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Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People People on the Move - N° 88-89, April - December 2002 Religione, mutamenti epocali e sfide dell'intercultura* Rev. P. Angelo NEGRINI, C.S. Officiale del Pontificio Consiglio [German summary, English summary] Introduzione: Un mondo inintelligibile "In questo fine millennio le nostre società sono alla ricerca di se stesse. Tutto viene rimesso in discussione e non si salva nessuno dei capisaldi fondamentali degli Stati (
) Stiamo affrontando una crisi di inintelligibilità: il divario tra ciò che si dovrebbe comprendere e gli strumenti concettuali necessari alla comprensione si allarga sempre più. Un mondo scosso da formidabili mutazioni tecnologiche, dal persistere di disordini economici e da crescenti pericoli ecologici. Queste scosse si traducono, in particolare, in un disorientamento sociale, nell'esplosione delle disuguaglianze, nell'apparizione di nuove forme di povertà e di esclusione, nella crisi del valore rappresentato dal lavoro, nel malessere del potere, nella disoccupazione di massa, nell'avanzare dell'irrazionale, nella proliferazione dei nazionalismi, degli integralismi, della xenofobia e simultaneamente in una ripresa delle preoccupazioni etiche" (Ignacio Ramonet, Un mondo senza rotta, "Le Monde Diplomatique", n. 10, ottobre 1995) Questa affermazione di Ramonet ci introduce nel nostro discorso e ci indica alcuni interrogativi e problemi ai quali vorremmo rispondere. Anzitutto: qual è il clima culturale del nostro tempo? Come e in che cosa esso è cambiato rispetto al passato? Ecco un problema che oggi si dibatte tra filosofi, sociologi e uomini di cultura, a partire dai termini modernità e post-modernità, che, in estrema sintesi esprimerebbero il punto di partenza (la "modernità) e il punto di arrivo (la "post-modernità") del cammino compiuto dalla cultura del nostro tempo. La post-modernità sarebbe la dissoluzione della sintesi culturale moderna, e il passaggio dall'una all'altra rappresenterebbe una svolta epocale: la "condizione postmoderna" (J. F. Lyotard 1981) segnerebbe la "fine della modernità" (G. Vattimo, 1994) e la "fine dell'Utopia" (H. Marcuse 1968); sarebbe l'avvento del "pensiero debole" (G. Vattimo, P. A. Rovatti 1983), e quindi la "crisi della ragione" (A. Gargani 1988). Per J. Habermas e altri invece non si tratterebbe di "fine della modernità" e d'inizio di un'epoca radicalmente nuova (come nel passaggio dal Medio Evo all'Evo Moderno nel 1492) bensì del giungere finalmente a compimento l'evoluzione iniziata col Rinascimento, quando, per una serie di circostanze, non si realizzò la sintesi tra il meglio della tradizione col meglio dell'innovazione, verso un futuro migliore, ma incominciò la progressiva divaricazione tra fede e ragione, Chiesa e Stato, ecc. ( De Lubac 1977 e Patella 1991). Non vogliamo entrare direttamente in questo dibattito ma soffermarci invece sulla condizione in cui viene a trovarsi la Religione in genere e la fede cristiana in particolare nel cosiddetto mondo postmoderno, sulle difficoltà e pericoli cui va incontro e sulle possibilità nuove che ad essa apre la transizione epocale dalla modernità alla postmodernità. Parte prima: Mutamenti epocali e dinamiche culturali 1. Passaggi culturali Se la postmodernità è ritenuta la crisi e la dissoluzione della modernità, per comprenderla è necessario vedere che cosa è la modernità. 1.1. Questa parola indica anzitutto un periodo della storia europea che va dall'Umanesimo/Rinascimento del Quattro-Cinquecento fino al Novecento. "Moderno" si oppone a "medievale". La "modernità" quindi, storicamente, segna la fine del Medioevo e della sua cultura: con essa si entra in una nuova epoca storica, segnata da una nuova cultura, da una nuova concezione della vita, da nuovi modi di pensare e da nuovi stili di vita, da nuove istituzioni politiche e sociali. All'interno della modernità si è verificata una profonda evoluzione: il cambiamento inteso come miglioramento, progresso. Il "nuovo" è stato ritenuto automaticamente "migliore". Così nella modernità è insita l'idea di "progresso indefinito": mentre la tradizione è rivolta al passato, la modernità è essenzialmente rivolta al futuro. 1.2. La modernità è caratterizzata da una serie di "passaggi": - col Rinascimento, si passa da una visione teocentrica, religiosa e soprannaturale a una visione antropocentrica, terrestre e naturalistica: cioè al centro della realtà non c'è più Dio, Creatore e Signore dell'uomo e della storia, che dà all'uomo la sua legge e governa il mondo e la storia, ma c'è l'uomo, che non riconosce nessuno sopra di sé, che è legge a se stesso e che è padrone del mondo e della storia. La terra è il luogo dell'uomo e la vita non è più un pellegrinaggio verso Dio; - con Copernico si passa da una visione dell'universo con la terra al centro, a una visione che ha al centro il sole; - Con Galileo si passa dall' "autorità" (come criterio di verità) all'esperienza e alla sperimentazione scientifica; - con Bacone si passa dal sapere come contemplazione e come ricerca della verità al sapere come "potere" sulla natura (scire est posse): questa non è più vista come opera di Dio, delle cui ricchezze l'uomo si serve per vivere, ringraziando la bontà di Dio e delle cui bellezze egli si serve per contemplare la grandezza e la sapienza di Dio e lodarlo, ma è vista come ciò che l'uomo, col suo sapere-potere scientifico, deve trasformare e manifestare a suo vantaggio; - con Macchiavelli si passa dalla politica soggetta alla legge morale, alla politica sganciata da ogni norma morale; - con la Riforma protestante si passa da una religione "oggettiva" di Chiesa, al soggettivismo religioso, che pone l'uomo di fronte a Dio senza alcuna mediazione ecclesiale e rende ognuno interprete della Sacra Scrittura sotto il diretto impulso dello Spirito Santo. 1.3. In uno stadio successivo (Seicento-Settecento) la modernità è caratterizzata da quattro grandi rivoluzioni: a. La rivoluzione culturale, che prende le mosse da Cartesio e giunge fino a Kant, e che ha la sua massima espressione nel movimento dell'Illuminismo, che oppone "la luce della ragione" alla "oscurità del mistero e del dogma" e quindi fa della "ragione umana" la norma unica e suprema del vero e del giusto, rigettando come falso tutto quello che pretende di essere "sopra" la ragione, ma che in realtà è "contro" la ragione: la religione cristiana e i suoi dogmi. (Tiliette 2001; Cfr. anche Paolo Miccoli, L'ascesa e il tramonto della categoria filosofica dell'Anschauung, in "Osservatore Romano", 5.12.2001) - Di qui una critica radicale al cristianesimo che pretende di essere una religione rivelata, e lo sforzo di ricondurre "la Religione entro i limiti della pura Ragione" (Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, come si esprime Kant nel 1793). - Di qui lo sforzo di applicare ai libri sacri (ispirati) criteri e metodi che si applicano ai libri profani: i Vangeli sono racconti mitici, di nessun valore storico (Reimarus) e Gesù non è il Figlio di Dio, ma un semplice uomo, sia pure di genio in campo religioso e morale (Lessing). - Di qui infine, lo sforzo di mettere la ragione e la natura alla base della vita morale, sociale e politica, rigettando ogni fondamento religioso e soprannaturale. Così l'Illuminismo pone al centro della sua visione del mondo l'uomo, con la "luce" che gli dà la ragione e con il "potere" che gli fornisce la scienza: fondandosi su queste due forze (scienza e ragione) l'uomo è sulla via del "progresso", che sarà tanto più straordinario, quanto più la luce della ragione allontanerà le tenebre dell'ignoranza e del dogma e quanto più la scienza riuscirà a dominare la natura e porla a servizio dell'uomo. b. La rivoluzione scientifica, inaugurata da Galileo con le sue scoperte in campo fisico e astronomico e con il suo metodo sperimentale, e soprattutto da Newton, con la formulazione della legge della gravitazione universale: l'universo non è governato direttamente da Dio, ma da leggi fisiche deterministiche e può essere tranquillamente spiegato senza far ricorso all'"ipotesi Dio", come disse Laplace a Napoleone. Il compito dell'uomo non è più quello di lodare Dio, contemplando l'ordine dell'universo, ma quello di scoprire le leggi che lo governano meccanicamente. Le leggi fisiche svuotano il simbolismo, i cieli non parlano più se non di se stessi. "I cieli narrano la gloria di Dio", diceva il Salmo; dopo Newton, Pascal scrive: "Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa
"(A. Jeannière, Qu'est-ce que la modernitè in Etudes, 1990). c. La rivoluzione politica: chi fonda e legittima il potere non è più Dio (come era nella teoria del "potere divino dei re"), ma il popolo divenuto "nazione" attraverso un "contratto sociale" (Rousseau). Il potere perciò non è più "teocratico", ma "democratico": si esercita in nome del popolo e si radica in esso. La democrazia pertanto è l'unica forma moderna dello Stato (Locke). Al "suddito" di un potere autocratico, proveniente "da fuori", si sostituisce il "cittadino", soggetto unicamente a se stesso, in quanto è lui che delega il potere e può sempre ritirare la delega. Questa rivoluzione politica trova la sua espressione con la rivoluzione americana (1776) e la rivoluzione francese (1789). d. La rivoluzione industriale, iniziata nella seconda metà del Settecento in Inghilterra con l'introduzione, nell'attività produttiva, di nuovi strumenti di lavoro (le macchine a vapore), di nuove fonti di energia (il carbon fossile) e di nuovi mezzi di trasporto (la ferrovia) e con una nuova organizzazione del lavoro (la fabbrica capitalistica) che portò alla concentrazione nelle città di numerosi salariati dalle campagne (l'urbanizzazione) e quindi alla creazione di un vasto proletariato urbano. Successivamente verranno altre innovazioni tecnologiche sempre più soofisticate e complesse (come l'informatizzazione e la robotizzazione) fino a far parlare di post-industrializzazione. 2. Il progetto umanistico della modernità 2.1. L'Ottocento è l'epoca - in cui si affermano le "libertà moderne" (di pensiero, di coscienza, di stampa, di associazione: il liberalismo, appunto); - in cui nascono i grandi sistemi di pensiero, fondati sul soggettivismo e sull'autonomia dell'uomo da Dio e ispirati a ideologie totalizzanti come l'idealismo trascendentale, immanentista e storicista di Hegel, il positivismo di Comte, il materialismo storico di Marx, l'evoluzionismo di Darwin, lo scientismo di Haeckel; - in cui si diffondono le monarchie costituzionali e le repubbliche parlamentari in seguito ai moti rivoluzionari che scoppiano in tutta l'Europa; - in cui, in campo economico, trionfano il capitalismo e il liberismo mentre lo sviluppo prodigioso delle scienze e delle tecniche accrescono enormemente la produttività: si afferma l'idea del progresso indefinito dell'umanità da realizzare attraverso il continuo sviluppo della scienza e della tecnica; soprattutto si afferma l'idea che l'uomo, con la "razionalità scientifica", può costruire un mondo sempre più perfetto e vincere i mali che lo affliggono: la povertà, le malattie, l'ignoranza, l'oppressione politica. La modernità nasce così sotto il segno dell'ottimismo ma soprattutto sotto il segno della "volontà di potenza": per costruire un mondo migliore bisogna "dominare" la natura nonché i popoli arretrati e sfruttare le loro ricchezze e farli godere dei benefici della modernità: l'Ottocento è infatti il secolo del colonialismo, messo in atto dalle grandi potenze dell'Europa. 2.2. La modernità dunque, - sotto l'aspetto culturale, è soggettivismo, autonomia della coscienza, primato della ragione, immanentismo, libertà assoluta, progresso indefinito; - sotto l'aspetto politico, è democrazia liberale, distinzione tra politica e religione, separazione tra Stato e Chiesa, privatizzazione della Religione, primato della legge e uguaglianza dei diritti; - sotto il profilo scientifico, è l'assoluta fiducia nella "razionalità scientifica", e quindi nella capacità della scienza e della tecnica di portare l'umanità a un livello sempre più alto di progresso e di benessere materiale; - sotto il profilo sociale, è mobilità e cambiamento continuo, è incessante superamento e rinnovamento dei modelli anteriori, è cultura di massa mediante la diffusione capillare e gigantesca degli strumenti della comunicazione sociale (prima la stampa, poi la radio, il cinema, la televisione, internet); ed è anche dissoluzione della famiglia patriarcale e riduzione della fecondità; è passaggio dalla civiltà contadina, rurale, alla civiltà industriale, urbana. 2.3. Così il mondo moderno È tutto dominato da un grande progetto umanistico: realizzare sulla terra una vita degna dell'uomo, vale a dire un modello di vita da cui siano eliminate, nella misura più ampia possibile, la sofferenza, l'oppressione, le discriminazioni e la paura; in cui l'uomo possa essere libero e sicuro nel possesso dei beni, nell'esercizio dei diritti civili, nella pace. 3. Le ambiguità Che ne è stato di questo progetto? Quali sono stati i risultati dei giganteschi sforzi compiuti per tradurlo nella realtà? Qui si rivela, a mio parere, la radicale ambiguità del mondo moderno, il quale, da una parte, ha raggiunto mete straordinarie in ogni campo e ha fatto emergere nuovi valori, ma, dall'altra, ha condotto l'umanità a una situazione drammatica. 3.1. Vi sono certamente delle grandi conquiste che l'età moderna ci ha assicurato. a. Al suo attivo vanno posti gli straordinari miglioramenti del livello culturale, della sanità, e del tenore di vita:
- sono stati debellati flagelli (quali la mortalità infantile, le carestie, la peste) che insieme con la guerra costituivano l'incubo delle generazioni precedenti,
- la durata media della vita si è elevata in misura inimmaginabile nel passato;
- sono stati resi enormemente più facili e sicuri i viaggi e i trasporti;
- si sono incrementati i rapporti commerciali;
- le comunicazioni tra gli uomini si sono infittite;
- con la pratica abolizione delle distanze operata dai mass media, il mondo è diventato un "villaggio planetario" (McLuhan).
Questi successi possono essere apprezzati adeguatamente, solo se si riflette che le condizioni di vita della gente nell'epoca precedente erano incredibilmente misere e spaventose e che il livello spirituale e culturale della massima parte della popolazione era estremamente basso. b. Ancora all'attivo del mondo moderno va posta la crescita nella coscienza umana di alcuni grandi valori quali:
- il senso della dignità della persona umana e delle libertà fondamentali;
- il senso della tolleranza e del pluralismo, per cui l'altro è accettato e valorizzato per quello che è;
- il senso della solidarietà che lega gli uomini in un solo destino;
- il rifiuto del razzismo e di ogni discriminazione di ordine culturale, politico, religioso;
- il senso dell'uguaglianza degli uomini e della necessità che tutti godano dei beni della terra e degli essenziali diritti umani;
- il rifiuto della tortura, della pena di morte, della guerra e l'aspirazione alla pace;
- la preferenza data alla democrazia come regime politico in cui l'uomo è più rispettato e le sue esigenze meglio soddisfatte;
- la valorizzazione della donna.
c. Questi valori hanno costituito la spinta di iniziative importanti, sia sul piano internazionale, sia sul piano nazionale e locale:
- si pensi all'ONU, all'UNESCO, alla FAO;
- si pensi alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo;
- si pensi alle altre "carte" dei diritti umani: alle risoluzioni di Helsinki e di Belgrado; ad Amnesty International e a Pax Christi; alle numerosissime iniziative di volontariato giovanile a favore del Terzo Mondo; alle iniziative della Caritas per i profughi, per le persone colpite da calamità naturali, per coloro che soffrono la fame;
- si pensi infine ai movimenti e alle marce per la pace.
3.2. Ma se c'è molto all'attivo del mondo moderno, c'è anche molto di passivo. a. Si deve infatti ammettere che, nonostante i successi ora ricordati, il mondo moderno non è riuscito a generare quell'umanità felice e libera, razionale e pacifica, che aveva promesso. Il suo progetto di rendere l'uomo più felice è dunque sostanzialmente fallito. In realtà, in confronto al passato, l'uomo di oggi è certamente più istruito, più ricco, più aperto, ma non più felice. Se, da una parte, vive nel benessere, o addirittura nell'opulenza, se ha una gamma immensamente estesa di possibilità, più spesso, dall'altra, è vittima della solitudine, della incomunicabilità, dell'insoddisfazione, dell'angoscia. La stessa libertà è oggi minacciata dalla manipolazione dell'uomo operata da forze occulte, potenti e incontrollabili. D'altra parte, l'uomo di oggi non si dimostra davvero più ragionevole, più capace di dominare gli istinti di violenza e di dominio. Forse non si è mai tanto ucciso e torturato quanto nell'epoca moderna, che ha visto due grandi guerre mondiali, la deportazione di immense masse umane, i campi di concentramento e di sterminio, una criminalità organizzata con metodi scientifici, la folle corsa agli armamenti. b. Soprattutto, il mondo moderno non è riuscito a creare l'agognato ordine sociale giusto e umano. Il progresso culturale, scientifico e tecnologico, che indubbiamente c'è stato, ha favorito solo una piccola parte di privilegiati, lasciando interi continenti in preda al sottosviluppo, alla fame e all'ignoranza. Così, accanto ai "popoli dell'opulenza" più sprecona e scandalosa, ci sono oggi i "popoli dell'indigenza e della fame", prigionieri di un circolo vizioso (la fame crea il sottosviluppo e il sottosviluppo crea la fame) da cui sono incapaci di uscire. c. Ma il dramma più grave del mondo moderno non è il presente bensì il futuro. In questo inizio del XXI secolo, esso vive in un clima apocalittico. Non a caso i futurologi disegnano per il prossimo ventennio scenari spaventosi. Il più minaccioso è quello di una guerra termonucleare o chimica, che - dato l'immenso potenziale distruttivo di cui oggi dispongono le potenze nucleari - segnerebbe la fine dell'umanità o almeno della nostra civiltà. Ma non meno minaccioso è quello della fame: nei prossimi decenni, se non si interviene in maniera rapida e su vasta scala, le risorse alimentari del pianeta subiranno una contrazione fortissima proprio nelle zone più povere e affamate. Anche i Paesi sviluppati subiranno un arresto nello sviluppo, a motivo della diminuzione delle materie prime, causata dalla pazzesca dilapidazione delle risorse naturali a cui ci si è abbandonati nei passati decenni: la crisi del petrolio del 1974, la guerra del Golfo dei primi anni Novanta e l'attuale feroce contenzioso col mondo arabo dopo l'11 settembre potrebbe segnare la fine dell'abbondanza, e l'inizio di una lotta spietata fra le nazioni per assicurare le risorse necessarie allo sviluppo. Così le prospettive per l'economia dei prossimi decenni è quella di una stagnazione (la cosiddetta "crescita zero") o addirittura di un arretramento, con gravi ripercussioni sul livello di vita, sull'occupazione e sulla vita sociale, che verrebbe sottoposta a fortissime tensioni. d. Con i mostri della guerra, della fame e della stagnazione e depressione economica, altri ne compaiono all'orizzonte non meno paurosi: - La minaccia più grave è quella che pesa sulla salute fisica e mentale, a causa del lento ma crescente processo di avvelenamento a cui sono sottoposte le fonti della vita (l'aria, l'acqua, il suolo, gli alimenti), e anche a causa di quella che è stata chiamata la "bomba chimica", del cui alto potenziale distruttivo ci si rende sempre più conto. - Insieme con la salute è minacciata la libertà umana. Infatti le tecniche sempre più sottili e occulte di propaganda e di condizionamento del pensiero e della volontà umana, il processo di massificazione a cui è sottoposta la società, l'introduzione in tutti i settori della vita - anche in quelli più intimi e personali - della computerizzazione, l'avocazione da parte dei tecnocrati della massima parte delle decisioni in tutti i campi della vita rischiano di limitare enormemente, se non addirittura di sopprimere, la libertà della persona e dei gruppi. - Infine, gli enormi progressi compiuti nel campo della biologia umana e, in particolare, dell'ingegneria genetica, se possono apportare grandi vantaggi, permettendo di intervenire nei primi mesi di vita e così prevenire gravi malattie o limitarne i danni, possono anche portare a manipolazioni e interventi gravemente contrastanti con il rispetto dovuto alla vita umana e alla dignità della persona. 4. La crisi dei grandi miti 4.1 La modernità È passata così attraverso una serie di crisi che rivelano il carattere mitico e utopico di molti suoi aspetti. I momenti più drammatici della crisi della modernità sono le due grandi guerre del secolo scorso che hanno fatto parlare addirittura di un "tramonto dell'Occidente" (O. Spengler) Inoltre sono entrati in crisi tutti i grandi miti del mondo moderno: - è entrato in crisi il mito del progresso senza fine e, con esso, il liberalismo economico, secondo il quale i processi economici, lasciati liberi di agire, avrebbero portato ad una armonizzazione dei diversi interessi e quindi a una equa distribuzione della ricchezza e del benessere: in realtà esso ha prodotto gravi disparità economiche, creando masse sempre più grandi di proletari provocando la nascita dei movimenti socialisti e comunisti in contrasto col liberalismo capitalista. - E' entrata in crisi l'idea che il progresso scientifico-tecnico potesse assicurare all'umanità un periodo di benessere e di pace, perché proprio a causa delle scoperte più straordinarie della scienza (lìelettronica e l'energia nucleare combinate insieme) l'umanità, per la prima volta nella sua storia, vive ora sotto l'incubo della "morte totale", cioè della distruzione di ogni forma di vita sul nostro pianeta. - E' entrato in crisi il mito della scienza, la quale appare oggi in tutta la sua ambiguità: può accrescere il benessere dell'uomo e migliorarne le condizioni di vita, ma può anche divenire strumento di distruzione e di rovina; la scienza e la tecnica hanno acquistato un potere proprio, sempre più indipendente dalla volontà umana e tendono quindi a sottomettere l'uomo, privandolo della sua autonomia. - E' entrato in crisi il processo di industrializzazione, ritenuto responsabile dell'inquinamento delle fonti della vita (acqua, aria, alimenti) tale da mettere in pericolo la salute delle persone e il futuro stesso di ogni forma di vita sulla terra. - E' entrato in crisi anche il mito illuministico, secondo il quale bastava che l'uomo fosse "illuminato" con la luce della ragione e liberato dalle tenebre dell'ignoranza per comportarsi razionalmente e onestamente. - A sua volta il mito della libertà si è oggi molto appannato, sia perché di fatto essa è sempre più limitata e minacciata, sia perché spesso tende a convertirsi in libertarismo, in licenza e in forme di individualismo egoistico. - Anche i miti della rivoluzione e della democrazia hanno subito dei duri colpi: una dopo l'altra le rivoluzioni sono fallite, non avendo dato i risultati sperati; da parte loro, nei Paesi sviluppati, i regimi democratici si rivelano sempre più difficilmente governabili, mentre in altri Paesi si sono imposti regimi totalitari e autoritari. 4.2.La caduta di questi grandi "miti" della modernità - ha creato una situazione spirituale di smarrimento, di incertezza e di paura rispetto al futuro, che non appare più luminoso ma minaccioso e oscuro; - ha portato a una sorta di sfiducia nella ragione umana, ritenuta incapace di raggiungere la verità: di qui il prevalere del "pensiero debole" e dei "frammenti" di verità a scapito del "pensiero metafisico" e dei sistemi di pensiero "globali"; - ha portato alla frammentarietà della verità e allo sbriciolamento dei valori, tra i quali ognuno può scegliere quelle verità e quei valori che ritiene più convenienti alla sua situazione soggettiva e più adatti alla propria crescita e al proprio benessere; - ha portato infine a una situazione di scetticismo intellettuale e di nichilismo etico e quindi a concentrare tutti i propri sforzi non nella ricerca della verità e nel perseguimento dei valori, ma nella ricerca del maggiore benessere individuale (consumismo). Si tratta dunque di una condizione spirituale completamente nuova del nostro tempo rispetto al passato, il cui effetto principale è un totale scombussolamento mentale di fronte a un futuro che appare minaccioso e oscuro, e una grande incertezza sulle cose che bisogna fare per rispondere a quello che Toffler chiama "lo shock del futuro", vale a dire la sfida che all'uomo d'oggi lancia il mondo nuovo, "postmoderno" che sta nascendo. Questa non consiste soltanto nella capacità e nello sforzo che si richiedono oggi per dominare e guidare il progresso scientifico e tecnico, in modo che esso non nuoccia, ma serva alla crescita dell'uomo. La sfida che il mondo postmoderno lancia a tutti noi è quello di operare un radicale mutamento di prospettiva per quanto riguarda il rapporto uomo-strutture e uomo-ideologie. Il sostanziale fallimento del progetto del mondo moderno è stato determinato dal fatto che le strutture e le ideologie hanno preso il sopravvento sull'uomo, in un'ottica economicistica e materialistica. Per superare dunque la drammatica crisi che ci travaglia e per evitare nuovi fallimenti, occorre compiere una chiara "scelta per l'uomo", restituendogli il primo posto. Del resto non vanno forse in tal senso i valori che la stessa crisi del mondo moderno ha fatto emergere con vigore? Occorre perciò favorire tali valori, svilupparli, aprirli alla visione di un umanesimo plenario. Così al centro della sfida del mondo postmoderno rimane il problema dell'uomo. Perciò dobbiamo chiederci: chi è l'uomo? Quale progetto d'uomo vogliamo realizzare? Ogni coscienza retta si sente interpellata da questo interrogativo. In particolare i cristiani, i quali sanno di essere portatori di un contributo che si può rivelare determinante. 5. Le sfide Quali sono dunque le sfide nate dalla crisi del mondo moderno? E, anzitutto, perché guardando ai problemi del futuro, usiamo il termine "sfida"? Studiando la nascita delle civiltà umane, lo storico A. J. Toynbee osserva che una civiltà nasce come "risposta" a una "sfida", vale a dire è il risultato di uno sforzo compiuto da un popolo per riuscire a vivere e a svilupparsi in una situazione ambientale o storica particolarmente difficile (Toynbee 1983). Ci sono condizioni ambientali o dati storici che, per essere superati, esigono duri sforzi: sono precisamente le "sfide" di cui parliamo. Possono essere di diversa natura e gravità. Alcune possono essere mortali, nel senso che se non vengono affrontate vittoriosamente portano alla morte della civiltà. In realtà se le civiltà nascono perché un gruppo umano riesce a rispondere positivamente alle sfide dell'ambiente e della storia, decadono e muoiono quando divengono incapaci di vincere le sfide delle forze di disgregazione che ogni civiltà porta in sé e sviluppa a mano a mano che diviene più matura. Quali sono le principali sfide che siamo chiamati ad affrontare nel mondo postmoderno? 5.1. La pace Tutte le civiltà sono state sotto l'incubo della guerra, ma con l'avvento dell'era atomica e delle armi di distruzione di massa la guerra ha cambiato radicalmente natura. Non è più il mezzo estremo a cui ricorrere per riparare un torto subito e avere giustizia, per difendersi da un attacco che mette in pericolo l'esistenza e la libertà di un popolo, per esigere con la forza il rispetto di un diritto che si ritiene di avere. Nell'era atomica la guerra non solo è divenuta talmente distruttiva e dannosa che non si può far ricorso ad essa, non potendo mai esserci proporzione tra i vantaggi che se ne sperano e i mali che causa, ma pone in questione l'esistenza stessa dell'uomo sulla terra e la sopravvivenza della civiltà. "O l'umanità elimina la guerra o questa distruggerà l'umanità" (Horkheimer 1975). Perciò la sfida della pace è per l'umanità di oggi in senso pieno e realistico (e non solo in senso figurato) una sfida "mortale", la cui posta è il destino dell'uomo. Mai, durante la storia, questi si è trovato a dover far fronte a una situazione così drammatica. Purtroppo non tutti oggi hanno preso coscienza che quello della pace è un problema non di "ben-essere" ma semplicemente di "essere", di sopravvivenza e che quindi deve avere la prevalenza su tutti gli altri, perché, nella situazione attuale, senza la pace non c'è neppure l'uomo e ogni discorso sugli altri problemi umani cade da sé. 5.2. La fame e il sottosviluppo Si tratta in primo luogo di una questione di giustizia, poiché è gravemente ingiusto che i beni della terra, destinati da Dio a tutti gli uomini, vengano accaparrati da pochi a loro esclusivo profitto oppure bruciati nella folle corsa agli armamenti, mentre immense masse umane vengono lasciate in spaventose condizioni di miseria, di fame e di sottosviluppo. Ma si tratta anche di una questione che ha stretta attinenza col problema della pace. Non è infatti pensabile che possa esserci pace in un mondo in cui un gruppo di popoli fortunati vive in scandalosa opulenza, assediato da altri popoli in cui il livello di vita è destinato non a crescere ma a diminuire. La tensione che tale stato di cose crea necessariamente potrebbe crescere paurosamente fino a sfociare nel conflitto armato. Non a caso gli osservatori politici vedono una possibile causa di guerra nella crescente divaricazione tra il Nord e il Sud del pianeta, vale a dire tra i popoli ricchi che diventano sempre più ricchi e i popoli poveri sempre più poveri. 5.3. Il progresso scientifico Un'altra grande sfida del mondo postmoderno è costituita dall'immenso potere che il progresso scientifico mette nelle mani dell'uomo. Così i progressi in campo biologico danno la possibilità di intervenire nei più delicati processi vitali fin dalle primissime fasi della vita umana (non prendiamo neppure in considerazione l'aberrante ipotesi della clonazione di un essere umano). Tali interventi di ingegneria genetica possono essere a beneficio dell'uomo e dei valori umani, ma possono anche avvenire a scapito della sua "umanità", cioè della sua dignità di persona. Non c'è dubbio che nei prossimi anni gli sviluppi della bioscienza e della biotecnologia permetteranno di modificare e di ristrutturare in maniera irreversibile l'organismo umano, e quindi di pianificare un "nuovo" uomo, con nuovi e diversi caratteri genetici. Un altro aspetto della sfida che il progresso scientifico fa pesare sull'uomo è se questi sarà capace di dominarlo o se invece ne sarà dominato. Già oggi la massima parte dell'umanità non è in grado neppure di comprendere quello che avviene in campo scientifico, anche perché il progresso in tale campo è così rapido e travolgente che quel poco che con grande fatica si riesce a capire è ben presto largamente superato. Per la maggior parte degli uomini non si può quindi parlare di possibilità e di capacità di dominare il progresso scientifico-tecnico. Essi ne saranno inesorabilmente dominati. Anzi è probabile che gli stessi tecnocrati e gli stessi uomini di scienza non saranno più in grado di dominarlo e controllarlo, mantenendolo "a misura d'uomo". Ad ogni modo, essendo essi i soli a possedere i segreti della scienza, disporranno di un potere immenso e praticamente incontrollabile. Una particolare sfida già fin d'ora comincia a lanciare il progresso scientifico-tecnico nel campo del lavoro. L'introduzione delle tecnologie informatiche e microelettroniche nei processi di produzione e di distribuzione con la conseguente automazione dei sistemi produttivi e distributivi, porterà in campo industriale a un "collasso di lavoro" (Sherman 1979), cioè a una drastica contrazione dei posti di lavoro. Alcune previsioni indicano che entro alcuni anni, nei settori più tipici della produzione di massa, specialmente in quella dei beni di consumo durevoli, almeno la metà dei posti di lavoro degli operai potrebbe risultare superflua. Anche il settore dei servizi tende a una sempre più larga automazione con fortissimi risparmi di manodopera: la Federazione Internazionale dei Lavoratori del Commercio prevede il licenziamento, nel giro di pochi anni, del 20-25 % dell'attuale personale impiegatizio nei Paesi CEE. Con l'introduzione delle nuove generazioni di robot in grado di automatizzare le varie fasi del montaggio dei prodotti, l'impatto dell'automazione sull'occupazione, in alcuni settori è diventato drammatico. Questo "collasso di lavoro" esigerà, sempre più, oltre a una diminuzione dell'orario di lavoro, forti interventi dei poteri pubblici per governare il processo di cambiamento, in modo che la caduta dell'occupazione nell'industria e nei servizi sia controbilanciata dall'aumento dell'occupazione nei servizi educativi, sociali, del tempo libero e nelle produzioni necessarie al miglioramento della qualità della vita. Non c'è dubbio tuttavia che esso già ora pone gravissimi problemi sociali, se appena consideriamo che la disoccupazione giovanile in Sicilia raggiunge in certe parti addirittura il 50%. 5.4. La libertà In realtà la sfida che nasce dal progresso scientifico-tecnico è quella della libertà. E' chiaro infatti che l'estendersi della computerizzazione a tutti i settori della vita e dell'attività umana restringerà enormemente (se addirittura non lo eliminerà del tutto) il campo delle decisioni e delle scelte dell'uomo, poiché sarà il computer a dire quello che in una data situazione è meglio, anzi, è necessario fare. E all'uomo non resterà che eseguire. D'altra parte il computer dirà quello che i tecnocrati vorranno fargli dire essendo essi a "programmare", cioè a scegliere i dati da fornire al calcolatore, il quale non farà se non elaborarli. Questo rischia perciò di divenire strumento di potere in mano a una nuova classe sociale (quella dei tecnocrati) sulla quale ogni controllo, non solo "dal basso", ma anche da parte dei responsabili politici, sarà praticamente impossibile. 5.5. Il nichilismo Ma forse la sfida più grave che il mondo postmoderno deve affrontare è quella del nichilismo. Esistono nel mondo attuale (e, a quanto è dato prevedere, diverranno sempre più vigorose in futuro) potenti forze di distruzione sia della vita umana, sia dei valori che la rendono degna di essere vissuta. Infatti, alla base delle pratiche contraccettive, abortive ed eugenetiche, che causano l'eliminazione di un numero sempre crescente di esseri umani e pongono per i popoli dell'Occidente gravi problemi di sopravvivenza, non ci sono solo motivazioni di ordine economico e sociale, ma anche motivi ispirati alla sfiducia nel futuro, oltre che all'edonismo, e soprattutto al rifiuto della vita come valore per il quale abbia senso e valga la pena fare qualche sacrificio e imporsi alcune rinunce. L'interrogativo che è posto drammaticamente all'uomo di oggi è dunque questo: la vita umana ha valore, ha senso, oppure è senza valore e senza senso? Meglio ancora: la vita ha un valore assoluto, sacro, per cui va protetta e difesa in qualsiasi condizione, anche negativa (malattia, sofferenza, vecchiaia) oppure ha un valore relativo, per cui può essere sacrificata ad altri valori che si ritengono più importanti, come la salute, il benessere, il piacere? 5.6. Il disagio esistenziale dei giovani Fermiamoci, per ovvie ragioni, alla situazione italiana: - la diffusione della violenza: i media comunicano avvenimenti dai contorni inquietanti. Adolescenti e giovani che buttano pietre dai cavalcavia sulle vetture in transito, che si stendono sulle corsie delle arterie stradali oppure sui binari ferroviari sfidando follemente la sorte, che commettono omicidi e atti vandalici per emulare gli "eroi" di una pellicola cinematografica oppure di un fatto di cronaca, che si buttano a tutta velocità con la propria auto contro un muro, oppure che giocano alla roulette russa per vedere se ne escono vivi, che consumano aberranti omicidi ai danni dei genitori, dei congiunti, degli amici, di gente sconosciuta; - la diffusione della tossicodipendenza, un problema purtroppo noto da tempo (cfr. gli Atti della Conferenza nazionale sulla droga, tenutasi a Napoli dal 13 al 15 marzo 1997); - la precocizzazione della criminalità, un fenomeno dai contorni più recenti: il numero degli adolescenti denunciati, negli ultimi anni è passato da 21.264 unità nel 1987 a 44.788 nel 1992 (cfr. Istituto Nazionale di Statistica, I minorenni e la giustizia e altri aspetti della condizione giovanile - anni 1987-1992, Roma, ISTAT, 1994); - la diffusione del suicidio fra adolescenti e giovani, che registra un inquietante incremento in tutte le società "complesse" in cui, negli ultimi vent'anni il numero dei suicidi dei giovani è raddoppiato, raggiungendo la quota di 30 ogni 100.000 unità (CENSIS, L'orizzontalità del mondo giovanile, Roma, Censis, 1992). Sono agghiaccianti i messaggi di addio lasciati dagli autori di questi gesti disperati: essi testimoniano la fatica di crescere, cioè l'incapacità di "integrare l'identità con l'alterità implicata nel processo dello sviluppo al fine del conseguimento della identità matura" (Cfr. S. De Pieri, La fatica di crescere, in "Rassegna CNOS", 1994). Le giovani generazioni sono colpite particolarmente dalla sindrome del non senso della vita e perciò non sono capaci di sacrificio. Siamo tutti interpellati dal problema del "disagio verso la vita" che costituisce una vera e propria contraddizione rispetto all'azione educativa che dovrebbe preparare alla vita. In particolare, all'interno della riflessione che stiamo conducendo, occorre riflettere su quanto questa condizione risenta della cultura refrattaria alla situazione religiosa. E' importante, per sciogliere questo nodo problematico, interrogarci situandoci da una prospettiva di tipo pedagogico. Si può preparare all' "alterità della vita" senza aprirsi all' "alterità dell'Altro"?, si chiede G. Mari , e risponde: "I sintomi di disaffezione rispetto alla vita e alla realtà, che giungono da adolescenti e giovani, sono accomunati dalla fatica di interagire con l'alterità; ritengo che ciò dipenda anche dalla emarginazione del fattore religioso il quale è iniziazione all'alterità in quanto correlato alla trascendenza che è Alterità" (cfr. L'ateismo nel cambiamento: la negazione di Dio in un mondo che si trasforma, fogli ciclostilati, 1995). 6. La risposta cristiana 6.1. Di fronte a queste difficoltà ci chiediamo se l'uomo ha la capacità di affrontarevittoriosamente le sfide che abbiamo accennato. Noi rispondiamo affermativamente anche a motivo della fede che professiamo. Questa è fede in Dio, ma non in un Dio qualsiasi, ma in un Dio creatore e padre dell'uomo: è perciò anche fede nell'uomo. Se infatti Dio lo ha creato a sua immagine e gli ha dato il potere di dominare il mondo, si deve ritenere che esistono in lui potenzialità quasi infinite e capacità ancora inespresse che possono manifestarsi proprio di fronte a sfide nuove e inedite della storia. In quanto è immagine di Dio creatore, l'uomo riflette l'infinità divina ed è perciò, a suo modo infinito. 6.2. Ma la fede cristiana fornisce un motivo di speranza ancora più solido e profondo, perché fondato su due verità essenziali del cristianesimo: l'Incarnazione e la Resurrezione. - Con l'Incarnazione, Dio stesso, facendosi uomo, è entrato nella storia umana e ha fatto proprio il destino dell'uomo, con tutto quello che esso ha di drammatico e terribile. Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi, partecipa della nostra storia, dà alla storia quel che gli eventi anche più fragorosi non danno: cioè un riferimento sicuro e non la instabilità, la progressione in avanti e non il caos. La venuta di Dio nel mondo è un grande annuncio di responsabilità a costruire storia interpretando e gestendo gli eventi, senza essere da loro psichicamente dipendenti. La connessione fra i drammi degli ultimi mesi e la celebrazione dell'Avvento che stiamo vivendo è quindi fortissima: più le cose del mondo diventano difficili più impegnano la nostra responsabilità; più ci fanno capire che anche nel nostro piccolo quotidiano portiamo avanti un pezzetto non revocabile della storia del mondo; e più ci fanno avvertire che tale storia non potrebbe farsi se Dio non fosse venuto ad abitare in mezzo a noi. Dopo l' 11 settembre il rinserramento nella religiosità personale non basta più, occorre continuare con calma a fare storia. - Con la Resurrezione Cristo ha vinto le forze del male e ha immesso nella storia la "potenza della Resurrezione" (Fil 3,10) cioè una fora di liberazione e di rinnovamento dell'uomo e del mondo, una forza che "fa nuove tutte le cose" (Ap. 21,5). Ora, se Cristo è presente nella storia umana con la potenza della Resurrezione, l'umanità non può andare verso la catastrofe e la morte, ma pur tra sofferenze e convulsioni, va verso la vita, cammina verso il Regno di Dio. E' chiaro però che Dio non si sostituisce all'uomo nei compiti storici propriamente umani; lo ispira, lo incalza, lo sostiene, gli è vicino, ma lo lascia libero di decidere, di fare o di non fare, di far bene o di far male. Perciò il destino del mondo è nelle mani di Dio, ma anche nelle mani dell'uomo. La storia del mondo è in gran parte la storia della libertà umana. Ecco perché per rispondere alle sfide del mondo postmoderno, è necessaria una fortissima tensione morale. 7. L'umanesimo moderno 7.1.Questa tensione non può tuttavia poggiare sul vuoto. Deve avere come base una visione dell'uomo e del mondo che possa ispirarla e sostenerla: quindi una cultura. Una cultura che faccia perno sull'uomo e sui valori umani, che metta l'uomo e i suoi valori al primo posto e ne riconosca la priorità sulle ideologie e sulle strutture sociali, politiche ed economiche. Dunque una cultura umanistica. Quale umanesimo può fondare il grande impegno morale che oggi si richiede per rispondere alle sfide del mondo postmoderno e per ristabilire il primato della persona e dei suoi valori essenziali? Sono questi, forse, gli interrogativi più decisivi che si pongono all'uomo d'oggi. La "cultura moderna" ha voluto certamente essere una cultura umanistica, una cultura cioè che pone l'uomo al suo centro e ne esalta i valori. Storicamente ha avuto il grande merito di aver fatto emergere e di aver sviluppato nella coscienza dell'uomo i valori della dignità e della libertà della persona, della tolleranza, del pluralismo, della solidarietà, dell'uguaglianza, del rifiuto del razzismo e di ogni forma di discriminazione. Tuttavia l'umanesimo della cultura moderna, nonostante i suoi aspetti positivi, è gravemente riduttivo, secondo noi, per due motivi. 7.2.In primo luogo è un umanesimo laicistico, che cioè o ignora Dio ritenendolo "irrilevante" per l'uomo e per il suo destino, o lo combatte come suo nemico e avversario. Ciò ha portato all'esclusione di Dio dalla vita, sia individuale che sociale, e alla costruzione di un mondo chiuso in se stesso e refrattario a ogni idea di trascendenza. Ma un umanesimo agnostico e ateo può essere un umanesimo plenario? Ecco un problema sul quale credenti e non credenti sono irriducibilmente divisi. In realtà, Dio è costitutivo dell'uomo e ne fonda l'"umanità", cosicché senza Dio l'uomo si dissolve e la sua umanità, cioè i valori che lo costituiscono uomo, resta senza solido fondamento. Se muore Dio, muore e finisce anche l'uomo. Ne ebbe l'intuizione lo stesso Nietzsche, quando nella Gaia Scienza (n. 126) faceva dire al folle che annunciava l'uccisione di Dio: "Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Non è il nostro un eterno precipitare? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia?"
Ecco dunque: nichilismo, manca il fine, manca la risposta al "perché", non c'è una verità, non c'è una "cosa in sé"; alle cose non corrisponde nessuna realtà. I valori svalorizzati sono il principio primo (Dio) e il fine ultimo (l'essere, il bene, la verità). Molti vedono nel nichilismo la categoria riassuntiva della modernità filosofica. "Il nichilismo infatti implica la nullificazione del senso dell'essere, il rifiuto di ogni fondamento, la negazione di qualsiasi verità oggettiva, la completa mancanza di scopi nel divenire umano e cosmico. Da esso consegue, sul piano morale, lo scetticismo intorno alle certezze, al senso, ai valori" (G. Mucci, "Il nichilismo nell'enciclica Fides et Ratio" in "Civiltà Cattolica", 1999 I, 359) Ciò che distingue l'uomo da tutti gli altri esseri è il suo carattere di assolutezza. Ora tale carattere gli viene dal fatto che egli partecipa dell'assolutezza di Dio, in quanto è creato a sua immagine, riflette nella sua intelligenza e nella sua volontà l'infinità divina e ha Dio per fine supremo. 7.3.In secondo luogo l'umanesimo della cultura moderna è naturalistico e materialistico nel senso che riduce l'uomo a un mero elemento della natura, a un frammento del mondo materiale soprattutto nel senso che lo spirito umano altro non sarebbe che un epifenomeno della materia, un prodotto dell'evoluzione biologica: "Io sono un insieme di acqua, calcio e molecole organiche chiamato Carl Sagan" (Time, del 20 ottobre 1990). Ma se le cose stanno così, che cosa distingue l'uomo dagli altri esseri viventi, soprattutto dagli animali superiori? Se egli non è che una "scimmia nuda" - naked ape - ( Morris 1967) che cosa proibisce di trattarlo al pari degli altri esseri viventi? Perché avrebbe una "dignità" che gli altri viventi non hanno? In realtà, la dignità dell'uomo viene dal fatto che egli non è un semplice elemento della natura, un aggregato di materia, ma è una persona: un essere cioè che, se per il corpo fa parte del mondo materiale, per lo spirito si eleva al di sopra della materia e con l'intelligenza e la libertà è capace di dominarla; un essere il quale non è totalmente chiuso nella temporalità, ma per l'immortalità (che è un carattere dello spirito) trascende il tempo; un essere che è sempre fine e non può mai essere ridotto a mezzo o usato come strumento per il raggiungimento di altri fini. Perciò un umanesimo laicistico, materialistico e naturalistico non può fondare una morale pienamente umana, in quanto non può offrire principi di azione che rispettino l'uomo nella sua integrità di persona e ne salvaguardino e promuovano, armonizzando gli uni con gli altri, tutti i valori: non solo quelli attinenti alla componente biologica del suo essere, ma anche quelli riguardanti la sua realtà spirituale, quali sono i valori morali e religiosi; non solo i valori individuali ma anche quelli sociali. 8. Per un umanesimo integrale L'umanesimo della cultura moderna va dunque corretto e integrato con una visione umanistica che, mentre ne conserva i valori positivi, colmi i suoi caratteri manchevoli e riduttivi. Il mondo postmoderno ha cioè bisogno di un umanesimo "integrale" e "plenario". Questo deve poggiare su alcuni fondamenti che, alla luce della crisi del mondo moderno, appaiono essenziali e tra loro strettamente legati. 8.1. L'apertura a Dio Infatti solo Dio può fondare l'uomo come valore assoluto e giustificare l'intangibilità e l'inalienabilità della persona umana. A questo proposito va rilevato che il più grave equivoco dell'umanesimo moderno (il suo errore più radicale con le conseguenze che tutti lamentiamo) è stato quello di credere che Dio fosse un rivale e un avversario dell'uomo e che quindi per consentire a questi di essere pienamente se stesso, bisognasse eliminare Dio. Infatti l'ateismo moderno è essenzialmente "postulatorio": non si cura cioè di provare che Dio non esiste, ma ne "postula" la non-esistenza come condizione perché l'uomo esista. Per esso non conta che realmente Dio ci sia o non ci sia. Semplicemente "non deve esistere", affinché l'uomo possa essere. Questo concetto di Dio come negazione, anzi come "vampiro" dell'uomo è quanto di più demoniaco la mente umana abbia potuto escogitare: è la menzogna radicale. Infatti Dio non toglie ma dà, poiché è Lui che fa essere; non è nemico dell'uomo, ma padre e amico; non ha invidia che l'uomo sia, ma ne gioisce; la sua gloria non sono l'umiliazione e la morte, ma la grandezza e la vita dell'uomo: "La gloria di Dio è l'uomo che vive" (Gloria Dei vivens homo) ha scritto S. Ireneo. Perciò un umanesimo aperto a Dio non è un umanesimo diminuito e impoverito, ma più ricco e più pieno. 8.2. L'assolutezza dell'ordine etico E' importante rilevare che l'ordine etico non è estrinseco all'uomo, ma è l'espressione del suo essere, della sua natura umana, in quanto questa è principio di azione. In altre parole, la norma morale è la legge dell'uomo, del suo essere e del suo divenire; è la legge che ne guida dal di dentro lo sviluppo nel senso dell' "umanità"; cosicché solo seguendola si diviene pienamente e veramente "uomo". Perciò un umanesimo amorale e immorale è inesorabilmente un anti-umanesimo; così come un umanesimo fondato sul relativismo della norma morale (storicismo) non potrà mai salvare l'assolutezza della persona. Dobbiamo qui ricordare che il relativismo e il soggettivismo morali, così spesso esaltati come un progresso rispetto all'assolutezza e all'oggettività della norma etica, non hanno favorito la crescita dell'uomo e l'espansione della sua libertà, ma hanno spianato la strada al libertarismo e al permessivismo, fino alle forme più gravi di violenza e di disprezzo della vita umana. In quanto legge dell' "umanità" dell'uomo, l'etica non può essere disgiunta e separata dalle altre attività umane, ma tutte deve guidare affinché la dignità e l'integrità dell'uomo siano tutelate. Perciò nella visione di un umanesimo integrale, la scienza, la politica e l'economia non possono essere separate dall'etica, altrimenti diventano non forze di costruzione e di promozione dei valori più autenticamente umani, ma forze di distruzione. La scienza E' deleterio il divorzio tra scienza ed etica, tra ricerca scientifica e problemi etici in essa implicati. Più che nel passato ci rendiamo conto oggi della radicale ambivalenza della scienza: essa può rendere grandi servizi all'uomo, ma anche distruggerne i valori (vedi la clonazione dell'embrione umano) e perfino provocarne la morte, se si ritiene sciolta da ogni norma morale. Nell'era atomica l'umanità potrebbe morire proprio di progresso scientifico! La politica La separazione tra l'etica e la politica ci ha condotto a riconoscere alla politica il primato, fino a fare della ragione politica (la "ragion di Stato") e dell'interesse politico (la Realpolitik) la norma e la giustificazione della condotta degli Stati, generando così situazioni oppressive e ingiuste, che sono all'origine di innumerevoli conflitti dell'epoca moderna. L'economia Lo sganciamento dell'economia da ogni norma etica - caratteristico del mondo moderno - ha portato a sacrificare l'uomo, i suoi valori ed esigenze alle leggi "ferree" dell'economia, alle esigenze del profitto e della produttività. E' stato l'errore dell'economicismo, che "considera il lavoro umano esclusivamente secondo la sua finalità economica" (Laborem exercens, 13) 8.3. L'importanza della ragione Non la ragione "strumentale", che è la riduzione di questa facoltà specifica dell'uomo a puro strumento di razionalizzazione della realtà, in vista di una più grande produttività economica o di una migliore organizzazione della società, ma la ragione metafisica, che è la facoltà propria dell'uomo di cercare, discernere e trovare la verità in ogni campo, vincendo l'irrazionalismo, l'emotività, le passioni, l'istintività. Poiché l'intelligenza umana è fatta per la verità, tutti possono convenire nella verità che la ragione scopre; questa perciò è una facoltà di per sé unificante, capace di creare tra gli uomini una comunione profonda. Soprattutto è una facoltà umanizzante, perché si è uomo nella misura in cui si usa bene la ragione e ci si lascia guidare da essa nel proprio agire. Perciò, contro tutte le forme d'irrazionalismo, di esaltazione dell'istintività, di disistima della razionalità, bisogna oggi riaffermare il valore della ragione. Anche una certa tendenza al fideismo ( e più in generale, alla sfiducia nella ragione) che va diffondendosi tra alcuni cristiani del nostro tempo, deve essere respinta, sia come un attentato alla fede, di cui in tal modo si misconosce la razionalità e quindi l'umanità, sia come un pericolo per il credente, perché una fede non fondata razionalmente non può resistere a lungo alla forza corrosiva del dubbio. Del resto è stato gloria e merito del pensiero cristiano aver esaltato e tenuto nel massimo conto il valore della ragione umana: San Tommaso scrive che la ragione è ciò che c'è di più grande nella natura umana (principatum tenet in natura humana) anzi è ciò che la perfeziona (hominis ratio perficit naturam ipsius). 8.4. La solidarietà tra gli uomini Tale solidarietà trae origine dal fatto che abbiamo tutti una identica natura e un identico destino, e quindi la stessa nobiltà e lo stesso valore; e anche dal fatto che, per giungere alla pienezza umana, abbiamo bisogno gli uni degli altri. L'uomo è per sua natura un essere sociale; perciò gli altri non sono "l'inferno" (Sartre), non sono estranei, avversari, nemici, ma fratelli. Un individuo è "uomo" nella misura in cui tratta gli altri come amici e fratelli, perciò con giustizia e carità. L'homo homini lupus è dunque espressione di inumanità; e chi si comporta con gli altri come "lupo" si pone a un livello subumano: è un "barbaro", per quanto alto possa essere il suo livello di perfezione tecnica. Ecco perché il mondo attuale, diviso in blocchi che si fronteggiano minacciosamente con armi di terribile potenza distruttiva e contrassegnato da una situazione di radicale ingiustizia e di mancanza di solidarietà da parte dei popoli ricchi nei confronti dei popoli poveri, non è un mondo umano e civile, ma inumano e barbaro. 8.5. Umanesimo e fede cristiana Promuovere una nuova cultura all'insegna dell'umanesimo plenario come condizione per una risposta adeguata alle sfide del mondo postmoderno, è dunque il grande compito della nostra generazione. Alla realizzazione di questo compito la fede cristiana può dare un contributo molto importante. Infatti, rivelando che Dio ha elevato l'uomo alla dignità di figlio suo, facendolo "partecipe della natura divina" ( 2 Pt 1,4) e che Cristo lo ha redento "a prezzo del suo sangue" (At 20,28), la fede rafforza la dignità della persona umana: - facendo della legge morale l'espressione della volontà di amore e di salvezza di Dio per l'uomo, la rende più salda; - illuminando con la propria luce soprannaturale la ragione umana, la rende più perspicace, più certa e più sicura nella ricerca della verità e soprattutto ne rende più ampio l'orizzonte; - infine rivelando che Dio è Padre di tutti gli uomini e che questi in Cristo sono fratelli e devono amarsi e servirsi fino a dare la propria vita gli uni per gli altri, rafforza la fraternità e la solidarietà tra gli uomini, stimola a realizzare la giustizia e a perfezionarla con la carità. In tal modo la fede cristiana è generatrice di umanesimo; e l'azione della Chiesa, pur essendo essenzialmente religiosa, contribuisce a promuovere l'umanesimo integrale. "La chiesa - afferma il Concilio - perseguendo il suo proprio fine di salvezza, non solo comunica all'uomo la vita divina, ma diffonde anche la sua luce con ripercussione in qualche modo su tutto il mondo, soprattutto per il fatto che risana ed eleva la dignità della persona umana, consolida la compagine dell'umana società e immette nel lavoro quotidiano degli uomini un più profondo senso e significato. Così la chiesa, con i suoi singoli membri e con tutta intera la sua comunità, crede di poter largamente contribuire a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia" (Gaudium et Spes, 40). E' stato affermato che dopo l'11 settembre o ci facciamo carico delle ingiustizie fra i popoli o il mondo civile non avrà futuro (Giovanni Bazoli, in Avvenire, 28.11.2001). Sta a noi cristiani impegnati, affinché - in questo difficile momento di transizione dal mondo moderno al postmoderno - la fede sia fermento di un umanesimo integrale e contribuisca a porre le basi di una nuova civiltà, segnata dal primato della persona umana, dalla giustizia e dalla solidarietà. "I valori della modernità, a cominciare dalla democrazia liberale e dall'idea dei diritti umani, sono applicazioni dell'eredità biblica, attuate dal cristianesimo. Nella misura in cui pongono l'accento centrale sulla dignità della persona umana essi realizzano il senso essenziale del messaggio evangelico che è la carità" (Vattimo, in Liberal, giugno-luglio 2000). Tutto questo noi lo chiamiamo "civiltà dell'amore". Parte seconda: Le sfide del postmoderno e dinamiche educative 1. La sfida dell'inculturazione 1.1. Inculturazione e fede Parlando a docenti di Religione mi sembra importante chiarire il concetto di inculturazione della fede, che consiste in una inserzione del vangelo (considerato come evento di rivelazione e di salvezza e non come corpo di dottrine) in un concreto spazio culturale in modo da aprirne le espressioni di vita a nuovi orizzonti e da permettere alla fede di svilupparsi secondo le risorse e il genio proprio del popolo o categoria di persone a cui quella cultura appartiene. Il punto decisivo, come ricorda Y. Congar, è che la fede non è una cultura ma storia e vita; questa stessa fede, tuttavia, non può esistere che inculturata e riespressa nelle forme proprie di una cultura (Congar1976). Nel nostro caso nella mentalità dei ragazzi a noi affidati. Il risultato di questo processo è comunque chiaro: vi sono tante forme di cristianesimo quante sono le culture che questi ha assunto e trasformato (Luzbetak 1971). In questo senso lo sviluppo della Chiesa lungo il primo millennio non è che un lungo processo di inculturazione in cui la Chiesa si è misurata con il mondo giudaico, con la cultura greco-latina, con quella slava e con quella germanica; in questo impegno la Chiesa si era caratterizzata per la sua straordinaria capacità di accogliere, integrare e trasformare il patrimonio tradizionale dei popoli che incontrava. Nel secondo millennio invece, dando vita alla grandiosa figura medioevale della christianitas, la Chiesa si è come irrigidita sulle posizioni acquisite: anche sotto la spinta delle scoperte geografiche prima, della rivoluzione tecnologica e informatica poi, fatica a prendere le distanze da quella "forma occidentale" che l'ha lungamente contrassegnata. 1.2. Inculturazione e vita Mi pare opportuno ricordare che la cultura, per noi, è il modo specifico di esistere dell'uomo: è il frutto della sua intelligenza e della sua libertà nel progettare, volere e realizzare il rapporto con sé, con il mondo, con Dio. E' ciò per cui un uomo diventa più uomo e accede alla sua vita. Per questo è irrinunciabile: senza cultura non c'è umanità perché questa non esiste a monte delle sue realizzazioni culturali, ma solo in esse e attraverso esse. Queste affermazioni spiegano il ritrovato interesse per il posto della religione nei processi storici dell'umanità. Abbandonata la visione marxista di una religione oppio del popolo, il nostro tempo conosce un rinnovato interesse per il mondo religioso. Da Assisi ai vari organismi di collegamento mondiale tra le religioni, lo sforzo è quello di interrogarsi sul contributo delle varie fedi al cammino storico di questa umanità; anche là dove l'interpretazione del "religioso" prescinde dal Trascendente per fermarsi solo al piano etico, l'interesse e la rinnovata fiducia per questa dimensione aprono ad un vivo senso di responsabilità. I "nodi" che una teologia dell'inculturazione si trova ad affrontare sono alla fin fine tre. Il primo riguarda il rapporto tra la singolarità di Cristo e la cattolicità della chiesa. Il secondo dato è la scoperta dell'altro (Levinas 1980), la scoperta di una alterità che deve rimanere se stessa senza venire integrata o, peggio ancora, distrutta in una logica di assimilazione. Il terzo elemento è la riscoperta oggi del valore della religione e del suo apporto al cammino storico del mondo. Teologicamente parlando invece il senso dell'inculturazione è definitivamente stabilito in Cristo: in Lui l'umano e il divino sono definitivamente legati in una unità personale.(Colzani 1996). 1.3. Inculturazione e vangelo Confrontata con questo modello concreto, l'inculturazione trova le sue ragioni e il suo senso. - Anzitutto vi trova la sua sorgente, l'amore universale del Padre.La proclamazione di questa buona notizia si collega all'umanità di Gesù, ma risale pure alla storia intima delle persone divine. L'amore evangelico perciò non va pensato solo in termini di efficienza caritativa ma anche , e soprattutto, in termini di comunione di persone realizzate nella loro diversità proprio in forza del dono di sé all'altro. Raggiunto da questo vangelo, il credente è rinnovato da esso e da esso è reso capace di irraggiarlo sul mondo intero. - Va poi ribadita la struttura dialogico-incarnatoria di questo vangelo cristiano. Con l'incarnazione di Gesù il vangelo dell'amore del Padre assume la corporeità e la spiritualità umana e, attraverso essa, raggiunge tutta la creazione.Con Gesù l'umanità è introdotta nell'amore di Dio secondo quella modalità svelata nel crocifisso rivelatore del regno, il dono di sé. - Va poi richiamata anche la struttura pasquale del vangelo dell'amore:la crocifissione di Gesù "fuori le mura" (Eb 13,13) ricorda come il dato dell'avvenimento pasquale sia un Gesù che si spoglia della sua identità di israelita e, nella assolutezza del dono di sé, muore per tutti, cioè si fa incontro ad ogni identità culturale facendola sua. Ogni particolarità storica che si riveli discriminante rispetto ai grandi temi dell'amore di Dio e dell'amore per l'uomo e il suo mondo, è qui abbandonata. Ogni particolarità storica che si riveli capace di servire il progetto di Dio è invece assunta e valorizzata. - Infine va ricordata la struttura pentecostale del vangelo dell'amore:è infatti lo Spirito che raduna i popoli di ogni lingua, etnia e cultura in una riconciliazione universale operata da Gesù. Questo è dunque il compito della Chiesa: sacramento di salvezza, essa opera per illuminare e animare ogni cultura con il vangelo; sono "tentazioni" tutte le figure integriste o sincretiste che cercano di deviarla da questa missione. A tutti e a tutte le culture dovrà richiamare la necessità di uscire da una logica possessiva e conflittuale per tendere a una prospettiva di confronto, di dialogo e di accoglienza reciproca. Le diverse identità culturali vanno aperte ad una logica universale non già sconfessando le proprie caratteristiche ma mettendole a servizio dell'intera umanità. 1.4. Inculturazione e società odierna In questa prospettiva la situazione culturale odierna, nella sua dinamica globale, rappresenta una sfida senza precedenti. Il punto cruciale è il vorticoso mutamento in cui viviamo: siamo entrati in un pluralismo culturale e religioso mai sperimentato finora. Da una parte si va verso una apertura mondiale, facilitata dalla tecnologia e dai media, che arriva a porre a contatto universi culturali e religiosi tradizionalmente diversi ed estranei tra loro; dall'altra nascono esigenze di identità locale difficili da gestire. Da qui una tensione tra universalismo e particolarismo non facile da interpretare e da controllare. Si deve comunque ritenere assodata la fine dell'eurocentrismo, almeno in termini politici e culturali anche se non ancora economici. La situazione culturale del mondo appare oggi notevolmente diversificata: l'area democratico-tecnologica dell'occidente è profondamente diversa da quella islamica, da quella delle tradizionali religioni africane, da quella asiatica e da quella latino-americana. Questa fluidità culturale rende ancor più indispensabile l'inculturazione: non si può evangelizzare senza entrare in profondo dialogo con questi mondi. La fine dell'eurocentrismo trascina con sé la fine del modello cristiano occidentale come modello esportabile ovunque e per tutti. La fine di questa determinazione occidentale della fede comporta un diverso livello di comunicazione di idee e di pensiero, un diverso modello dei rapporti tra fede e società, tra vangelo e vita, aldilà delle problematiche, quasi esclusivamente europee, della secolarizzazione e dell'ateismo, della tecnologia e del benessere. 1.5. Inculturazione e promozione della persona Per conto mio l'inculturazione deve cominciare con l'ascolto, con la conoscenza di coloro a cui si annuncia il vangelo. Non basta il rispetto ma occorre simpatizzare con l'identità culturale degli interlocutori, identificandosi, fin dove è possibile, con la loro vita e le loro tradizioni. Solo così nasce il dialogo, la comprensione e la fiducia. L'attenzione al vangelo si fa così attenzione alle persone, con i problemi della loro dignità e della loro libertà. Promuovere la persona nella sua integralità esige impegno per la fraternità e la solidarietà, il servizio e la giustizia, la liberazione e la crescita comune. 2. La sfida delle culture 2.1. L'uomo narcisistico e l'uomo comunitario La cultura occidentale, negli ultimi secoli, ha commesso "l'errore di Narciso" (Lavelle 1970). Sia l'individuo sia il gruppo sono stati tentati di ripiegamento; spesso si sono autocentrati, dimenticando le tradizioni di apertura dello spirito europeo. Su questo sentiero si è approdati alla solitudine e all'incomunicabilità sul piano individuale; al razzismo, al nazionalismo, al corporativismo, sul piano societario. L'uomo comunitario, che si profila in alternativa a quello narcisistico, è anzitutto l'uomo aperto in profondità (capace di cogliere i propri valori) in lunghezza (proiettato verso il futuro), in larghezza (capace di accogliere l'altro, il diverso, persino l'avversario, riconoscendo in ciascuno un titolare di qualche riflesso di verità dell'uomo e per l'uomo), aperto soprattutto in altezza (alla ricerca incessante del totalmente Altro, come fondamento e approdo della storia). La chiusura ad extra è morte ad intra (Palumberi 1993). 2.2. Dominio e conflittualità In occidente il criterio di azione dell'uomo dell'ultimo millennio è lo spirito del dominio, generatore di conflittualità. E' in questo bubbone che va operata l'incisione e la sostituzione della radice marcia, con lo spirito della convivialità, generatrice di comunità. L'avidità come atteggiamento e il profitto assoluto come valore-guida hanno rinnegato, rispettivamente, la solidarietà e la giustizia, che sono i coefficienti primi della convivialità insieme all'uguaglianza. "La grande inversione di valori, che comincia a delinearsi su scala mondiale, può essere interpretata come una rivalutazione di atteggiamenti e valori considerati "tipicamente femminili" e una svalutazione di quelli considerati "tipicamente maschili": la forza, l'aggressività, il produttivismo, il disinteresse per il corpo sono sempre meno apprezzati; la tenerezza, la sensibilità, la capacità di creare il proprio nido d'amore, lo sono sempre di più" (Jungk 1975). 2.3. Interiorità e convivialità Questo spirito di convivialità va assunto come l'anima di una nuova civiltà che, o passerà attraverso questi confini o si perpetuerà nel prossimo millennio la spirale della frenesia del possesso, della concorrenza, della conflittualità. E' la tesi largamente approfondita da I. Illich. Non si può essere conviviali con gli altri se non si è uomini interiori. L'interiorità, che è equilibrio della vita di coscienza, è la convivialità dell'uomo con se stesso. Chi non ha fatto convivio dentro di sé non può essere esperto del convivio fuori di sé. Solo chi sa stare bene in solitudine con se stesso è atto a stare bene in compagnia con gli altri. Il compito primo dell'educatore è sulla linea di questo duplice passaggio: dalla banalità all'interiorità e poi dall'interiorità conflittuale a quella conviviale. Il dominatore frenetico non sa vivere con se stesso, è sempre al di fuori di sé. E corre. Cioè trans-corre da un oggetto all'altro, dal suo ring di lotta ad un altro, magari di maggiore violenza. Il conviviale è chi, esperto dell'incontro con se stesso, sa discendere anche nell'altro (Illich 1981). 3. La sfida delle religioni 3.1. Il dialogo interreligioso Nei dialoghi tra fedeli delle diverse religioni, oggi sempre più frequenti, prima o poi sorgono delle domande sulle caratteristiche fondamentali e sulle differenze che intercorrono tra una fede e l'altra. I tratti polemici, che sussistevano nel passato e che minavano fortemente qualsiasi tipo di avvicinamento, sono sempre più riconosciuti oggi (pur con le dolorose eccezioni dei vari fondamentalismi) come inaccettabili e la pretesa di affermare la propria superiorità negando ogni valore all'esperienza altrui sembra ormai cedere il passo alla disponibilità a camminare insieme nella conoscenza dei valori presenti in ogni confessione religiosa. La preoccupazione di individuare e offrire le ricchezze della propria tradizione religiosa e nello stesso tempo il desiderio di accogliere quelle delle altre, infatti, costituisce l'essenza del dialogo interreligioso. Il Concilio ha certamente dato alla Chiesa Cattolica una forte spinta in questa direzione, anche se il cammino da fare è ancora lungo sia a livello di accoglienza, sia a livello di riflessione teologica. Tuttavia l'atteggiamento di ascolto e di dialogo risulta ormai irrinunciabile per una chiesa che si è riscoperta pellegrina assieme a tutti gli uomini verso la pienezza del Regno. Il dialogo interreligioso si dimostra una delle sfide più importanti del nostro tempo, non solo nell'ottica della convivenza, ma anche in quella della autocomprensione della fede. Esso infatti è la strada, attraverso la quale ciascuna religione può penetrare sempre più profondamente dentro la ricchezza della propria tradizione, cogliendone ed esprimendone l'essenziale. Perciò tale sfida dovrà coinvolgere l'impegno di tutti i credenti, nella quotidianità della loro esperienza di incontro e di convivenza. Tale "spazio" ci è offerto oggi soprattutto dalla presenza degli immigrati musulmani. 3.2. L'Islam tra differenziazione e dialogo culturale 3.2.1 La questioni islamica Il mondo islamico offre oggi lo spettacolo di un universo variegato e lacerato, pencolante tra forze centripete della 'Umma (o comunità di Maometto) e quelle centrifughe della Watan (o patria). L'Islam rappresenta, nell'immaginario collettivo, l' "altro" per eccellenza. Nel mondo, dopo la caduta del comunismo, è certamente la più grande alternativa alla cultura occidentale e, in Occidente, la maggiore alternativa al cristianesimo tradizionale. L'Islam a noi italiani appare anzitutto come un mistero: non lo conosciamo e spesso ci fa paura. Tendiamo a concepirlo con categorie spesso inadeguate; crediamo si tratti di una questione di "politica estera", che riguarda gli stranieri, e interpretiamo le sue manifestazioni in Italia a partire dall'immagine che abbiamo delle vicende dei paesi di origine degli immigrati. Non riusciamo ancora a coglierlo come una storica novità interna. I mezzi di comunicazione diffondono immagini stereotipate e pregiudiziali, dando spazio alle manifestazioni estreme, evidenziando le notizie sensazionali, eppure man mano che l'Islam italiano acquisterà la sua fisionomia, vedremo cambiare molte cose della nostra vita quotidiana: le strutture sanitarie, i cimiteri, le banche, la macellazione e la ristorazione, le festività e le ferie, l'abbigliamento, i costumi. I musulmani sono portatori di elementi che mettono in discussione il rapporto tra fede e laicità dello stato, il ruolo sociale della donna, il rapporto tra i sessi, la cultura del corpo, il significato del matrimonio, le forme dell'educazione. L'Islam non è una novità nella nostra storia: abbiamo testimonianze evidenti della presenza musulmana in terra italiana, specialmente in Sicilia, ma pochi sanno indicare quanto della nostra cultura tradizionale è eredità della dominazione islamica del passato. Proviamo ancora difficoltà ad immaginare dei pii islamici pienamente cittadini italiani, anche se in Italia, come in gran parte dell'Europa, quella musulmana è diventata ormai una presenza costante e definitiva. Assistiamo a una svolta storica, ad una rapida crescita di quello che per secoli è stato considerato, e per alcuni lo è ancora, il nemico della cristianità e della civiltà europea. Per gli stessi islamici la presenza in Occidente rappresenta una novità dagli esiti difficilmente prevedibili: appartengono spesso a comunità etniche minoritarie con un radicamento sociale debole. Devono reggere il confronto con realtà religiose e culturali maggioritarie e quindi potenti, e questo li porta da un lato a doversi mostrare benevolmente disposti verso lo Stato e i cittadini, e dall'altro ad apparire spesso chiusi nei loro confronti. Difficilmente riusciamo a cogliere la loro grande diversità interna, legata alla provenienza geografica e ai modi più vari di vivere la fede. I musulmani ci appaiono un blocco monolitico eppure l'Islam europeo, a differenza che nei paesi di origine, si caratterizza per una considerevole pluralità interna. La cultura scolastica ci è poco utile alla comprensione di questo mondo che ormai vive tra noi. I nostri studenti poi non possiedono gli strumenti per cogliere la rilevanza, nella loro vita, di elementi legati all'appartenenza culturale. Su queste tematiche l'insegnamento della Religione Cattolica, penso, ha oggi ancora molto da recepire ed eventualmente da includere nei suoi programmi didattici. 3.2.2. La sfida dell'Islam Il Mediterraneo è sempre stato laboratorio di futuro e crogiolo di civiltà: già ieri, quando vigevano scambi frequenti anche se limitati nei mezzi, tanto più oggi quando gli scambi si fanno sempre più intensi. Il suo spazio-test diventa pertanto più alto per la sua dimensione di interculturalità e plurietnicità che oggi costituiscono una delle sfide primarie all'Occidente. Ieri il bacino del Mediterraneo si presentava come melting pot di civiltà greca, romana, normanna, spagnola, islamica. Era luogo di intrecci culturali, di esperienza di comunicazione, di accoglienza, di tolleranza. Oggi rischia di rivelarsi come spazio di incomunicabilità. La guerra del Golfo, e ancor più i fatti dell'11 settembre, hanno rivelato la tendenza da parte dei paesi occidentali alla presa di distanza dagli interessi degli arabi, con la condanna unilaterale, con la mentalità del più forte economicamente, con lo schieramento bellico. Occorre riavvicinarsi al mondo islamico, ancora e sempre motivo di fascino e diffidenza. La tendenza alla mondialità, che sta caratterizzando l'inizio di una nuova cultura, è accoglienza del diverso. Deve esserlo tanto più del vicino diverso (Negrini 1999). Da quale base si può partire per fissare una solidità di scambi culturali, affinché alla fase del contrasto di civiltà subentri quella della collaborazione fra popoli? Il punto di inizio non può essere quello di tipo puramente economico. Esso infatti è segnato in occidente da logiche di profitto e di concorrenza. E la sua assunzione sarebbe una sconfitta in partenza per i più deboli. Né può essere quello di carattere politico, impregnato come è di ideologie e di pregiudizi. Occorre piuttosto studiare forme di dialogo culturale e interreligioso, con atteggiamento di grande rispetto reciproco per le diversità dei valori della giustizia, della pace, della difesa dell'ambiente, della libertà religiosa. Il dialogo ad extra verso il mondo dell'Islam, si rende più credibile con il dialogo ad intra nei confronti del mondo islamico presente in casa nostra. Il flusso di immigrazione proveniente dai paesi arabi è un problema culturale e politico di primissimo piano. E' un fatto di giustizia, all'interno di un'ottica di mondialità, al di là delle logiche polarizzate dell'indifferenza, da una parte, e della repressione poliziesca, dall'altra. Anche le strutture dellUnione Europea sono chiamate a trasformarsi nelle loro radici culturali. Va superata l'impostazione della problematica nei termini dell'antiterrorismo e dell'anticriminalità internazionale, che costituisce ancora la base statutaria delle strutture dell'Unione Europea interessate al problema del mondo islamico. 3.3. La sfida dell'intercultura 3.3.1. L'educazione alla mondialità La soglia del terzo millennio, propiziata dagli strumenti di comunicazione sempre più universalizzanti, è pronta per un'operazione di completamento dell'evoluzione, in cui l'unità è convergenza e la diversità è ricchezza. La vera rinascita della comunità umana comincia dalla coscienza della sua unità (Huizinga, 1962). E' il vero rinascimento del terzo millennio, che, diversamente da quello della metà del secondo millennio, presentatosi eurocentrico e letterario, si offre invece come planetario e interculturale. Il nuovo concetto di autocoscienza planetaria supera quello hegeliano di autocoscienza europea e germanica come centro del mondo, che ne è la base, perché condensato dello spirito assoluto (Fromm 1975). Il provincialismo è il bloccaggio della speranza, perché marcia contro la storia. L'unico correttivo è la formazione alla mondialità per una convivialità delle persone e delle culture. Tale convivialità comporta una concreta educazione alla pace, la quale infine costituisce un bene-sintesi, nei vari contesti della vita della famiglia, della scuola, della Chiesa, degli spazi di società amministrativa, politica, sindacale. Educare alla mondializzazione dunque è, a livello di coscienze personali, aiutare a coltivare le premesse di pace, come la tolleranza, la giustizia, la magnanimità, il perdono (Nanni, 1986). A livello radicale della mente, ciò comporta la demistificazione di certe letture ideologizzanti di non pochi nostri testi di storia, carichi di ipocrisia, come sottolineava Don Milani. L'ecumene interculturale trova il suo fondamento nel riconoscimento dell'unico Dio creatore e padre degli uomini, che caratterizza le tre grandi religioni monoteiste dell'ebraismo, del cristianesimo e dell'islamismo. L'uomo pienamente uomo si può sviluppare con una fede matura in Dio e con una sensibilità planetaria nei riguardi della comunità. Grazie ai media e alle strumentazioni dei satelliti, le barriere sono saltate e il "villaggio globale" si estende. Ora però è urgente formare la "famiglia umana" sul piano della conoscenza e degli obiettivi: l'uomo planetario è colui che si spoglia delle ideologie e avverte la convivialità universale come passione. E così cerca l'uomo nella sua umanità, ovunque si trovi, chiunque egli sia (Balducci 1992). "Gesù disse: quando sarò sollevato da terra attirerò tutti a me. Non prima dunque, ma proprio nel momento in cui, sollevato sulla croce, egli entrò nell'agonia ed emise il suo spirito, spogliato di tutte le determinazioni. Non era più allora né di razza semitica, né ebreo, né figlio di David. Era universale, come è universale il nulla della morte, e come è universale la qualità che in quell'annullarsi divampò: l'amore per gli altri fino all'annientamento di sé. E' in questo annientamento per amore la definizione di Gesù, uomo planetario (
). La sua universalità va riposta qui, in questo suo libero insediarsi, per amore degli uomini, nel cuore della totale negatività" (Balducci 1985). L'unico umanesimo oggi valido è quello dell'uomo planetario. E' un ecumenismo sostanziale: la sostanza comune è l'umanità; le specificazioni del ruolo professionale, dell'appartenenza nazionale e culturale, dell'istituzione religiosa, politica, vengono in secondo piano. L'uomo planetario mette al centro dei suoi valori l'uguaglianza che si traduce nel riconoscimento della dignità dell'altro, non perché è bianco o è ricco, ma perché è uomo, titolare cioè degli stessi diritti da riconoscere, a partire da quello dell'esistenza fisica a quelli della sussistenza, del pane, del lavoro, della casa, della salute; a quelli del livello morale, della libertà; a quello spirituale, al riconoscimento della coscienza, e della propria religione. La storia ha giocato contro questo umanesimo dell'uguaglianza oggi urgente. I forti hanno perfino idealizzato le loro posizioni, attraverso le varie forme di razzismo, tendente a giustificare (con argomenti persino biblici) la differenza della razza bianca da quella nera (i negri, trattati come schiavi, venivano fatti risalire a Cam, sotto il segno della maledizione di Noè). Questo germe patogeno del razzismo, è scoppiato nel secolo scorso nella forma del nazismo e dell'apartheid, ed oggi nelle manifestazioni di xenofobia e di violenza contro gli immigrati. 3.4. La sfida dell'accoglienza del diverso Uno dei segni più vistosi della nostra storia recente è il flusso incessante dell'immigrazione. Essa non è uno sfizio: è necessità di vita causata dall'aggravamento delle condizioni economiche e spesso politiche delle aree terzomondiali, in concomitanza con un notevole aumento di popolazione giovanile e di una domanda di cultura e di lavoro qualificato. La povertà di mezzi costituisce il fattore determinante. Nel 1997 il reddito pro capite del Terzo Mondo si aggirava sulle 900.000 all'anno, mentre in Europa oscillava dai 15 ai 18 milioni. Gli aiuti dei Paesi industrializzati, nello stesso periodo, si sono aggirati appena sullo 0,36% del PIL, livello che peraltro è risultato assorbito e spesso superato per il pagamento delle rate e degli interessi sui debiti. Si aggiungano pure altri fattori, quali la corruzione di certa classe dirigente e politica, l'impreparazione tecnica, l'alto investimento in armi, i conflitti interni che dissanguano spesso in tutti i sensi quelle popolazioni povere. La vita media nell'Africa settentrionale oscilla intorno ai 40 anni. Quella dell'Occidente si aggira sui 76 anni. Le condizioni di miseria si vanno aggravando. Il divario si va allargando. Il livello degli squilibri va aumentando. L'80% degli abitanti del pianeta è costituito dalla fascia dei "dannati della terra". E di questo 80%, la maggioranza assoluta è formata da giovani. Di contro, la più vasta aerea della popolazione del mondo opulento è fatta di anziani. Di qui, dal primo versante, la necessità fisiologica e dall'altro, quella operativa, la necessità dell'emigrazione. Di qui, ancora, da parte dell'Ovest, la sindrome dell'assedio di uomini poveri e bisognosi di tutto e il panico nell'atto di accogliere masse sempre più numerose dalle sponde del Sud del Mediterraneo e dell'Atlantico. Di qui, infine, il rilancio delle Leghe, le serrate di fila nella cittadella fortificata, l'esasperazione e demonizzazione di disagi e degradi. La sfida forse più importante del Duemila si chiama l'accoglienza del diverso. Certamente, la soluzione del dramma immigratorio è in gran parte di tipo politico. L'unica uscita di sicurezza consiste nel riformulare le politiche di accoglienza con un piano di solidarietà concordata, per gestire il fenomeno con scelte preventive. Un nuovo modello di sviluppo potrebbe essere proprio l'aprire le frontiere con una programmazione illuminata e concordata. L'immigrazione nei nostri Paesi diventa, a questo punto, necessità economica non solo per gli ospitati ma anche per gli ospitanti. I quali sono chiamati ad un chiaro test di civiltà che si fonda sulla giustizia e sul rispetto della dignità dell'uomo mai trattato come mezzo, ma sempre come fine. L'immigrazione può trasformarsi in sottoproduzione di nuove schiavitù, all'interno di una società senza valori, con una amministrazione pubblica e servizi sociali spesso carenti. La storia più recente conferma che questo rapportarsi al valore dell'uguaglianza è entrato ormai nel tessuto della coscienza occidentale. L'Occidente del terzo millennio è al banco di prova della sua identità e, sul terreno dell'emigrazione, gioca la partita della sua credibilità. La tentazione di barricarsi nel proprio palazzo, ignorando coloro che bussano alla nostra porta - i quali peraltro non vengono ad elemosinare ma a collaborare - costituirebbe la perdita di un'occasione storica per costruire una civiltà più ricca di valori. La multirazzialità deve passare dallo stadio di pura necessità ad una vera scelta di civiltà. Il razzismo è anzitutto una anti-dimensione all'interno del cuore dell'uomo, prima che essere un comportamento socio-politico. Tra i tanti principi, che teoricamente si danno per scontati, ma che in pratica restano smentiti, primeggia oggi questo: il Nord e il Sud, un solo mondo. La conseguenza, tanto logica quanto disattesa, è che il futuro dell'umanità è uno e indivisibile. I fenomeni delle guerre, inquinamenti, spaccio di droga, come pure i fenomeni del turismo, di movimenti per la pace e l'ecologia, di interazione di borse e finanze, ci convincono sempre più che l'interdipendenza planetaria (la mondializzazione) sia ormai un dato incontrovertibile, nel bene e nel male. E questo punto di non ritorno ci vieta di impostare i problemi ancora in un'ottica di provincialismo. L'umanità tende, oggi più che mai, a diventare in pienezza ciò che è già nel suo codice genetico: una e plurima nella giustizia. E' una: tutti gli uomini appartengono alla stessa specie. Godono pertanto della stessa dignità (in se stessi) e dell'uguaglianza (sul piano relazionale). E' questo il messaggio dell'ebraismo-cristianesimo. E' plurima: la diversità è letta ormai come dislivello antinaturale. Da questa visione derivano le tratte dei negri, i campi di sterminio, i pogrom e i gulag, le torture per i reati di opinione, i razzismi e i nazionalismi. Il futuro passa per la complessità e unità del mondo, che ormai è il trend evidentissimo della comunità storica (Peccei 1984). 3.5. La sfida della formazione Se ci prefiguriamo il mondo che ci attende e valutiamo in che misura i nostri allievi siano stati preparati ad affrontarlo, penso sia lecito affermare che la scuola italiana non corre certo al passo coi tempi. I giovani più attenti rimangono sconcertati dal contrasto tra la vivacità dei problemi legati alla società multiculturale e l'estraneità dei curricula scolastici su questi stessi temi. Il futuro passa dunque per la coscienza planetaria e l'impegno interetnico. L'Italia sta cambiando e cambierà sempre di più. Il pluralismo nel nostro paese crescerà e nello stesso tempo crescerà la portata internazionale delle questioni che richiedono ampie conoscenze. Una volta capito che cosa e in che direzione sta cambiando, occorre dirigere i mutamenti e chiederci soprattutto: che genere di cittadini produce il nostro sistema formativo? Martha Nussbaum, parlando della società americana, nota: "Come cittadini siamo frequentemente chiamati a prendere decisioni che richiedono un certo grado di conoscenza dei gruppi razziali, etnici e religiosi, nonché della situazione delle donne e delle minoranze (
) La nuova enfasi sulla "differenza" nei programmi del college e delle università è soprattutto un modo per cimentarsi con quanto si richiede alla cittadinanza, un tentativo di formare adulti che possano essere cittadini non solo di alcune aree geografiche circoscritte a gruppi, ma anche e soprattutto, cittadini di un mondo complesso e irrelato" (Nussbaum, 1999). Esperienze del genere, provenienti da contesti in cui le questioni multiculturali risultano più mature, ci fanno capire l'urgenza del problema e suggeriscono alcune direzioni verso cui incamminarci. Prossimità e lontananza, differenze e dialogo, pluralità e identità
che cosa di tutto questo possono dire e in che misura sono in grado di interpretarlo in maniera originale i nostri allievi? La scuola dovrebbe essere il luogo in cui si formano personalità capaci di fare sintesi e di elaborare nuovi significati comuni, nuovi modelli di appartenenza. Si tratta di riconoscere che la ricerca di identità passa da un dialogo mai definito con l'altro, lo straniero, l'estraneo. E' un'opera di traduzione, di mediazione tra mondi culturali diversi, una mediazione che diventa completamento reciproco dei frammenti di verità. Spesso si considera come allarmante il fatto che i giovani sono i soggetti meno legati alla tradizione, ma questo ci facilita anche nella capacità di una simile opera di mediazione. Dall'esperienza ecclesiale (cattolica, cioè universale) ci sentiamo interpellati a riflettere, a proporre e a preparare nel presente le condizioni per la convivenza, la comunione dialettica, il riconoscimento, l'appartenenza, la partecipazione e la cittadinanza in una società plurale e multiculturale. Condizioni che vorrei precisare con alcune proposte: 1. Identità, appartenenza e dialogo La nostra identità e la nostra tradizione devono essere ripensate e reinterpretate se vogliamo perseguire un autentico dialogo tra le culture. E' necessario capire quali sono gli elementi caratterizzanti e di distinzione, e incoraggiare la convivenza con elementi eterogenei come una abitudine normale di pensare e comportarsi. L'affacciarsi all'orizzonte di nuove comunità attraverso l'immigrazione offre la possibilità di realizzare questo indispensabile ripensamento e di superare una immagine pregiudiziale e stereotipata dello straniero. Se il dialogo ha bisogno di reciprocità tra culture diverse, ne consegue la necessità per la società di incoraggiare lo sviluppo e la coscienza della diversità. E' importante evitare qualsiasi chiusura pregiudiziale nelle politiche dell'immigrazione. 2. La Chiesa nella società plurale Se gli immigrati trovano nelle istituzioni religiose una possibilità di identificazione e di riconoscimento delle proprie peculiarità culturali, dobbiamo accettare con serenità anche la loro "visibilità" nello spazio pubblico. Nell'ambito della formazione spirituale ed ecclesiale dei nostri allievi, serve molto poco serrare le fila e rinvigorire dogmi e dottrine. Piuttosto è necessario il recupero di ciò che è davvero importante: essenzialità evangelica e maturità culturale. Fondare i progetti formativi su Parola e cultura significa da un lato aiutare a trovare una identità all'interno del pluralismo e, dall'altro, educare i cristiani a una grande apertura. Così che la comunità cristiana, facendosi prossima a ciò che oggi ci appare "lontano", sarà in grado di comunicare credibilmente il Vangelo. 3. L'insegnamento delle religioni a scuola Sono convinto che le religioni, in quanto elementi fondamentali delle culture, sono - e saranno in maniera crescente - elementi chiave per la convivenza. Lo studio delle religioni non può perciò restare estraneo all'ambiente scolastico, in cui per eccellenza si formano i cittadini. Un bagaglio di conoscenze relative all'ambito religioso sarà sempre più indispensabile nella vita quotidiana. Poiché una tentazione costante in certi cristiani è quella di identificare il Regno di Dio con qualche sua realizzazione storica e particolare, penso sia necessario che la comunità cristiana (in modo particolare l'insegnante di religione) cerchi di evitare, nella tensione della inculturazione della fede, di confondere certe categorie occidentali con la fede stessa. 4. La questione islamica L'attuale impostazione scolastica non è molto utile alla comprensione del mondo musulmano che ormai si è insediato stabilmente in mezzo a noi. I nostri allievi non possiedono gli strumenti per cogliere nella loro vita gli elementi legati all'appartenenza culturale dei migranti islamici (etica, sessualità, alimentazione, costumi sociali). Su queste tematiche la scuola oggi insiste ancora troppo poco e pertanto i curricula dovrebbero essere ricalibrati in senso interculturale. 5. Per una nuova idea di formazione Per riacquistare credibilità la scuola deve partecipare alla ricerca di soluzioni ai problemi umani più urgenti: soluzioni non certo di carattere tecnologico ma etico. Per questo è importante investire nell'insegnamento la ricerca sui temi riguardanti la democrazia, i diritti umani, la pace, l'ambiente, la cooperazione e comprensione internazionale, la popolazione, la povertà, il dialogo interreligioso e tutte le questioni connesse allo sviluppo sostenibile: tutti problemi che, sia pure non in modo esclusivo, non possono non rientrare anche nel programma di insegnamento della Religione cattolica. La scuola attuale educa sempre più persone che conoscono sempre più cose su altre culture, ma che non sono in grado di valorizzare ciò che hanno imparato, di dire cosa è giusto, cosa è ragionevole e cosa lo è meno nelle singole culture e religioni. Queste persone imparano "su" altre culture e religioni, ma non imparano "da" altre religioni e culture. 3.6. La sfida di un nuovo ordine mondiale Il futuro passa dunque per la coscienza planetaria e l'impegno interetnico. Bartolomeo Sorge, con un pizzico di utopia, sintetizzava così, alcuni anni fa, le nuove frontiere del terzo millennio: "Nasce l'uomo planetario. La società del Duemila sarà certamente una società planetaria, unificata, universale. Lo annunciano in modo inequivocabile i processi di mondializzazione, che già caratterizzano l'ultimo scorcio del XX secolo. Siamo in cammino verso un nuovo ordine economico mondiale, alla ricerca di un equilibrio diverso tra Nord e Sud, tra Paesi in via di sviluppo e Paesi già sviluppati, legati paradossalmente da un unico destino; la coscienza e lo sviluppo dei diritti fondamentali dell'uomo e delle relazioni internazionali tra i popoli esigono un nuovo ordine giuridico mondiale, nel quale diritti e doveri siano garantiti da una autorità sovranazionale effettiva; nello stesso tempo, l'avvento dell'era atomica ha tolto significato alla esistenza di blocchi militari e ideologici contrapposti, imponendo la creazione di un nuovo ordine politico mondiale, dove la pace si fondi non già su un assurdo equilibrio delle armi o dei missili o sulla paura, bensì su una cultura nuova di fratellanza e di solidarietà; infine è già nato il bisogno impellente di stabilire un nuovo ordine mondiale della comunicazione e dell'informazione, che, attraverso le nuove prodigiose tecnologie, diffonda cultura, conoscenze e notizie, in modo da servire alla mutua comprensione tra i popoli e alla crescita morale di una comunità unita, nella ricchezza del suo pluralismo" (Sorge 1989). Speriamo che almeno alcune di queste previsioni possano avverarsi. Il farsi uomini senza barriere è la condizione necessaria per tendere verso le nuove frontiere. Se il futuro (punto focale di tutto il nostro discorso) significa non un puro svolgimento cronologico, ma coinvolgimento che ci veda impegnati personalmente, queste nuove frontiere costituiscono un appuntamento inderogabile per tutti noi. Conclusione: Verso la pienezza dell'uomo Tutti noi siamo stati educati nella convinzione che al fondo del nostro atteggiamento di superiorità nei confronti delle altre etnie (poniamo del mondo arabo) c'è la certezza che ogni popolo che voglia battere le vie della civiltà non può che passare per la nostra strada. Si tratta di un razzismo culturale estremamente pericoloso. Gorbaciov, a suo tempo, ha affermato che la lotta di classe è un criterio inadatto a comprendere le contraddizioni, perché quando sono in gioco i supremi valori dell'uomo il principio è quello della collaborazione, e questo è il salto necessario che implica una conversione culturale, a cui tutti dobbiamo collaborare, ciascuno al suo posto. Konrad Lorenz diceva che l'uomo d'oggi è uno scalino verso la pienezza dell'uomo se saprà valorizzare la diversità delle razze. Vi è una legge, nella nostra evoluzione, che ci ha portato alla civiltà planetaria: gli studiosi la chiamano la civiltà della ominizzazione (Balducci 1985). Mentre nella fase pre-umana, gli esseri viventi si selezionano attraverso la lotta per la vita, si distruggono a vicenda per vivere, l'uomo - nel momento in cui ha avuto il lampo del pensiero e della coscienza libera - ha cominciato a conoscere un altro tipo di rapporto, quello della collaborazione. Però l'uomo ha conservato in sé anche i meccanismi della lotta per la vita. L'uomo è duplice: si ritrova addosso l'aggressività tipica della fase pre-umana e nello stesso tempo la capacità di comprensione della fase umana. Un fatto, questo, che faceva dire a Theilard de Chardin: "Noi siamo ancora nella preistoria, nel neolitico". Nel neolitico infatti è nata la civiltà: proprio là dove c'è Bin Laden e Saddam Hussein, dove ci sono i pozzi di petrolio, là è nata la civiltà e là forse potrebbe finire. La civiltà è nata come sintesi, come tentativo di equilibrio fra l'aggressività pre-umana e la comprensione umana. La categoria del nemico è una categoria che ha prolungato dentro la storia dell'uomo la spinta pre-umana della distruzione dell'altro. Ora dunque ci troviamo nella fase "planetaria" dell'evoluzione umana, per cui occorre una coscienza adeguata alla dimensione dei problemi. Una dimensione che sul piano ormai del linguaggio politico ricorrente si chiama la categoria della "interdipendenza". Occorre una coscienza dove finalmente il "nemico" diventa l'"altro". Il senso del futuro che viene è l'epifania dell'altro (Levinas 1984). Al di là di qualsiasi differenza - politica, culturale, religiosa - vi è una unità di fondo, che ci deriva dall'essere uomini: è una tensione verso la pienezza umana. Le diversità etniche invece ci presentano una realizzazione di umanità parziale, e questo è il nostro dramma. La strada che dobbiamo battere è quella della differenza nell'uguaglianza. La differenza non è una menomazione, è una ricchezza. E dobbiamo realizzare l'uguaglianza fra gli uomini nel rispetto della differenza: per questo però dobbiamo liberarci della categoria del "nemico" perché demonizza il diverso, lo rende degno di distruzione. Sta cominciando una nuova storia, una storia estremamente più ricca, quella degli scambi fra le culture, della convivenza fra le culture, per convivere con loro, creare città multietniche, multiculturali. In questo processo il momento religioso è certamente il più spinoso. Chi ha della fede cristiana un'immagine culturale non sa come cavarsela. Chi, invece, della fede cristiana ha una visione evangelica, sa che la fede non è una dottrina, una cultura, ma è una profezia, la cui pienezza è nell'ultimo evento. Allora riconosce che il cristianesimo deve far rifiorire la profezia che assume forme nuove nel mondo nuovo in cui viviamo, forme planetarie, e abolire la categoria del nemico. La presenza degli immigrati è una provvidenziale provocazione perché essi ci consentono di portare avanti la nostra rivoluzione culturale a quei livelli cui abbiamo accennato Ne va della nostra identità cristiana, quell'identità a volte così a sproposito sbandierata quando ci vogliamo difendere dal confronto con le altre culture e le altre religioni, quasi contrapponendo un nostro silenzioso fondamentalismo ad altri più numerosi e violenti fondamentalismi. La nostra fede religiosa è infatti una fede non intrisa di rivalità, ma di apertura e accoglienza; è una fede non volta a combattere i processi di evoluzione storica ma a vivificarla dall'interno; è una fede che, esaltando la persona umana tende a valorizzare le diversità, senza fagocitarle o tentare di assimilarle; è una fede quotidianamente organizzata in un corpo sociale planetario e multipolare e non si chiude in posizioni chiuse e grette. Se vivremo coerentemente questa fede creeremo per davvero una società multietnica in cui non ci sarà la semplice giustapposizione, l'una accanto all'altra, di culture diverse, ma ci sarà il dialogo, lo scambio. Dobbiamo garantire l'uguaglianza alle differenze, e questo è un compito fondamentale per noi cristiani di oggi. Gli Stati europei hanno elaborato gli accordi (polizieschi) di Schengen. Di fronte ad un evento epocale come l'emigrazione si risponde quasi soltanto con misure di cautela, necessarie certamente ma non sufficienti. Capisco bene che non si possono addossare ai politici tutte le colpe; sarebbe ingiusto, perché la politica che facciamo non è che il riflesso della cultura che abbiamo. E la vera rivoluzione dobbiamo realizzarla anzitutto a livello culturale: la categoria amico-nemico scomparirà e ci accorgeremo come gli immigrati ci prospettino la necessità di una revisione dei rapporti tra gli uomini. Se viene un immigrato che non è in regola, io gli dico: "Tu non sei regolare con la mia legge, ma col diritto cosmopolitico sei in piena regola, perché nel diritto cosmopolitico nessun uomo è straniero in nessuna parte del mondo". Non è una bella frase accomodante: è la deduzione della concezione del nuovo codice giuridico internazionale in vigore dal '48 in poi. E' una enorme tematica, questa. Sono convinto che incontri come questo, promossi da questo sentimento di responsabilità sociale e dal presentimento che dobbiamo cambiare cultura e stile di vita privata e pubblica, rappresentino utili occasioni per portare avanti questa vera, grande rivoluzione, che porterà l'uomo dalla fase di "ominizzazione", in cui dominava la cultura del nemico, alla fase "planetaria", in cui il nemico non c'è più. C'è soltanto l'altro, con il quale stringere un rapporto di mutua fecondazione e reciproco rispetto e aiuto. Bibliografia consultata
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- Balducci E. La terra del tramonto, Cultura della Pace, Firenze 1992
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- Lévinas E. Il volto dell'altro, Città Nuova, Roma 1984
- Lyotard J. La condizine postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981
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- Toynbee A. Civiltà al paragone, Bompiani, Milano 1983
Nota:
*Relazione tenuta al sesto Convegno di aggiornamento per docenti di Religione cattolica sul tema "Le sfide delle culture nella società globale", presso l'Istituto Teologico S. Tommaso, Messina, 7-9 dicembre 2001.
Zusammenfassung Dieser Artikel ist die einleitende Vorlesung zum sechsten Fortbildungs-Kongress für Dozenten der katholischen Religion, zum Thema: Die Herausforderungen der Kulturen in der globalen Gesellschaft. Er wurde organisiert vom Theologischen Institut S.Tommaso, Messina, vom 7. bis 9. Dezember 2001. Der Autor nimmt sich vor, auf einige Fragen zu antworten: ausgehend von Begriffen wie Modernität und Postmodernität und, welches sind die charakterisierenden Merkmale unserer Zeit? Welche Rolle muss die Religion, und besonders die katholische Kirche im augenblicklichen kulturellen Zusammenhang ausführen? Welches sind die Herausforderungen, die uns von einer Gesellschaft kommen, die immer mehr interkulturell und globalisiert wird? Nach der Beschreibung einiger kultureller Übergänge, welche die Modernität gekennzeichnet haben (besonders die kulturelle, die wissenschaftliche, die politische und die industrielle Revolution), zählt der Referent die größten Doppelsinnigkeiten auf, welche dem humanistischen Projekt der Modernität innewohnen (die Bedrohung der persönlichen Freiheit, eine soziale Ordnung, die im wesentlichen ungerecht geblieben ist und besonders die Angst vor der Zukunft, welche die Menschen heute quält). Diese Doppelsinnigkeiten, die an die Stelle der Krise der großen modernen Mythen getreten sind (der Mythos der Wissenschaft, des Fortschrittes ohne Ende, des Industrialisierungsprozesses, der Ideen der Aufklärung, der schlecht verstandenen Freiheit, der demokratischen Ordnung) und die Gefahr laufen, einige große Werte, welche die heutige Gesellschaft besonders braucht, zu gefährden: der Weltfrieden und die Freiheit des Einzelnen Oder sie heben besonders einige Unwerte hervor, die heute mehr denn je aktuell sind, wie der Hunger in der Welt, die Unterentwicklung, der philosophische und existenzielle Nihilismus, das Unbehagen der Jugendlichen. Die christliche Antwort basiert auf einem integralen Humanismus, der offen ist für die Transzendenz, das Absolute der ethischen Ordnung, der Solidarität unter den Menschen. Die größten Herausforderungen der Postmoderne kommen aus der Schwierigkeit, den interreligiösen und den interkulturellen Dialog korrekt zu formulieren; beide verlangen eine angemessene Bildung des Christen. Der christliche Humanismus zeigt sich als wahrer, vollständiger Humanismus, denn er stellt die Ganzheit des Menschen sicher in seiner Dimension der gegenseitigen Abhängigkeit und der Solidarität im Vergleich mit den andern und in seinem fundamentalen Streben nach Transzendenz, in der Gegenüberstellung mit dem Andern.
Summary This article was the inaugural address given at the Sixth Refresher Conference for Catholic Religion teachers, on the theme: The challenges of cultures in the global society. It was organized by the San Tommaso Theological Institute of Messina, from 7 to 9 December 2001. The author aims to answer some questions: Taking the lead from terms like modernity and post-modernity, what features characterize our times? In the present cultural context, what role is to be played by Religion, and the Catholic Church in particular? What challenges does a society, that is becoming more and more intercultural and globalized, present to us? After describing some cultural passages that characterized modernity (particularly the cultural, scientific, political and industrial revolution), the author enumerates the major ambiguities inherent in the humanistic design of modernity (the threat to personal freedom, a social order that has remained fundamentally unjust, and, above all, the fear of the future that is gripping the people of today). These ambiguities substituted the crisis suffered by the great modern myths (the myth of science, of endless progress, of the process of industrialization, of the concepts taken from the period of the Enlightenment, of an ill-conceived freedom, of democratic order) and run the risk of endangering some major values - like world peace and individual freedom - which todays society particularly needs. They could also underline some negative values, which are actual today, more than ever, like hunger in the world, underdevelopment, philosophical and existential nihilism, poverty of the youth. The Christian response is founded on integral humanism, made up of openness to transcendence, absoluteness of the ethical order, solidarity among human beings. The major challenges of the postmodern era come from the difficulty in correctly establishing inter-religious and inter-cultural dialogue, both of which presuppose an adequate Christian formation. Christian humanism appears as a true integral humanism because it ensures the full realization of the human person. This is founded on his dimension of interdependence and solidarity, in relating with others, and in his fundamental aspiration for the transcendent, in relating with the Other. |