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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 98, August 2005 

 

 

IL FENOMENO MIGRATORIO NELLA PROSPETTIVA DELLA

 “ERGA MIGRANTES CARITAS CHRISTI”

 

Prof. Stefano Zamagni

Presidente ICMC

 

1. Erga Migrantes Caritas Christi – l’Istruzione che il Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti ha pubblicato nel maggio scorso – è un documento importante, intrigante e propositivo ad un tempo.

Importante perché affronta una tematica – quella migratoria – oggi tra le più delicate delle nostre società. Non è un mistero, ormai per nessuno, che la globalizzazione vada creando una nuova causa di segregazione e di esclusione e perciò di nuove spinte ai flussi migratori. Si tratta di una causa che si manifesta nella libertà di movimento che, mentre è consentita ad alcuni gruppi sociali, è di fatto negata ad altri. Ma v’è di più. I centri dove vengono forgiate le norme sociali e gli stili di vita sono oggi extraterritoriali, avulsi cioè da vincoli locali; non lo è però la condizione di vita di coloro che sono legati ad un luogo specifico. Questi ultimi si trovano a dover attribuire un senso a modi di vita che sono importati da altri luoghi, il che è all’origine dello sradicamento, della perdita di radici, con le conseguenze che è agevole immaginare sulla generazione di conflitti identitari.

Intrigante, perché il documento in questione obbliga a rivedere non pochi dei luoghi comuni intorno al fenomeno migratorio. Il quale è certamente antico almeno quanto l’umanità stessa. Ma non si potrà certo negare che esso è andato assumendo, nel corso degli ultimi decenni, e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, caratteristiche e tendenze affatto nuove. Basti pensare che fino a tutto l’Ottocento, la distinzione tra migranti economici e migranti per asilo non esisteva. Oggi, essa è diventata uno dei nodi maggiormente intricati da sciogliere, a livello sia politico sia giuridico. Come definire il concetto di appartenenza con riferimento specifico alla figura dell’homo migrans? Si consideri, ancora, il modo in cui nel corso di quasi un secolo è andato mutando il modello comportamentale dell’immigrato. Il migrante di ieri mirava a raggiungere il più in fretta possibile assimilazione e nuova acculturazione: dopo il clean break col paese di provenienza, l’apertura agli usi e costumi del paese di arrivo costituiva il presupposto per il successo economico oltre che per il riconoscimento sociale. Oggi, l’immigrazione non costituisce necessariamente l’aspirazione a un point of no return – come osserva Lepenis. Anzi si è fieri di esibire nella sfera pubblica le proprie diversità culturali. Tanto che non sono infrequenti i casi in cui l’ostinazione di una “expressive ethnicity” prende il posto del desiderio di un adattamento rapido. Non è difficile cogliere le ricadute di questa res nova sul piano propriamente pastorale.

Infine, Erga Migrantes è un documento propositivo perché avanza – sia pure in modo lieve e quasi in controluce – suggerimenti preziosi per possibili vie di azione. L’Istruzione si colloca nella scia della Dottrina Sociale della Chiesa di questi ultimi decenni, a partire dalla Exsul Familia di Pio XII del 1° agosto 1952, fino ai più recenti reiterati interventi in materia di Giovanni Paolo II. La posizione di estrema chiarezza e coraggio sulla complessa questione migratoria, il rigore dell’analisi, la passione pastorale che lo pervade, fanno di questo documento un punto di riferimento essenziale con il quale dovrà confrontarsi anche chi non ne condividesse la matrice valoriale e l’ispirazione di fondo.

Nelle note che seguono intendo soffermare l’attenzione solamente – e per ovvie ragioni – sulla prima parte dell’Istruzione, con l’intento di porre in luce taluni aspetti specifici del problema qui in esame, aspetti la cui considerazione potrebbe tornare utile ai fini di una politica migratoria più razionale e più umana.

2. In un documento recente (Luglio 2004), la Commissione delle Nazioni Unite per le immigrazioni internazionali ha stimato che nei prossimi dieci anni poco meno di un miliardo di persone busseranno alle porte dei paesi avanzati in cerca di lavoro e/o di protezione. E’ questa una misura sintetica della cosiddetta pressione migratoria, che è definita dal numero di persone che, in assenza di vincoli o di impedimenti vari, sarebbero pronte a lasciare il proprio paese. Non è questa la sede per discutere dell’accuratezza metodologica di una tale stima. Quel che rileva è l’ordine di grandezza – più o meno esatto, non importa –, che dice quanto vacui siano i tentativi di coloro i quali pensano di poter arrestare o anche contenere le tendenze in atto con misure di polizia ovvero con provvedimenti di ordine amministrativo (quote di ammissione; misure di espulsione, ecc.). Di fronte ad una pressione migratoria di tale intensità, l’esito certo di politiche che continuano a concettualizzare il problema migratorio come problema di ordine pubblico (e perciò gestito dai soli ministri dell’interno) è quello di ingrassare i profitti (illeciti) del crimine organizzato. Non si dimentichi, infatti, che vi è sostituibilità quasi perfetta tra immigrazione legale ed illegale: più si restringono le condizioni di accesso, tanto più elevato è il flusso degli arrivi clandestini, perché aumenta l’offerta di migrazioni illegali.

Il fatto è che sono le condizioni economiche e sociali di un paese (soprattutto reddito pro-capite, tasso di disoccupazione, conflitti civili) i fattori decisivi della propensione ad emigrare. Una propensione che tende ad aumentare nei primi stadi del processo di sviluppo economico, salvo poi diminuire una volta che il paese ha superato una certa soglia critica. In altri termini, la relazione tra la propensione ad emigrare ed il reddito pro-capite è descritta da una curva a forma di U rovesciata. Non è difficile darsene conto. Nei primi stadi del processo di sviluppo, l’aumento del reddito si accompagna sempre ad un aumento delle ineguaglianze tra gruppi sociali e – come noto – tale aumento è un potente fattore di spinta ad emigrare. Non solo, ma agli inizi del processo di sviluppo si registra sempre un mutamento strutturale: l’agricoltura espelle lavoratori che vengono incanalati verso il settore industriale; ma ciò richiede tempo, così che una parte degli espulsi prende la via dell’estero. Possiamo allora comprendere dove trovi fondamento la congettura di R. Jenny, l’attuale direttore della Commissione ONU di cui sopra si è detto.

Se dunque si smettesse di utilizzare (o alimentare) la paura dell’immigrazione come strumento di lotta politica o, peggio ancora, come paravento di atteggiamenti xenofobici, si riuscirebbe tra “uomini di buona volontà” a trovare il consenso necessario per avanzare una politica sostenibile dell’immigrazione, basata su un duplice principio. Per un verso, quello secondo cui le migrazioni devono fare gli interessi sia dei paesi di origine sia dei paesi di arrivo. Per l’altro verso, il principio per il quale, nel caso delle migrazioni, oggetto di scambio sul mercato del lavoro sono servizi che sono incorporati nelle persone. Pretendere di regolare i flussi dei servizi di lavoro senza “vedere” l’uomo che li veicola è vera miopia economistica e grave irresponsabilità politica – un punto questo su cui l’Istruzione ritorna più volte. Il risultato, comunque, è sotto gli occhi di tutti: le attuali politiche migratorie sono, ad un tempo, inefficaci e controproducenti. Sono inefficaci perché si limitano a correggere gli effetti indesiderati delle migrazioni senza intaccarne la cause. Un esempio, per tutti. I grandi progetti di sviluppo finanziati dagli organismi internazionali causano una sistematica espulsione di popolazione rurale dai luoghi in cui i progetti medesimi vengono realizzati (dighe; oleodotti; autostrade; canali). Si tratta dei cosiddetti Project Affected People: per la sola India, si è calcolato che nel 1997 le persone sfollate siano state oltre 21 milioni. Come si fa allora a non tenere conto dell’impatto della realizzazione di questi progetti sulla generazione di flussi migratori? Le attuali politiche migratorie sono anche controproducenti perché aumentano le iniquità, già alte. Infatti, le restrizioni di vario tipo fanno sì che solamente coloro che sono in possesso di risorse adeguate o possono procurarsele “vendendo” la propria libertà ai trafficanti di esseri umani possono lasciare il proprio paese.

3. Un secondo aspetto specifico mi preme qui porre in luce. E’ stato stimato che circa 100 miliardi di dollari si muovono ogni anno dai paesi ricchi a quelli poveri senza lasciare traccia alcuna. Si tratta della parte sommersa di un fenomeno – quello delle rimesse dei migranti – che solo per metà segue i canali ufficiali gestiti dal sistema bancario e controllati dal Fondo Monetario Internazionale. Perché il fenomeno è preoccupante? Per due ragioni, fondamentalmente. In primo luogo, perché flussi finanziari di così ingente livello facilitano sia il money laundering (il riciclaggio di capitali illeciti) sia il money dirtying (il finanziamento di attività criminali e terroristiche). E non v’è chi non veda l’effetto destabilizzante ai fini della causa della pace di simili attività. La seconda ragione è che la distribuzione tra aree geografiche delle rimesse è oggi tale che esse tendono ad accentuare le disuguaglianze tra paesi. Si consideri, ad esempio, che all’America Latina giunge il 30% del totale delle rimesse (ufficiali); Nord Africa e Medio Oriente ricevono poco meno del 20%, mentre solamente il 5% del monte-rimesse va all’Africa Subsahariana. La ragione è presto detta. La bassa qualificazione degli emigranti dai paesi dell’Africa nera è tale per cui il salario che costoro sono in grado di conseguire non è in grado di alimentare consistenti livelli di rimesse.

L’aumento del volume delle rimesse nel corso dell’ultimo decennio è stato tale che, oggi, esso è pari al doppio degli aiuti allo sviluppo da parte dei paesi del G7. Non è difficile darsene conto se si considera che, nonostante gli impegni a suo tempo presi, i ventidue paesi più avanzati destinano alle politiche di cooperazione allo sviluppo lo 0,22% del loro PNL (contro la promessa di una percentuale dello 0,7!). Ciò ha veramente del paradossale. Di fronte all’aumento della pressione migratoria – di cui si è detto nel paragrafo precedente – i paesi dell’Occidente avanzato hanno risposto riducendo, anziché aumentando, gli stanziamenti di aiuto allo sviluppo.

In una situazione del genere, quale proposta credibile potrebbe essere avanzata? In un recente saggio, l’economista di Harvard, Dani Rodrik, propone di liberalizzare parzialmente i movimenti internazionali di migranti allo scopo di aumentare, in modo duraturo, i redditi dei paesi generatori dei flussi migratori. (“Feasible globalizations”, CEPR, DP, July, 2002).Si pensi ad uno schema di permessi temporanei di lavoro pari a circa il 3% della forza lavoro dei paesi ricchi. Lavoratori, sia specializzati sia non specializzati, dei paesi poveri verrebbero ammessi a lavorare nei paesi ricchi per un periodo di 3-5 anni, al termine del quale un nuovo contingente di migranti subentrerebbe. Cosa può assicurare che la rotazione abbia effettivamente luogo? Un adeguato schema di incentivi che chiami in causa tutte le parti interessate: lavoratori-migranti, imprese, governi dei paesi sia di invio sia ospitanti. Ad esempio, si può trattenere dal salario una quota vincolandone la restituzione (comprensiva degli interessi) al rientro in patria del lavoratore. Questa sorta di risparmio forzato assicurerebbe al migrante, al momento del rientro, una somma tale da consentirgli un agevole inserimento nel suo paese. D’altro canto, i governi che non collaborassero per agevolare i rientri dei migranti potrebbero venire sanzionati in qualche modo. Inoltre, si tratterebbe di incoraggiare legami fiduciari tra migranti e datori di lavoro, così che i primi potrebbero aiutare i secondi a favorire le esportazioni dei loro prodotti una volta rientrati nel paese di provenienza. E così via.

In buona sostanza, l’idea è quella di impiegare le migrazioni come strumento di sviluppo, così da porre fine, o comunque ridurre sensibilmente la pressione migratoria. In aggiunta alle ingenti risorse monetarie dirette che realizzazione di un progetto del genere genererebbe, occorre considerare gli effetti indiretti positivi. Le persone che rientrano portano con sé il know-how acquisito; l’esperienza accumulata e soprattutto quelle norme sociali di comportamento che sono il prerequisito indispensabile per sostenere il processo di sviluppo. Inoltre, un progetto del genere varrebbe ad evitare il depauperamento delle risorse umane che le migrazioni di lungo periodo  portano sempre con sé. (Nel corso degli ultimi 20 anni, l’Africa Sub-Sahariana ha perso oltre il 30% dei suoi lavoratori maggiormente qualificati).

Si pone la domanda: perché una proposta del genere non riesce a farsi strada? Perché, pur essendo economicamente vantaggiosa, essa non è politicamente fattibile. La spiegazione è immediata: il paese che per primo traducesse in pratica un tale schema si esporrebbe al suicidio politico, dal momento che nel breve periodo – che è l’orizzonte temporale cui guardano tutti i governi democratici – i costi sarebbero superiori ai benefici. Solo da un accordo simultaneo e congiunto tra tutti i paesi questo limite della regola democratica potrebbe venire superato. Ecco perché, molto opportunamente, l’Istruzione insiste sulla “ricerca di un nuovo ordine economico internazionale” (n. 8).           

4. Passo, infine, ad una terza grossa questione che la lettura attenta della Erga Migrantes pone alla nostra responsabile attenzione. Si tratta del fatto che non c’è solo l’integrazione economica (nel mercato del lavoro) e neppure solo l’integrazione sociale (nel sistema di welfare) dell’immigrato nel paese che lo ospita a costituire un  problema – come si è detto sopra. C’è anche, e sempre più nel prossimo futuro, l’integrazione culturale a creare difficoltà di enorme portata. Invero, l’universalismo all’insegna del quale le democrazie liberali occidentali si erano proposte come ancoraggio morale per il mondo intero, è entrato in palese conflitto con altri universalismi, ad esempio con quello islamico. Accade così che non pochi dei paesi da cui promanano i flussi migratori oppongono dura resistenza alla pretesa di universalità dei diritti dell’uomo, perché visti come cavallo di Troia con il quale l’Occidente intenderebbe perpetuare la propria egemonia con mezzi diversi da quelli del passato. E’ questo un elemento di profonda differenziazione delle odierne migrazioni da quelle del passato, un elemento che non ha ancora trovato l’attenzione richiesta tra gli stessi addetti ai lavori.

E’ merito, certamente non secondario, dell’Istruzione Erga Migrantes quello di dedicare un’attenzione tutta speciale al tema  dell’integrazione culturale e pour cause. Perché un’autentica ed incisiva azione pastorale nei confronti dei migranti non può eludere la questione della loro identità religiosa e etno-culturale. I migranti di questa epoca, infatti, reclamano non solamente la tutela dei propri interessi, ma anche il riconoscimento, nella sfera pubblica, dello loro specifiche identità. Si noti la differenza: l’interesse è declinato sull’asse dell’avere e concerne lo spazio delle opportunità di vita che la persona è in grado di controllare; l’identità è declinata sull’asse dell’essere e dice del senso per cui una persona agisce o vive. Ecco perché gli interessi possono rimanere una questione privata, mentre le identità chiamano in causa la sfera pubblica.

Ma come interpretare l’integrazione culturale? C’è chi la interpreta nel senso di “piena eguaglianza”, cioè come condizione nella quale a tutti indistintamente siano riconosciuti, e da subito, i diritti di piena cittadinanza, senza porsi il problema della compatibilità delle richieste identitarie. E c’è chi, all’opposto, interpreta l’integrazione in termini esclusivamente economici, considerando integrabile solamente il migrante che risulti economicamente vantaggioso per il paese ospitante. Non ci vuol tanto a comprendere come entrambe le posizioni possano condurre ad esiti paradossali oppure eticamente inaccettabili, comunque disastrosi.

La linea avanzata e offerta alla comune riflessione nell’Istruzione mi pare saggia e pienamente condivisibile. Se, per un verso, non è lecito pretendere dal migrante la rinuncia alla propria identità – come vorrebbero i sostenitori dell’assimilazionismo – e neppure è lecito chiedere loro di rinchiuderla nel recinto del ghetto – come vorrebbero i sostenitori della marginalizzazione degli immigrati – è, per l’altro verso, lecito, anzi doveroso, chiedere al migrante di “comunicare” a tutti gli altri la propria identità culturale. Si tratta perciò di garantire uno spazio pubblico di dialogo in cui i soggetti portatori di un’identità diversa da quella del paese ospitante possano mettere a confronto le loro rispettive posizioni in modo pacifico e soprattutto possano giungere al consenso intorno ai limiti entro cui mantenerle. Per dirlo in altro modo, la via da battere è quella che rifiuta sia la prospettiva di chi esalta, fino all’esasperazione, le differenze che separano gli immigrati dagli autoctoni per giustificare forme, più o meno accentuate, di balcanizzazione della società, sia la prospettiva di coloro che parlano di una radicale impermeabilità tra culture per legittimare forme, più o meno forzate, di assimilazionismo.

La proposta del dialogo interculturale che emerge dalla Erga Migrantes è fondata sull’idea del riconoscimento del grado di verità presente nella visione del mondo che sta a fondamento di ogni cultura. Un’idea questa che consente di fare stare assieme il principio di eguaglianza delle culture – principio che tocca il livello dei diritti universali dell’uomo – con il principio di differenza delle culture – che ha a che vedere con il modo in cui queste differenze si traducono nell’ordinamento giuridico. L’approccio del riconoscimento veritativo postula una condizione fondamentale: tutti coloro che intendono partecipare al dialogo interculturale devono poter fornire ragioni per le richieste riguardanti la sfera pubblica (partecipazione alla vita politica; educazione scolastica dei figli; regimi familiari, ecc.). Nessuno è autorizzato ad affermare ciò che vuole in modo apodittico senza confrontarsi con le posizioni altrui. Non solo, ma queste ragioni devono avere carattere pubblico, nel senso che devono essere giustificate mediante termini che chi è di differente fede o cultura possa comprendere e accogliere come ragionevoli e tollerabili, anche se non condivisibili.

Certo, la ricerca di un equilibrio soddisfacente tra un codice comune di convivenza e l’istanza della molteplicità culturale pone problemi delicati e di grande spessore. Non dobbiamo nasconderci che le domande identitarie incutono sempre paura in coloro ai quali esse vengono rivolte. Talora, queste paure prendono la via dell’annientamento o della negazione dell’identità dell’altro; talaltra, esse portano all’adozione di pratiche meramente assistenziali che diminuiscono l’autostima di coloro che ne sono i destinatari. E’ infatti grave esperienza umiliante quella di essere considerati oggetti, sia pure di filantropia e assistenza, piuttosto che persone. Eppure, come ci ricordava Giovanni Paolo II nel suo messaggio del 1° gennaio 2001, dal titolo “Dialogo tra le culture per una civiltà dell’amore e della pace”: “essere uomo significa necessariamente esistere in una determinata cultura” (n. 5) e dunque che “il dialogo tra le culture…. emerge come un’esigenza intrinseca alla natura stessa dell’uomo e della cultura” (n. 10; corsivo aggiunto).

Il compito da assolvere, allora, è quello di gettare sul tavolo del dibattito la proposta di una via capace di scongiurare la Scilla dell’imperialismo culturale, che porta all’assimilazionismo, e il Cariddi del relativismo culturale, che conduce alla balcanizzazione della società e alla sua lenta eutanasia. E’ questo un compito che – come ci indica Erga Migrantes – soprattutto il cristiano deve saper assolvere, perché il tratto peculiare della cultura cristiana è l’amore per il molteplice, contrapposto alla passione per l’uno, tipica di altre matrici culturali. Per questo, il cristiano è, naturaliter, inclinato a favore del modello del dialogo interculturale. Dopo tutto, il Vangelo parla dei cristiani come del “sale della terra”, non perché convertano tutto in sale, ma perché facciano risaltare il sapore di tutti i frutti della cultura umana. Il che apre alla speranza, la quale non riguarda solamente il futuro, come si tende a pensare, ma anche il presente. Forte è, infatti, nell’uomo il bisogno di sapere che la sua esistenza, oltre ad una destinazione finale, possiede un significato e un valore anche per quello che fa, qui e ora.  

 

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