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Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People People on the Move - N° 88-89, April - December 2002 Con quali criteri si dovrebbe regolare l'immigrazione* S.E. Mons.Stephen Fumio HAMAO Presidente del Pontificio Consiglio [Spanish summary, English summary] Introduzione Vi sono molto grato di questo invito che ho accettato volentieri e che mi consente di portare anche il mio segno di stima e di riconoscenza verso la Caritas e voi tutti per quanto state facendo al servizio degli immigrati e per questo ciclo di incontri intesi a coscientizzare sempre più cristianamente, su questo problema, i fedeli della vostra comunità. Mi pare utile introdurmi con brevi cenni storici. A partire dall'Ottocento, lo sviluppo dell'industrializzazione ha costituito uno dei fatti più vistosi dei Paesi occidentali e ha determinato tutta una serie di fenomeni: l'inizio delle migrazioni interne e la nascita dei primi agglomerati urbani, lo sviluppo delle emigrazioni internazionali in Europa e di quelle transoceaniche, che hanno portato nel Nuovo Mondo una massa di decine di milioni di europei. Dopo la prima guerra mondiale si assiste a un periodo di politiche restrittive nei Paesi di tradizionale immigrazione. Con la fine della seconda guerra mondiale si apre un nuovo capitolo delle migrazioni internazionali e subito si è avvertito il bisogno di uomini per l'industria che stava rinascendo; si incentivò quindi la venuta di immigrati stranieri come manodopera temporanea e a basso prezzo. Manodopera dunque al servizio della congiuntura economica. Con la crisi degli anni Settanta, lo scenario mutò radicalmente: di lavoratori stranieri sembrava non se ne sentisse la necessità, ce n'erano anzi in eccesso. Venne stimolato il rimpatrio. Le legislazioni sull'immigrazione dei Paesi industrializzati cominciarono a farsi più rigide. Questo processo si acuì negli anni Ottanta, con l'ostacolare i permessi di residenza e di lavoro e con il porre restrizioni alla naturalizzazione degli stranieri. Verso la metà degli anni Ottanta, con una nuova fase di espansione economica, si ebbe una ripresa dei flussi migratori. I Paesi mediterranei, tradizionalmente Paesi di emigrazione, divennero anche Paesi di immigrazione. Come potete notare da questi brevi cenni, il fenomeno migratorio si è basato e si è snodato finora sul fragile equilibrio della domanda e offerta di lavoro, obbedendo a dettati economici ancor più fragili e provvisori, perché soggetti alle alterne contingenze economiche dei Paesi importatori di manodopera. Mi pare importante sottolineare questo fatto, perché è proprio da qui che noi cristiani siamo chiamati ad esaminare questo fenomeno e intervenire per assicurare un nostro specifico contributo nella soluzione dei problemi, umani oltre che spirituali, degli immigrati. La politica dei governi Attualmente (restringiamo la nostra attenzione ai Paesi europei) sono in preparazione abbozzi di risoluzioni per far rientrare in un quadro armonico le politiche nazionali dei Paesi della Comunità sull'ammissione di stranieri all'occupazione e sulla riunificazione familiare. Lo spirito di tali abbozzi è chiaramente restrittivo, anzi fortemente discriminatorio nei confronti dei lavoratori stranieri, presentando una decisa opzione per un modello di migrazione temporanea (Gastarbeiter, lavoratori ospiti, e pertanto provvisori), per il quale l'immigrato è fondamentalmente uno tra i vari fattori di produzione. Non si può certo negare agli Stati l'autorità sovrana nel definire lo statuto giuridico degli immigranti che essi accolgono. Tale esercizio però deve obbedire a due principi etici: primo, il rispetto della dignità della persona e dei gruppi umani, con il diritto che ne deriva all'identità collettiva; secondo, quello che concerne l'unità fondamentale del genere umano, il che presuppone che tutta l'umanità - al di sopra di ogni divisione etnica, nazionale, culturale e religiosa - formi una comunità senza discriminazioni tra i popoli, in vista di una solidarietà reciproca. Perché una normativa in materia di immigrazione soddisfi un minimo indispensabile di principi etici, dovrebbe assicurare i fondamentali diritti umani, in quanto garanzia della dignità della persona: il diritto alla vita e all'integrità fisica e morale; il diritto alla libertà personale e alla sicurezza; il diritto a scegliersi un coniuge, a sposarsi, a fondare una famiglia; il diritto a conservare lingua, cultura e tradizioni proprie; il diritto alla libertà di espressione, alla libertà di pensiero, di opinione, di coscienza, di religione. Per quanto si riferisce ai diritti del mondo del lavoro (salario, condizioni di lavoro, riposo settimanale, ferie, diritti sindacali, ecc.) e ai diritti sociali (pensione e disoccupazione, sanità, abitazione, protezione della famiglia) se gli immigrati contribuiscono al benessere della società di destinazione con il loro lavoro (normalmente un lavoro rifiutato dagli autoctoni) è ragionevole che abbiano pure accesso alla ricchezza che aiutano a produrre. Il diritto alla libera circolazione e alla scelta della residenza poi costituiscono (purtroppo molto spesso solo sulla carta) la pietra angolare del diritto di immigrazione. Gli Stati non sono obbligati da norme di diritto internazionale generale ad ammettere lo straniero nel loro territorio. Ogni Stato è libero di stabilire i requisiti di accesso e di permanenza nel suo territorio, e tra le sue competenze discrezionali si trova quella di proibire l'ingresso degli stranieri. La politica delle frontiere - si afferma - deve corrispondere alle necessità reali del mercato del lavoro. Ma, se si ammette l'immigrante perché l'economia nazionale ne ha bisogno, non si può poi liquidarlo accampando le necessità del mercato del lavoro in funzione della congiuntura economica, mediante la precarizzazione dei permessi di residenza, abbreviandone le scadenze od ostacolandone arbitrariamente il rinnovo. Nemmeno, come già accennato, si potrà discriminarlo quanto ai diritti sociali riguardanti il lavoro. Per questo, in determinati casi, si deve riconoscere all'immigrato un diritto di residenza permanente, che gli faciliti la piena integrazione, se questa è la sua scelta. Qui sta, a mio avviso, il vero nodo del problema. La presenza oggi di più di cento milioni di immigrati in tutto il mondo sta a dimostrare che, al di là delle frontiere nazionali, esiste una forza che spezza i confini naturali, che sradica gli uomini e li inserisce in un processo che ha come unico obiettivo la produzione; un sistema complesso e sempre più articolato che considera l'uomo come una funzione puramente produttiva: lo tratta con attenzione, ma sempre sulla base di quel fine unico che è il profitto. E' la forza anonima del cosiddetto "modello capitalistico di sviluppo", che detta e regola, ormai incontrastato, le leggi della nostra società. Si afferma in genere che l'emigrazione è un transfer di manodopera realizzato per ristabilire, come dicevo, l'equilibrio tra offerta e domanda di lavoro. Va però anche aggiunto che, una volta assunto un modello di sviluppo teso alla massima espansione industriale, lo squilibrio tra offerta e domanda di lavoro diventa un fenomeno strutturale, rendendo di conseguenza l'emigrazione una costante del sistema. E, per un certo verso, il discorso finisce qui: esattamente dove comincia l'altro, quello riguardante le conseguenze di cui, sul piano personale, è vittima l'emigrato. Posto in una situazione di impossibilità di crescita come cittadino, l'emigrato è costretto a puntare esclusivamente sul guadagno, cercando un compenso di tipo economico. Il denaro diventa così il valore assoluto cui sacrificare tutto il testo: la propria formazione umana, professionale, religiosa. Neppure a livello europeo, l'emigrazione ha avuto un significato rilevante, confermando tra l'altro l'impressione diffusa che l'Europa che sta nascendo sia, ancora una volta, l'Europa del capitale e dei mercanti, non quella dei lavoratori. Gli emigranti, liberi ormai di circolarvi come le merci, sarebbero pertanto gli antesignani di un'altra Europa: quella a cui si domanda fin d'ora di produrre e di consumare. Ci troviamo oggi in un momento particolarmente critico per l'Europa: abbiamo constatato in queste ultime settimane - in occasione delle elezioni politiche in alcuni Stati europei - al rigurgito di manifestazioni xenofobe e, nella elaborazione di nuove politiche immigratorie, alla tendenza a trincerarsi, a chiudersi, ad assicurare il livello di benessere raggiunto dentro le mura, mediante una ammissione limitata alle persone economicamente utili, come del resto aveva già a sufficienza dimostrato il Trattato di Maastricht. Non si presta sufficiente attenzione alle necessità di chi si trova fuori le mura, con grave omissione del principio di solidarietà Il modo di trattare gli immigrati sarà la prova fondamentale del grado di eticità e di civiltà raggiunto dall'Unione Europea e senza dubbio ne determinerà la sopravvivenza. E noi cristiani, che cosa dobbiamo suggerire ai Governi che sono alle prese col problema, così complesso, dell'immigrazione? E' una domanda cui difficile rispondere con altrettanta chiarezza e precisione. La dimensione planetaria e la straordinaria complessità degli odierni flussi migratori lasciano trasparire che, con tutta probabilità, i problemi ad essi collegati persisteranno ancora a lungo. La soluzione di questo problema che riguarda "l'ordinamento mondiale" esige un modo di procedere su vari piani e una comune "politica mondiale" sul terreno della solidarietà e della collaborazione. Per quanto le migrazioni possano essere utili o addirittura necessarie ai Paesi bisognosi di manodopera, è incontestabile che occorra una politica che cerchi di prevenire il fenomeno migratorio incentivando lo sviluppo economico dei Paesi poveri. E' necessario scongiurare, possibilmente già sul nascere, i flussi di profughi e gli esodi dettati dalla povertà, con tutto il suo carico di problemi. Gli strumenti suggeriti dagli studiosi per attuare questa politica sono semplici e chiari sulla carta, quanto difficili da attuare nella pratica, e cioè:
- una politica di sviluppo verso i Paesi poveri (abolizione del protezionismo, condono dei debiti, ecc.)
- la promozione a livello mondiale dei diritti umani;
- una efficace politica di pace (smantellamento delle capacità di armamento dei paesi industrializzati e drastica limitazione del commercio delle armi);
- un controllo della crescita demografica mediante la lotta contro l'indigenza e una pianificazione familiare su base volontaria, promossa dallo Stato e con metodi che rispettino la dignità della persona;
- un sostanzioso sostegno politico e finanziario all'ACNUR, per alleviare le condizioni di indigenza dei profughi in tutto il mondo.
Tutte queste misure, in un mondo sempre più unificato - si afferma sempre - devono essere integrate da una politica verso gli immigrati, i profughi, gli stranieri in genere, caratterizzata da generosità, da solidarietà e da grande apertura d'animo. Viviamo oggi irreversibilmente in un villaggio globale. L'idea di globalizzazione, o mondializzazione, fa paura a molti, perché può mettere in questione l'identità e la dignità di formazioni intermedie: dalla famiglia, allo Stato, alle diverse aree culturali con la loro storia e sistemi di vita. E' anche vero però che la globalizzazione rende possibile la concezione di una vera "famiglia umana", di "un bene comune del genere umano" e la realizzazione di un sistema di relazioni in cui la solidarietà e la corresponsabilità acquistino dimensioni veramente universali. E' questa l'aspirazione e il grande compito di una Chiesa che voglia essere compagna di viaggio dell'intera famiglia umana e testimone del Vangelo di fronte a tutti i popoli. La Politica del Vangelo Parecchie delle questioni inerenti le tematiche migratorie possono ricevere luce da molte pagine della Bibbia, sia pure con le dovute esigenze di comprensione e attualizzazione: da Abramo, padre dei credenti, "arameo errante" in terra straniera (Deut 26,5), a Gesù di Nazaret, "straniero" tra i suoi. Israele ben conosce cosa significhi la permanenza in terra straniera, nella forma di persecuzione e oppressione in Egitto, di deportazione a Babilonia. L'ospite diventa sacro, il forestiero ha diritto ad essere accolto e rispettato "perché anche voi foste forestieri nel paese d'Egitto" (Deut 10,19). La meta messianica, il punto di arrivo per Israele e per l'intera umanità, è il monte del Signore su cui è imbandito un festoso banchetto "per tutti i popoli della terra" (Is 25,6). Gesù viene dalla "Galilea delle genti" (Mt 4,15); é profugo in Egitto (Mt 2,13-21); nei suoi miracoli non dimentica stranieri e pagani, come il centurione il cui servo è malato (Mt 8,5-13); preannuncia la sua glorificazione ad alcuni greci (Gv 12, 20 ss); Per spiegare il comandamento dell'amore e insegnare a "farsi prossimo", porta ad esempio un samaritano, cioè uno straniero, e per giunta infedele (Lc 10, 29-37). Gesù è colui che abbatte il muro di separazione tra Israele e le genti che erano "escluse dalla cittadinanza di Israele", fa dei due un popolo solo, così che nella Chiesa non ci siano più "stranieri né ospiti" (Ef 2, 13-19); davanti al trono dell'Agnello starà "una moltitudine immensa
di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7,9). La Chiesa nasce il giorno di Pentecoste a Gerusalemme, quando l'annuncio delle grandi opere di Dio arriva a persone "di ogni nazione che è sotto il cielo" (At 2,5); la destinazione universale della salvezza è manifestata a Pietro, renitente ad ammettere i "pagani": Dio intende far dono dello Spirito a tutte le genti; la Chiesa, nel rivolgere il suo messaggio, non avrà più barriere etniche o religiose: "Chi teme Dio e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto" (At. 10,35). L'annuncio della salvezza nasce e si sviluppa in territori e culture di grande mobilità, avviene sotto il segno costante dell'incontro tra persone e popoli diversi. Lo straniero, il forestiero, il diverso diventa sacro: "Ero xenos e mi avete accolto" (Mt 25,36s): chi non l'ha fatto è condannato, chi è stato ospitale con lo straniero ha incontrato il Figlio dell'uomo pur non avendolo riconosciuto e riceve in contraccambio l'accoglienza definitiva nel regno del Padre. La xenofobia è motivo di condanna, la xenofilia di gioia eterna. Il messaggio evangelico e la vita delle prime comunità cristiane trovano riscontro, con tutte le difficoltà che la fedeltà al vangelo comporta, nella predicazione e nella prassi della Chiesa anche oggi come nel corso di tutta la sua storia: nella Redemptoris Missio, Giovanni Paolo II ricorda come le migrazioni verso i Paesi di antica cristianità creino "occasioni nuove di contatti e scambi culturali, sollecitando la Chiesa all'accoglienza, al dialogo, all'aiuto e, in una parola, alla fraternità" (RM 37b). Sono ovviamente ben lontano dal pensare che si possa risolvere i problemi derivanti dall'emigrazione con una scaletta di citazioni dalla Bibbia e dal magistero, per dedurne le scelte da fare. Conseguenza del confronto autentico con la Parola - per i singoli battezzati e per l'intera comunità ecclesiale - è soprattutto uno stile di conversione e ricerca, di uscita da sé e di scommessa sul futuro che non può escludere il confronto con la presenza di immigrati sui nostri territori, la valutazione degli scenari mondiali in cui cresce il divario tra ricchi e poveri, la scelta tra chiusura e accoglienza, l'atteggiamento verso l'altro e il diverso. Esaminiamo dunque ciò che il cristiano può fare concretamente. La politica del cristiano Ciò che abbiamo detto fin qui del povero, dello straniero, dell'immigrato, del forestiero, non ha nulla di poetico e di ingenuo, rispetto alla durezza della sua condizione e delle difficoltà che le nostre società hanno di integrare persone provenienti da altri contesti geo-culturali. Dobbiamo essere consapevoli di quale sia il contesto storico in cui dobbiamo calare la Parola che ascoltiamo. Il messaggio biblico, di cui vogliamo essere i testimoni, deve assumere le ragioni umane e civili dell'accoglienza dello straniero e dell'etica della solidarietà nei confronti del più debole. Guidati da questa ispirazione di fede, dobbiamo saper affrontare le difficoltà, le paure, i dubbi, i disagi delle nostre società e soprattutto evitare l'errore di contrapporre astrattamente valore a valore, esigenza a esigenza, che ci porterebbe ad escludere quello che ci dà fastidio e non ciò che ci sfida e che dobbiamo affrontare. Non esiste infatti un valore assoluto nella vita umana; esiste sempre un complesso di valori. Se contrapponiamo ad esempio accoglienza e sicurezza, solidarietà e legalità, noi rendiamo inefficace la nostra stessa ispirazione cristiana. Accoglienza dello straniero e sicurezza dei cittadini sono entrambi beni primari di una società democratica. Sono convinto che il processo e il problema dell'immigrazione avrà bisogno di molto tempo e di politiche adeguate per essere risolto, ma anche dell'azione, responsabilità, partecipazione consapevole di tutti noi. Il compito del cristiano deve essere soprattutto quello di accorciare le distanze tra persone e istituzioni, di collegare le persone alle istituzioni. Le istituzioni non vedono le persone, vedono i problemi. Noi dobbiamo anzitutto far vedere le persone e quindi i loro problemi. Oggi è sempre più difficile ottenere solidarietà su un problema: generalmente si ottiene solidarietà sulle persone. Se aiutiamo le istituzioni a partire dalle persone, noi possiamo chiedere tale solidarietà: solo le persone che parlano di persone infatti possono alimentare il sentimento dell'accoglienza verso chi si trova in difficoltà, disinnescando timori e paure, che hanno spesso una loro giustificazione e non vanno certo sottovalutate. Non è facile naturalmente, anche perché si esigono competenze che non si improvvisano. Per rivendicare ad esempio, il ricongiungimento delle famiglie, non basta invocare uno dei cardini della dottrina sociale della chiesa. C'è bisogno di una analisi severa delle implicazioni su tutti i fronti. Non possiamo aspettare che siano solo i politici a muoversi. C'era uno slogan che era emerso in Germania nel mondo cattolico quando si parlava di immigrati: "Abbiamo chiesto braccia per lavorare, ci sono arrivati uomini". A tutto l'uomo, famiglia compresa, bisogna dunque pensare Non so bene quale sia la convinzione dei cristiani delle nostre comunità. Ho l'impressione che prevalga ancora l'idea che siamo noi i benemeriti e i generosi a far posto agli immigrati. Il giudizio va ormai rovesciato. Non possiamo certo approvare alcuni delitti della malavita legati a particolari cosche di immigrati e non possiamo che invocarne il controllo e il contenimento. Ma gli immigrati nel loro insieme sono una realtà e una risorsa irrinunciabile per i nostri Paesi. Senza di loro il nostro livello di vita è destinato a declinare. Senza i loro contributi previdenziali salterebbe in pochi anni il nostro sistema pensionistico. Senza di loro molte aziende sarebbero destinate al fallimento. E' necessario perciò modificare il nostro modo di guardare agli immigrati: sono nostri fratelli ma sono anche nostri indispensabili collaboratori e sostenitori del nostro livello di vita. Ma, come cristiani, dobbiamo fare alcuni passi avanti: basta una accoglienza generosa per sentirsi in regola con il dettato evangelico? No, di certo, anche se questo primo passo è indispensabile e comporta una continua attenzione. I problemi si moltiplicano però nello stabilire una convivenza serena e una integrazione, sia nella società civile che in quella ecclesiale. Non è nostro compito dettare quello che la società civile può e deve prevedere al riguardo, sul piano soprattutto della partecipazione alla vita civile, economica e politica. I ritmi di integrazione per la Chiesa sono molto diversi perché toccano aspetti più profondi dell'esistenza, quelli culturali e religiosi. Ma mi pare opportuno sottoporre alla vostra attenzione alcune indicazioni, soprattutto a livello umano e spirituale. La Chiesa non può dimenticare che esiste per predicare il Vangelo. La Chiesa non ha una sua politica per le migrazioni; ha una sua pastorale per gli immigrati. I migranti rientrano nella sua missione, non solo perché essa è chiamata ad essere "esperta in umanità", come ha affermato Paolo VI, in un campo che la sollecita in mille forme alla testimonianza della carità e alla promozione umana, ma pure per il suo prioritario compito di evangelizzazione. Ha alle spalle una prassi pastorale meravigliosa, introdotta ancora alla fine del secolo scorso da una serie di apostoli, tra i quali emergono S. Vincenzo Pallotti, Santa Francesca Saveria Cabrini e il Beato Giovanni Battista Scalabrini. Ne è seguita una dottrina di cui si possono riconoscere le tappe fondamentali nella Costituzione apostolica Exsul Familia di Pio XII e nel Motu proprio Pastoralis migratorum cura di Paolo VI, che traduce in linee operative le chiare indicazioni in materia del Concilio Vaticano II. Sorprende poi la tenace costanza di Giovanni Paolo II nell'entrare in argomento sia con i suoi annuali Messaggi per la Giornata mondiale delle migrazioni, sia in altre qualificate circostanze, ultime delle quali il Congresso mondiale "Le migrazioni alle soglie del terzo millennio" del 1998, il Giubileo dei migranti del 2 giugno 2000 e il Messaggio per la Giornata della pace dello scorso anno. La Chiesa esiste dunque per l'evangelizzazione. Ma il vangelo non comporta solo l'organizzazione del culto che, ovviamente, resta una componente essenziale della vita religiosa. Il precetto di amare i fratelli va ben oltre, e molti appiattimenti delle nostre comunità sono imputabili a questa dicotomia, che è tipica nella vita di molti cristiani ed è l'effetto, da un lato, del comodo ripiegamento pietistico sui "doveri religiosi" e, dall'altro, di una mentalità laicista sempre più estesa: "La Chiesa resti in chiesa, o al massimo in sacrestia. Fuori ci pensa lo Stato, i partiti, i sindacati, gli organismi economici o culturali o sportivi. La religione è un affare privato". Così si è perso in buona parte il senso di responsabilità che i cristiani, anche senza mediazioni confessionali, devono avere di fronte alla vita. E' ovvio che si impone, da parte dei cristiani, l'obbligo di una forte mobilitazione delle strutture esistenti per lo studio e la proposta di provvedimenti che allarghino le possibilità di una autentica promozione umana, parte integrante della concezione cristiana della vita. Non mancano certo problemi su cui concentrarsi: lavoro, abitazioni, ricongiungimento familiare, scuola, seconde generazioni, assistenza sanitaria, isolamento. So bene che non è facile. Sarebbe un grande successo degli incontri che voi avete organizzato su queste tematiche se riuscissero a consolidare questa convinzione e maturassero alcuni suggerimenti come espressione delle nostre comunità cristiane. Non si tratta di imporre nulla, ma di offrire progetti di una civile e più umana convivenza. Dalla dottrina sociale della Chiesa e dai numerosi documenti del Magistero ecclesiale possiamo dedurre numerosi suggerimenti concreti e operativi. Prendendo atto delle sfide poste dalla mobilità umana sempre più crescente, emerge in tutta evidenza il carattere missionario della vocazione cristiana. I battezzati non possono più rinchiudersi oggi nei ristretti confini del proprio territorio parrocchiale, perché devono sentire l'urgenza del mandato "andate e predicate il Vangelo ad ogni creatura" (Mt 16,15). Sono consapevoli della necessità di trovare oggi nuove vie per realizzare questo compito così importante per la salvezza e la riconciliazione nel mondo. Si tratta di annunciare il Vangelo senza spostarsi nelle lontane asie o afriche, ma nel proprio stesso ambiente, dove ormai uomini di ogni popolo vivono e abitano: è una straordinaria, inedita occasione, che permette ai cristiani di sperimentare quanto hanno sempre teoricamente sentito: la capacità di integrare il diverso, sentendo che l'altro è sempre ricchezza di valori umani da apprezzare, a partire dalle sue doti personali e culturali e dalle sue particolari tradizioni e convinzioni religiose. La conversione cristiana diventa qui anzitutto un cambiamento di mentalità e una inversione di rotta, perché il dialogo con le culture e le religioni contribuisca alla crescita delle persone e della società e perché si realizzi una pacifica e fraterna convivenza nel rispetto della dignità, della libertà, dell'identità e della storia di ciascuno. Non c'è infatti annuncio e autentica testimonianza cristiana senza l'aggancio a una autentica spiritualità. E' questa l'ultima annotazione e l'ultimo consiglio che mi preme sottoporvi. Partendo dal binomio "annuncio-accoglienza", si pensa che la Chiesa e i cristiani prima devono fare l'annuncio, perché questo è il loro compito, e poi anche la carità. Credo invece che i due momenti non sono separabili: un annuncio senza la testimonianza della carità è un annuncio che non corrisponde né alla Parola di Dio né alla fede in Gesù Cristo crocifisso, Parola incarnata. Lo "statuto" teologale dell'accoglienza è la logica dell'incarnazione. Dio entra nella nostra storia attraverso l'umanità di Gesù. La logica dell'amore solidale e attivo è l'attuazione del comando dell'amore del prossimo. Su questo si fonda una spiritualità dell'accoglienza. Una volta chiarito infatti teologicamente che cos'è l'accoglienza, c'è bisogno di una vera e propria "spiritualità" dell'accoglienza. Giustamente ci si preoccupa che gli operatori pastorali conoscano bene l'islam, le leggi civili e tutti i marchingegni per far funzionare la macchina dell'assistenza. Questo è importante, ma senza una spiritualità fondata teologicamente si corre il rischio di avere solo dei bravi ed efficienti operatori. Ma essi annunciano veramente Gesù Cristo? La spiritualità dunque diventa annuncio: tu, cristiano, puoi dire la tua parola, rendere ragione della speranza che è in te (1 Pt 3,15). La fede non è solo un sapere che c'è il regno di Dio, la resurrezione. Il vangelo della speranza è Gesù Cristo che abita e si identifica con l'uomo. Per questo ci vuole una spiritualità, ci vogliono cioè persone che , accanto alla competenza, alla preparazione culturale e professionale, coltivino anche una spiritualità dell'incarnazione e la logica dell'amore. Conclusione Non siamo noi ad amare gli uomini, ma è Dio che ama gli uomini attraverso noi. Questo è il principio dell'Incarnazione. Allora chi riceve l'annuncio non avrà paura di essere strumentalizzato. Lo straniero di diversa cultura e religione scoprirà che quel Dio che egli cerca gli è vicino, grazie alla presenza di un fratello che gli testimonia l'esperienza di un amore, che egli ha già ricevuto e che comunica attraverso i suoi gesti di accoglienza. Accanto ad efficaci politiche di sicurezza, servono certamente interventi di riqualificazione urbana e iniziative interculturali, progetti di integrazione vera e propria. Ma se i cristiani non si fanno carico della testimonianza della loro generosità, non solo, ma - attraverso l'esercizio della loro responsabilità pubblica e istituzionale - anche di tenere assieme tutti i valori coinvolti (come la solidarietà e l'accoglienza), i nostri "servizi" non solo rischieranno di rimanere sterili e inefficaci, ma non saranno neppure percepiti e riconosciuti come vera testimonianza cristiana. Mi congratulo con gli organizzatori di questi incontri su un tema così importante al giorno d'oggi, e vi auguro che questa iniziativa possa creare la coscienza per una accoglienza veramente cristiana dello straniero e soprattutto che una nuova istanza venga concretamente testimoniata e realizzata nella vostra comunità di Sant'Anna.
Note:
*Intervento svolto il 23 maggio 2002 nell'ambito degli "Incontri sull'etica: immigrazione oggi e problemi etici connessi", organizzato dalla Caritas della Comunità Sant'Anna in Vaticano.
Resumen Después de un repaso histórico al fenómeno migratorio de los últimos cien años, el Autor pasa a examinar las constantes de la política migratoria de los distintos gobiernos. El espíritu de tales leyes de revela claramente restrictivo, a menudo discriminatoria frente a los trabajadores extranjeros, con una decidida inclinación hacia un modelo de emigración temporal, donde el emigrante es fundamentalmente considerado como uno más de los diversos factores de producción. Para que una normativa en materia de emigración satisfaga un mínimo indispensable de principios éticos, debería asegurar la salvaguardia de los derechos humanos fundamentales, como garantía de la dignidad de la persona: el derecho a la vida y a la integridad física y moral, a la libertad y a la seguridad personal, a la constitución de una familia, a conservar la lengua, la cultura y las tradiciones propias, a la libertad de expresión, de pensamiento y de religión. Al modo humano de la política se contrapone la política de Dios (Era extranjero y me habéis recibido), y en consecuencia la política del cristiano, cuya tarea consiste sobre todo en acortar las distancias entre las personas y las instituciones, de servir de puente entre ambos. Las instituciones no consideran las personas, ven los problemas. El cristiano, en cambio, considera ante todo las personas y sus problemas. Sólo las personas que hablan de personas pueden alimentar un sentimiento de acogida frente a quien se encuentra en dificultades, desactivando temores y miedos que con frecuencia tienen sus justificaciones y no pueden ser minusvalorados. No somos nosotros quienes amamos a los hombres, es Dios que ama a los hombres a través nuestro: éste es el principio de la encarnación. Quien recibe el anuncio no tendrá miedo a verse instrumentalizado. El extranjero, de una cultura y de una religión diferente, descubrirá que el Dios a quien busca le está vecino, gracias a la presencia de un hermano que da testimonio de la experiencia de un amor, que él ya recibió y que comunica por sus gestos de acogida, de participación y de solidaridad.
Summary After a historical review of the migration phenomenon over the last century, the writer examines the constant features of the migration policies of various governments. The spirit of such laws are clearly restrictive, very often discriminatory, with respect to foreign workers, clearly opting for a model of temporary migration, by which the immigrant is fundamentally considered as one of the various factors of production. So that a regulation on migration questions would satisfy an indispensable minimum of ethical principles, it should ensure that fundamental human rights are safeguarded, since these are the guarantee of the dignity of the human person: the right to life and to physical and moral integrity, to personal security and freedom, to form a family, to preserve ones own tongue, culture and traditions, to the freedom of speech, thought and religion. To the politics of man is opposed the politics of God (I was a stranger and you welcomed me) and as a consequence, the politics of the Christian, whose task is, first of all, that of reducing the distance between persons and institutions, of linking them to one another. Institutions, in fact, do not see persons, but problems. The Christian, instead, sees the person, first of all, and then their problems, as a consequence. In fact, only persons who talk of persons can nurture the sentiment of welcome towards those who are in difficulty, driving away fears, even if they are often justified and should not be ignored. It is not we who love men and women, but it is God who loves people through us: this is the principle of the Incarnation. Then, those who hear the proclamation will not be afraid of being instrumentalized. The foreigner, with another culture and religion, will discover that the God whom he is searching is near him, thanks to the presence of a brother is a witness of an experience of love. He, in fact, has already received this love and communicates it through his gestures of welcome, sharing and solidarity. |