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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 98 (Suppl.), August 2005

 

Rev. Sr. Maria do Rosário Leite Cintra, FMA

Presidente ONG “Indica” 

Brasile

 

 

Perché una Pastorale della strada? Perché i bambini e i ragazzi sono nella strada

La strada è la fotografia della società. Nella strada, nelle piazze, il popolo, che si organizza in circoli chiusi, dà visibilità alle grandi questioni in corso nella società. Nelle strade si manifesta pubblicamente la fede con processioni e grandi celebrazioni. Nelle strade ci sono i comizi e le manifestazioni pubbliche che, con le rivendicazioni, mettono a disagio i governanti. Infine, nelle strade scaturiscono le grandi tensioni, così come dalla strada nascono le grandi risposte.

I ragazzi nella strada (o della strada) sono i segni di qualcosa che essi vogliono dirci, alla loro maniera, come in un grido profetico: “Guardatemi, non ho familiari che abbiano cura di me; non posso stare nel mio paese, nella mia comunità, non riesco a mantenermi a scuola. Per questo sono qui”.

Un ragazzo è un essere in formazione, una persona in sviluppo, che ha bisogno di accoglienza, di rispetto e di aiuto. Se è dovuto andare nella strada e restarvi, vuol dire che qualcosa non è andato bene. La sua vita ancora in costruzione non è stata accolta.

La società è malata perché non riesce ad amare questo bimbo pieno di energia e di indisciplina. Lo hanno escluso dappertutto. Nemmeno la Chiesa lo ha compreso. Nella strada egli grida che le cose debbono cambiare. 

Chi può prestare attenzione a questo grido? 

Vediamo che cosa ha detto e fatto Gesù Cristo Buon Pastore. Ha lasciato le 99 pecore che stavano bene ed è andato incontro alla pecorella smarrita. Il ragazzo nella strada, nell’accezione piena del termine, è oggi la pecora smarrita, perduta, sola nella vita senza riferimento, ragazzo della strada, come se fosse nato dalla strada.

Se seguiamo Gesù Cristo, allora tocca a noi promuovere un gran movimento perché si vada incontro ai figli di strada. Gesù stesso ha provato, in un certo modo, questa situazione. Non ha trovato un luogo ove nascere. Ha dovuto fuggire dalla sua patria perché era un perseguitato politico, scomodo a coloro che stavano al potere. 

Cosa possiamo fare noi per questi fratelli nel bisogno?

Vediamo quali sono le grandi linee di una pastorale specifica in questo campo:

  • Anzitutto, dinanzi alla gravità del problema dobbiamo sentirci tutti responsabili della situazione e fare un lavoro in rete coinvolgendo coloro che possono essere sensibilizzati sulla questione. Tutta la comunità adulta deve dare il proprio contributo. La vita deve essere accolta come dono di Dio, soprattutto nel suo sviluppo iniziale, cioè la vita ancora in formazione. Tutti gli uomini di buona volontà, tutte le istituzioni religiose e laiche debbono partecipare. È importante raccogliere le forze pubbliche e private locali, nazionali e sopranazionali. 
  • Quali sono gli obiettivi da cercare? Ci sono due grandi prospettive: il lavoro di strada deve avere una dimensione di mediazione sociale, appunto per aiutare a creare una rete di solidarietà. È l’aspetto socio politico e di ricerca delle grandi cause della situazione. Solo chi si coinvolge, riesce a capire il grado altissimo della problematica di un ragazzo che passa a vivere nella strada. L’altra dimensione è appunto quella di promuovere le condizioni essenziali perché i ragazzi possano sopravvivere con un minimo di dignità. È l’aspetto pedagogico e pastorale.
  • Chi può fare questo lavoro? Abbiamo bisogno di persone adulte disposte a vivere il Buon Pastore, il Cristo Salvatore che con i suoi interventi può guarire le ferite, sanare il male, rimediare l’errore fatto da altri. Un errore che è macroscopico e che presuppone, anzitutto, la rete sopra riferita. Dopo, o in concomitanza, è necessaria un’attenzione immediata affinché questo ragazzo, questo bambino che sta davanti a noi, in situazione di strada, sia accolto e possa compiere il lungo cammino di ritorno ad una situazione di vita umana e civile. 
  • Un lungo cammino che richiede fasi e un processo con tappe distinte e sequenziali. Quale è, infatti, il luogo normale e naturale di un ragazzo? Certamente la famiglia, la comunità e la scuola. Di fatto, nella strada – in questo spazio apparentemente senza limiti e senza regole – il ragazzo si perde e dimentica tutti i riferimenti. Inserirsi nuovamente o inserirsi per la prima volta nel gruppo sociale dal quale è uscito oppure al quale non è mai appartenuto, rappresenta una sfida pedagogica e pastorale propria di educatori sociali coraggiosi e tenaci. È come se qualcuno andasse in terra di missione dove, in un primo momento, ci si ponga a osservare, ad ascoltare, a vedere, quasi ad imparare un’altra lingua, un altro modo di vivere e di risolvere le questioni della vita. Dopo si cerca di fare amicizia con gli abitanti di quel mondo nuovo e diverso. Infatti senza una relazione affettiva significativa e stabile tra educando ed educatore è impossibile iniziare un processo pedagogico, anche elementare. In seguito si riesce, un passo per volta, a stabilire un cammino di comunicazione. 
  • Si può allora pensare ad un progetto in cui si cerchino alternative per la vita di ogni ragazzo. Il primo pensiero, che è anche la prima sfida, è il ritorno in famiglia, quando la si individua. Ci sono mille altre necessità che debbono essere studiate, una per una, individualmente e in gruppo nella prospettiva di partecipazione e solidarietà. 
  • È importante tenere presente che questo ragazzo di strada, in genere ha la forza propria di coloro che riescono a sopravvivere in situazioni difficili. È perciò abile, creativo, furbo. Non sarà facile convincerlo a cambiare la maniera di vivere, ora che ha imparato a maneggiare bene le “regole” e i “limiti” del loro mondo della strada.  
  • L’anima di tutto questo, si sa già, è l’educatore sociale che, come il Buon Pastore, conoscerà ognuna delle pecore e cercherà il modo più adeguato per farla ritornare a casa. Ritorno a casa che presume diverse forme di proposte e che esige, perciò, una diversità di alternative. L’educatore non può restare da solo in questo lavoro. Deve avere un compagno, o meglio deve appartenere a gruppi che, anche a distanza, pensino ad alternative e proposte da offrire ad ognuno, a seconda dei bisogni individuali e di gruppo.
  • L’educatore, ad ogni modo, deve possedere una grande maturità umana e spirituale, perché il lavoro esige molta disponibilità e tenacia per arrivare alla necessaria trasformazione. Ci vuole una pazienza stoica, che tenga conto della dimensione e dell’età di ogni ragazzo. Non si può dimenticare che colui che è stato rifiutato da tutti, rifiuterà anche, in un primo momento, l’educatore. Il ragazzo non crede più né a se stesso o all’altro, né al mondo. Bisogna fare in modo che egli creda nuovamente in qualcosa affinché si apra la porta dell’amicizia e, in seguito, quella della relazione con gli altri. L’educatore è il grande rivelatore del Padre celeste e di Gesù, anzitutto testimone della sua vita e della sua dedicazione. Prima si farà credere il ragazzo in una paternità diversa da quella che lui ha avuto, per accogliere la rivelazione della paternità divina. Soprattutto la grande rivelazione di Gesù come amico sarà la chiave per parlare di Gesù che rivela a noi il Padre suo (Cfr. Gv 20,17; Mt 6,9; Gal 4,6). 
  • Il saper ascoltare, l’essere accanto al ragazzo spesso e per molto tempo, è una dimensione pastorale difficile da vivere e da comprendere da parte di un mondo che vuole risposte pronte e visibili. Diceva San Giovanni Bosco – un Santo educatore che iniziò il suo lavoro pedagogico nella strada – ci vogliono “ragione, religione e amorevolezza”. Bisogna tornare a una “presenza” affettiva e forte nella vita del ragazzo perché si apra la porta del suo cuore. Ricostruire una vita che è stata distrutta dalla mancanza d’amore, vuol dire esercitare la paternità spirituale che fa nascere di nuovo, che mostra il camino di quella fonte di acqua viva, che sazia per sempre il cuore pieno di sete d’amore e comprensione, ma che si manifesta ribelle o indifferente.

     Per questo l’educatore necessita, da una parte, di aiuto per superare i propri problemi personali e stare bene con se stesso e con i familiari, e mostrare sicurezza di fronte ai problemi che scaturiscono dal mondo così ostile del ragazzo; 

    Egli necessita, dall’altra, dell’appoggio costante di un gruppo che lo aiuti ad affrontare i problemi del ragazzo, che sono alle volte legati a quelli degli adulti, che lo sfruttano e, forse, lo hanno iniziato alla criminalità; un gruppo che cerchi una risposta adeguata alle situazioni di coloro che vogliono uscire dalla strada e prepararsi a vivere e a lottare in un mondo che li ha esclusi. Prima di tutto, la famiglia che, piena di problemi anch’essa, lo ha rifiutato; una famiglia o un gruppo familiare che dev’essere, anch’esso, aiutato anzitutto dal potere pubblico. Difatti politiche pubbliche fragili sono la principale causa di una strutturazione inadeguata della vita familiare. Dov’è la Pastorale della famiglia? Essa pensa anche a questi tipi di famiglia impoveriti, fuori del sistema, o pensa piuttosto, a quelle famiglie che frequentano la chiesa la domenica, che portano i figli alla catechesi e alla scuola regolare? Se ogni parrocchia pensasse ai bambini che sono nella sua area geografica e ci fosse una rete per riunire queste iniziative, forse le cose si risolverebbero più velocemente. Ci sono poi situazioni così difficili che non è più possibile per il ragazzo tornare a casa. Allora ci vogliono altre iniziative e altre forme di vita comunitaria per accoglierlo. È lo spazio dove si vive la nuova nascita, la trasformazione, la risurrezione. 

  • Si può così concludere che la Chiesa universale, così come la Chiesa locale, avrà compiuto la missione affidatagli da Gesù Cristo di accogliere i bambini, quando essa stessa avrà dato attenzione all’infanzia e all’adolescenza esclusa dalla società; quando avrà ottenuto che le famiglie possano accogliere i loro figli; quando avrà fatto sì che i laici cristiani, che detengono il potere, sappiano dare esempio di attenzione alla vita dei ragazzi poveri e dei bisognosi e quando tutta la società avrà accolto, rispettato e valorizzato la vita come priorità assoluta. La Convenzione Internazionale dei Diritti dell’Infanzia, proclamata dall’ONU il 20 novembre 1989, rimane ancora soltanto lettera scritta per i ragazzi della strada, nonostante lo sforzo di molti. Abbiamo bisogno che tutti si convertano e chiedano: “Che cosa dobbiamo fare?”(1). E che ci sia qualcuno, magari la Chiesa e tutte le Chiese cristiane, insieme ai rappresentanti degli Stati, che possano rispondere con tutti gli uomini di pace e di buona volontà: “accogliete la Vita come priorità assoluta”. Infatti il giorno dell’infanzia è OGGI, non si può aspettare domani (2). Domani sarà troppo tardi, non ci saranno più ragazzi, perché saranno stati uccisi, saranno scomparsi oppure vivranno già come adulti nelle carceri e nelle prigioni. Ognuno di noi deve assumere la parte di responsabilità che gli compete perché la VITA è un dono di Dio.

 

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