Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People People on the MoveN° 97, April 2005
IV. BOOK REVIEWS
POUR LES MIGRANTS,LES « PERSONNES EN MOUVEMENT »*
Le P. Kolvenbach, supérieur général des jésuites, dont plusieurs ont lu ces temps-ci le livre-interview, Fubourg du Saint-Esprit (chez Bayard), vient de sÂÂÂadresser à ses frères dans lÂÂÂapostolat social, à tous ses frères a vrai dire, avec de fortes paroles sur les migrants. JÂÂÂai pensé quÂÂÂil vaut la peine dÂÂÂen communiquer la substance aux lecteurs de La Croix, puisquÂÂÂil sÂÂÂagit sûrement dÂÂÂun des problèmes majeurs de notre avenir. Et avec le chapitre 25 de lÂÂÂÉvangile selon saint Matthieu on ne peut jamais être en repos: « JÂÂÂai eu faim et vous mÂÂÂavez donné à manger ÂÂÂ jÂÂÂétais étranger et vous mÂÂÂavez accueilli. » Kolvenbach dit au passage: « Je pense que nous devrions toujours prendre très au sérieux le mot "justice" ». « La justice, cÂÂÂest « le sacrement de lÂÂÂamour », avait dit son prédécesseur, le P. Arrupe, quÂÂÂil rappelle. Et voici: « [Après la globalisation] la seconde question qui pointe partout [ÂÂÂ ] est celle des personnes en mouvement, ou si vous préférez le problème de la « mobilité humaine », ou le « phénomène migratoire. » « Nous savons que la pauvreté, la guerre, lÂÂÂinstabilité politique, lÂÂÂintolérance religieuse obligent toutes sortes de gens à quitter leurs pays dÂÂÂorigine et à migrer. » Ils sont bien des espèces. Le P. Kolvenbach veut nous dire de ne pas limiter notre attention aux « réfugiés »: réfugiés selon le texte des « conventions », voire selon le texte des conventions que nous avons su interpréter de façon bien limitative. En France, nous avons été jusquÂÂÂà faire un amendement constitutionnel pour que ne soit pas trop étendu le droit dÂÂÂasile de notre loi fondamentale. Même si ce fut en rapport avec une directive européenne, ce fut un coup grave. « Cela nÂÂÂa aucun sens de parler des [seuls] réfugiés, dit Kolvenbach, si nous en exclusons la condition de tant de sans-papiers. Nous devons y inclure [inclure dans notre préoccupation] les personnes "déplacées" et toutes sortes dÂÂÂimmigrés qui cherchent uniquement de meilleures conditions de vie: ces personnes aussi sont en migration et ne sont pas accueillies. » Rude propos ensuite: « Je ne sais pas ce quÂÂÂil en est dans dÂÂÂautres continents, mais en Europe un parti politique qui se dresse contre les étrangers est en bonne position pour gagner. » Nous connaissons tous les exemples (en France, Belgique, Suisse, Autriche, voire Allemagne). Et de préciser même: « Refuser toute forme dÂÂÂaccueil aux immigrés est le programme systématiquement poursuivi par tous les partis dÂÂÂextrême droite, afin de maintenir la prise sur leur électorat, voire sur leur pays. » Hypocrisie et inconséquences, dénonce ensuite Kolvenbach. Car ces gens qui ne veulent pas des étrangers « ont cependant besoin des immigrés ÂÂÂ ne serait-ce que pour le sale boulot quÂÂÂeux-mêmes ne veulent plus faire. Ils ne sont que trop contents que des gens dÂÂÂautres continents soient disposés à le faire, alors quÂÂÂen même temps ils refusent de les reconnaître comme citoyens à part entière, bénéficiant des mêmes droits que les autres. » « En France, dit le P. Kolvenbach qui nÂÂÂignore pas notre pays, fut lancée la fameuse expression: "Ils mangent le pain des Français." » « CÂÂÂest oublier, pour suit-il, que le pain des Français est fabriqué par des étrangers, tout simplement parce que les Français ne se lèveront pas à 4 heurs du matin pour préparer le pain pour leur propre petit déjeuner. » Encaissons, même si cÂÂÂest passablement rude, comme je lÂÂÂai déjà dit. Du point de vue de la « vie religieuse », de la Bible et de lÂÂÂEvangile, en particulier, la question de lÂÂÂétranger, du migrant, est également capitale, nous rappelle Kolvenbach: « Nous le voyons dans lÂÂÂAncien Testament [ÂÂÂ ]; et dans le Nouveau Testament, les Évangiles nous montrent comment le Seigneur même a dû se réfugier en Égypte. Ils est dès lors très important de savoir comment accueillir les gens qui entrent, de savoir les accompagner et de prendre soin de ceux qui forment la majorité parmi les groupes marginalisés dans nos sociétés. Par conséquent, les « projets » dans ce domaine ont une vraie priorité. » Il sÂÂÂagit dÂÂÂaider « ceux qui sont oubliés des autres », les migrants en général le sont souvent plus que quiconque.
* Article du R. P. Jean-Yves Calvez, apparue sur « La Croix » du 12/01/2005
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IL CASO ALLA STAZIONE CENTRALE DI MILANO*Punto fermo al binario 22. Una chiesa nel tempio della velocità
Prima di essere ÂÂÂnon-luoghiÂÂÂ (secondo lÂÂÂormai celebre definizione dellÂÂÂantropologo Marc Augé), le stazioni ferroviarie sono state templi: della velocità, del progresso, del secolo XX che inesorabile avanza. E la Centrale di Milano, con la sua facciata assirobabilonese appena ingentilita dagli stucchi liberty, non fa certo eccezione. Anzi, per molti aspetti quella milanese è la Stazione per antonomasia. Più della fiorentina Santa Maria Novella, per esempio, e persino più di Roma Termini, lÂÂÂunica sul territorio nazionale che la superi per volume di traffico e quantità di passeggeri. Scenografica e monumentale, la Centrale compete quasi alla pari con la Grand Central Station di New York, se non addirittura (lo scrittore Ferruccio Parazzoli lo ripete spesso, da un poÂÂÂ di tempo a questa parte) con la cattedrale di Notre Dame così come Victor Hugo la descrisse nel suo capolavoro: tempio, sì, ma anche territorio dÂÂÂincontro e di passaggio, luogo profano e sacro al tempo stesso. Da una stazione, del resto, non si può pretendere troppo, se non lÂÂÂinsperata sorpresa di un piccolo miracolo quotidiano, come quello che da anni si ripete puntuale nei dintorni del binario 22 della Centrale. Ogni giorno, poco prima delle 18, mentre gli altoparlanti diffondono lÂÂÂannuncio dellÂÂÂimminente inizio della Messa nella cappella della stazione, da quelle parti cÂÂÂè una donna che va a caccia di fedeli. Si chiama Brunilde ed è la perpetua della cappella dedicata alla Madonna del Cammino. Binario 22 appunto, una chiesetta piccola piccola nata per venire incontro alle richieste dei ferrovieri (la Milano proletaria è stata anche una Milano profondamente religiosa) e poi divenuta punto di preghiera per i viaggiatori di passaggio, meglio se pendolari. Sono loro che, quando il treno ritarda, accettano lÂÂÂinvito a partecipare alla celebrazione eucaristica, ritrovandosi magari a condividere la panca con qualche clochard che, dÂÂÂinverno, entra col desiderio di scaldarsi un poÂÂÂ. Nel disegno di risistemazione della Centrale presentato nei mesi scorsi da Grandi Stazioni (ma ora costretto a una brusca battuta dÂÂÂarresto: la gara dÂÂÂappalto è andata deserta), la cappella avrebbe dovuto traslocare in unÂÂÂaltra zona del gigantesco edificio. Sarebbe stata più grande, ma avrebbe anche dovuto subire lÂÂÂaggressiva concorrenza di negozi e centri commerciali. Don Germano, il cappellano della Centrale, è invece convinto che la Madonna del Cammino debba rimanere lì, dove il cammino inizia: a due passi dai binari, pronta a trasformarsi in rifugio per chi ha perso il treno ed è costretto ad attenderne un altro (a proposito, chissà quanti viaggiatori contrariati, nelle scorse ore, avranno cercato di riconquistare serenità passando qualche minuto in cappellaÂÂÂ ). Perché, in definitiva, la distinzione fra ÂÂÂluogoÂÂÂ e ÂÂÂnon-luogoÂÂÂ passa proprio dalla propensione alla complessità, dallÂÂÂaccettazione dellÂÂÂidea che oggetti ed edifici non si esauriscano nel loro utilizzo, dalla scommessa sulla possibilità (e sulla fecondità) di unÂÂÂapparente contraddizione interna. Come quella, appunto, di una cappella che se ne sta ferma, di sentinella, nel bel mezzo di un tempio dedicato alla velocità.
* Articolo di Alessandro
Zaccuri, su
Avvenire del 27 giugno 2004
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AUTOMOBILE, UN PARASSITA IN TEMPI DI SMOG*
Targhe alterne, blocchi della circolazioneÂÂÂ e le domeniche a piedi, che un tempo erano salutate con gioia infantile, rischiano ora di invadere tutta la settimana per il subdolo infiltrarsi delle minacciose ÂÂÂpolveri sottiliÂÂÂ. Non cÂÂÂè dubbio che il rapporto tra lÂÂÂuomo e lÂÂÂautomobile sia diventato molto problematico. In biologia il termine simbiosi indica unÂÂÂassociazione stabile tra due organismi per il mutuo vantaggio, ma oggi, per estensione, indica anche lÂÂÂassociazione o ibridazione sempre più intima tra biologico e tecnologico. Un esempio cospicuo di questa ibridazione è quella tra lÂÂÂuomo e lÂÂÂautomobile. Nel bene (libertà di movimento, spinta allo sviluppo economico, turistico e culturale) e nel male (inquinamento, ingorghi, vittime del traffico), lÂÂÂautomobile condiziona le abitudini e lÂÂÂimmaginario di miliardi di persone. La comparsa dellÂÂÂauto è simile alla nascita di una nuova specie vivente. LÂÂÂautomobile si riproduce, si nutre, migliora le proprie caratteristiche e si adatta di continuo a un ambiente che essa stessa contribuisce a trasformare. EÂÂÂ vero che fa tutto ciò attraverso di noi (lÂÂÂuomo è il mezzo di cui lÂÂÂautomobile si serve per fare unÂÂÂautomobile migliore), ma ciò non toglie validità al parallelismo con la biologia. La fabbrica è il suo utero, il suo Dna è costituito dai progetti degli ingegneri, il suo alimento è la benzina. Il cervello dellÂÂÂautomobile è quello dellÂÂÂuomo: è un cervello mobile, inseribile ed estraibile. I vantaggi che gli umani traggono dalla simbiosi sono evidenti e si riassumono nella possibilità di spostarsi con grande velocità e comodità. Per la macchina i vantaggi sono altrettanto evidenti, anche se siamo noi a percepirli e non lÂÂÂauto, che resta pur sempre priva di coscienza e di soggettività: lÂÂÂautomobile è curata, nutrita, controllata, e questa sollecitudine le ha giovato non poco, come attestano le sottospecie multicolori e variegate in cui si è differenziata, dalle berline ai camion, dai fuoristrada alle autobotti ai trattori. Ma, come accade in natura, i simbionti si possono trasformare in parassiti: il gioioso ed equilibrato rapporto tra le due specie che convivono con soddisfazione reciproca può degenerare nello sfruttamento unilaterale di una delle due, che è ridotta in schiavitù, o addirittura uccisa, dallÂÂÂaltra (si pensi che nel gennaio scorso in Italia sono nati 45.569 bambini e sono stati immatricolati 212.569 veicoli!). Da un pezzo lÂÂÂautomobile manifesta caratteri parassitari, addirittura cannibalici: in un tempo brevissimo è riuscita ad assoggettare il genere umano, che dedica gran parte della propria attività alla costruzione e al mantenimento del suo immenso parco macchine, che non esita a fare la guerra per accaparrarsi i pozzi di petrolio, che affronta un futuro problematico e forse catastrofico per la propria salute psicofisica pur di obbedire ai comandamenti del suo idolo. E non si vede come possa affrancarsene.
* Articolo di Giuseppe O. Longo, su
Avvenire del 20 febbraio 2005
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ÂÂÂPRESEPE DUEMILAQUATTROÂÂÂ.STATUINE PER UN ANNO*(da Patrasso dentro quel Tir)
Un buco di cemento, senza luce né mobili né riscaldamento, in una cava di sabbia lungo il Po. È qui dove stanotte mi rintano, sotto un paio di coperte polverose. Ho solo trentadue anni ma, quando mi capita di specchiarmi nelle vetrine del centro, mi scopro vecchio. Cominciai a invecchiare al momento dellÂÂÂimbarco: eravamo in dodici, tutti clandestini senza documenti, dopo aver impegnato i risparmi di famiglia. Un viaggio tremendo, nascosti nella stretta intercapedine di un tir imbarcato sul traghetto Patrasso-Ancona. Trenta ore di mancanza di spazio, in piedi, facendocela addosso dalla paura di essere scoperti; ché in quel momento ci ritornavano in mente la quantità di viaggi in precedenza falliti: il curdo morto di caldo a Trieste, seppellito sotto un carico di angurie; i cinque asfissiati in unÂÂÂarea di servizio dellÂÂÂautostrada, dentro un camion partito dalla Bulgaria; i due trovati congelati in un tir frigorifero presso BrindisiÂÂÂ Fu allora che uno si fece sopraffare dal panico; o forse fu lÂÂÂossigeno che gli mancava. E in noi montò la disperazione che il suo pianto mettesse in allarme qualcuno e facesse fallire il nostro ingresso in Italia. Gli mettemmo le mani sulla bocca, gli stringemmo il collo. Si azzittì accasciandosi. Morto. Non so come si chiamasse, né da dove venisse. Certe volte, in sogno, sento ancora il suo pianto. Ma queste cose le posso dire solo adesso, perché è passato molto tempo e poi è notte: al mio paese le storie si raccontano solo quando viene scuroÂÂÂ Come morde il vento degli spifferi. Ma non mi lamento: ho trovato questo rifugio, anche se per scaldarmi ho solo dei tocchi di legno da accendere dentro un cestello di lavatrice arrugginito, poggiato su un mucchietto di mattoni. E poi cÂÂÂè Rex, il bastardo: lÂÂÂho trovato qui, mi tiene compagnia, la notte gli racconto storie. Che storie? Quella del ruggito del camion della raccolta dei rifiuti, delle auto che inseguono la gente, di questa città-supermercato in cui non cÂÂÂè un angolo per pisciare o una panchina per dormire; dove chi sa leggere, legge: ÂÂÂProibitoÂÂÂ; e chi non lo sa impara a pedate, la scuola dei poveri. Queste sono le storie che racconto al mio compagno cane, insieme alle canzoni del mio paese di nostalgie. Con lÂÂÂunico desiderio di un cibo caldo, in questa Torino scura e gelida. È così che i fiumi della mia stufetta improvvisata ci portano via, me e il mio bastardino, in una nebbia di stanchezza.
* Articolo di Laura Pariani su ÂÂÂIl Sole-24 OreÂÂÂ del 19/XII/04, p. 30
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ÂÂÂLÂÂÂISLAM EÂÂÂ IN CRISIÂÂÂ.LETTERA APERTA AI CRISTIANI DÂÂÂOCCIDENTE*
Non con la forza ma con il dialogo e la carità si può aiutare lÂÂÂIslam a vincere il fondamentalismo. EÂÂÂ quanto scrive il vescovo di Tunisi in unÂÂÂaccorata lettera aperta ai cristiani dÂÂÂOccidente pubblicata dal settimanale ÂÂÂTempiÂÂÂ. ÂÂÂNon si può voler cambiare tutto il Medio Oriente con la forza. Occorre tempo, fare del bene e continuare un dialogo che da parte della comunità cristiana non si è mai interrottoÂÂÂ, afferma Mons. Twal che dal 1992 guida la piccola comunità cattolica tunisina: un piccolo ÂÂÂgreggeÂÂÂ, come lo chiama lui stesso, composto di 22 mila fedeli, quasi tutti stranieri, su una popolazione di 9 milioni di abitanti. Oggi, spiega il vescovo di Tunisi, ÂÂÂlÂÂÂIslam è un mondo in crisi che crede, a volte, di trovare forza e garanzia nel fanatismo. Dobbiamo curarlo non con la guerra, ma dandogli amore e speranza, dentro una situazione mondiale che non aiutaÂÂÂ. Parallelamente il vescovo raccomanda di ÂÂÂaffermare lÂÂÂidentità cristiana con coraggio, senza complessi, senza alcun timore reverenzialeÂÂÂ perché ÂÂÂil ÂÂÂbasso profiloÂÂÂ non serve ed è denigrato dai musulmani stessiÂÂÂ. Mons. Twal invita anche ad un serio esame di coscienza: ÂÂÂDi fronte al disagio, alla paura, alla violenza dobbiamo chiederci: cosa facciamo noi cristiani per rimediare, per salvare, per aiutare? ÂÂÂLa cultura del dialogo è lÂÂÂantidoto al fondamentalismo, ÂÂÂosserva il vescovo, ma questa cultura ÂÂÂdeve iniziare anche nelle scuole, nelle chiese e nelle moschee! Devono essere incoraggiati gli incontri nazionali e internazionali su questo temaÂÂÂ. ÂÂÂLÂÂÂimmigrazione di musulmani non deve essere vista con timore ma come una ricchezza e lÂÂÂItalia, sottolinea Mons. Twal, deve essere orgogliosa di essere stata scelta quale metaÂÂÂ. LÂÂÂimportante è stabilire ÂÂÂpatti chiari con i Paesi di provenienza e regole da far rispettare con fermezzaÂÂÂ, incentivando lÂÂÂintegrazione scolastica, sociale e abitativa. Non bisogna dimenticare infine la carità: ÂÂÂOccorre tenere presente ÂÂÂ ricorda Mons. Twal ÂÂÂ che il fondamentalismo trova terreno fertile nella povertà, nellÂÂÂignoranza e nellÂÂÂingiustizia. Nella nostra esperienza si dimostra che la testimonianza cristiana e la carità ÂÂÂsfondanoÂÂÂ sempre, anche nellÂÂÂuniverso musulmanoÂÂÂ.
* S.E. Mons.Fouad
TWAL,
Vescovo di Tunisi
a
Radio Vaticana, 12 giugno 2004
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VARATO A SOFIA IL ÂÂÂDECENNIO ROMÂÂÂ*
Un ambizioso programma internazionale per integrare entro il 2015 i milioni di zingari che formano la principale minoranza del Vecchio continente è stato lanciato oggi a Sofia con una cerimonia solenne al teatro nazionale ÂÂÂIvan VazovÂÂÂ. Il ÂÂÂDecennio per lÂÂÂintegrazione dei romÂÂÂ, finanziato inizialmente dalla Banca mondiale e dallÂÂÂistituto ÂÂÂSocietà apertaÂÂÂ del miliardario americano di origine ungherese Gorge Soros, mira a combattere analfabetismo, disoccupazione e isolamento sociale della minoranza dei rom a partire da otto Stati dellÂÂÂEuropa centrale e orientale, presenti al lancio dellÂÂÂambizioso progetto, trasmesso in diretta dal primo canale della televisione bulgara. Quello lanciato da Sofia è un segnale importante della volontà di alcuni governi della ÂÂÂNuova EuropaÂÂÂ di intervenire finalmente a favore della più diseredata minoranza del continente, la cui assistenza finora era rimasta quasi esclusivamente prerogativa di organizzazioni private. Gli ÂÂÂonori di casaÂÂÂ alla cerimonia sono stati fatti dai premier della Bulgaria, Simeone di Sassonia Coburgo-Gotha, e dellÂÂÂUngheria, Ferenc Gyurcsany, alla presenza dei capi di governo della Croazia, della Macedonia, della Serbia-Montenegro e dei vice premier di Repubblica ceca, Romania e Slovacchia. Sono arrivati a Sofia per lÂÂÂoccasione Gorge Soros e il presidente della Banca mondiale, James Wolfensohn. Per cambiare lÂÂÂimmagine delle comunitÂÂÂ roma ci vuole ÂÂÂsia la volontÂÂÂ della societÂÂÂ intera sia la solidarietà e la partecipazione dei romÂÂÂ ha detto nel discorso di apertura Simeone di Sassonia Coburgo-Gotha. ÂÂÂContiamo sul futuro appoggio anche dellÂÂÂUnione Europea e di altre organizzazioni internazionaliÂÂÂ, ha aggiunto il premier bulgaro. ÂÂÂLa povertà ha tanti volti ma la sua sostanza è sempre la stessaÂÂÂ, ha detto il premier ungherese Gyrcsany, secondo il quale ÂÂÂi problemi dei rom non sono problemi dei singoli paesi ma sono problemi dellÂÂÂintera Unione EuropeaÂÂÂ. La cerimonia dÂÂÂavvio del ÂÂÂDecennio per lÂÂÂintegrazione dei romÂÂÂ si è conclusa con la firma di una dichiarazione dei rappresentanti degli otto Paesi dellÂÂÂEuropa centrale orientale. Come simbolo del Decennio è stata scelta la piccola Bojidara, una rom che studia alla prima elementare, alla quale sono stati consegnati la dichiarazione ed un diario nel quale raccontare cosa cambierà nella vita durante il decennio.
* Servizio dellÂÂÂAgenzia ANSA, del 2 febbraio 2005
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LÂÂÂITER DEGLI IMMIGRATI IN UN FILMDI CLAUDIO CAMARCO*
Cinquanta minuti girati allÂÂÂinterno del Centro di permanenza temporanea per immigrati, ÂÂÂRegina Pacis di Lecce, dove non è permesso scattare neppure una fotografia e poi in Moldavia, lungo le strade e dentro le case. È il film-documentario del regista romano Claudio Camarca: ÂÂÂUnÂÂÂincerta graziaÂÂÂ. Racconta attraverso le immagini e le parole del direttore del Centro, Mons. Cesare Lodeserto, la faccia meno conosciuta e più ÂÂÂsporca dellÂÂÂimmigrazione. Quello girato da Camarca è il racconto della speranza, dei sogni, delle rabbie e delle paure dellÂÂÂumanità migrante sbarcata sulle coste italiane. A parlare sono soprattutto i volti: giovani, ragazzi e ragazze, uomini e bambini. Sono i loro occhi ora seri e severi, ora carichi del dolore del presente e del ricordo delle esperienze vissute, a volte luminosi per una vita ritrovata. Le storie si snodano una dopo lÂÂÂaltra narrate dal migrante stesso, ma ad emergere è anche la testimonianza forte di una Chiesa che ha fatto una scelta precisa. Ascoltiamo Mons. Lodeserto e il regista Camarca: ÂÂÂHo definito questo documentario un cammino di annuncio, un apostolato, un modo nuovo, come Chiesa, di dire che i poveri sono la grande risorsa di una Chiesa che deve fare ogni giorno caritàÂÂÂ. ÂÂÂIl perché di questo documentario è raccolto nella voglia di testimoniare un cammino ecclesiale. LÂÂÂobiettivo è raccontare il migranteÂÂÂ. ÂÂÂRivoluzioneÂÂÂ, una parola che viene pronunciata più volte da mons. Lodeserto nel corso del filmato. Che cosa sÂÂÂintende ce lo spiegano ancora il direttore di ÂÂÂRegina Pacis e Claudio Camarca: ÂÂÂAnzitutto cÂÂÂè una rivoluzione interiore che parte dalla mia convinzione di dover essere al servizio dei poveri. Ma di fatto ci vogliono poi anche le rivoluzioni  le rivoluzioni culturali, rivoluzioni politiche  e la capacità di capire che ci sono dei momenti in cui bisogna avere il coraggio di affermare anche dei principi morali, pur di difender i poveri. Certamente questo non toglie nulla alla legalità. Nel momento in cui accoglienza e legalità si pongono insieme, è già una rivoluzione!ÂÂÂ. ÂÂÂUna rivoluzione che deve partire allÂÂÂinterno di noi stessi per poi cambiare le cose. Le ragazze "trafficate" vengono qua perché cÂÂÂè una domanda. La domanda è quella dei nostri conterranei italiani. Loro sono "pure", si sporcano con noi!ÂÂÂ. Accanto al diritto di immigrare alla ricerca di una vita migliore esiste anche il diritto a non emigrare. Il diritto cioè a non dover lasciare terra, casa, famiglia per potersi assicurare un futuro. Dalla Puglia alla Moldavia, uno dei luoghi di provenienza degli immigrati. Qui la Fondazione ÂÂÂRegina Pacis ha creato diverse opere di solidarietà. Claudio Camarca: ÂÂÂColui che parte, abbandona la radice di vita. Abbandona tutto se stesso. LÂÂÂoccidente ricco dovrebbe rispondere allÂÂÂimmigrazione lì, in questi Paesi poveri, e non qua. Dobbiamo far sì che loro possano non partire. La politica è essenzialmente questa: rispondere a dei bisogni primari. Noi viviamo una politica che bada allÂÂÂhic et nunc, non abbiamo cioè una politica lungimirante. La Chiesa, spesso, lo èÂÂÂ.
* Servizio di
Radio Vaticana, del 27/VI/2004
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Arriva «Criminal», storia di immigratinella Los Angeles multiculturale*
Venezia ÂÂÂ Dopo il killer su commissione Tom Cruise, arrivano sullo schermo, sempre a Los Angeles ÂÂÂ protagonista di tanti film al Lido con facce e colori diversi ÂÂÂ i piccoli trafficanti, «in noir», ma anche irridenti, del curioso thriller Criminal. Il film è prodotto da Soderbergh-Clooney, diretto dallo sceneggiatore e produttore di tanti titoli della loro factory, Gregory Jacobs, ed è interpretato dal Gotha del cinema hollywoodiano: la sempre brava Maggie Gyllenhaal, il grande John C. Reilly e tanti altri. La natura etnica e da melting pot del film vede nel ruolo da protagonisti il messicano Diego Luna e Peter Mullan (The Magdalene Sisters), molto richiesti a Hollywood. Il film è il libero rifacimento di una pellicola argentina di massimo incasso e consensi in patria e negli States, Nove Regine di Fabian Bielinsky. Come racconta entusiasta Diego Luna (al Lido anche in The Terminal, e da ieri sui nostri schermi in Dirty Dancing 2): ÂÂÂCriminal è un copione di suspense black e narra molte cose attraverso l'amicizia, che dura 24 ore, tra il truffatore yankee Richard-John C. Reillye il mio messicano Rodrigo, ragazzo immigrato con padre a carico. Però, è soprattutto un ritratto vero, sociale, non superficiale di Los Angeles e anche del suo nocciolo latino, che a me sta davvero a cuore tanto che su questo tema sto scrivendo una storia che produrrò con amici. È un film multiculturale, come la metropoli dove si svolge, nella stessa Down Town di Collateral, ma di giorno. Io parlo sia la mia lingua che lÂÂÂingleseÂÂÂ. Si appassiona: ÂÂÂI latinos trapiantati ÂÂÂ lo spiega il film specie nel finale a sorpresa dove lÂÂÂidea di famiglia immigrata ha un preciso significato ÂÂÂ portano nella metropoli i loro valori. Non vogliono imparare lÂÂÂinglese perché non intendono rinunciare alla loro identità, suonano la loro musica. Come tutte le comunità che si annidano a Los Angeles, ogni ceppo di immigrati crea frontiere ÂÂÂinvisibiliÂÂÂ nella città, spesso ostile, dove il piccolo crimine è la legge della sopravvivenza. Mi è piaciuto molto questo film anche perché, contro tanti cineritratti di messicani corrotti, sono finalmente un messicano buono anche seÂÂÂ ÂÂÂ. Diego lo dice indossando una maglietta con la scritta ÂÂÂTijuanaÂÂÂ, il nome della città di frontiera tra il suo Messico e la California. Conferma toni sociali del film la raffinata, lanciata Maggie Gyllenhaal (La segretaria): ÂÂÂSono la direttrice in seconda di uno dei più antichi alberghi di Down Town, il Biltmore, approdo, anche nella realtà, di avventurieri e uomini dÂÂÂaffari. Appartengo alla lower class, aspiro a essere elegante come le ragazze di Beverly Hills, nascondo un segreto. Los Angeles, dove sono nata in una famiglia di cinema, è sempre stata solo un set. Oggi comincia a raccontare tutte le sue componenti sociali». Il «cattivo», ma conquista tutti, è Reilly: assolda Diego-Rodrigo, è il fratello bestianera nella famiglia di Maggie-Valerie. Dice: «Un bianco e un messicano sembrano giocare a poker in una partita degna dei Soliti ignoti, come ci ripeteva George Clooney, ma attenzione ai contenuti dietro le quinte».
* Da
Corsera dellÂÂÂundici novembre 2004, p. 39
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Turbulent Waters
Canada 2003, 80 minutes Directed by Malcolm Guy and Michelle Smith In this hard-hitting investigation of international shipping, Malcolm Guy and Michelle Smith expose the struggles and working conditions of today's seafarers, galley slaves of the global economy, who move more than 90% of the world's trade on ships flying flags of convenience. Unfolding like an international thriller, this powerful and riveting film follows three international transport inspectors on board huge container ships in Canada, France and South Africa in response to calls of distress from crews facing racist and exploitative ship owners. Tensions escalate and the fears of the crew are palpable. Registered under illegally purchased flags to escape fair tax, wage and safety regulations, shipping companies have reaped immense profits and turned seafarers into indentured migrant workers, who do indeed leave safe harbour every time their ships sail out of port. This documentary examines the human costs of shipping in an era of corporate globalization which privileges profits over human rights and lives. Five years in the making and filmed at ports on four continents, the documentary introduces us to some of the seamen who work in international shipping and the inspectors (like Myles Parsons in Vancouver) who negotiate worker's rights when the ships are in port and workers call for intervention. Seafarers are usually hired in countries like the Philippines, China or Ukraine where workers are readily available at the cheapest rates. To maximize profits, ship owners, such as the sons of Prime Minister Paul Martin, register vessels under flags of convenience in countries which allow them to escape the higher taxes as well as wage and safety regulations of their own nations. ÂÂÂIn essence seafarers are the heart of today's globalization; they transport 90% of global produce,ÂÂÂ say co-director Michelle Smith, ÂÂÂyet they often live like 19th-century galley slaves.ÂÂÂ We enter these international cargo ships to discover cases of men who have not been paid and later find themselves blacklisted for calling on inspectors from the International Transport Federation to help them negotiate. Others like chief cook John DeGuzman risk the blacklist and organize a strike due to a racist captain and food unfit for human consumption. While exposing a harsh reality of corporate capitalism, this engaging film also succeeds in giving a voice to some of the millions who work on today's cargo ships. ----------------------------------------------------------------------------------------------------
CERTI BAMBINI*
L'inizio del film mostra dei bambini che s'inerpicano su una scogliera: sembra una gara a chi arriva per primo. La meta è un cespuglio ai bordi di un'autostrada, ma è li che comincia la vera gara. Una sfida pazzesca: attraversare l'autostrada senza curarsi del traffico, per mostrare il proprio valore. La scena fa balzare il cuore in gola: lo spettatore si prepara già al peggio, ma tre ragazzini ce la fanno, mentre il quarto saggiamente rinuncia, dileggiato dai compagni che lo puniscono buttando a mare i suoi pantaloni ... Così, con una sorta di "roulette russa" in cui l'automobile fa le veci del proiettile, si apre il dolente film dei fratelli Andrea e Antonio Farri, tratto da un libro di Diego da Silva. L'accento con cui parlano i giovani protagonisti è inconfondibile: siamo a Napoli, ma della città non appare nulla delle tipiche immagini. L'ambientazione si muove tra vicoli oscuri e periferie abbandonate, al punto che potremmo trovarci anche a Calcutta o a Rio de Janeiro. L'elemento in comune è il degrado urbano di cui il modo di vivere dei bambini è riflesso allucinante e fedele. Lasciati a se stessi, i fanciulli che ci mostra il film si raggruppano intorno a un losco figuro, il quale li sfrutta non solo per piccoli atti di delinquenza, ma anche sul piano sessuale. Rosario, i1 protagonista, undicenne senza vera età, il cui solo vincolo famigliare è costituito dalla nonna anziana e bisognosa di cure, fa parte del gruppo e cerca di non lasciarsi troppo dominare: si sente già maturo per le grandi scelte virili dell'amore e del coraggio. Condotto in una casa che accoglie giovani in difficoltà, animata da un sacerdote, Rosario vi incontra una ragazza più grande di cui si innamora; quando questa muore in ospedale, egli decide di punire il medico che ritiene responsabile del decesso, sparandogli a una gamba. È un atto che segnerà fatalmente l'itinerario del ragazzo, il quale appare alla delinquenza organizzata come un elemento promettente e quindi viene arruolato per un omicidio. Dopo averlo eseguito senza tentennamenti, alla fine del film, Rosario si unisce a un gruppo di giovani che gioca a pallone... Riaffiora così il gusto del gioco in un bambino diventato di colpo un adulto criminale: la parabola del film si chiude come si è aperta, nel segno del gioco, un gioco in cui il ragazzo sembra lo stesso, ma è diventato un assassino. Non c'è maturazione nella vicenda narrata; Rosario non cresce, si determina solo nel falso mito della violenza come segno di coraggio, un terreno fecondo per ogni manipolazione dal momento che manca la consapevolezza di una scelta tra bene e male. È l'amara lezione del film: a "certi bambini" è preclusa la via dell'educazione e resta loro aperta solo quella dell'autoaffermazione tramite il sopruso e l'uso delle armi. Sono eloquenti le immagini di Rosario che si guarda compiaciuto allo specchio impugnando la pistola. Quanto all'amore, Rosario si illude di vivere un ruolo che in realtà non può appartenergli: la nonna gli dice "ogni cosa bella costa" e Rosario ha già iniziato a pagare ... Certi bambini non offre spunti consolatori, ma s'impone per la sua spietata analisi, come un urlo disperato per far riflettere una società sempre più distratta dal miraggio dei consumi e dell'evasione, al punto da condannare "certi bambini" ad essere spogliati della propria infanzia e a diventare vittime, dell'esclusione e dell'ingiustizia, germi nefasti per un sano sviluppo del tessuto sociale. * Gianluca Di Gennaro, in LÂÂÂannuncio, giugno-luglio 2004, N. 5
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