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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 101 (Suppl.), August 2006

 

 

I RIFUGIATI DAI PAESI A MAGGIORANZA ISLAMICA

 

 

Professore Stefano ZAMAGNI

Presidente del CCIM

 

Entro nel merito dell’argomento che mi è stato assegnato, portando una riflessione che è frutto sia del lavoro disciplinare che svolgo, di economista nell’Università di Bologna, ma soprattutto come Presidente dell’ICMC (International Catholic Migration Commission), che ho l’onore e il piacere di presiedere ancora. 

La mia riflessione parte da una considerazione, la seguente: il fenomeno migratorio, in generale, e dei rifugiati di oggi è qualitativamente diverso da quello del passato, perché coinvolge e mette in gioco universi culturali diversi. Questo è un fatto di cui, in epoca recente, siamo stati costretti a prendere atto, ma sul quale non c’è ancora una adeguata letteratura e un’adeguata riflessione. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che a proposito dei rifugiati e, più in generale, dei migranti, non c’è solo un problema di integrazione economica e di integrazione sociale, ma anche, e direi oggi soprattutto, di integrazione culturale-religiosa. 

L’integrazione economica e sociale andava bene ieri, nel passato, quando i flussi migratori e di rifugiati avevano una direzione e una connotazione precisa, come dicevo, quella dell’appartenenza al medesimo universo culturale, sia di chi arrivava sia di chi ospitava. Oggi, come sappiamo, non è così, e allora la differenza sta in questo. Rispetto all’integrazione socio-economica, tutti sono sostanzialmente eguali perché, come ricordava il grande filosofo ed economista inglese John Stuart Mill, lo stomaco è uguale per tutti gli esseri umani, per significare che di fronte ai bisogni di natura economica e sociale non ci sono differenze sostanziali e neppure particolari. Quando arriviamo invece all’integrazione culturale-religiosa nascono differenze perché le religioni, come sappiamo, non sono tutte uguali, le matrici culturali non sono tutte eguali. Eppure se noi facciamo attenzione, anche dentro la nostra Chiesa, c’è questa sotto-valutazione. 

Facciamo certo bene a preoccuparci dell’integrazione economica e sociale, perché per chi arriva nei Paesi di accoglienza, i primi bisogni sono sicuramente quelli di ordine materiale, e quindi dobbiamo qui continuare, però c’è il rischio di trascurare quell’altra dimensione che, in questo momento storico, a me sembra prioritaria, perché il rifugiato o il migrante non porta con sé solo bisogni materiali, ma in più bisogni spirituali e se noi non intercettiamo questa domanda di integrazione culturale e religiosa non facciamo un servizio alla causa che ci vede qui uniti. 

Di fronte a questo qual è il rischio, duplice, che, a mio modo di vedere, occorre evitare? Da un lato quello del relativismo assiologico, o più in generale, etico, che dice che tutte le religioni sono eguali, meritano tutte il medesimo rispetto, e dunque non c’è problema. Il rischio opposto a questo è quello invece dell’assimilazionismo, che qualcuno chiama di marca francese, non perché la Francia sia l’unica, ma perché è stato forse il Paese che più di ogni altro ha insistito su questa strategia, e cioè quella di chiedere ai rifugiati e agli immigrati di rinunciare, nella sfera pubblica, ripeto pubblica, le loro pretese identitarie, in particolare, di rinunciare alla pretesa di far valere in pubblico la propria identità religiosa e culturale. Anche questa, mi sembra, è una strategia non accettabile. Ovviamente non è accettabile soprattutto per noi cristiani, ma non lo è anche perché, come l’esperienza francese ha indicato, è foriera di grossi problemi e conflittualità. E allora se non possiamo accettare la deriva relativista, se non possiamo accettare la strategia assimilazionista qual’è la proposta? Bisogna che ne formuliamo una e, come dicevo pocanzi, su questo fronte della proposta anche noi, la nostra Chiesa, è un po’ in ritardo. Dobbiamo ammetterlo con umiltà, ma con sincerità: non abbiamo ancora elaborato un modello di integrazione culturale, religiosa che sia alternativo ai due.

Con lo sforzo di riflessione e l’impegno di tutti noi nei diversi ambiti in cui ci è dato di operare, tenendo presente a cosa dovrebbe servire, questo problema è particolarmente urgente, lo dico anche nei confronti del tema di questa Sessione Plenaria, per le ragioni che tutti sappiamo e che non dimentico di sottolineare. Si deve cioè poter essere capaci di distinguere, in ciò che ci viene richiesto dai rifugiati musulmani, ciò che non è tollerabile da ciò che lo è, ciò che è rispettabile da ciò che è condivisibile. Dunque ci sono quattro livelli, secondo me, su cui occorre fare grande attenzione, perché non possiamo accettare, e cioè tollerare, tutto ciò che ci viene richiesto, ad esempio, quello che va contro i diritti fondamentali dell’uomo. 

Noi sappiamo che ci sono alcune questioni specifiche, non sono tante però ci sono, che evidentemente non possono essere accettate. Facciamo un esempio concreto: la Catalogna ha recentemente cambiato il proprio statuto regionale, che al momento è all’approvazione delle Cortes spagnole, tendente a riconoscere il matrimonio poligamico in Catalogna. Ora la Catalogna fa parte della Spagna. Di Zapatero conosciamo la linea politica, ma la domanda diventa: è questo tollerabile? Può un paese come la Spagna accettare di introdurre nella propria costituzione il principio del matrimonio poligamico? Questo è un problema concreto che, in questo momento, in Europa, è all’attenzione dei più. Ci sono poi, invece, richieste che possono essere tollerate; altre, dicevo, che possono essere rispettate e il rispetto è più della tolleranza, come sappiamo. Altre ancora sono condivisibili, cioè possono unirsi alle nostre richieste, alle nostre identità, perché comuni. 

Ora a me sembra che questo lavoro di identificazione sia urgente, cioè noi dobbiamo poter trovare nella matrice culturale islamica, la possibilità di distinguere questi quattro livelli. É un lavoro difficile, io lo ammetto, perché ci obbliga a imparare e conoscere il Corano, e una parte della tradizione islamica, altrimenti non possiamo procedere. Ecco allora un primo impegno che io affiderei alle nostre comunità, non basta cioè che noi facciamo lo sforzo di far capire la nostra posizione agli altri. Bisogna anche che capiamo l’altrui posizione per poter discernere nella loro posizione ciò che non è tollerabile da ciò che lo è, e il condivisibile. Questo lavoro è importante anche dal punto di vista politico, perché i politici, ai diversi livelli di governo Europeo, nazionale e locale, hanno bisogno di avere questa indicazione perché c’è un problema di allocazione delle risorse, ad esempio delle risorse finanziarie. Un governo locale deve dunque sapere se può mettere in gioco delle risorse finanziarie per sostenere certe richieste e non per sostenerne altre. È un problema che non posso toccare, questo, ma è di grande rilevanza perché la sfera della politica chiede queste cose a noi. Io parlo di noi, in questo caso del mio Paese che è l'Italia, ma questo discorso vale anche per altri Paesi Europei, dell’America del Nord e del Sud, perché i politici non sono in grado di fare quel discernimento di cui parlavo, mentre da quel discernimento dipendono politiche di un tipo o dell’altro, e l’esempio della Catalogna lo indica. Se voi avete seguito il dibattito, il governo della Catalogna ha detto: “A noi nessuno aveva detto, alludendo forse ai cattolici, che il matrimonio poligamico fosse una cosa non tollerabile”. E quindi si è proceduto. Sappiamo che non è vero, però è significativo che sia stata detta una cosa del genere. Ecco allora il primo punto.

Il secondo è quello di avanzare un modello di dialogo. Ora si parla tanto di esso, però noi spesso confondiamo il dialogo con la conversazione, o lo confondiamo con l’ascolto reciproco. Ora la conversazione è cosa buona e dobbiamo farla, l’ascolto reciproco è cosa buona e dobbiamo farla, però non è dialogo. Il dialogo è altra cosa. Troppo spesso noi pensiamo che dialogare significhi ascoltare l’altro, essere simpatetico nei confronti di quel che ci dice e viceversa. Il dialogo, come l’etimo greco ci ricorda, è qualcosa di più impegnativo, perché dialogare vuol dire offrire ragioni all’altro delle proprie credenze, dei propri “beliefs”, di ciò che crediamo, e chiedere che l’altro faccia altrettanto, che ci offra le ragioni della sua credenza. Questo è il dialogo perché solo da esso noi possiamo aspettarci un avanzamento sulla via del progresso morale e soprattutto della pace in terra. Ora per questo ci vuole un modello di dialogo. A me risulta, ma potrei sbagliarmi, che a tutt’oggi non abbiamo tale modello. Ne abbiamo uno di conversazione, perché noi pensiamo che il dialogo culturale sia sostanzialmente risolvere il problema della alfabetizzazione e della comunicazione linguistica. No, quello non è il dialogo. Quello va fatto, quando ospitiamo i rifugiati e i migranti. Mettiamo a loro disposizione gli aiuti per la lingua, per l’alfabetizza-zione, per l’interpretariato, tutte cose giustissime. Ma quelle non sono il dialogo. Esso è quello che dicevo pocanzi, ma per dialogare ci vuole un modello. 

Io penso che sia giunto il momento in cui dobbiamo aumentare questo sforzo. Io, nel mio piccolissimo, ho un’ipotesi che non è necessariamente quella migliore. É un modello che io chiamo del consequenzialismo morale, che ha dei pregi e delle virtù, e sono certo che altri hanno idee migliori, però dobbiamo proporre un modello perché altrimenti continuiamo a girare attorno al problema e non aggredirlo. L’idea base del consequenzialismo morale è quella di chiedere all’interlocutore, che afferma una certa posizione religiosa, di esplicitare le conseguenze che derivano dalle sue tesi. L’intera catena delle conseguenze, non solo quelle, diciamo, sul piano teologico, perché sulle conseguenze si può discutere e si può dialogare e io vedo che, quando questo lavoro viene fatto, i risultati ci sono, perché persone in buona fede dicono: “Non avevo pensato che da quella mia posizione sarebbero derivate queste conseguenze negative”. E di fronte ai fatti, secondo me, la gente in buona fede cambia posizione, o la modifica, a seconda dei casi. Questo è un esercizio importante e convincente perché rispetta l’altro, ma chiede all’altro di impegnarsi in questo tipo di confronto.

Qual’è il luogo in cui identifico un metodo o un modello di questo tipo per metterlo alla prova? Secondo me è la scuola. Chi, come la mia Organizzazione, segue da vicino questi problemi sa che, oggi, per il problema della integrazione culturale, religiosa, il luogo più importante è la scuola, perché i bambini vengono inseriti nelle classi e ci sono problemi nuovi, che non esistevano nel passato e, cioè, noi abbiamo evidenza di famiglie musulmane che continuano a discriminare le proprie figlie, perché non vogliono che si integrino nelle scuole, temendo che esse possano perdere le caratteristiche proprie. Sappiamo cosa vuol dire questo per l’Islam. Anche nei confronti dei figli maschi c’è tutta una serie di pregiudizi, diversi pregiudizi che spiegano per esempio il tasso di fallimento cui sono soggetti questi ragazzi. Ebbene la scuola diventa un luogo importante, dove poter incontrare le famiglie, i genitori, oltre che i figli, e prendere spunto da questa situazione di vita per affrontare con loro il dialogo nel senso che dicevo, e quando questo viene fatto i risultati ci sono perché i genitori sono sempre genitori. Quando è in gioco il destino dei propri figli si muovono delle corde speciali che sono le corde dell’amore, e di fronte all’amore anche certi pregiudizi scompaiono. Secondo me, noi dobbiamo aiutare gli immigrati, soprattutto musulmani, a capire che certe loro posizioni non sono il frutto della loro religione, ma di una cultura che ha dei secoli alle spalle e che non favorisce la crescita e la liberazione dei loro figli. Quando questo, ripeto, viene fatto, con grande spirito di carità ma anche di capacità, io vedo risultati molto promettenti. Questo è l’augurio che io faccio a me stesso, e a tutti noi, per un lavoro importante e al tempo stesso affascinante.

 

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