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Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 90,  December 2002, p. 139-147

Movimento operaio ed emigrazione

 in Europa*

Rev. P. Angelo NEGRINI, C.S.,

Officiale del Pontificio Consiglio

della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

Introduzione

L'attuale processo di integrazione politica ed economica in Europa, unito a un sempre più preoccupante tasso di disoccupazione, non può certo lasciare indifferente il mondo operaio: si rende sempre più urgente una iniziativa coordinata e unitaria del movimento sindacale a livello europeo, intesa a fronteggiare un'economia che è andata, sempre più,  sviluppandosi al di sopra dei confini dei singoli Stati.

Assistiamo, ormai da molto tempo, a un fenomeno che oggi chiamiamo  "globalizzazione", che indica la capacità, del capitale e di tutto il movimento finanziario, di unificarsi a livello mondiale, mentre una vera azione unitaria del movimento operaio, sia pure a livello europeo,  stenta a decollare: i sindacati dei lavoratori non sono andati finora al di là di semplici scambi di informazioni, a saltuarie manifestazioni di solidarietà o a sporadiche  azioni di lotta.

In Europa è sorta la CES (Confederazione europea dei sindacati), finora purtroppo poco visibile, dal punto di vista operativo. E' ipotizzabile, in merito, un salto di qualità, in vista della costituzione di un vero e proprio sindacato europeo, in grado di garantire una precisa strategia a livello sovranazionale?

Mi sembra addirittura pleonastico sottolineare che, in questa mia esposizione, avrò di mira soprattutto l'operaio migrante per la cui dignità umana la Chiesa si è sempre schierata, come cercherò di dimostrare seguendo le linee della dottrina sociale della Chiesa.

1. Produzione, profitto ed esclusione sociale

Siamo entrati in un'epoca di alta tecnologia e automazione nel processo produttivo, ma molti operai - gli emigrati soprattutto - sono considerati e trattati come all'epoca fordista all'inizio del secolo scorso, come puri strumenti di produzione.

La presenza in Europa di 18 milioni di immigrati sta a dimostrare che, al di là delle frontiere nazionali, esiste una forza che spezza i confini naturali, che sradica gli uomini e li inserisce in un processo che ha come obiettivo la produzione: un sistema complesso e sempre più articolato che considera l'uomo come una funzione puramente produttiva; lo tratta con attenzione, ma sempre sulla base di quell'unico fine che è il profitto. E', ancora e sempre, la forza anonima del cosiddetto modello capitalistico di sviluppo che detta e regola, ormai incontrastato, le leggi della nostra società.

Si afferma in genere che l'emigrazione è un transfert di manodopera inteso a ristabilire l'equilibrio tra offerta e domanda di lavoro. Va anche aggiunto però che, una volta assunto un modello di sviluppo teso alla massima espansione industriale, lo squilibrio tra offerta e domanda diventa un fenomeno strutturale, rendendo di conseguenza l'emigrazione una costante del sistema. Assunta questa ipotesi di sviluppo, l'emigrazione si è trasformata, di fatto, per i paesi industriali dell'Europa occidentale, in un fenomeno permanente.

Come fenomeno permanente è diventata oggi anche l'esclusione sociale del più povero. "Il numero di categorie di "esclusi" dalla società aumenta incessantemente in tutti i Paesi, afferma Petrella. Le espulsioni forzate in Francia dei sans papier, il divieto di accesso agli spazi pubblici per i "senza domicilio fisso", l'interdizione d'accesso al mercato del lavoro per i "senza qualifica", sono manifestazione tipiche del rifiuto dell'altro, del rifiuto della condivisione, del dissolversi del legame sociale" (cfr. Il bene comune. Elogio della solidarietà).

Da un punto di vista economico, il discorso finisce qui: esattamente dove però ne incomincia un altro, quello sulle conseguenze di cui, sul piano personale, è vittima l'emigrato. Posto nella impossibilità di crescita come cittadino, l'emigrante è quasi costretto a puntare esclusivamente sul guadagno, cercando un compenso di tipo economico: il denaro diventa così il valore assoluto, cui sacrificare tutto il resto. E qui si inserisce quel processo psicologico che i sociologi chiamano "riduzionismo delle aspirazioni": privilegiare infatti le attese di tipo economico significa entrare nella logica tempo-denaro, compromettendo, a volte in modo irreparabile, la propria formazione umana, sociale, professionale, culturale e religiosa.

Neppure a livello europeo, dunque, l'emigrazione ha avuto un significato rilevante, confermando tra l'altro, l'impressione diffusa che l'Europa nascente sia, ancora una volta, soprattutto l'Europa dei capitali, non l'Europa dei lavoratori.

Gli emigranti sarebbero pertanto gli antesignani di un'altra Europa: quella a cui si domanda fin d'ora di produrre e di consumare. E' la logica conseguenza di un capitalismo che diventa sempre più maturo. Da un lato stimola la concentrazione aziendale, dall'altra si espande a livello mondiale, allo scopo di evitare, per quanto possibile, i rischi ed elevare i profitti: eludere le barriere doganali, collocare le fabbriche vicino alle fonti di manodopera, di energia e di materie prime, impedire ai concorrenti stranieri di occupare un mercato potenziale.

In merito alla recente legge Bossi-Fini, annota Giancarlo Perego: "Con gli immigrati anche noi siamo colpiti, perché la persona dello straniero, dell'immigrato, nella nuova legge non viene guardata come una persona da "amare con preferenza" (cfr. Dt 17,24 s) ma da "usare con preferenza", funzionale a dei meccanismi economici, più che soggetto di diritti" (Cfr. Avvenire, 20.07.02).

E a proposito del potere finanziario, Petrella sottolinea: "Chi fissa oggi l'ordine del giorno dei problemi da risolvere, delle sfide da vincere, delle priorità da darsi, dei mezzi da utilizzare? Non certamente i poteri pubblici nazionali o internazionali. Ancora meno i sindacati. Il vero autore dell'ordine del giorno è il potere economico finanziario privato (…) Pertanto uno dei punti prioritari da mettere all'ordine del giorno da parte dei sindacati è la solidarietà nell'organizzazione e la gestione del mercato mondiale del lavoro, nel quadro della (ri)costruzione della concertazione sociale su scala mondiale" (ivi).

2. Razionalizzazione della produzione e disoccupazione dei lavoratori

Ormai da molto tempo è in atto, a livello aziendale, un processo di razionalizzazione che ha spiazzato moltissimi operai i quali si sono ritrovati improvvisamente senza lavoro. Il rapido sviluppo della globalizzazione inoltre ha colto i sindacati di sorpresa. Solo ora comincia a manifestarsi l'ampiezza dei mutamenti prodotti nelle economie nazionali dallo sviluppo delle grandi imprese multinazionali. I concetti informativi su questo fenomeno e i mezzi di azione, sia dei governi sia dei sindacati, sono arrivati purtroppo in ritardo. I nostri politici continuano a discutere sull'inflazione, la disoccupazione, il controllo dei prezzi, le esportazioni, il bilancio commerciale, gli investimenti, in termini soprattutto nazionali, "mentre l'essenziale delle realtà economiche cui essi si riferiscono - scrive Cotesta - sfugge sempre più al loro controllo". (cfr. Sociologia dei conflitti etnici)

Petrella, in proposito, enumera quelle che egli chiama le nuove tavole della Legge:

  1. Mondializzazione. Bisogna adattarsi alla mondializzazione attuale dei capitali, dei mercati, delle imprese.
  2. Innovazione tecnologica. Tu devi innovare costantemente per ridurre i costi: mai fermarti nell'innovazione tecnologica.
  3. Liberalizzazione. Apertura totale di tutti i mercati: che il mondo sia un unico mercato.
  4. Deregolamentazione. Non permetterai più allo Stato di fissare le regole dell'economia: esse appartengono solo al mercato.
  5. Privatizzazione. Elimina ogni forma di proprietà pubblica e di pubblici servizi: lascia che l'impresa privata governi la società.
  6. Competitività. Sii il più competitivo se vuoi sopravvivere: sarai il migliore, l'eccellente, il vincente (ivi).

"Davanti alla ristrutturazione mondiale del sistema bancario - continua Cotesta - i concetti tradizionali sul tasso di interesse, la politica nazionale degli investimenti o la politica fiscale non hanno più senso. I guadagni delle imprese multinazionali sfuggono al controllo degli Stati nazionali, la cui politica monetaria e fiscale non agisce più che su soluzioni marginali. Il capitale - conclude lo studioso - gode della libertà più completa e i governi nazionali, anche a supporre che ne abbiano voglia, sono ormai incapaci di limitargliela" (ivi).

E Petrella sottolinea: "Il potere di orientamento e di controllo dell'economia è passato nelle mani delle grandi reti mondiali di imprese multinazionali private, soprattutto finanziarie (fondi di investimento e fondi di pensione in particolare). Da allora - circolo vizioso - la mondializzazione dell'economia manovrata da interessi economici e finanziari privati, grazie alla totale liberalizzazione dei movimenti di capitale, obbliga i poteri pubblici nazionali ad accordare la priorità al "rispetto" dei vincoli imposti dai poteri economici privati e dai mercati finanziari, il che "legittima" la sottomissione dei governi alla logica finanziaria" (ivi).

Il movimento sindacale, ancora una volta, si trova di fronte a problemi di enorme importanza: occorre non solo considerare la globalizzazione come un dato irreversibile, ma studiarne a fondo anche il funzionamento e i meccanismi che la regolano per gestire l'azione sindacale a livello mondiale.

3. Dalla divisione a un coordinamento internazionale

L'Europa è,  a prima vista, il campo d'azione dove sembra più facile un coordinamento internazionale del movimento dei lavoratori. Di fatto però è diventata il luogo dove le società multinazionali hanno prodotto le più grandi divisioni in campo sindacale e hanno fatto esplodere alcune contraddizioni, che ora il movimento operaio è chiamato a superare.

a. Una prima difficoltà la troviamo all'interno dello stesso movimento operaio.

Mentre a livello nazionale il movimento dei lavoratori conserva il potere di influire sulle linee di programmazione, con azioni di massa che incidono direttamente sui singoli governi,  a livello europeo i rapporti di forza giocano a favore del capitale, perché su questo terreno partiti e sindacati dei lavoratori non sono in grado di usare gli strumenti (come, ad esempio, la mobilitazione dei lavoratori) di cui invece dispongono sul piano nazionale.

b. Un secondo fattore di divisione e di debolezza  del movimento operaio è rappresentato proprio dal fenomeno migratorio, il quale si è rivelato come una delle più gravi distorsioni del processo di integrazione europea, avendo provocato, di fatto, una frattura fra lavoratori nazionali e lavoratori immigrati.

Consentendo alle imprese di economizzare sui livelli salariali e sulle innovazioni tecnologiche, gli emigrati svolgono una funzione di calmiere nel mercato del lavoro: essi costituiscono un vero e proprio serbatoio di manodopera, con cui il padronato è in grado di ricattare i lavoratori locali. Il fatto migratorio così si trasforma, suo malgrado, in un elemento di divisione della  classe lavoratrice.

Se, da una parte, nei momenti di congiuntura sfavorevole, gli emigrati sono i più esposti al pericolo di licenziamento, dall'altra le imprese si servono di questi lavoratori - generalmente indifesi, spesso privi di diritti fondamentali, continuamente incerti sul rinnovo del permesso di soggiorno e sotto la minaccia di una espulsione - per imporre ai lavoratori locali condizioni di lavoro più pesanti. Al fondo del sentimento xenofobo vi è, probabilmente, soprattutto la paura di questo continuo ricatto e strumentalizzazione  dei lavoratori stranieri, da parte dei datori di lavoro, nei confronti dei lavoratori locali.

L'eliminazione delle frontiere economiche  (purtroppo non ancora di quelle politiche) che consente ai lavoratori di spostarsi in Europa unicamente come forza di lavoro e non come persone titolari di precisi diritti politici e sindacali, non ha fatto che indebolire ulteriormente il potere del movimento operaio.

I milioni di lavoratori stranieri in Europa se uniti ai lavoratori locali rappresenteranno una grande risorsa, che renderà sempre più forte il movimento operaio; divisi, invece,  continueranno a costituire la massa di manovra, di cui si servirà il padronato per condizionare ogni iniziativa di promozione del movimento operaio stesso.

"L'appuntamento da prendere oggi, afferma Petrella, è con la solidarietà mondiale, e non più soltanto nazionale o continentale" (ivi).

4.  Separazione ed estraneità

Spesso si ha l'impressione che l'emigrato sia interessante solo in quanto tale, come qualcuno cioè che consente  all'operaio autoctono di accedere e di mantenere un certo benessere e di godere fondamentalmente di certi privilegi.

Di fronte agli emigrati, i sindacati nazionali portano avanti, di fatto se non di principio, una lotta corporativa. Non per nulla sono spesso legati ai grandi partiti, per conto dei quali sono incaricati di gestire l'elettorato operaio. E così la condizione di emigrato, la sua alterità radicale, conviene a tutti salvo ovviamente ai diretti interessati, che la scontano nella loro vita quotidiana e che non possiedono nessun mezzo politico per cambiarla.

Questa situazione farà, sempre più, dei migranti, una massa di persone, il cui status sociale non è solo quello di essere stranieri, ma piuttosto di essere "estranei": estranei ai lavori, alle scelte, ai profitti, alle convenienze che presiedono al processo di integrazione europea.

 Nessun movimento sindacale, a quanto ci risulta, ha formulato finora una politica chiara e senza equivoci sui principali problemi degli emigrati. Generalmente il movimento sindacale si limita a ribadire la sua azione nel campo salariale, eludendo di fatto i problemi della discriminazione degli operai stranieri e mettendo gli interessi nazionali al di sopra dell'intera classe operaia. L'azione sindacale  ha garantito finora  ben poche protezioni riguardo le varie discriminazioni di cui è vittima l'emigrato.

Le relazioni tra operai immigrati, movimento operaio e movimento sindacale sono purtroppo caratterizzate molto spesso da questa ambiguità fondamentale.

Il movimento sindacale dunque, se vuole veramente contribuire a risolvere i problemi sia dei lavoratori locali sia dei lavoratori stranieri, dovrà ridefinire radicalmente la sua funzione all'interno di una società capitalistica: non limitarla semplicemente ai problemi del salario e della previdenza sociale, ma estenderla a tutti i campi dell'azione sociale e culturale, conforme ai lavoratori che vogliono essere sempre più attivi e non puramente passivi.

5. Per una ricostruzione della solidarietà

a. Sindacato e movimento operaio

Nel 1997 si è svolto un importante incontro internazionale dei sindacalisti in Vaticano.  Presentiamo qui di seguito i punti programmatici, che i partecipanti al convegno, a nome delle rispettive confederazioni sindacali, intendono perseguire e che hanno, per analogia, un diretto riferimento al mondo operaio dei migranti.

In quella assise i rappresentanti sindacali si sono impegnati ad assumere il compito

  • di sollecitare i governi a considerare il lavoro come punto rilevante delle politiche economiche;
  • di favorire una ridistribuzione del lavoro che crei più lavoro per tutti (mentre oggi c'è chi preferisce, ad esempio, fare lo straordinario, piuttosto che lasciare spazi a quelli che non hanno lavoro);
  • di cercare, per quanto possibile, di rappresentare interessi generali, anche se non è sempre facile individuare il bene comune in una società frammentata;
  • di vigilare perché lo sviluppo tocchi tutti i gruppi sociali e paesi, denunciando le forme di sfruttamento dei lavoratori, che violano i diritti umani e indeboliscono l'azione sindacale, nazionale e internazionale;
  • di proteggere sempre la dignità dei lavoratori e di lottare per un maggior uso della concertazione e della partecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali;
  • di formare i sindacalisti a compiti sovranazionali, affinché i sindacati possano rivendicare un diritto di cittadinanza presso le istituzioni internazionali;
  • di coinvolgere maggiormente i lavoratori nelle azioni e decisioni sindacali, assicurando ad essi una informazione e formazione continua.

b. Chiesa e  mondo del lavoro

E' piuttosto diffuso, oggi, un calo di attenzione delle comunità cristiane ai problemi sociali e una certa indifferenza dei lavoratori cristiani nei confronti dell'attività sindacale: molti non si iscrivono ai sindacati o la loro testimonianza cristiana è poco visibile sul posto di lavoro. La Chiesa è chiamata dunque a rafforzare il dialogo con il mondo del lavoro.

In particolare essa è chiamata ad impegnarsi

  • a promuovere incontri con i sindacati e a confrontarsi con essi su argomenti legati al mondo del lavoro, alla ricerca di obiettivi e valori comuni;
  • ad approfondire la riflessione sul diritto, la dignità e la centralità del lavoratore, soprattutto del lavoratore straniero;
  • ad analizzare la dimensione morale della vita economica, alla ricerca di un'etica dello sviluppo, dell'utilizzo del denaro e dell'attività imprenditoriale;
  • a sensibilizzare gli imprenditori e i lavoratori cristiani ad una più coerente testimonianza dei valori evangelici sul posto del lavoro;
  • a esaminare, insieme ai sindacati, gli effetti della globalizzazione sul territorio e a cercare risposte adeguate soprattutto ai fenomeni della disoccupazione e dell'esclusione sociale;
  • a proporre uno stile diverso dalla cultura consumistica e individualistica, che valorizzi la condivisione, la solidarietà e l'azione comune (attraverso, ad esempio, l'associazionismo);
  • a promuovere una educazione e formazione professionale, che in un'epoca di crescente specializzazione, sono divenuti compiti essenziali per i lavoratori;
  • a considerare l'impresa non come mera società di capitali, ma soprattutto come comunità di persone in cui il lavoro non è una merce ma un titolo di partecipazione corresponsabile al processo economico;
  • a sollecitare, soprattutto  nei fori internazionali in cui essa è presente, spazi di consultazione delle forze sindacali, anche in ambito internazionale.

6. Il pensiero sociale della Chiesa

a. Chiesa e lavoratori

Ulteriori e utili indicazioni sui problemi del mondo del lavoro li possiamo cogliere nell'ultima enciclica sociale del Papa.

Nella Centesimus annus Giovanni Paolo II punta molto sul ruolo e sull'impegno delle organizzazioni dei lavoratori, alle quali assegna non semplicemente un ruolo limitato alla sfera della contrattazione, ma la capacità di essere luogo di espressione e di presenza dei lavoratori.

Tra i loro compiti il Papa indica anche quello della "lotta": egli infatti sa molto bene che il raggiungimento di più giuste condizioni sociali e di lavoro non è certo frutto di automatismi, ma esige un confronto anche duro. Non si tratta della lotta di classe marxista, evidentemente,  ma della lotta per la giustizia, il cui obiettivo è la realizzazione del bene concreto e integrale dell'uomo e della società. Il Papa, in sostanza, intende appoggiare esplicitamente l'organizzazione dei lavoratori contro gli individualismi e i corporativismi: egli è convinto che il rafforzamento del movimento operaio sia un antidoto efficace al predominio dei poteri economici e politici.

Alla radice del pensiero sociale della Chiesa c'è il problema della separazione tra l'esperienza del lavoro e la ricerca del senso della vita, che l'uomo deve poter trovare anche nel lavoro. A questo livello si colloca, dunque, un compito cruciale della Chiesa, chiamata a interpretare e comunicare il senso del lavoro.

b. Chiesa e lavoratori stranieri

La stessa enciclica sottolinea come le migrazioni assumano un'importanza sempre maggiore nella storia contemporanea e costituiscano una precisa indicazione del profondo stato di malessere in cui versa l'umanità.

Il Papa ribadisce che se il diritto al lavoro e alla libertà non è rispettato, l'esodo forzato diventa spesso l'unica alternativa. Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato e in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale.

Il Papa offre così uno spunto ideale per le questioni globali concernenti l'esodo di popoli e persone, dando preziose indicazioni etiche sulla nuova politica da perseguire a livello internazionale. Questa visione di più lungo periodo sollecita i governanti a un drastico cambio di rotta nei rapporti internazionali, che punti a una più equa ripartizione delle risorse e ad una più attenta ed efficace risposta  ai bisogni della società. E' necessario "rompere le barriere e i monopoli che lasciano tanti emigrati ai margini dello sviluppo, assicurare a tutti - individui e nazioni - le condizioni di base, che consentano di partecipare  allo sviluppo. Tale obiettivo richiede sforzi programmati e responsabili da parte di tutta la comunità internazionale" (n. 35).

Emigrazione, cooperazione, ordine internazionale divengono così tre facce della stessa realtà. Tale visione di interdipendenza comporta, a motivo della centralità della persona, una attenzione specifica alla cura del migrante e alla tutela dei suoi diritti - individuali, sociali, sindacali, religiosi - in quanto persona umana e in quanto migrante.

Conclusione

Gli emigrati hanno, sempre più, coscienza che ogni risultato ottenuto è frutto di infiniti momenti di scelta, di riflessione, di collaborazione, di solidarietà: uno sforzo comune di milioni di uomini che si costituiscono in forme, d’associazione sempre nuove attraverso l'esperienza pagata e vissuta momento per momento della loro vita quotidiana.

E' giunto il momento che le istituzioni - sindacali, politiche, religiose - ne prendano atto e gratifichino gli emigrati della loro fatica.
 

* Relazione al V Meeting Internazionale sulle Migrazioni. “Migranti in Europa: cittadini o forza lavoro?”, Loreto, dal 29 luglio al 4 agosto 2002.

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