Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People People on the MoveN° 99, December 2005
Una lettura storica delConcilio Ecumenico Vaticano II*
(per i quarantÂÂanni dalla sua conclusione)
S.E. Mons. Agostino MARCHETTO Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti Eminenze, Eccellenze, cari Amici, Grazie per lÂÂinvito. Otto-dieci minuti mi sono concessi e quindi rimando anzitutto, per chi voglia comprendere meglio il mio intervento, allÂÂopera che ho da poco pubblicata presso la Libreria Editrice Vaticana, dal titolo ÂÂIl Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storiaÂÂ. E la prima storia della storiografia, sul grande evento conciliare, di questi ultimi 15 anni abbondanti, da un punto di vista di critica storica, naturalmente, ma, con preoccupazione ermeneutica, dopo 40 anni dalla chiusura del Vaticano II. A tale riguardo direi anzitutto che il magistero episcopale, e non solo pontificio, dovrebbe impegnarsi di più poiché ci sarà vera ricezione del Concilio se vÂÂè una sua corretta interpretazione. Dividerò il mio intervento in tre punti (dando per scontate tante cose), vale a dire lÂÂevento, lÂÂabbraccio fra Tradizione e rinnovamento, e due campi significativi e fondamentali che lo attestano. I° LÂÂevento In genere usiamo facilmente questo termine per indicare lÂÂoggetto, oggi, della nostra attenzione, non del tutto coscienti di quanto soggiace a una tale parola, e cioè non soltanto lÂÂindicazione di un grande e importante avvenimento. In effetti, partendo da esso, e nel contesto di una tendenza storiografica generale, profana, che privilegia lÂÂevento, la discontinuità, il cambiamento, ovvero il mutamento traumatico, in contrapposizione allÂÂantecedente indirizzo dei famosi ÂÂAnnales  in cui si guardava piuttosto al periodo lungo, con sottolineatura della continuità storica (pensiamo a Braudel)  una visione da me definita ideologica, fin dallÂÂinizio, estrema, oltranzista, non consensuale, si è imposta monopolisticamente nella presentazione storica del Vaticano II. Essa considera il Magno Concilio come rottura, una novità assoluta, il nascere quasi di una nuova Chiesa, una rivoluzione copernicana, il passaggio da un tipo di Cattolicesimo ad un altro, che infrige proprio la sua caratteristica di continuità, pur nellÂÂincarnazione necessaria nellÂÂoggi di Dio, come io dico (combinata cioè al rinnovamento). E qui viene da ricordare che il termine più indicativo del Concilio convocato da Papa Giovanni, condotto e concluso da Paolo VI, è ÂÂaggiornamento (vocabolo abbastanza intraducibile nelle varie lingue e quindi assunto qua talis oltre lÂÂitaliano). Tale prospettiva storica, sia pur monopolistica fino ad ora, non potrà e dovrà dunque essere accettata per quanto concerne il Cattolicesimo e la storia che consideri la sua specificità, della continuità, cioè, della realtà cattolica  come la vedeva lo stesso Newman ÂÂ, continuità che dovrà esser preservata altresì nellÂÂinterpretazione dei suoi eventi e documenti (v. op. cit., specialmente pp. 223-232). Dicevamo documenti. A questo proposito la tendenza storiografica monopolistica attuale ha pure una seconda caratteristica, oltre la questione dellÂÂevento, e cioè la contemporanea svalutazione dei documenti conciliari. Noi non accettiamo, invece, la prospettiva di staccare evento e decisioni conciliari (lo ÂÂspirito conciliare lo è di questo ÂÂcorpusÂÂ), che portano il marchio del consenso e della unità. QuellÂÂunità necessaria fra due tendenze ugualmente legittime, se rimangono nella communio hierarchica, vale a dire di coloro che hanno più sensibilità e attenzione alla Tradizione o, invece, allÂÂincarnazione nellÂÂoggi di Dio. Per noi dunque i testi non vanno svalutati, né scelti ad usum delphini (anche perché così facendo si danneggia il processo della loro ricezione), sia pur tenendo in conto il ÂÂgenere letterarioÂÂ, i criteri di impegno di ciascuno e i temi trattati. Non consideriamo, dunque, che si possa arrivare al pensiero conciliare qua talis, prescindendo dalla preoccupazione di quel consensus (che fu il martirio di Paolo VI, come disse il Card. König), il quale consensus fu proprio caratteristica sinodale e non fu cercato solo per se stesso. Inoltre soltanto i testi definitivi ÂÂfanno testoÂÂ, altrimenti qualcuno li riceverà  come spesso si fa ÂÂ, alla sua maniera, a pretesto per il proprio cammino personale o per la preferenza teologica o di ÂÂscuola di ciascuno. II° Tradizione e rinnovamento, in concilio, si sono abbracciati Affronto questo tema, per noi fondamentale, nel citato volume (pp. 358-370), partendo dallÂÂintenzione di Papa Giovanni XXIII nel convocarlo e dal significato di T(t)radizione. Il Papa distingueva  come si sa  la sostanza, lÂÂintera, precisa ed immutabile dottrina e la sua presentazione (formulazione). LÂÂaggiornamento, dunque, era inteso, da chi lo volle ÂÂconciliare  ripeto  non come cesura con il passato o contrapposizione di momenti storici, ma quale crescita, perfezionamento del bene sempre in atto nella Chiesa. Il suo rinnovamento è di fatto continuo. Analizzavo poi lÂÂintenzione di Paolo VI, fedele interprete del pensiero del suo predecessore  così lo definì lo stesso Mons. Capovilla ÂÂ, e non suo affossatore, come ha tendenza a fare una ÂÂofficina (quella bolognese) che va per la maggiore nellÂÂinterpretazione conciliare. In effetti Paolo VI, pur di formazione e carattere diverso dal suo predecessore, mantenne la sua stella polare dello ÂÂsviluppo nella continuitàÂÂ. Con lui il Concilio proseguì con le stesse finalità (pastorali). Non sarebbe dunque nel vero  affermò Paolo VI  chi pensasse che il Concilio Vaticano II rappresenti un distacco, una rottura o una liberazione dallÂÂinsegnamento della Chiesa, o autorizzi o promuova un conformismo alla mentalità del nostro tempo, in ciò che essa ha di effimero e di negativo. In effetti Paolo VI così attestò allÂÂinizio del suo ministero pastorale universale: ÂÂRiprenderemo  lÂÂopera dei nostri predecessori, difenderemo la santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano lÂÂintegrità e ne velano la bellezza; cercheremo di conservare e accrescere la virtù pastorale della ChiesaÂÂ. E rimase fedele al suo impegno senza mai tradire il santo vero. Ebbene quello che Papa Paolo VI attribuisce a sé, nel senso della fedeltà, lo si deve certamente anche dire del Concilio Vaticano II, il quale prosegue con spirito pastorale il cammino di promozione della fede cattolica e di rinnovamento dei costumi e della disciplina ecclesiale intrapresa dai concili che lo precedettero. In questa linea non possiamo aderire alle critiche formulate contro le ottime regole ermeneutiche di Kasper, e pure di Ratzinger e Jedin, circa il Vaticano II (ibidem, p. 223) per sottolineare la peculiarità, fra i Concili, del Vaticano II. III° Due esempi di abbraccio fra Tradizione e rinnovamento a) Di tale abbraccio vorrei ricordare anzitutto lÂÂesempio della collegialità e del primato pontificio, anche per la natura specifica del CCEE. Credo infatti sia opportuno, senza poterlo io fare su altri temi nodali, concretare su questo punto la presenza di nova et vetera nel Sinodo in parola e nella sua guida da parte di Paolo VI, a conferma che ÂÂcattolica è la congiunzione ÂÂeÂÂ, come attestò von Balthasar. In stringate e obiettive pagine, Mons. Carbone, fedele custode degli Archivi e curatore dei 62 tomi degli ÂÂActa SynodaliaÂÂ, con i quali deve confrontarsi ogni privata fonte conciliare (questione di gerarchia delle fonti), così riassume lÂÂiter decisivo del rapporto conciliare primato-episcopato: ÂÂNei primi giorni del II periodo  Paolo VI, al disopra delle parti, intervenne prontamente e sospese la votazione indetta dal moderatore per il giorno 17 (ottobre 1963) su quattro proposizioni. La votazione suscitava problemi di contenuto del testo e di procedura che andavano chiariti, per evitare che essa assumesse un valore che in quel tempo non poteva avere e condizionasse, quindi, la commissione dottrinale nellÂÂemendare lo schema e la libertà dei Padri nellÂÂesaminarloÂÂ. Con tenacia e pazienza Paolo VI si adoperò affinché i problemi, mediante il dibattito sereno e approfondito, fossero chiariti e si potesse raggiungere la maggioranza più larga possibile. Con prudenza e discrezione, seguì il lavoro delle singole commissioni, e senza sostituirsi ad esse, concorse a perfezionare gli schemi. I suoi interventi fermi, ma sempre delicati e rispettosi, fecero superare i contrasti, favorirono lÂÂunità dellÂÂassemblea e il consenso moralmente unanime di essa sui documenti. Lo riconobbero gli stessi Padri delle opposte tendenze ai quali quegli interventi  in un primo momento  non erano riusciti graditi. Prova ne è la Nota Explicativa Praevia che egli volle al cap. III dello schema sulla Chiesa. Essa liberò il testo dalle implicazioni e potenzialità che avrebbero potuto dare origine a distorte interpretazioni e non era in contraddizione  secondo il giudizio che più tardi ne diede lo stesso Philips, noto teologo e ÂÂricucitoreÂÂ, in parte, della Lumen Gentium, confermato da altri [Congar e Schillebeeckx, per es.]  con il relativo testo conciliare. Cessate le perplessità, nella votazione della sessione pubblica del 21 Novembre si ebbe lÂÂapprovazione unanime: 2151 placet, 5 non placet. Certo quel consenso fu in seguito messo a dura prova, perché ciascuno aveva propensione a seguire [ed è vero anche oggi] la tendenza di prendere, di esso, per sé e per la comunità, quanto collimava con la propria visione, o, peggio, ÂÂideologiaÂÂ, senza accettazione totale dellÂÂinsieme, del corpus, dei 16 testi conciliari che ÂÂrappresentano ciò che il sinodo, nel bene o nel male, fu dÂÂaccordo nel dire  essi sono invocati giustamente come lÂÂespressione determinata delle sue intenzioni e decisioniÂÂ. b) Dialogo e consenso, in concilio, per giungere allÂÂabbraccio tra rinnovamento e Tradizione. Ho fatto riferimento già al consenso sinodale, perseguito instancabilmente da Paolo VI, come espressione della ÂÂCatholicaÂÂ, dellÂÂunitas in necessariis, per noi incarnazione del combinarsi di Tradizione e rinnovamento nel magno Sinodo Vaticano. La sua assenza o carenza è infatti un qualcosa che si deve poi ÂÂpagare a caro prezzo, come insegna la storia dei Concili. E lÂÂesempio di molti concili importanti che si sono preoccupati faticosamente di raggiungere il consenso è una testimonianza della sua grande importanza e del suo carattere di segno, soprattutto nel senso che la verità non viene ÂÂdecisa (mediante votazione) ma ÂÂattestata appunto con il consenso. E qual è il cammino per raggiungerlo, se non quello del dialogo? Conoscendo la ricchezza e le contraddizioni della cultura moderna, le aspirazioni e le speranze, le gioie e le tristezze, le delusioni e le difficoltà dellÂÂuomo contemporaneo, Paolo VI, seguendo lÂÂinteriore impulso della carità pastorale, cercò di calarsi in esse poiché  disse  ÂÂil mondo non si salva dal di fuoriÂÂ. Egli fu dunque assiduo banditore e promotore del dialogo  come lo fu il Concilio Vaticano II  con tutti gli uomini di buona volontà: con i cristiani separati, con i non cristiani, con i non credenti. ÂÂNel dialogo così condotto, si realizza lÂÂunione della verità con la carità, dellÂÂintelligenza con lÂÂamoreÂÂ. Con forza Paolo VI affermò che il dialogo devÂÂessere immune dal relativismo che intacchi lÂÂimmutabile dottrina della fede e della morale: ÂÂLa sollecitudine di accostare i fratelli non deve tradursi in unÂÂattenuazione, in una diminuzione della veritàÂÂ; ÂÂil nostro dialogo non può essere debolezza rispetto allÂÂimpegno verso la fedeÂÂ; ÂÂnon si può transigere con i principi teorici e pratici della nostra professione cristianaÂÂ. E qui vi sono tutti i legami con il Vaticano II, con il suo procedere nella ricerca di un dialogo allÂÂinterno anche della Chiesa Cattolica, con la procedura costante e fervida del consenso e il desiderio, continuamente rinnovato e attuato, affinché rinnovamento e Tradizione dialoghino tra di loro, e ci sia una saldatura tra antico e nuovo, diciamo anche tra I e II Millennio ecclesiale. Insistere solo sul nuovo è quindi errato poiché in Concilio vi è pure ripresentazione e conferma dellÂÂantico, del precedente. Basti dire che tra le fonti più citate nei testi conciliari vi furono gli interventi di Pio XII. Il Vaticano II si trovò cioè a sancire lÂÂavvenuto sviluppo teologico e a tradurlo nellÂÂazione pastorale, in risposta alle esigenze dei tempi, nella continuità della dottrina. In effetti la Chiesa  immutabile per la intrinseca vitalità che le viene da Cristo Capo e dal Suo Spirito, in fedeltà al Padre ÂÂ, anche mediante lÂÂopera dei Concili si perfeziona, rimanendo però essenzialmente la stessa. Essa si arricchisce di nuovi dogmi e insegnamenti, ma senza alterazione del sacro deposito affidatole da Cristo stesso. Verrebbe bene qui una citazione di Bossuet (lettera n. 32, a Leibniz, Oeuvres, Paris 1846, p. 716) ma mi limito a ricordare il luogo di tale bel passo. Non vorrei concludere senza un invito  se mi è concesso  affinché anche oggi, come in concilio, continui nella Chiesa il dialogo nella ricerca di un consenso, dellÂÂincarnazione cioè dellÂÂeterna VeritàÂÂBellezza, tanto antica e sempre nuova, nella fedeltà alla Tradizione e nel rinnovato aggiornamento.
* Intervento dÂÂapertura, pronunciato il 30 Settembre 2005, in occasione dellÂÂAssemblea annuale della CCEE svoltasi a Roma. Questo testo ha fornito la base a una conferenza tenuta a Mosca, il 20 dicembre 2005, durante una riunione di presbiteri e agenti pastorali dellÂÂArcidiocesi della Madre di Dio. Quel giorno, lo stesso argomento è stato presentato, da S.E. Mons. Marchetto alla Commissione Teologica (Ortodossa) del Patriarcato di Mosca.
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