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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 87, December 2001

 

Chiesa, Europa e Migrazioni

Intervento al IV Meeting Internazionale di Loreto sul tema:
“Europa dialogo tra le culture, una sfida”

(Loreto, 23-29 luglio 2001)

S. E. Mons.Stephen Fumio HAMAO
Presidente del Pontificio Consiglio

Introduzione

Il fenomeno delle migrazioni ha sempre accompagnato la storia dell’umanità, ma negli ultimi decenni ha assunto dimensioni quasi universali e significati sempre più complessi. Ogni continente e tutti i Governi sono stati chiamati a confrontarsi con esso e con i nuovi aspetti che nel nostro tempo lo accompagnano. Motivazioni e cause sono stati oggetti di innumerevoli studi e convegni, che riescono spesso a constatare e documentare soprattutto la drammaticità dei modi in cui molte migrazioni avvengono, senza però poterne diminuire il costo umano e sociale.

Su questo piano intende porsi invece il vostro Convegno, che, facendo eco al Messaggio del Papa in occasione della Giornata della Pace di quest’anno, ci ripresenta la sfida del dialogo tra le culture, che le migrazioni in un momento storico di ricomposizione - economica, politica, culturale - dell’Europa, ci ripropongono.

Mi pare significativo il fatto che io, che vi parlo, provengo da un Paese, il Giappone, distante mille miglia dai problemi dell’Europa di oggi. A questi stessi problemi è vicina invece la Chiesa di cui in questo momento pure mi sento il rappresentante, e di cui vorrei trasmettervi oggi il messaggio universale che la stessa Chiesa annuncia al mondo.

Sono grato agli organizzatori di questo Convegno per l’invito che mi hanno rivolto e che ho accettato volentieri, sia per i legami di reciproca stima e amicizia che mi legano alla Congregazione scalabriniana, sia perché mi offre la possibilità di rendere omaggio al Beato Scalabrini, al quale la Chiesa tutta è debitrice di intuizioni pastorali particolarmente attuali e importanti: l’attenzione alla cultura dei migranti, la “provvidenzialità” delle migrazioni in vista della costruzione del Regno, il concetto di comunione pentecostale delle diversità.

Questo carisma scalabriniano è un dono prezioso per tutta la Chiesa e per l’umanità e risulta quanto mai attuale per il mondo d’oggi in cui le migrazioni hanno assunto una dimensione planetaria.

La Chiesa ha preso coscienza di questa presenza e sta operando una vasta riflessione, alla ricerca di nuove forme pastorali per le quali il nostro Pontificio Consiglio è direttamente interessato. Tuttora ci troviamo impegnati e stiamo preparando la rievocazione dell’Exsul Familia, di cui l’anno venturo ricorre il cinquantesimo anniversario e la rielaborazione degli aspetti sociologici, biblico-teologali e la normativa canonica della Pastoralis Migratorum Cura, a distanza di più di trent’anni dalla sua emanazione, per la revisione della quale oso chiedere la collaborazione di quanti, tra voi, vorranno mettere a disposizione studi e ricerche che hanno condotto in merito.

Europa e moneta unica

Le migrazioni odierne hanno trasformato, di fatto, le nazioni europee in società multietniche, multiculturali e plurireligiose ma, oggi come non mai, sono soggette a rigidi dettati economici.

“L’Europa non è solo moneta unica - ha affermato Zamagni, Presidente del ICMC di Ginevra - essa è chiamata a sottolineare la centralità dell’uomo, il cui valore la Chiesa ha sempre difeso”.

 Una delle conseguenze del processo di unità politica ed economica verso la quale l’Europa è avviata sarà la maggiore circolazione in un mercato allargato, non solo di merci e beni, ma anche di lavoratori, cioè di persone.

Le questioni legate alle migrazioni internazionali sono all’ordine del giorno delle politiche nazionali. Resta però l’impressione che tali fenomeni non siano colti nella loro complessità. I politici e i media concentrano la loro attenzione solo su una delle due facce della medaglia, quella delle politiche e dei meccanismi per controllare i flussi migratori, e sottovalutano l’altra, quella dei processi di integrazione degli immigrati già insediatisi nelle società di accoglienza, men che meno quella dell’integrazione religiosa nelle chiese locali.

Inoltre, quando il tema dell’immigrazione occupa la scena dei mass media, emerge quasi sempre la tendenza ad evidenziare gli aspetti più drammatici della presenza degli immigrati: la criminalità, la prostituzione, il terrorismo politico, la povertà e le conseguenti reazioni sociali violente e xenofobe. Lo scippo di un extracomunitario fa “mediaticamente” più notizia dei diciotto milioni di immigrati in Europa, coinvolti in un processo di inserimento complesso, silenzioso e pacifico. Si ignora cioè la dimensione quotidiana dell’integrazione, meno visibile, ma certamente più rilevante a livello di impatto sociale, culturale e religioso.

Dopo alcuni decenni di emigrazione in Europa si considera ancora l’immigrato come un lavoratore per il quale l’integrazione è utile, ma non certo necessaria. Egli non deve in definitiva che vendere la propria forza lavoro durante un certo periodo, per ritornare nel proprio paese quando questa forza si sarà esaurita o il lavoro non sarà più disponibile. Una situazione, questa, sanzionata dal blocco unilaterale dell’immigrazione deciso dall’Europa occidentale nel quadro dell’accordo di Schengen e del “terzo pilastro” dell’accordo di Maastricht.

La presenza in Europa di diciotto milioni di immigrati sta a dimostrare che, al di là delle frontiere nazionali, esiste una forza che spezza i confini naturali, che sradica gli uomini e li inserisce in un processo che ha come unico obiettivo la produzione: un sistema complesso e sempre più articolato che considera l’uomo come una funzione puramente produttiva: lo tratta con attenzione ma sempre sulla base di quel fine unico che è il profitto.

A livello del grande capitale, dunque, l’emigrazione è una operazione perfettamente riuscita. E, per un certo verso, il discorso finisce qui; esattamente dove comincia l’altro, quello sulle conseguenze di cui sul piano personale è vittima l’emigrato. Posto in una situazione di impossibilità di crescita come cittadino, l’emigrante è costretto a puntare esclusivamente sul guadagno, cercando un compenso di tipo economico: il denaro diventa così il valore assoluto cui sacrificare tutto il resto. Privilegiare infatti le attese di tipo economico significa spesso compromettere, a volte in modo irreparabile, la propria formazione umana, sociale, professionale, religiosa.

A questa sfida è necessario che i cristiani rispondano in modo deciso , convinto e coordinato, ponendo fine al buonismo o all’ottimismo illuministico. L’immigrazione non si affronta con un semplice approccio episodico delle buone azioni, peraltro sempre utili, ma che sono solo l’inizio di un intervento progettuale. La visione semplicistica dei problemi deve lasciare spazio alla visione complessiva di tutte le esperienze umane che sono coinvolte nel confronto, dialogo, contrapposizione, scambio tra popolazioni diverse. Lo sviluppo di un approccio culturale, normativo, interreligioso è assolutamente necessario ed esige la convergenza di molteplici competenze. La comunità cristiana non può isolarsi né continuare a fare supplenza.

Le migrazioni in Europa

Le migrazioni sono inscritte anche nell’ordine del giorno delle sfide che confrontano la Chiesa nell’Europa del post-comunismo. Sono la punta dell’iceberg che rivela i grandi problemi con cui oggi la società deve fare i conti. Non si può più infatti parlare di migrazioni senza trattare nello stesso tempo sia delle cause alla radice dei movimenti attuali di popolazione sia delle conseguenze sociali che esse comportano. Si tratta di una lista che ci intimorisce e richiede interventi urgenti: povertà estreme, squilibri demografici, nazionalismi esasperati, disoccupazione strutturale, interdipendenza economica, atteggiamenti di ostilità e violenza verso i profughi e gli stranieri in genere.

Nello scontro di emozioni e proposte che fervono nel dibattito pubblico nei paesi europei, la Chiesa non è indifferente. Il suo apporto alla ricerca di piste di soluzione per il problema delle migrazioni cammina su due rotaie: offre criteri etici di lettura del fenomeno e di intervento per un’azione politica equilibrata tra le esigenze della solidarietà e la difesa delle identità nazionali e di legittimo benessere.

Davanti alle migrazioni prende corpo una certa idea di Europa aperta al futuro, all’incontro con gli altri, meno preoccupata dell’invecchiamento demografico e più attenta alla sua memoria spirituale e culturale.

Spesso controcorrente rispetto alle politiche di molti Stati europei, diversi vescovi o conferenze episcopali e vari organismi cattolici per le migrazioni si sono pronunciati a proposito del problema dei rifugiati, migranti e richiedenti asilo. Il movente è la costruzione del progetto Europa nella salvaguardia dei valori evangelici dell’accoglienza, dell’attenzione ai più deboli e nella prospettiva di apertura a tutta la famiglia umana.

L’Unione europea si propone l’obiettivo politico di bloccare l’accesso al suo territorio. Ma l’economia dell’Europa e il suo invecchiamento contraddicono tale programmazione: essa avrà sempre più bisogno di lavoratori stranieri. All’incontro di Atene (novembre 1993) dei Ministri responsabili per le migrazioni della Comunità Europea, la Delegazione della Santa Sede ha proposto un cammino più rispettoso dell’uomo migrante: dato che l’immigrazione continuerà, è opportuno sviluppare una politica esplicita e concertata e programmare un numero adeguato di nuovi ingressi. Gli immigrati non verranno visti come il capro espiatorio per altri problemi sociali né come una minaccia alla sicurezza. Nella crescente interdipendenza della vita moderna, le migrazioni ne sono il processo normale che può favorire lo sviluppo e la cooperazione tra paesi di partenza e di arrivo. Una amministrazione ordinata delle migrazioni è il primo passo per prevenire intolleranza e xenofobia da una parte, e, dall’altra, per trasformare le migrazioni in fattore di sviluppo delle società di provenienza (basti pensare che l’anno scorso ben cento miliardi di dollari furono rimessi dagli emigrati ai loro paesi di origine).

La risposta della Chiesa

A più riprese la Santa Sede, anche tramite il Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, ha chiaramente prospettato la soluzione di situazioni di necessità nei paesi poveri attraverso l’apertura dei mercati, l’abolizione del commercio delle armi, una gestione più equa del debito internazionale, la promozione di governi democratici, per dare il diritto a non emigrare e a “trovare nei propri paesi pane, lavoro e rispetto della propria dignità”. Questi punti programmatici costituiscono i capisaldi dell’attuale e futura attività del Pontificio Consiglio che ho l’onore di presiedere.

Non è certo, questo, né il luogo né l’occasione più adatta, per esporre un elenco dettagliato delle iniziative e attività del nostro Dicastero. Vi confesso, semplicemente, di ritenermi fortunato del dono che il Santo Padre ha voluto farmi, affidandomi la responsabilità di un Pontificio Consiglio che mi si rivela sempre più come un osservatorio privilegiato della vita della Chiesa, filtrata dalle vicissitudini del fenomeno delle migrazioni odierne.

Posso contare sul contributo di collaboratori attenti ai più svariati aspetti e categorie di persone coinvolte nella mobilità umana: migranti, rifugiati, nomadi, turisti, gente del mare e dell’aria, circensi, studenti esteri.

Dal Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa ci è stato richiesto - e abbiamo nominato - un “osservatore” che funga da tramite tra le due istituzioni.

Da trent’anni ormai il Dicastero cura l’edizione di una Rivista (“On the move”) sui più importanti e attuali problemi, ricerche, dibattiti sul problema della mobilità umana.

Dalla Segreteria di Stato della Santa Sede riceviamo regolarmente i resoconti sulla pastorale migratoria che le Conferenze Episcopali presentano al Santo Padre in occasione delle visite ad limina.

 Presso il nostro Dicastero si svolgono regolari incontri con i membri delle suddette Conferenze Episcopali, che ci assicurano una lettura aggiornata della situazione sociale, politica, culturale e religiosa dei rispettivi Paesi.

Un nostro rappresentante partecipa regolarmente agli incontri organizzati dagli altri Dicasteri della Santa Sede, e ci tiene informati dei problemi emersi.

Nei limiti delle nostre possibilità (di tempo e di disponibilità finanziarie) i responsabili di settore partecipano (e non raramente organizzano) convegni e incontri internazionali su temi e problemi di loro competenza.

Incontri periodici si svolgono infine presso il nostro Dicastero con i rappresentanti delle più svariate istituzioni: ambasciatori, consoli, deputati, consiglieri di ambasciate, studiosi, superiori di congregazioni religiose, operatori sociali e culturali, studenti, membri di commissioni o istituzioni governative, sindacali, assistenziali che si occupano di problemi migratori.

La mia esperienza ormai triennale presso il Pontificio Consiglio mi ha consentito di constatare che forse mai come oggi il fenomeno migratorio scandisce, a livello mondiale, l’evoluzione economica, sociale, culturale, religiosa che caratterizza il momento storico che stiamo vivendo nella comunità civile ed ecclesiale.

L’evoluzione del fenomeno migratorio ha assunto un corso differenziato nei vari Paesi europei, sia per ragioni storiche legate al colonialismo, sia per la ricostruzione nel dopoguerra e il ritmo dei cambiamenti demografici.

La risposta della Chiesa però mostra una singolare convergenza di strategie e di contenuti. Il punto di partenza è l’affermazione dell’uguaglianza tra le persone (al di là della razza, della lingua e dell’origine) e dell’unità della famiglia umana. Il legame tra migranti e le cause del loro esodo è richiamato in questo contesto. Partendo dal ricco patrimonio dottrinale accumulato attraverso una secolare riflessione di fede e di esperienza, le Chiese locali sono intervenute a denunciare abusi, proporre soluzioni e dialogare con tutte le forze sociali per affrontare i problemi aperti.

Anche il tema dell’integrazione sociale e culturale dell’immigrato ritorna con frequenza.

Per il Card. Hume, vescovo di Londra, la presenza di larghe minoranze etniche nelle città europee offre l’opportunità di combattere i nazionalismi e “potrebbe aiutare un numero maggiore di persone a vedere la loro identità comune nell’appartenenza alla stessa comunità, più che esclusivamente in una origine comune etnica, religiosa o sociale. Questo, aggiunge il Vescovo, aiuterà le società europee a promuovere un’idea di cittadinanza che non è fondata su una discendenza puramente etnica o sociale”.

Il Card. Martini ricorda che il continente europeo ha saputo armonicamente integrare il patrimonio della cultura dei popoli greci e latini con quello dei popoli germanici, celti e slavi. “Oggi, afferma il Cardinale, è chiesto all’Europa, attingendo ancora una volta alle sue radici, di saper accogliere altre culture e altre tradizioni in un processo prudente ed equilibrato di apertura e di integrazione nei confronti di tutti coloro che chiedono ospitalità. Perché si abbia una società multirazziale integrata, conclude Martini, occorre assicurare l’accettazione e la possibilità di assimilazione di un nucleo minimo di valori che costituiscono la base di una cultura mondiale, come i principi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo”.

Centralità dell’uomo

A questo riguardo è necessario collocare i diritti e la centralità della persona entro i diritti delle culture, delle società e delle etnie.

L’uomo è sempre stato al centro dell’attenzione della Chiesa. L’anno scorso, in occasione del Giubileo dei migranti, è stata resa pubblica la “Carta giubilare dei diritti dei profughi” elaborata dal Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti in collaborazione con l’ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e il CIR (Consiglio Italiano per i Rifugiati) in cui, tra l’altro si afferma che “la protezione non è una concessione che si fa al rifugiato e al migrante: egli non è un oggetto di assistenza, ma piuttosto un soggetto di diritti e di doveri”.

“Al centro dei fenomeni di mobilità - ha affermato il Papa in quella occasione - sia posto sempre l’uomo e il rispetto dei suoi diritti”.

La centralità dell’uomo richiede priorità e precisi criteri di intervento, di cui mi sia consentito qui di ricordare i più importanti e fondamentali.

a. Dobbiamo fare giustizia partendo dagli ultimi, che sono le vittime di un processo e di uno sviluppo in buona parte sfuggiti di mano all’uomo e che quindi va per suo conto inseguendo unicamente profitto e produzione e lasciando ai margini i meno favoriti: oggi la donna e i giovani in genere non sono valutati e rimangono spesso disoccupati; la famiglia è sempre più aggredita e sfruttata invece di essere sostenuta e favorita; la scolarizzazione, come luogo formativo e fonte di dignità e libertà, viene spesso confusa, sovvertita, mascherata sotto le esigenze dell’interesse economico e politico; i pensionati sono condannati a parcheggi immeritati e indecorosi; e tanti operai si ritrovano senza lavoro per colpa del nostro sistema economico, quando non da questi generato. Il Papa parla di “strutture di peccato”: queste devono essere completamente smontate anche per motivazioni teologiche, cioè per amore di quel Dio che si è confuso nella storia dell’uomo.

b. Siamo chiamati ad assicurare un progresso effettivo promuovendo e orientando il mondo della produzione, dove occorre un ordinato concorso di tutti. La chiesa ha sempre sottolineato e perseguito il primato dell’uomo sul lavoro, il primato del lavoro sul capitale e sui mezzi di produzione, il primato della destinazione universale dei beni sulla proprietà privata. Altrimenti sfruttamento, accumulazione dei beni, abbrutimento morale sono il misero sbocco delle nostre società. Dobbiamo affermarlo con chiarezza e vigore in previsione dell’allargamento e integrazione dell’Europa, dove i trecento milioni di persone invece di costituire una comunità di uomini, sarebbero soltanto un esercito di consumatori. Ma lo deve aver presente anche l’Italia che deve rendere giustizia ai milioni di emigrati in tutto il mondo ed ora alle centinaia di migliaia di immigrati provenienti soprattutto da paesi afroasiatici.

c. Un cenno particolare merita il problema “immigrazione-illegalità”. C’è ancora molto lavoro da compiere nella coscienza della comunità cristiana per far comprendere che l’immigrato (anche quello irregolare) non si identifica con il criminale, anzi quasi sempre egli è vittima della criminalità. Illegalità e criminalità non sono affatto sinonimi. Le strutture pubbliche negano ospitalità a chi è illegale e quando la presenza illegale è protratta nel tempo subentra il rischio che egli entri davvero nel circuito della criminalità. La comunità cristiana non può non interessarsi di queste persone che sono tra le più indifese. Il criterio del cristiano non è il “politicamente corretto”: egli deve essere disposto anche a pagare per la carità che opera. L’ultima parola in merito non l’hanno le leggi dello stato ma la coscienza del cristiano, non disgiunta ovviamente dal dialogo con le istituzioni e la forza della democrazia che spinge ad allentare burocrazie assurde e a fare leggi più degne della persona.

d. Siamo chiamati a migliorare lo spessore di umanità sostenendo, favorendo e rinnovando il mondo della cultura e della scuola con le sue molte ramificazioni. La conoscenza dei vari gruppi etnici e delle loro culture è diventato un passo obbligato che va inserito nei programmi educativi scolastici e catechistici entro una coscientizzazione delle proprie radici culturali. La scuola ha bisogno, oggi più di ieri, di una revisione radicale per i nuovi traguardi di mobilità, di relazioni, di pace verso cui camminiamo. Occorre cioè sempre più de-nazionalizzarla, rivisitando le storie nazionali, passando attraverso la omologazione di cicli e programmi scolastici. Gli strumenti di partecipazione scolastica vivono momenti di stanca e di delusione. E’ inutile ripetere che sono problemi difficili, perché lo sappiamo tutti; ma sarebbe grave se lo si dicesse per non fare nulla.

e. Occorre insistere infine sulla formazione, soprattutto dei giovani ma anche dei leader nei diversi campi, altrimenti non saremo in grado di costruire il futuro.

La vera “novità” non sta nel riuscire ad “avere di più” ma nel saper “essere diversi”: ciò significa - soprattutto ma non solamente - una concezione del potere (politico, economico, sindacale, religioso) come servizio e non come possesso e l’attenzione al bene comune che deve prevalere sui beni privati - personali o collettivi che siano - e deve rendere capaci di saper rinunciare tutti a qualcosa perché tutti si stia meglio.

L’Apertura e accoglienza

Il mondo odierno corre veloce e non dà attimi di respiro. Le parole magiche sembrano essere “globalizzazione” e “mondalizzazione”: coinvolgono l’economia ma anche la dimensione sociale, culturale, spirituale. Le password che cadenzano la vita quotidiana del nuovo millennio sono profitto, conorrenza, competizione. E guai a chi non sta al passo! Tanto peggio per i deboli, i poveri, i piccoli, gli insignificanti; tanto peggio per i paesi poveri i cui abitanti continuano a soffrire tanto da doversi spingere verso le coste del benessere a rischio della vita.

E allora crescono i muri: tanti Paesi sottolineano le differenze, isolano o ignorano quel che accade al di fuori dei propri confini. Diventa così facile “vedere e passare oltre”. Il vivere insieme e il bene comune vedono venire meno l’impegno e la responsabilità: ci si sente impotenti a risolvere i problemi enormi della disoccupazione, della lotta alla violenza e alla delinquenza e del ristabilimento della giustizia e di una vera solidarietà mondiale. Tanto più che i centri di decisione sono altrove e il fossato cresce tra chi decide e chi ne subisce le conseguenze.

Anche tante comunità cristiane, pur vitali al loro interno, hanno difficoltà a dialogare tra loro e con il mondo esterno. Comunità vivaci, ma in difesa; generose più nel dare delle cose che nell’accogliere le persone; animate più dal risparmio e interesse personale che dalla generosità del buon samaritano.

L’urgenza di oggi e il segreto del futuro stanno nel dialogo tra persone, comunità, popoli, culture, etnie perché la chiusura o l’intolleranza nascono dall’idolatria di se stessi, del proprio gruppo, della propria parte.

L’accoglienza non è che il primo passo di un incontro autentico, la difficile, e mai esaurita, arte di coniugare insieme persone e gruppi, di articolare identità, complementarità, corresponsabilità e creatività, di passare dalla multiculturalità all’interculturalità, di vivere reciprocità e fecondità. Non serve occultare difficoltà , frizioni e incompatibilità; dobbiamo conciliare simpatia, stima, lucidità, confronto, reciproca trasformazione e promozione dei valori comuni. Non l’uno sopra, contro o senza l’altro, ma insieme per una società nuova.

L’allargamento d’orizzonti non è condizionato dall’utilità, la condivisione non è dettata dalla sovrabbondanza, l’accoglienza non deve essere l’impegno di pochi: sono scelte di società e di chiesa. A queste devono contribuire l’educazione permanente, l’opera dei mass media, l’impegno della politica e la missione della chiesa.

La comunità cristiana, in particolare la parrocchia territoriale rocorda il Papa nel messaggio per la Giornata delle migrazioni del 1999 è luogo di incontro, di partecipazione, di convivialità e di riconoscimento reciproco.

La parrocchia, per molti immigrati, è la chiesa che dispiega il volto della sua umanità; è il luogo in cui si stabiliscono relazioni semplici ma vere, con le contraddizioni tipiche della vita umana, ma anche gli slanci di una adesione quotidiana al progetto di Dio. E’ un tessuto vivo di esperienze, il luogo in cui si dispiegano risonanze impensabili, uno spazio educativo concreto, un crocevia di varia umanità, il luogo dell’ascolto della Parola, della richiesta di perdono, della celebrazione della gioia.

Essa deve divenire per le persone immigrate segno di uguaglianza fraterna e di speranza aprendosi all’accoglienza, ridimensionando le difficoltà e gli inconvenienti, riconoscendo il bisogno e la sofferenza, andando oltre l’aiuto materiale e l’emergenza, promuovendo una migliore giustizia, valorizzando le ricchezze culturali e spirituali delle persone e dei gruppi culturalmente diversi, offrendo loro luoghi e mezzi per coltivarle e immetterle nelle comunità, rendendo corresponsabili chi condivide la fede cattolica, creando un mondo che accolga tutto l’uomo e tutti gli uomini. 

Questo concretamente si deve tradurre in una formazione di cristiani preparati ad affrontare le nuove situazioni con competenza spirituale e sociale, e nella crescita di un minimo di responsabilità di tutta la comunità.

L’accoglienza al fratello, all’insignificante, apre alla fecondità, fa scoprire la signoria di Dio e orienta, da strade diverse, all’unico Padre.

Conclusione

“Depositaria di un messaggio salvifico e universale ha affermato il Papa durante il Giubileo dei migranti - la Chiesa avverte come suo compito primario quello di proclamare il Vangelo ad ogni uomo e a tutti i popoli. Da quando Cristo risorto inviò gli apostoli ad annunciare il Vangelo fino agli estremi confini della terra, i suoi orizzonti sono quelli del mondo intero. Lo scenario multietnico, multiculturale e multireligioso del Mediterraneo fu quello in cui i primi cristiani incominciarono a riconoscersi e a vivere come fratelli in quanto figli di Dio. Oggi, conclude il Papa, non è più solo il Mediterraneo che si apre alle complesse dinamiche di una fratellanza universale”.

La Chiesa dunque è chiamata a riscoprire e vivere in profondità la dimensione della cattolicità, che, nel suo significato più ampio e più profondo, è la capacità del Vangelo di realizzare una comunione universale, un’unità senza alcun tipo di frontiera geografica, storica e culturale, in modo che le differenze non siano cancellate, ma piuttosto si realizzino nella loro identità.

In questa nostra epoca di “mobilitazione universale”, grazie anche ai fenomeni migratori, la cattolicità è chiamata a realizzare una grande serie di iniziative, dei veri e propri “laboratori” dove si mostri che le diversità non solo possono convivere, ma diventare un dono le une per le altre in una creazione comune.

Personalmente ritengo che l’approfondimento della cattolicità, il processo di riconciliazione tra i cristiani, l’incontro con le altre religioni, siano gli elementi più stimolanti che le migrazioni oggi pongono alle Chiese e gli apporti più importanti che le Chiese, a loro volta, possono dare alla costruzione europea.

Il processo di integrazione, oggi avviato in Europa, si trova di fronte a grandi sfide , come le riforme istituzionali, l’allargamento dell’Unione europea, la Carta dei diritti fondamentali della stessa Unione europea, le migrazioni, e per realizzare questi obiettivi, ha sempre più bisogno di persone che credono alla famiglia dei popoli, alla riconciliazione tra le culture, alla comunione. Senza questa “ anima” culturale-spirituale, le istituzioni rischiano di diventare strutture vuote, disabitate dalle persone reali.

L’Europa deve riscoprire la propria “vocazione”. Questa impresa non è concepibile prescindendo dalla propria memoria storica. E nella memoria dell’Europa vi è l’impronta costante del cristianesimo e di un incontro tra il cristianesimo e le varie culture. Direi che l’Europa ha ancora oggi una vocazione culturale.

Parliamo di Europa, ma i nostri orizzonti di pensiero dovranno dilatarsi sia nel tempo sia nello spazio. Il nostro continente non è più concepibile senza lo sguardo rivolto al mondo intero, e in particolare al sud della terra, e senza pensare alle tendenze che saranno decisive per la storia futura.

Cristianesimo, Chiesa cattolica ed Europa. L’Europa sa di avere nel Cristianesimo una sorgente per quella visione dell’uomo e per quei valori che le sono indispensabili per il suo futuro, e sa di avere nella Chiesa Cattolica e nelle altre Chiese delle protagoniste nel suo processo di integrazione.

La Chiesa cattolica che è in Europa da una parte sente con forza i problemi sociali, economici e politici e quindi vive con molto interesse il processo di integrazione europea, dall’altra tuttavia, sa che l’immersione nella storia non deve far dimenticare che il suo compito trascende anche ogni concreta realizzazione storica e culturale.

La Chiesa ha il suo senso profondo in quanto è lo spazio dove il Cristo continua ad essere presente fra noi e, attraverso noi, lavora lungo la storia per una “integrazione” sempre più vasta, che si chiama unità del mondo.

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