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Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 90,  December 2002, p. 177-182.

Il materno abbraccio della Chiesa

a tutti gli uomini, senza distinzioni*

 

S. E. Mons. Stephen Fumio HAMAO,

Presidente del Pontificio Consiglio della

Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

Il fenomeno della mobilità umana, specialmente nel secolo scorso, è stato costantemente al centro delle premure della Santa Sede,  con interventi che evidenziano sia la profondità di lettura di questa mutevole realtà sociale, sia la capacità di proposte pastorali in vista di una piena accettazione dello straniero e del suo patrimonio culturale e religioso.

I documenti della Santa Sede, in merito, non avvertono dunque solo le ragioni del disagio sociale e della spinta all'emigrazione, ma individuano anche le misure pastorali più adatte in riferimento alle continue trasformazioni del fenomeno migratorio.

Certo nell'arco di più di un secolo, sono profondamente mutate le strutture della Chiesa nel campo della pastorale migratoria  e, prima ancora delle strutture, è altresì cambiato il suo modo di porsi di fronte a tale fenomeno. Infatti da un iniziale atteggiamento allarmistico, per i numerosi pericoli ad esso impliciti, si è passati a vederne pure le potenzialità, spirituali e culturali, secondo il piano divino della storia, pur senza misconoscere il costo umano dell'esperienza migratoria e le sue molteplici incidenze sociali, economiche e politiche.

Significativo mi pare quindi il contesto socio-politico in cui è apparsa l'Exsul Familia. I gravi sconvolgimenti prodotti dalla guerra nel tessuto economico europeo avevano cioè creato nei paesi più deboli una nuova spinta all'emigrazione.

L'immediato dopoguerra vedeva un'Europa in preda a drammatiche tensioni politiche ed economiche: alla necessità e alla difficoltà della ricostruzione si affiancava una relativa sovrappopolazione in alcuni Paesi e una notevole carenza di manodopera in altri, mentre si imponevano modelli di sviluppo che causavano nuovi squilibri sociali. La ripresa economica inoltre veniva impostata in maniera squilibrata, privilegiando la concentrazione degli investimenti in alcune nazioni, provocando così nuovi flussi di mobilità sia interna che internazionale.                                      

Accanto ad una emigrazione economica, diventavano poi sempre più rilevanti drammatici fenomeni delle migrazioni "politiche", soprattutto in Europa. A seguito degli accordi di Potsdam, per esempio, quindici milioni di tedeschi, che vivevano a oriente della linea dell'Oder-Neisse e nell'Europa sud-orientale, furono espulsi e trovarono rifugio nelle due Germanie.

Così, mentre in varie nazioni era rilanciata l'attività delle opere assistenziali e religiose per gli emigrati  (in Italia sorgeva la Pontificia Commissione Assistenza Profughi, di Mons. F. Baldelli e, nel 1949, veniva riaperto il Pontificio Collegio Emigrazione, in cui erano preparati i sacerdoti diocesani destinati all'assistenza agli emigrati italiani), si sentiva il bisogno di un intervento particolare della Santa Sede, che rilanciasse e organizzasse il vasto e complesso campo della pastorale e dell'assistenza religiosa in materia.

Il documento organico, che riveste una ufficialità non comune fra quelli in materia di emigrazione, venne e si concretò nella Costituzione Apostolica Exsul Familia, di Pio XII nell'agosto del 1952. Con questo atto solenne, il papa si rese soprattutto promotore di una ristrutturazione dell'assistenza ai migranti delle varie nazionalità, stabilendo una disciplina, comune e universale, nella Chiesa cattolica. Per questo motivo la Exsul Familia è considerata la magna charta del pensiero della Chiesa sulle migrazioni: essa è infatti il primo documento ufficiale della Santa Sede che affronta in modo globale e sistematico, sia dal punto di vista storico che pastorale e canonico, l'assistenza spirituale ai migranti.

Se, formalmente, il documento riaffermava la competenza della Congregazione Concistoriale nell'assistenza spirituale di tutti gli emigranti, sottolineandone l'impostazione sostanzialmente verticistica e centralizzata, al tempo stesso esso introduceva la figura del  Direttore nazionale delle opere di emigrazione. Sul piano dei principi risultò importante affermare che l'assistenza andava compiuta da sacerdoti della medesima lingua o nazionalità dei migranti, adeguatamente preparati e posti sotto l'autorità dell'Ordinario del luogo.

Tra gli strumenti pastorali si raccomandava l'erezione di parrocchie nazionali e di missio cum cura animarum, in cui i "poteri" del missionario risultano cumulativi a quelli del parroco locale. Il problema etnico era entrato dunque nella "amministrazione" della Chiesa universale, anche se in un'ottica strettamente istituzionale. Si introducevano in sostanza elementi di pluralismo nell'assistenza agli emigrati, contro la tendenza a una immediata assimilazione caratteristica della pastorale di molti episcopati di insediamento dei migranti.

Il documento pontificio in parola riconfermava inoltre, nei contenuti,  molte affermazioni tradizionali della Chiesa, accentuandone al tempo stesso aspetti più attuali. Oltre al valore primario della persona umana, cioè, era presentato il diritto naturale ad emigrare, affermandosi altresì una  limitazione della sovranità dello Stato di fronte agli impellenti bisogni degli emigranti, l'esigenza di una  migliore distribuzione delle ricchezze nel mondo e la destinazione universale dei beni della terra. Si propugnava anche una concezione più "universale" della Chiesa e si suggeriva uno scambio di clero in  diverse parti del mondo.

Particolare risalto veniva dato infine, nel documento pontificio, alla realtà italiana. Per essa si raccomandava ai vescovi  di occuparsi con maggiore solerzia e dedizione dei fedeli che emigravano, mentre veniva riconfermato il ruolo del Pontificio Collegio dei sacerdoti per gli emigranti italiani, nella loro preparazione specifica.

Con la visione storica si possono notare nell'importante documento, certo, alcune lacune: così l'impegno dei religiosi e delle religiose non appare evidenziato nella peculiarità del loro apporto e il laicato non risulta avere particolare rilievo, nella parte normativa. Ma il limite maggiore risiede nella norma che limita la cura pastorale specifica, per i migranti, soltanto fino alla seconda generazione, dando così per concluso e scontato, con essa, il processo di inserimento ecclesiale.

Tali lacune saranno peraltro via via ovviate da successivi interventi del magistero ecclesiale. Così negli anni Sessanta la Chiesa cercherà di dare una risposta pastorale ai numerosi avvicendamenti che in continuità ricompongono il quadro complessivo delle migrazioni internazionali, vale a dire il processo di integrazione europea, la stabilizzazione dei flussi migratori intraeuropei, con il sorgere e il diffondersi dell'immigrazione dai Paesi del Terzo Mondo, il nascere di alcune mete migratorie in alcuni Paesi di rapida espansione dell'area del petrolio e l'esplodere del massiccio fenomeno dei rifugiati nelle regioni di tensione internazionale.

Sono gli anni, quelli,  che segnano la grande stagione del Concilio, del rinnovamento nelle strutture della Chiesa e del suo rinnovato impegno di evangelizzazione. La Chiesa si confronta con la nuova realtà del mondo contemporaneo con un nuovo spirito di collaborazione, vedendo nei fenomeni salienti del mondo i "segni dei tempi", alla luce della Parola di Dio e del Magistero.

Così anche i problemi migratori trovano  in Concilio la loro collocazione. Si insisterà  sulla dignità  e sui diritti del migrante e sulla dimensione culturale del fenomeno migratorio; si denunceranno le cause delle vecchie e nuove migrazioni, e cioè lo sviluppo disordinato dell'economia e certe scelte politico-economiche; si  esprimerà la convinzione che la Chiesa, nella sua cattolicità, potrà diventare segno e strumento di ordinamenti nuovi, anche in favore dei migranti.

Il rilancio conciliare porterà quindi ad un impegno delle Chiese particolari, che, sempre più, dibatteranno il problema migratorio nel loro interno, ed appronteranno adeguati mezzi di intervento, sentendosi ormai prime responsabili del fenomeno.

Il Concilio Vaticano II e i documenti sociali di Paolo VI avevano poi gettato ormai le basi di un aggiornamento anche della pastorale migratoria, in relazione ai fondamentali temi della Chiesa, dello sviluppo e della pace.

Mentre a livello nazionale sorgevano e si consolidavano le varie Conferenze episcopali e gli organismi specializzati per l'emigrazione, risultava quindi opportuna, anche a livello centrale, una riformulazione di tutta la materia, cosa che si fece col  Motu proprio Pastoralis migratorum cura e con l'Istruzione De pastorali migratorum cura,  del 1969.

I due documenti si riferiscono perciò alla complessa e complicata problematica della mobilità contemporanea. Nel processo di integrazione nella società di accoglimento si dovrà allora rifiutare un'assimilazione passiva e un'integrazione acritica e dannosa per l'individuo e per il gruppo etnico. L'immigrato va rispettato in quanto tale, con tutte le sue forme espressive  legittime, culturali, sociali e religiose. L'emigrazione comporta poi  diritti e doveri, primo dei quali risulta il diritto di emigrare, cui corrisponde il dovere di contribuire lealmente, da parte del migrante, allo sviluppo del Paese di insediamento.

Tale insegnamento sarà in seguito ripreso nelle continue sollecitazioni di Giovanni Paolo II  (particolarmente sensibile ai problemi, religiosi e culturali dei migranti) il quale, nelle encicliche e nei numerosi suoi discorsi ha lanciato costanti appelli alla solidarietà umana e cristiana nei loro confronti.

Con base nella collegialità,  in senso largo, come accennavamo sopra, sono poi ormai le Conferenze episcopali delle singole Nazioni le prime responsabili del coordinamento della pastorale dei migranti. Inoltre, per l'appello alla partecipazione effettiva di tutte le componenti ecclesiali all'evangelizzazione,  secondo la  vocazione, propria a ciascuno, sono pure i laici,  i religiosi e le istituzioni ecclesiastiche antiche e i movimenti nuovi che, insieme, devono far fronte ai problemi posti dai flussi di popolazioni provenienti da aree sempre più lontane, nel conseguente confronto interculturale e interreligioso.

Il quadro degli interventi a favore dei migranti si arricchiva intanto, nel 1970, di strutture specifiche con la creazione, da parte di Paolo V, della Pontificia Commissione per la Pastorale delle migrazioni e del turismo (trasformasi, nel 1989, nell'attuale Pontifico Consiglio della Pastorale per i migranti e itineranti) a cui furono affidati importanti compiti di coordinamento, animazione e stimolo, rispetto soprattutto alle singole Conferenze episcopali. Anche molti sinodi diocesani, per quanto riguarda il problema e la pastorale migratoria, dimostrano la cresciuta sensibilità per l'inserimento dei migranti  nella vita comunitaria, civile ed ecclesiale.

Giovanni Paolo II poi, nei suoi frequenti interventi sulla problematica - umana, sociale e religiosa - dell'emigrazione ha dato e dà a questo fenomeno, oggi sempre più visibile, una singolare impronta personale, caratterizzata dal forte umanesimo delle sue encicliche. La difesa dei diritti fondamentali della persona umana diventa infatti una delle  vie privilegiate attraverso cui anche si esprime l'annuncio evangelico. Lo stesso patrimonio culturale di ciascun gruppo etnico assume così uno speciale legame col messaggio cristiano, per incarnarlo. La difesa dell'eredità culturale di un popolo è dunque, in un certo modo, protezione di ciò che lo contraddistingue nella sua evoluzione e caratterizzazione storica,  in  strettissimo rapporto tra fede, cultura e civiltà.

La Chiesa si trova quindi, ora e sempre, nuovamente impegnata ad aggiornare gli strumenti di analisi e di programmazione pastorale.

Certamente, cinquant'anni fa non erano ancora entrate nelle nostre case le immagini di file di profughi, di esuli e deportati in guerra,  nei Balcani, nell'Angola o nel Monzambico, né delle "carrette del mare" stracolme di clandestini albanesi, curdi o africani. I nostri televisori non ci avevano ancora mostrato i volti di migliaia di esseri smarriti, sfiniti e affamati in cerca di un posto di lavoro, di sicurezza, di futuro per sé e la propria famiglia. Non  ci erano ancora apparse quelle scene di sopraffazione e di morte, tanti visi terrorizzati di nostri fratelli, le devastazioni dei loro corpi, e quella desolazione dei loro villaggi distrutti dalla violenza, dall'odio e dalla vendetta.

Quegli stranieri, feriti, oppressi, disperati, non sbarcavano ancora sulle coste italiane, mentre erano ancora essi, un secolo fa,  gli italiani a passare il mare nella ricerca di lavoro e di un avvenire migliore.

La Chiesa era lì con essi ad approntare i primi soccorsi ai feriti, a sfamare piccoli e grandi, a dare un alloggio o un riparo, per quanto umile e precario, ad assumersi soprattutto il compito di aprire una strada che allargasse lo sguardo, accogliente, di tutti, dei cristiani anzitutto.

Exsul Familia, Gaudium et Spes, Pastoralis Migratorum cura, Chiesa e mobilità umana: la successione è impressionante. In vari momenti la Chiesa ha offerto al mondo passi decisivi della sua dottrina sociale, quali la centralità della persona, la difesa dei diritti fondamentali dell'uomo, la tutela e la valorizzazione delle minoranze, nella società civile ed ecclesiale, il valore delle culture nell'opera di evangelizzazione, il contributo delle migrazioni alla pacificazione universale, la dimensione ecclesiale e missionaria del fenomeno migratorio, l'importanza del dialogo e del confronto all'interno della società civile, della comunità ecclesiale e tra le diverse confessioni e religioni.

Nei documenti, ma non solo,  anche nella sua vita concreta, nell'azione pastorale dei suoi missionari - sacerdoti, religiosi e laici - la Chiesa si è posta di fronte ai problemi più cruciali del  fenomeno migratorio, vale a dire la difesa dei diritti fondamentali della persona, tra cui sta il diritto a emigrare e a non emigrare, per vincere gli squilibri socio-economici che causano l'emigrazione, specie quella clandestina, per sconfiggere la tratta delle schiave e degli schiavi, favorendo la riunificazione delle famiglie, l'unità familiare e la scolarizzazione dei figli degli emigrati. Particolare attenzione la Chiesa dà, nel contesto migratorio, ai  giovani, alle donne e agli anziani.

Ma la Chiesa si è interessata ed è sollecita per tutte le categorie della mobilità umana: oltre ai migranti, economici e politici, mi riferisco ai rifugiati, ai turisti e pellegrini, ai marittimi, ai rom e sinti, ai circensi e lunaparkisti e agli studenti esteri. Ha intrapreso, la Chiesa, un confronto e un dialogo con l'islam, con migranti musulmani e di altre confessioni religiose. Al suo interno, essa  ha "risvegliato" i laici cristiani, chiamandoli a una precisa responsabilità di animazione nelle loro comunità, in comunione profonda con i loro Vescovi e sacerdoti; ha creato nuove strutture pastorali per il servizio religioso ai migranti; ha elaborato nuovi modelli operativi in vista di una più incisiva presenza nel territorio e nella costruzione di comunità giustamente integrate; ha prospettato, infine, una dimensione universale e missionaria all'azione pastorale, nel momento in cui il pluralismo etnico e culturale sta diventando tratto caratteristico della società odierna.

La Chiesa non guarda dunque solo a se stessa. Essa guarda al mondo intero, ha davanti a sé tutti gli uomini, di ogni colore, razza, nazionalità e religione

Celebrando il 50.mo anniversario della Exsul Familia, la comunità ecclesiale prende sempre più coscienza della sua missione universale nel mondo e nella storia, davanti a Dio e a gli uomini, fiduciosa  che i migranti saranno alla fine strumento di unità e di pace, in un mondo sempre più unito, nel bene, e solidale.                                          

* Pubblicato su “L’Osservatore Romano” di domenica 4 agosto 2002, in occasione del cinquantenario della Costituzione Apostolica Exsul Familia.
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