia, i pastori; uno il Pastore dei pastori sulla terra, appoggiato al suo pastorale, qui, sul suo e nostro colle romano.

Che questa vita terrestre via via possa anche migliorare (Dio voglia che non peggiori, non dico nella tecnica, dico nello spirito), che le condizioni del vivere sociale possano anche alleggerirsi, ingentilirsi, nessun dubbio; quantunque io non so che redenzione sociale sia quella che viene innanzi di pari passo con ferocie inaudite: deportazioni in massa, campi di concentramento, nazioni recinte (come greggi infetti) da ferro spinato, coazioni materiali strazianti, manipolazioni della psiche, atrocità spirituali di ogni sorta, bombe atomiche, per tacere d'altri congegni dell'identica asprezza e barbarie. Tutto sommato, peraltro, un riscatto sociale è indubbiamente in atto.

Che sia possibile arrestare il dolore fisico, la malattia e la morte, disperdere l'angoscia, scongiurare la disperazione, a nessuno verrebbe fatto di sognarselo. Chi spegnerà dentro di noi un solo dei cento focolari o vulcani di peccato; chi abbatterà le insorgenti e in eterno reinsorgenti furie; chi sradicherà la concupiscenza dalle radici, sì da pulirne il campo dell'anima, campo delle sementi e campo dei giochi; chi ricucirà alla fine nel nostro fondo più fondo la vena segreta della colpa? Nessuno, ed é inutile augurarselo. Crederlo possibile, sarebbe non vano ma pazzo. Nemmeno l'utopia lo ha mai contemplato.

Nessuna rivoluzione al mondo, nessun rivoluzionario ci si proverà mai, mentre pure il nostro guaio, il solo reale guaio sta tutto qui, non altrove; sta nel peccato, e per conseguenza nella morte. Per ciò che concerne la morte, poco o nulla serve discettarvi sopra e intorno; la cosa va da sé, è lapalissiana. Nessuno può nulla contro la morte. Per quanto invece tocca il peccato, lo si denomini come si vuol meglio, anche a non essere credenti, c'è anche lui, non lo si toglie di mezzo tanto facilmente. Nessun cuore d'uomo ignora il morso silenzioso, così insostenibile, del rancore; l'angoscia accanita dellÂ’ambizione; la delirante e perfida incantazione della lussuria, la sedizione (è una vera e propria sedizione, durissima) dell'odio: nessuno. Inutile farla da gentiluomini e galantuomini: chi dicesse d'essere essenzialmente buono, o è un fatuo (beato lui!), oppure è, non fosse che per codesta affermazione, un fannullone. Non un cattivo, ma un fannullone. Non ci si può infatti dare spavaldamente per ciò che non si è, e nessuno può dirsi buono, perché nessuno é buono, nessuno. Lo ha detto il Signore. E chi buono è, quando è, non è buono alla stessa maniera come è corto o come è lungo. Sarebbe comodo. E sarebbe bella: diremmo, quando fosse così, che la signora del piano di sopra è buona, quella del piano di sotto invece è cattiva; sarebbero nate così, le poverine. No. Come si è dotti, come si è tecnici, come si è atleti, a questo modo si è buoni, a questo patto, a questo prezzo. Ci si diventa, insomma, per una disciplina; e qualsiasi disciplina, per entusiasmante che paia, almeno sulle prime, è dura, durissima. La disciplina della bontà (lasciamo dire gli sciocchi, quelli che fanno parlando un vocino filato, flautato, non perché colmi d'unzione ma perché untuosi), la disciplina della bontà si chiama di nome con un nome solo: si chiama la croce.

Non esistono, ahimè, rivoluzionari i quali si pongano in cuore di fare una rivoluzione contro la morte, contro il patimento fisico, contro l'amarezza inesauribile, incolpevole, cocente dell'animo, contro i moti sregolati e subitanei del cuore. Le rivoluzioni che sinora si conoscono scoppiarono tutte, dal più al meno, non sopra il pane quotidiano, bensì sul maggiore o sul minore agio. Il quale agio è altra cosa, ben altra cosa dal pane quotidiano: l'agio è la prima, ancora innocente, quasi bella e cara, maschera della ricchezza. I Santi, di fatto, come alla ricchezza, così non si sono affidati mai con troppa fiducia all'agio. Ci si odia nelle rivolte e nelle sommosse, ci si combatte e uccide non per altro scopo. Il pane è come il sangue: sta più su. Il pane e il sangue, cioè la vita.

Alla luna approderemo di certo sopra orripilanti navi spaziali, ma più su, molto più su sta la nostra luna, quella luna che illumina la nostra povera notte d'uomini; uomini, cioè esseri soli, inermi, spogli, ignudi. Esseri che un'ombra di malinconia avvelena, e il lampo d'una idea impenna, indifesi e stremati fra mezzo a una natura intorno e contro di noi ingigantita, avversa, rigida, ignara, indifferente. Più su, più su sta quella luna che sola ci rischiara, e permea, e fruga dentro. Rischiara, nel suo baratro subacqueo, tra i cento suoi mostri, il cuore cieco e demente. Dico la gioia, lume della nostra notte.

Gioia non è allegria. L'allegria può fiorire anche soltanto da un bicchiere di vin buono, bevuto in buona compagnia; e può la gioia esserci tutta, illesa e invitta, ancorché posti noi a un passo dalla morte. È gioia, la certezza di amare e d'essere amati; e all'amore poter conquistare, o prima o poi, tutti. Ci ama, intanto, Iddio; e noi, si sa, senza Dio e la sua screziata ricchezza non restiamo vivi un istante. Ci amano i nostri; come possono, poveretti, ma ci amano. Nel caso che non ci amassero, è perché son tristi; quando non sono tanto peggio, peccatori e meritano in tal caso, non tanto d'essere scusati e perdonati, quanto d'essere più amati, più perdutamente. Amiamo noi, alla nostra volta. Amiamo Iddio, amiamo i nostri, amiamo tutti, perché tutti son nostri; se non che l'amor nostro il più delle volte è fuoco di legna verde: piglia a stento, si spegne ogni momento al minimo soffio, fa fumo da accecare. Con tutto ciò, amiamo. Amare per noi è come respirare, non amare è estinguerci. La natura stessa, mostruosamente bella e vuota, cieca e muta e sorda, impassibile e spietatissima, ci ama; e anche noi l'amiamo. Per esempio, il dolore fisico, preso e portato nella dose e nella misura buona, ci disincanta, ci purifica; la morte, che è la morte, anche lei alla fine che cosa fa? Ci libera: ci ghermisce e rapisce nell'alto. Né il dolore fisico né la morte ci trovano bocconi a terra, privi di resistenza: noi siamo, dentro, armati contro di loro. 

Lo sgomento, l'angoscia, lo smarrimento, vengono in conto anche loro. Sono contemplati. Gesù, Figlio di Dio e Dio egli stesso, morì il corpo conficcato contro una croce, appeso in uno strazio e strapiombo orrendo; morì, dico, senza sentir presente il Padre. Disse: Padre, perché mi hai abbandonato?(Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me?[3]).Eppure, la gioia, questa presenza certa, concreta, di vita, d'una vita indistruttibile, indistruttibilmente felice, era in lui. Ed è in noi, ogni qualvolta si avverta che vogliamo, con tutte le nostre facoltà e potenze, felici noi e felici tutti: nulla facciamo in contrario, tutto in favore. Ma bisogna avvertirlo! Il più delle volte, in quella vece, avvertiamo ben altro; avvertiamo il morso dei nostri insetti, dei nostri vermi, dei nostri serpi. Siamo ancora vivi, e già, ahimè, già per la via della... putrefazione. Putrefazione d'anima, se si potesse dire; una putrefazione clandestina ma in attività di servizio.

Ci sono stato due volte, ma se tornassi ancora a Lourdes, mi ricorderei di Cana in Galilea: alla Madonna chiederei il pane, il vino, l'allegria. Chiederei, perché no?, di evitare questa o quella figura magra con questi o quei conoscenti che anche lei conosce, buona e brava gente ma sempre un po' amarognoli. Chiederei persino (se mi piacesse, ma non mi piace) un bicchiere di vino in più: la Madonna è donna, è madre; sa ottimamente che la cosa spesso più necessaria è proprio forse quella superflua. Un povero vorrà, sì (come fa a non volerlo?) il celebre tozzo di pane, ma non ne ha nessun piacere, perché lo sfama ma non lo rallegra, anzi lo umilia; quello che gli ci vuole invece, quel che gli va allÂ’anima, sarebbe una sigaretta. Doni, magari di prezzo, cadono nel vuoto, nel freddo del cuore; un sorriso invece, quando fosse vero, reale, non artefatto, non stillato, non stillante il mucido e l'acido, senza il leppo e il lezzo del cattivo fiato; un sorriso venuto su, naturalmente, dal cuore profondo e lieto, incontra lì per lì, sull'altro versante umano, un eguale sorriso. La nascita del vento tra gli alberi non è mai così segreta e sorprendente, come nasce, non si sa perché né come, sul nostro volto un sorriso.

Quando si va in una chiesa sua, chiediamoLe pure, alla Madonna, che ci raddrizzi le gambe, qualora le avessimo storte; ci netti gli occhi, se poco poco fossero cisposi; ci regoli il cuore, come si fa con un orologio un po' vecchio, che va indietro o avanti; ci rinforzi e ci rappezzi questo pa­ziente stomaco con annessi intestini, qualora fossero (alla fine) logorati dalla massa ingente di materia che quotidiana­mente ingurgitiamo, lasciando poi tutta la cura di cavarne il succo a essi disgraziati, oscuri, vili organi. Ci ripristini i nervi lisi, consunti, intormentiti dal tanto servizio (come in un impianto di fili elettrici, per la luce, per le sonerie) nel nostro labirintico organismo. Soprattutto ci rafforzi e ri­pari il cuore, che forse via via sÂ’è ridotto, a furia di battere senza sosta, una maceria diruta, albergo clandestino di orti­che scorpioni rettili pipistrelli; e ci rianimi il motorino sgangherato e sferragliante del cervello. Andiamo innanzi a un suo altare, portiamo alla Madonna il nostro malato peggiore, che siamo per l'appunto, ciascuno di noi. E portiamoLe dunque, insieme col nostro, il dolore dei nostri cari. Lei disse a Gesù di quei due sposi: Non hanno più vino (Vinum non habent)[4]

InvitiamoLa, anche noi, a venirci vicino, invitiamoLa accanto ai nostri malati. Dirà essa a Gesù: « Lo vedi, Figlio, lo vedi che impiastri si sono ridotti. Non hanno salute. Ma è il meno che non hanno. Non hanno giudizio. Non hanno nulla. Non hanno nemmeno te, che sei quello che costa di meno e vale di più. Sei tutto, e nemmeno sanno che ci sei. E se lo sanno, è come se non lo sapessero ».

Alla Madonna che, unica e sola tra le creature, a lui non disse di no mai e su nulla, alla Madonna Gesù non potrà negare se stesso. Ancor meno potrà negare qualcosa. E se è così, e non è altrimenti da così, inginocchiamoci innanzi alla prima immagine della Madonna e chiediamole il miracolo della gioia.

Il cuore dell'uomo è una cosa indicibile. È una cosa così grande e bella, ma così triste: battuto (e abbattuto spesso) dal piacere, come dalla morte; arso dalla poesia, non meno che dal peccato; pauroso, fino alla cecità folle, della solitudine, di ogni solitudine, eppur tuttavia immutabilmente solo, persino (e solo come non mai) nel colmo stesso dell'amore e della morte; rabbiosamente avido, con tutto ciò vuoto, povero in canna e senza possibile rimedio; originariamente signore, irremissibilmente in servizio, in tutti i servizi; innamorato sempre, e sempre regolarmente tradito da tutto e da tutti; un momento tentato di tramutarsi lì per lì in un dio, il momento appresso nel tangibile frangente di ritrovarsi un nulla di nulla; svanito, pitocco e grullo, da far invidia a un poeta ubbriaco, e poi d'un tratto amaro, tetro, malvagio più d'un assassino.

Portiamoglielo, questo glorioso miserabile che è il nostro cuore, il quale non vive se non di gioia, ma ne ha tanto poca perché è sempre un miracolo la gioia tra tanto peccato. Non il dolore uccide la gioia, quel che la uccide è il peccato. E noi, nel peccato, non soltanto ci siamo dentro, ma ci viviamo. Ci sguazziamo, disgraziati.

Andiamo dunque dalla Madonna, e portiamoLe il malato più grave, questo povero cuore di uomini. ChiediamoLe di guarirci le gambe se le avessimo spezzate o inferme, e ci faccia gettar via le stampelle; ma prima, molto prima, ci guarisca dal peccato. È più urgente. Verrà pure il giorno (più in là che sia possibile, o Madonnina nostra), verrà il giorno che le gambe ci si stecchiranno affatto, e allora non ci sarà più miracoli che tengano. Noi si morrà. L'anima invece non muore. Chiediamo alla Madonna il miracolo della gioia: Lei lo sa che cos'è. Lei sa che è la guarigione eterna, è il paradiso riscoperto. È il paradiso ritrovato sulle nostre vie, se le percorriamo avendo Iddio nel cuore. AvendoLo, e godendoLo. Pensare: torniamo a casa per la via, e siamo in paradiso.

Noi non si ha bisogno, alla fine, di questo, di quello, di quell'altro: tutte trappole, nuove trappole e nuovi inganni. Si ha bisogno di gioia. Se il paradiso è, come è, il luogo della gioia, chi quaggiù ne ottiene anche un minimo, di questa gioia, ristabilisce per quanto è in lui e riapre il paradiso terrestre. «Un'aura dolce, senza mutamento..»[5]: son versi di Dante alla fine del Purgatorio e tanti altri versi di lui ritornano in mente dal suo Paradiso. Rimormoriamo senza avvedercene motivi tra i più torturati e torturanti, di desiderio, di delirio, di dolcezza, di disperazione, dell'ultimo Mozart. Ricorrono sul labbro parole indicibili di Santi: «E udii parole ... »[6].

Sorge nel cuore, come si leva un vento nella notte, sorge un desiderio, che dico un desiderio? È un sentimento, quasi una sensazione, di Dio presente. E ci si domanda dove siamo, che cosa succede: fosse passata la morte, e noi già nella Vita? Tu, Maria, donna come sono donne le nostre figlie, donna come sono donne le nostre madri, dacci tu ancora una volta Gesù, ora come allora, e come ora sempre: tu, figlia nostra e di Dio, madre di Dio e nostra. La gioia è soltanto Gesù. Questo miracolo vogliamo.

Note:
[1]Matteo, XXIV, 12.
[2]Matteo, XVII,3.
[3]Marco, XV, 34.
[4]Giovanni, II, 3
[5]Purgatorio, XXVIII, 7.
[6]II Corinzi, XII, 4.
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