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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 87, December 2001

 

Migrazioni e Dialogo Interreligioso[1]

Rev. P. Angelo NEGRINI, C.S.
Officiale del Pontificio Consiglio 
della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti 

Ci troviamo in una situazione “apocalittica” della storia. Questa apocalisse, questo “disvelamento”, ci ha rivelato, per ora, almeno una realtà terribile: una ferocia massimamente visibile scatenata da un terrorismo massimamente invisibile, che ha “rivelato” l’impotenza della massima potenza del mondo. Molti temono di trovarsi di fronte a una infinita spirale di terrorismo, di ritorsioni e di ricatti.

Dopo la caduta del muro di Berlino, ci siamo chiesti: “Ed ora, lo squilibrio del mondo si è trasformato in una pura strategia politica, risolvibile a tavolino?” L’11 settembre ci ha detto che no, tale squilibrio è molto più spaventoso e radicale: i fatti di New York ci hanno rivelato l’incapacità della società di oggi di controllare le pulsioni distruttive che essa stessa produce e ha introdotto nel mondo. 

Il rigurgito religioso che tali fatti ha provocato in molti cristiani (“Solo Dio ci può salvare!”) potrebbe significare, il tentativo di scaricare su Dio la responsabilità di ricomporre la pace là dove noi abbiamo portato la guerra, dopo che noi abbiamo fatto di tutto per sbrigarcela da soli. E potrebbe significare anche un’ipotesi ancora più tragica: che non intendiamo affatto cambiare l’ordine del mondo, l’equilibrio del mondo che noi abbiamo costruito. 

L’unica “ricomposizione” della pace è possibile solo attraverso il dialogo. La ferocia dei terroristi, prima della nostra condanna, richiede da parte nostra una analisi rigorosa della matrice teologica (se questa, per loro, si chiama “guerra santa”) per quanto spuria e ideologizzata. Condannare e demonizzare tutto il mondo islamico, oltre che una ingiustizia, ci impedirebbe di comprendere la specificità assoluta di questo crimine e obbligherebbe gli islamici a un confuso sentimento di autodifesa e di rivalsa senza fine.  

Se “globalizzazione” è il termine che, più di ogni altro, connota sempre più il cambiamento del momento storico che stiamo vivendo, anche la parola “dialogo” è destinata a caratterizzare il nuovo atteggiamento mentale che tutti siamo chiamati a instaurare per un nuovo equilibrio del mondo d’oggi. 

La maggior parte dei fenomeni e processi sociali, economici e culturali presenta oggi una dimensione e una portata transnazionale che travalica i confini territoriali in cui tradizionalmente i fatti avevano la loro sfera di incidenza: la globalizzazione, da alcuni anni a questa parte, è un macrofenomeno che si è posto al centro dell’attenzione di molteplici discipline. 

Per molti versi, connesso con il fenomeno della mondializzazione, è un altro grande tema del nostro tempo: l’emigrazione, che si pone come evento speculare al processo della globalizzazione. La mondializzazione ha spalancato i mercati ma non le frontiere, ha abbattuto i confini dell’informazione, dei capitali e della proprietà, ma non i confini delle persone e delle nazioni. Centocinquanta milioni di persone vivono oggi in Paesi con cultura, lingua e religione diversa dalla loro. L’integrazione sul piano sociale, e l’interazione su quello culturale e religioso, sono diventate oggi il necessario presupposto per una pacifica convivenza tra la popolazione autoctona di una nazione e i vari gruppi etnici che vi risiedono. “E’ il dialogo, afferma il Messaggio, la via maestra da percorrere e su questa strada la Chiesa invita a camminare per passare dalla diffidenza al rispetto, dal rifiuto all’accoglienza”. 

Un dialogo inteso necessariamente non tanto come ricerca di punti dottrinali comuni, ma come stimolo reciproco a recuperare tutte le dimensioni umane all’interno delle rispettive religioni: la preghiera e il digiuno, la vocazione fondamentale dell’uomo, l’apertura al trascendente, la solidarietà tra le nazioni. Tutte e tre le grandi religioni abramitiche (le cosiddette “religioni del libro”: la Torah per gli ebrei, il Vangelo per i cristiani, il Corano per i musulmani) si rifanno alla fede soprannaturale, parlano di shalom, cioè di armonia con se stessi, con gli altri, con la natura e con Dio; di rispetto reciproco della diversità nella comune sottomissione a Dio; del “perdersi per ritrovarsi”, assumendo l’amore come legge di vita. Per i cristiani il dialogo diventa quasi il “costitutivo formale” della nostra fede in Cristo.

La grande novità del Messaggio della prossima Giornata penso che sia proprio il superamento di una visione “ideologica” della fede, di una dialettica teologica, per approdare a un dialogo concepito soprattutto come dono esterno, pratico, operativo della carità.

Il problema non si pone tanto nei confronti degli ebrei (oggi quasi “invisibili” nelle nazioni di immigrazione) che dal Papa sono stati definiti “ nostri fratelli maggiori”.

Si pone invece, sempre più urgentemente, nei confronti dei musulmani, sempre più numerosi nei paesi industrializzati: verso di essi il dialogo deve tradursi non tanto in un confronto dottrinale, quanto in una testimonianza della nostra fede, vissuta nella carità e nella verità e per questo incarnata nella vita quotidiana. 

Il Papa è convinto che la presenza musulmana nella nostra società sia un fatto caratteristico da interpretare e al quale rispondere con una vita cristiana conforme ai dettati del Vangelo. 

In occasione della sua prima visita in Germania, Giovanni Paolo II affermò: “Dobbiamo vedere nell’immigrato non solo un puro prestatore di manodopera, ma anche l’uomo con la sua dignità e il suo diritto, con la sua preoccupazione per la famiglia, con la sua esigenza di essere preso seriamente in tutti i settori della sua vita. (...) Ciascuno esamini il proprio atteggiamento nei confronti dello straniero che gli è vicino e si renda conto in coscienza se abbia già scoperto in lui l’uomo con la stessa aspirazione di pace e libertà, di tranquillità e di sicurezza, la cui soddisfazione esigiamo per noi stessi come cosa del tutto normale”. E rivolgendosi ai musulmani: “Se avete portato con cuore sincero la vostra fede in Dio in un paese straniero e se qui pregate Dio come vostro Creatore e Signore, appartenete anche voi alla grande schiera di pellegrini che già dal tempo di Abramo si sono messi in cammino per cercare il vero Dio. La vostra preghiera pubblica è per tutti i cristiani un esempio degno del massimo rispetto. Vivete la vostra fede anche in un paese straniero e non permettete che alcun interesse umano o politico usi violenza su di voi”. Queste parole incoraggiano cristiani e musulmani ad abbattere i pregiudizi, li spingono a costruire una vita comune basata sul rispetto e sull’amicizia e a ricercare un cammino verso la giustizia sociale, la pace e la libertà; invitano infine al rispetto reciproco delle convinzioni religiose e delle differenti pratiche della fede. 

Nella vita di tutti i giorni infatti cristiani autoctoni e musulmani emigrati vivono gli uni accanto agli altri, abitano porta a porta nello stesso edificio, lavorano nello stesso posto, i loro bambini frequentano la stessa scuola materna o la stessa classe scolastica, ogni giorno si incontrano per strada. E’ importante che la vita vissuta degli uni accanto agli altri si trasformi in una vera e propria convivenza.  

Un primo passo in questa direzione è il contatto umano nelle sue diverse forme: il saluto cordiale sulle scale di casa, il domandarsi come va, un comportamento amichevole sul posto di lavoro, un giusto trattamento degli stranieri alla ricerca di un appartamento o nella remunerazione del loro lavoro. Il rispetto della loro dignità, il riconoscimento della loro identità culturale e religiosa richiedono l’interesse per il loro mondo, una informazione approfondita sul loro paese di origine, sulle difficoltà che incontrano tra di noi, sulle loro abitudini mentali, sul diverso stile di vita, sulle differenti tradizioni e convinzioni religiose. Senza informazione non esiste comprensione; senza comunicazione non esiste vita in comune. Solo quando si cerca un punto di incontro si scopre che le differenze culturali e religiose non devono necessariamente portare a conflitti e separazioni ma a veri rapporti umani. Individualmente e collettivamente si tratta di percorrere vie nuove per ottenere cambiamenti in campo politico, culturale e religioso. 

Già l’invito ad una festa di compleanno da parte dei vicini di casa o dei colleghi di lavoro rappresenta, dal punto di vista dei rapporti umani, un segno di stima e di rispetto; la conoscenza delle feste musulmane offre la possibilità di porgere gli auguri ed eventualmente di essere invitati a tali celebrazioni. Purtroppo sui nostri calendari non sono ancora indicate tali feste, come pure quelle di altre religioni. Mi pare urgente che i mass media, anche quelli della Chiesa, forniscano in proposito informazioni aggiornate e dettagliate. 

Rispettandosi vicendevolmente e cercando un punto di incontro è possibile ricomporre conflitti e superare le tensioni trasformandole in uno scambio costruttivo. Sempre il Papa (in un incontro a Bruxelles con i musulmani nel maggio 1985): “Le circostanze attuali devono incitare tutti i credenti, cristiani e musulmani, a cercare di conoscersi meglio, a dialogare per trovare la maniera pacifica di vivere insieme e di arricchirsi reciprocamente. E’ bello conoscersi accettando le differenze, superare i pregiudizi nel rispetto reciproco, lavorare per la riconciliazione e il servizio ai più umili. E’ questo un dialogo fondamentale che tutti devono portare avanti nei quartieri, nei posti di lavoro, nella scuola. E’ il dialogo che si addice ai credenti che vivono insieme in una società moderna e pluralista”. 

L’immigrazione ci ha portato l’Islam in casa nostra: sta lì davanti a noi con le sue moschee, la sua altissima idea di Dio, il suo complesso di riti. Ci sollecita e ci provoca con il suo modo di intendere la vita, la preghiera, la società. Il confronto diventa inevitabile, come inevitabile diventa a questo punto il dialogo. 

Discussioni dottrinali e teologiche non approderanno verosimilmente a concreti risultati positivi. Non si insisterà mai abbastanza invece sull’arricchimento che il dialogo potrà apportare se si è capaci di lavorare fianco a fianco, mangiare insieme, sopportare con solidarietà gli stessi problemi e sofferenze, condividere gli stessi momenti di gioia. È in questa quotidiana condivisione dei valori più umili e più profondamente umani che cristiani e musulmani, potranno aiutarsi reciprocamente a rispondere alle domande essenziali sul mondo, sull’uomo e su Dio.

Ed è su questo piano che i cristiani sono chiamati a verificare l’originalità e l’autenticità della loro fede e a confrontarla, serenamente, con la fede degli altri.

Malgrado tutti i fallimenti del passato, dobbiamo sperare che l’incontro con l’islam si può vivere e realizzare in tantissime circostanze della nostra vita. Convinti che dialogare non significa annullare o annacquare la propria identità, ma anzi riconoscerla e possederla coscientemente, manifestarla con convinzione, senza timore di coloro che la pensano diversamente. Sono la mancanza di chiarezza e l’ambiguità a impedire, falsare e imbrogliare il dialogo, non una fede convinta. È l’incertezza o la scarsa convinzione che rende arroganti e fa del dialogo un’operazione puramente “politica”.

Il problema dell’incontro con l’islam, come del resto con tutte le altre religioni, diventa così un problema personale, un problema di formazione all’essere cristiani autentici, non per intraprendere altre crociate o guerre sante, ma per impostare un confronto sincero tra credenti adulti nella fede, convinti che il pluralismo non nasce certo dalla omologazione delle diverse verità di fede, men che meno da preconcetti sulle convinzioni altrui, ma dal confronto con esse. 

Il sentirsi uguali agli altri a livello umano e “identici” a noi stessi a livello cristiano, rimane ancora e sempre il più valido supporto per un vero incontro con qualsiasi “altro” , religiosamente diverso da noi.
Nota:

[1]Intervento alla Conferenza Stampa, organizzata in occasione della presentazione del Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale delle Migrazioni 2002, Città del Vaticano 18 ottobre 2001.

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