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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 103, April 2007

 

 

Orientamenti per una pastorale degli zingari. Profili giuridici

 

 

Rev. Prof. Eduardo BAURA

Pontificia Università della Santa Croce

 

1. Il tema della presente relazione verte sugli aspetti giuridici della pastorale in favore degli zingari, soprattutto alla luce del nuovo Documento del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti dell’otto dicembre 2005, intitolato “Orientamenti per una pastorale degli zingari”.

Il parlare di profili giuridici richiama subito nell’ascoltatore l’idea che si voglia trattare delle norme regolatrici e organizzative di una realtà, nel nostro caso dell’attività pastorale per gli zingari, che sarebbero raccolte nel Capitolo V del citato Documento. Ma una siffatta visione del mondo giuridico risulta riduttiva e, alla fin fine, anche fuorviante.

In realtà, la parola “giuridico” proviene da “ius”, diritto. Il diritto è l’oggetto della virtù della giustizia, è, cioè, quello che appartiene ad un soggetto e, perciò stesso, occorre darglielo o rispettarglielo. L’aggettivo “giuridico”, pertanto, fa riferimento primariamente e precipuamente alla giustizia. Gli aspetti giuridici di una realtà sono, quindi, gli elementi di giustizia presenti in tale realtà.

Il tema, dunque, della presente relazione tratta degli aspetti di giustizia insiti nell’attività pastorale in favore degli zingari. Molti di questi elementi giuridici si concretizzano nelle norme organizzative di questa specifica pastorale, ma va ribadito che una considerazione sugli aspetti di giustizia presenti nell’azione della Chiesa in favore degli zingari non può essere ridotta alle sole questioni organizzative. Per avere, quindi, una visione completa e profonda del tema occorre, quindi, guardare ad alcuni principi giuridici (di giustizia) presenti nella stessa costituzione della Chiesa, che si trovano alla base dei risvolti giuridici della pastorale per gli zingari, e che illuminano la comprensione delle specifiche norme organizzative di questo settore pastorale.

2. Innanzitutto, va ricordata un’esigenza di giustizia che è alla base di tutto il diritto canonico. Cristo, che vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità (1 Tim 2, 4), ha istituito la Chiesa e ha dato ai Pastori il mandato di predicare il Vangelo e di battezzare, vale a dire di amministrare i mezzi salvifici che ha donato alla sua Chiesa, cioè la parola (il deposito della fede) e i sacramenti. I Pastori sono ministri dei mezzi di salvezza che Cristo ha elargito alla sua Chiesa; essi sono, dunque, tenuti ad amministrare fedelmente i beni che sono sotto il loro potere, affinché questi beni arrivino ai loro destinatari, secondo la volontà del Fondatore di questi mezzi salvifici.

Da questa considerazione si può dedurre l’esistenza di ciò che è un diritto fondamentale di tutti i battezzati, e che è uno dei principali pilastri dell’intero ordinamento canonico: il diritto che tutti i fedeli hanno di ricevere i mezzi salvifici dai loro Pastori. Il can. 213 afferma categoricamente, infatti, che «i fedeli hanno il diritto di ricevere dai sacri Pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla parola di Dio e dai sacramenti».

Il canone citato riproduce quasi testualmente un passo del n. 37 della Costituzione dogmatica Lumen Gentium. Il documento conciliare, nel proclamare questo diritto, afferma che i fedeli hanno diritto di ricevere abbondantemente i beni spirituali della Chiesa. È stato criticato il fatto che il Codice abbia omesso l’avverbio abundanter[1]. Forse non si è voluto dire “abbondantemente” perché il diritto è sempre misurato con le possibilità reali di poter elargire i beni spirituali. In ogni caso, l’omissione del termine non muta la portata del diritto dei fedeli, e l’avverbio abundanter rimane comunque un criterio interpretativo[2], per un duplice motivo. Da una parte, perché il Codice di Diritto Canonico promulgato nel 1983 vuole essere, in parole del suo autore (il Papa Giovanni Paolo II) «un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico […] la ecclesiologia conciliare»[3], sicché i testi conciliari divengono criterio ermeneutico del Codice. Dall’altra, perché la stessa dottrina conciliare ha proclamato con forza la chiamata universale alla santità, onde il diritto dei fedeli (di tutti i fedeli) di ricevere i beni spirituali è in ordine alla santità, il che significa che hanno bisogno di riceverli abundanter[4].

Certamente non è possibile delimitare a priori la misura di questo diritto. Spetta al legislatore stabilire rationabiliter le regole di amministrazione dei mezzi salvifici, mediante le quali rimarranno determinati i titolari del dovere e la misura dell’obbligo (frequenza, circostanza, condizioni, ecc.). Ad ogni modo, la delimitazione legale dell’amministrazione dei beni salvifici, se vuole essere davvero rationabilis, dovrà essere presieduta dal criterio massimalista indicato dal Concilio, in modo tale che sia effettivo l’aiuto dei Pastori ai fedeli affinché questi raggiungano non solo la salvezza, ma la pienezza della vita cristiana[5].

Trattandosi dell’amministrazione di beni, un principio giuridico (di giustizia) fondamentale è il principio di uguaglianza: tutti i fedeli (non solo alcuni, né la maggioranza di essi, ma tutti) hanno ugualmente diritto di ricevere dai sacri Pastori gli ausili spirituali. Ne segue che i fedeli che, per i motivi legittimi che siano (professionali, culturali, spirituali, ecc.), si trovano in una situazione in cui, per ricevere gli stessi ausili pastorali di cui possono godere gli altri fedeli, necessitano di un’attività speciale dei Pastori, hanno diritto (in senso stretto) a ricevere quella specifica cura pastorale, nella misura in cui sia possibile per i Pastori elargirla. Già Pio XII, nella cost. ap. Exsul Familia, del 1° agosto 1952[6] — considerata la Magna Charta della pastorale con i fedeli sottoposti alla mobilità, che architettò delle strutture a livello diocesano, nazionale e nell’ambito della Santa Sede, che ancor oggi sono in qualche modo presenti — segnalò brevemente, ma con profondità, il fondamento dell’obbligo, senza dubbio di natura giuridica, di offrire una peculiare attenzione pastorale ai migranti e agli itineranti: affinché i forestieri e i pellegrini possano usufruire della stessa assistenza spirituale di cui godono gli altri fedeli nelle diocesi[7]. In sintesi, gli sforzi della Gerarchia per organizzare l’attività pastorale in modo da arrivare ai fedeli bisognosi di una peculiare attenzione, non devono essere visti come un’assistenza misericordiosa, ma come risposta ad un diritto di tutti i fedeli a ricevere i mezzi salvifici necessari per raggiungere la perfezione cristiana[8].

Alla luce di queste considerazioni va letto il n. 18 del decreto conciliare Christus Dominus (citato al n. 21 del Documento commentato dell’otto dicembre 2005): «Si abbia un particolare interessamento per quei fedeli che, a motivo della loro condizione di vita, non possono godere a sufficienza della comune ordinaria cura pastorale dei parroci o ne sono privi del tutto; come sono moltissimi emigrati, gli esuli, i profughi, i marittimi, gli addetti a trasporti aerei, i nomadi, e altre simili categorie di uomini». Il Codice di Diritto Canonico, poi, al can. 383 § 1, applica al vescovo diocesano il dovere di rivolgere gli sforzi pastorali in favore dei fedeli che si trovano temporaneamente nel territorio della diocesi e di «coloro che per la loro situazione di vita non possono usufruire sufficientemente della cura pastorale ordinaria».

Altri principi inerenti alla costituzione della Chiesa hanno dei riflessi giuridici nell’azione pastorale in favore degli zingari. Innanzitutto è da ricordare, perché espressamente messo in luce dal Documento commentato ai nn. 29 a 33, la caratteristica della cattolicità propria delle Chiese particolari. Infatti, il Documento rileva che gli zingari costituiscono un gruppo particolare meritevole di un atteggiamento pastorale speciale e chiarisce che «tale pastorale è richiamata e richiesta come esigenza interna della cattolicità della Chiesa e della sua missione» (n. 29). La Chiesa particolare è la Chiesa presente in un ambito particolare, con tutti i suoi elementi. E come la Chiesa di Cristo è cattolica per la missione ricevuta, così anche la Chiesa particolare deve, pur nel suo ambito delimitato, essere aperta a tutti gli uomini, perché tutti «sono chiamati a formare il popolo di Dio»[9]. Pertanto, nella Chiesa (universale e particolare) «ogni persona — ricorda il Documento — deve trovare accoglienza, senza spazi per l’emarginazione, per l’estraneità» (n. 30); «ogni eventuale forma di discriminazione, nello svolgimento della sua missione, risulterebbe un tradimento della propria identità ecclesiale» (n. 32). «Dalla dimensione cattolica della missione — conclude il Documento commentato — sgorga, infatti, quella capacità ecclesiale di trovare e di sviluppare le risorse necessarie per venire incontro alle molteplici forme sociali in cui le comunità umane organizzano la loro esistenza» (n. 33).

Dall’esigenza di assistere pastoralmente tutti i fedeli e, in particolare, quei gruppi che, come gli zingari, hanno bisogno di uno specifico interessamento, sorge la necessità di organizzare l’azione pastorale. Fra i principi giuridici che regolano l’organizzazione ecclesiastica giova qui rammentare quello del criterio della territorialità relativa e il principio di cooperazione fra i Pastori.

La Chiesa, non solo per tradizione ma anche per forza della natura delle cose, si organizza fondamentalmente sulla base del criterio territoriale. Infatti, da una parte, le aggregazioni umane si raggruppano abitualmente attorno ad un territorio, i popoli si identificano normalmente per il luogo dove abitano; dall’altra, l’azione pastorale, le azioni di culto (in modo speciale la celebrazione dell’Eucaristia), si tengono in un determinato luogo. Perciò, come è stato espresso in uno dei dieci principi che dovevano ispirare la redazione del Codice del 1983, il criterio di delimitazione delle circoscrizioni ecclesiastiche sarà quello della territorialità, ma senza impedire che, ove l’utilità lo richieda, si possano ammettere altri criteri per determinare una comunità di fedeli da governare[10].

A proposito della tematica sulla delimitazione delle circoscrizioni ecclesiastiche, va subito chiarito che esse non possono essere viste quali compartimenti stagni, ma, al contrario, all’interno dell’unica Chiesa universale, che è una communio ecclesiarum. Va tenuto presente, infatti, che la finalità di ogni Pastore è sempre la salus animarum, che tutti i Pastori devono partecipare nella sollicitudo omnium ecclesiarum, e che i Vescovi formano un unico Collegio episcopale in unione con il Capo, che è il Romano Pontefice. Ne deriva, insomma, che il principio che regge il rapporto fra i Pastori è quello di coordinamento, anziché quello della concorrenza (che nell’ambito dell’attività pastorale non avrebbe alcun senso)[11].

Sulla base di questi principi giuridici, spetta alla Gerarchia organizzare l’attività pastorale della Chiesa allo scopo di ottemperare al mandato ricevuto da Cristo. Nell’organizzare l’attenzione pastorale dei fedeli, si specificano i diritti e i doveri relativi all’elargizione dei beni salvifici, in modo tale che le concrete norme su chi, quando e in quali condizioni può e deve amministrare la parola di Dio e i sacramenti vengono chiamate, a ragione, disposizioni giuridiche, ma, vale la pena ribadirlo, il piano giuridico dell’attività pastorale non riguarda esclusivamente le norme organizzative, bensì le esigenze di giustizia implicate in tale attività. Alla luce, dunque, di queste considerazioni possiamo analizzare gli aspetti giuridici dell’organizzazione pastorale per gli zingari a tenore del Documento del 2005.

3. Il Documento “Orientamenti per una pastorale degli zingari”, d’accordo con la natura del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti che lo ha emanato, è di carattere illustrativo ed esortativo, e non contiene novità alcuna sul piano normativo, nemmeno per precisare i modi di compiere una legge o per sollecitare il suo compimento[12]. Ciononostante, il Documento ha anche un contenuto normativo, in quanto raccoglie numerose disposizioni normative emanate precedentemente dalle competenti autorità, sebbene per il fatto che esse vengano menzionate nel Documento non accrescano né diminuiscano il loro valore vincolante. A queste norme organizzative della pastorale in favore degli zingari contenute nel Documento, in particolare nel suo Capitolo VI — intitolato “Strutture e operatori pastorali” — mi riferirò di seguito.

L’organizzazione della pastorale per gli zingari tratteggiata dal Documento si basa su quanto disposto dall’Istruzione della Congregazione per i Vescovi Nemo est (de pastorali migratorum cura), del 22 agosto del 1969, ma tiene conto naturalmente dei successivi sviluppi, in particolare della promulgazione del Codice del 1983, nonché– e questa è una caratteristica notevole di questo Documento — di quella del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, sicché, al parlare della disciplina latina, c’è sempre un richiamo al punto di riferimento parallelo per le Chiese orientali. L’organizzazione descritta dagli “Orientamenti” riecheggia ancora quella stabilita da Pio XII nella già citata cost. ap. Exsul Familia, giacché con l’Istruzione De pastorali migratorum cura, emanata per mandato del Papa Paolo VI, si volle adattare l’assetto previsto da Pio XII alle disposizioni del Concilio Vaticano II. L’aggiornamento in questa materia operato in seguito al Concilio è consistito principalmente nei seguenti punti: una diminuzione del ruolo della Sede Apostolica per favorire la responsabilità pastorale dei singoli vescovi; la possibilità di creare giurisdizioni personali per realizzare peculiari opere pastorali e, infine, l’affidamento alle Conferenze Episcopali (volute dal Concilio) del coordinamento delle necessità pastorali comuni alla stessa Nazione che trascendono le singole diocesi comuni alla stessa Nazione.

Lo schema dell’organizzazione viene descritto a partire dall’attenzione prestata dalla Santa Sede a questo settore pastorale, continua con il compito delle Conferenze Episcopali, poi descrive la responsabilità a livello diocesano e le possibili giurisdizioni personali per dare unità di direzione a questa attività, prosegue con il compito del promotore episcopale e del direttore nazionale, passa a trattare del ruolo dei cappellani e, infine, commenta le possibili modalità di azione più o meno istituzionale dei laici e religiosi non sacerdoti in favore degli zingari. Passo, dunque, a commentare alcuni aspetti giuridici dell’organizzazione pastorale nei diversi livelli segnalati dal Documento in esame.

Innanzitutto, va affermato che il Romano Pontefice, in quanto successore di San Pietro quale Vicario di Cristo per la Chiesa universale, è «costituito pastore di tutti i fedeli per promuovere sia il bene comune della Chiesa universale sia il bene delle singole Chiese»[13]. Il munus petrinum si trova, quindi, in primo piano al momento di rendere operante nella Chiesa l’auspicio conciliare relativo al particolare interessamento che devono avere i Pastori «per quei fedeli che, a motivo della loro condizione di vita, non possono godere a sufficienza della comune ordinaria cura pastorale»[14].

Un tale interessamento ha molte sfaccettature e può compiersi in modi molto diversi. A parte il ruolo di supplenza, sempre possibile, in virtù del quale il Romano Pontefice potrebbe intraprendere iniziative specifiche per assistere spiritualmente, in maniera più o meno diretta, i fedeli necessitati di una cura pastorale specifica, al Papa spetta soprattutto il compito di promuovere e di coordinare l’attuazione pastorale svolta nelle diverse parti del mondo. Attualmente il munus petrinum rivolto a questo tipo di fedeli si canalizza istituzionalmente attraverso un apposito Dicastero, per l’appunto il Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, a cui viene affidato, a norma degli artt. 149 e 150 della cost. ap. Pastor Bonus, citati dagli “Orientamenti” (n. 81), il compito di rivolgere «la sollecitudine pastorale della Chiesa alle particolari necessità di coloro che sono stati costretti ad abbandonare la propria patria o non ne hanno affatto» (art. 149) e l’impegno «perché nelle Chiese locali sia offerta un’efficace ed appropriata assistenza spirituale, se necessario anche mediante opportune strutture pastorali, sia ai profughi ed agli esuli, sia ai migranti, ai nomadi e alla gente del circo» (art. 150).

Il compito di questo Dicastero rientra nelle caratteristiche di un Pontificio Consiglio, vale a dire, esso si muove sul piano della promozione e del coordinamento, anziché su quello del governo. Ciò è consone con la sensibilità attuale, secondo cui non si vuole intaccare il ruolo dei vescovi nelle loro diocesi[15]. Rimangono, peraltro, intatte le competenze di governo degli altri Dicasteri relative a materie che possono essere presenti nella pastorale in favore degli zingari (questioni liturgiche, disciplina del clero, creazione di nuove giurisdizioni, ecc.). Manifestazioni della promozione di questa pastorale sono, appunto, l’emanazione del Documento del 2005 e la stessa organizzazione del presente Incontro. Rispetto al lavoro di coordinamento, appare evidente la sua importanza, dovuta agli spostamenti e alla presenza degli zingari in più diocesi e in più Paesi.

Una volta segnalato il ruolo del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, il Documento (n. 83) tratta del compito delle Conferenze Episcopali (o, come tiene a precisare in questi casi, alla corrispondente struttura gerarchica delle Chiese orientali cattoliche). Basta pensare alle caratteristiche del fenomeno pastorale degli zingari e alla ragion d’essere di questi organismi per accorgersi della rilevanza del ruolo che possono svolgere le Conferenze dei Vescovi. Come previsto dalla citata Istruzione del 1969, gli “Orientamenti” fanno perno sulla Commissione per la pastorale dei migranti e gli itineranti, prospettata per i Paesi in cui questo fenomeno pastorale è specialmente sentito, volta a canalizzare la responsabilità delle Conferenze Episcopali.

Più avanti (nn. 89 a 91), il Documento riprende il ruolo dei responsabili di questo tipo di pastorale a livello nazionale, considerando specificamente quello del vescovo promotore e del direttore nazionale. Si tratta di due figure già previste dalla Exsul Familia. Riguardo il Direttore nazionale, gli “Orientamenti” (nn. 90 e 91) si limitano a richiedere in lui una «vasta conoscenza della popolazione zingara, con visione internazionale ed esperienza sul terreno e di lavoro in èquipe», per passare subito ad augurare determinate azioni in favore degli zingari. In quanto al vescovo promotore, si chiede la sua presenza all’interno delle Conferenze Episcopali (si intende laddove gli zingari siano presenti); anche se si parla di vescovo promotore della pastorale per gli zingari, nulla impedisce, che sia lo stesso vescovo promotore della pastorale per i migranti e gli itineranti in generale. Di questo vescovo, cioè di questo membro della Conferenza Episcopale (o struttura equivalente orientale) si auspica che abbia un’esperienza nell’ambito della pastorale con gli zingari, e in ogni caso che abbia la formazione sufficiente per comprendere il mondo zingaro. In quanto ai compiti, gli si affida quello di essere in contatto con i responsabili della pastorale per gli zingari e quello di promuovere l’azione pastorale. Infine, il Documento afferma che nei Paesi in cui la popolazione zingara è rilevante, uno dei primi compiti del Vescovo promotore sarà «quello di creare una struttura pastorale nazionale/sinodale, regionale o nell’ambito di una specifica Chiesa sui iuris, o di rafforzare quella esistente», ma non viene descritta una tale struttura, per cui può variare da Paese a Paese. In ogni caso, rimane fermo il principio, già espressamente affermato nella Exsul Familia, che l’ufficio di Vescovo promotore (come del resto anche quello di Direttore nazionale) non comporta nessuna potestà di giurisdizione.

I nn. 84 a 86 del Documento sono dedicati alla responsabilità dei vescovi nei confronti della popolazione zingara. Sono molteplici le considerazioni e le sollecitazioni che vengono fatte ai vescovi, tutte quante basate sui principi giuridici della costituzione della Chiesa prima ricordati. Va rilevata la considerazione secondo cui i vescovi devono custodire al contempo l’unità della Chiesa particolare e l’identità zingara; se non si rispettasse l’identità degli zingari, afferma il Documento, «la Chiesa particolare non potrebbe neppure costruire la propria unità». Una tale affermazione, davvero contundente, si comprende se si pensa alla necessaria cattolicità della Chiesa particolare.

I nn. 87 e 88 sono dedicati a possibili strutture pastorali di giurisdizione personale. Il Documento parte dalla considerazione del carattere supradiocesano del fenomeno pastorale degli zingari: «occorrerà dunque pensare — affermano gli Orientamenti (n. 87) —alla possibilità di una direzione interdiocesana o nazionale/sinodale, che faccia capo alla Conferenza Episcopale […] A questo proposito potrebbe risultare utile, o addirittura necessaria, un’unità di direzione pastorale che segua efficacemente il lavoro e le condizioni in cui vivono i Cappellani e gli altri Operatori pastorali, ferma restando la potestà dei Vescovi diocesani». Poiché il fenomeno pastorale è presente in tutto il territorio nazionale, può essere molto utile, infatti, un’unità di direzione a livello nazionale dell’attività dei cappellani capace anche di prendersi cura delle condizioni di vita dei sacerdoti e degli altri operatori pastorali. Ma una tale direzione, per essere effettiva, ha bisogno della sufficiente potestà di giurisdizione. Perciò continua il Documento, al n. 88, con l’affermazione che «una soluzione complessiva, duratura, più sicura e con adeguati margini di autonomia — sempre in armonica convergenza con le Autorità ecclesiali locali — potrebbe essere cercata nell’ambito delle strutture pastorali previste nella legislazione e nella prassi della Chiesa», facendo riferimento alle prelature personali previste dal Vaticano II e regolate dal Codice del 1983[16].

Con l’erezione di una prelatura personale, la Santa Sede attribuisce ad un prelato (e ai suoi successori) una potestà di giurisdizione ecclesiastica capace di reggere una peculiare attività pastorale di sacerdoti (che, se secolari, possono anche incardinarsi nella prelatura) in favore di fedeli di più diocesi, i quali continuano ad appartenere a tutti gli effetti alle diocesi locali (e perciò rimane ferma la competenza dei vescovi diocesani su quei fedeli). L’erezione di una prelatura può essere, quindi, frutto dello sviluppo naturale dell’organizzazione in favore degli zingari, come succederebbe se venisse nominato prelato lo stesso Vescovo promotore[17]. Perciò la soluzione della prelatura personale è stata indicata dall’art. 16 § 3 dell’Istruzione De pastorali migratorum cura e prospettata più volte a proposito della pastorale in favore dei migranti e nomadi[18]. Spetta comunque alla Santa Sede, sentite le Conferenze Episcopali interessate, giudicare l’opportunità di erigere una nuova prelatura personale per dare un’unità di giurisdizione, valutando la rilevanza del fenomeno pastorale e di altre circostanze, tra cui la necessità di occuparsi della formazione e di altri aspetti della vita dei sacerdoti coinvolti in questa specifica pastorale.

Elemento di capitale importanza nella pastorale per gli zingari è, logicamente, il cappellano. Negli “Orientamenti” (nn. 92-95) si insiste sulla necessità della speciale preparazione del cappellano, il quale potrebbe anche essere nominato formalmente missionario a norma del can. 784. Ciononostante, si ricorda anche la responsabilità dei parroci e, quindi, la necessità di coordinamento tra le parrocchie e le cappellanie.

La disciplina vigente sui cappellani degli zingari è molto semplice, se comparata con quella prevista dalla Exsul Familia, dovuto a diverse cause. Innanzitutto, va tenuto conto che in seguito al decentramento voluto dal Vaticano II, i cappellani di speciali categorie di fedeli non vengono più nominati dalla Sede Apostolica, ma dai singoli vescovi. Un altro fattore da tenere presente è il fatto che attualmente si conta su una regolamentazione generale dell’ufficio del cappellano (cann. 564 a 572), in modo tale che non occorre più specificare alcuni profili di questa figura. Infine, è da rilevare che il sistema delle facoltà ministeriali è stato molto semplificato, da una parte, perché le facoltà per ascoltare confessioni concesse dall’Ordinario del luogo di incardinazione o del luogo nel quale hanno il domicilio hanno in linea di massima validità ovunque (can. 967 § 2) e, dall’altra, perché i vescovi diocesani godono attualmente di maggiore potere per concedere certe facoltà a qualsiasi sacerdote. Perciò nel Documento commentato si chiarisce che le facoltà speciali di cui godevano i cappellani degli zingari in forza del decreto della Pontificia Commissione per la Pastorale delle Migrazioni e degli Itineranti, del 19 marzo 1982, non vengono nuovamente raccolte perché non necessarie, in quanto sono facoltà che possono essere in possesso di tutti i sacerdoti oppure che possono essere elargite all’occorrenza dai vescovi competenti.

Infine, gli “Orientamenti” trattano degli operatori pastorali, zingari o no, «con una responsabilità precisa ed eventualmente con “lettera di missione” del Vescovo» (n. 96) e di altre forme di cooperazione del laicato e dei religiosi (mediante le cosiddette «comunità-ponte», in équipe o singolarmente). La questione è di grande rilevanza sotto il profilo pastorale, ma in una considerazione astratta non pone speciali problemi giuridici, benché essi possano presentarsi nella vita pratica. Merita comunque di essere rilevato il principio generale con cui inizia il n. 99: «Da una pastorale ben impostata dovrebbe nascere, come frutto naturale, un “protagonismo” degli stessi Zingari». Infatti, la migliore evangelizzazione avverrà quando all’interno delle famiglie zingare ci siano laici ben formati (anche se non sono “operatori pastorali”) che con la loro testimonianza di dottrina e di vita portino Cristo ai loro parenti e amici.

In conclusione di queste riflessioni attorno al Documento del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti andrebbe ricordato che gli aspetti organizzativi che sono stati passati ora in rassegna devono sempre sottoporsi al principio della salus animarum come suprema legge della Chiesa. Una delle valenze di questo principio è quella di essere guida dell’attività legislativa della Chiesa, in modo tale che l’organizzazione ecclesiastica deve mirare al bene delle anime. In questo senso, costituisce una chiave di lettura di tutto il Documento l’affermazione contenuta nel suo n. 33, quando dinanzi alla considerazione dei pericoli del materialismo e delle sette, dichiara che le attuali circostanze «imprimono un’urgente spinta all’azione pastorale» in favore degli zingari. L’urgenza pastorale si dovrà manifestare in primo luogo in ciò che è proprio dell’azione pastorale, vale a dire l’amministrazione dei beni salvifici, cioè la trasmissione della parola di Dio (principalmente la catechesi) e l’amministrazione dei sacramenti, che sono, appunto, i beni che riguardano direttamente la salvezza delle anime, senza confondere la missione della Chiesa con la sola attività di beneficenza[19]. Naturalmente, fa parte della missione della Chiesa la testimonianza della carità — che anch’essa costituisce un mezzo di evangelizzazione, come rilevato recentemente dal magistero del Romano Pontefice[20] —, tenendo conto della speciale importanza che una tale testimonianza ha nei rapporti con la popolazione zingara.

 

[1] Cfr. g. feliciani, Obblighi e diritti di tutti i fedeli cristiani, in Il Codice del Vaticano II. Il fedele cristiano, Bologna 1989, pp. 89-90.

[2] Cfr. j. hervada, Elementos de Derecho Constitucional Canñonico, Pamplona 2001, p. 118.

[3] Cost. ap. Sacrae disciplinae leges, del 25 gennaio 1983, in AAS, 75 (1983), p. XI.

[4] Sono interessanti, specialmente per la data in cui vennero pubblicate per la prima volta (1969) le parole di del Portillo: «Posto, dunque, che i fedeli hanno diritto agli abbondanti mezzi che servono per mirare alla santità personale, la Gerarchia deve organizzarsi non solo per attendere ai precetti, bensì anche per quelle che sono state comunemente chiamate opere supererogatorie. Se il cristiano, perché viva una vita autenticamente cristiana — perché raggiunga la pienezza della vita cristiana (Lumen Gentium, n. 40) — ha bisogno di una continua ed intensa partecipazione ai sacramenti, è ovvio che la Gerarchia ha il dovere di organizzarsi — secondo le sue possibilità — in modo tale che al fedele sia facilitata la possibilità di attendere ai sacramenti. Si pensi, ad es., al sacramento della Penitenza. Talora, l’attuale organizzazione pastorale risulterà insufficiente e inadeguata e richiederà la realizzazione di strutture pastorali specializzate. In ogni caso, l’attuale distinzione fra doveri di giustizia d’amministrare i sacramenti e dovere di carità deve essere superata attraverso la disciplina sacramentale e mantenuta solo nei suoi limiti genuini» (a. del portillo, Laici e fedeli nella Chiesa. Le basi dei loro statuti giuridici, Milano 1999, pp. 70 e 71). Sviluppa queste idee, relativamente alla pastorale per i migranti (ma riferibile in grande misura a quella che qui ci occupa) J. sanchis, Il diritto fondamentale dei fedeli ai sacramenti e la realizzazione di peculiari attività pastorali, in Monitor Ecclesiasticus, 115 (1990), pp. 190-203.

[5] «Bisogna avvertire che, senza dubbio, poco s’otterrebbe con il dichiarare i diritti se non si provvede ad una efficace organizzazione che renda non necessario esigere quanto è inerente all’attuale esercizio di un diritto» (a. del portillo, Laici e fedeli…, p. 69).

[6] In AAS, 44 (1952), pp. 649-704. Questo documento fu oggetto di esame da parte della dottrina, non solo per la sua eccezionale lunghezza, ma soprattutto per le novità che la costituzione presentava in termini di strutture pastorali fino ad allora inesistenti. Cf., p. es., m. bonet, Reseña jurídico-canónica, in Revista Española de Derecho Canónico, 7 (1952), pp. 801-803; l. governatori, Commentarium in Const. Ap. “Exsul Familia”, in Apollinaris, 26 (1953), pp. 155-174; j.i. tellechea, La cura pastoral de los emigrantes. Comentario a la Constitución Apostólica “Exsul Familia” de 1 de agosto de 1952, in Revista Española de Derecho Canónico, 8 (1953), pp. 539-578; g. ferretto, Sua Santità Pio XII provvido padre degli esuli e sapiente ordinatore dell’assistenza spirituale agli emigranti, in Apollinaris, 27 (1954), pp. 323-355 e e.a. fus, Priest emigrants under the Constitution “Exsul Familia”, in The Jurist, 16 (1956), pp. 359-386.

[7] «Ut alieniginis, sive advenis sive peregrinis, spiritualem possit praebere adsistentiam necessitatibus haud imparem nec minorem, qua ceteri fideles in sua dioecesi perfruuntur» (pio xii, cost. ap. Exsul Familia, cit., Tit. I, III).

[8] E’ proprio quando i fedeli si trovano in peculiari circostanze che si vede con chiarezza come i diritti dei battezzati siano principi di organizzazione ecclesiastica, la quale deve soddisfare efficacemente i diritti fondamentali implicati. «El principio informador y el interés jurídicamente protegido tienen un importante papel en el caso de los fieles que por su modo de ser, su modo de vida -canónico o civil- y por su espiritualidad requieren una atención pastoral peculiar. La jerarquía está obligada a dotar a estos fieles de las estructuras pastorales adecuadas» (j. hervada, Elementos…, p. 119).

Ho già esposto queste idee in Movimientos migratorios y derechos de los fieles en la Iglesia, in Ius Canonicum, 43 (2003), pp. 51-86 (apparso anche in Migraciones, Iglesia y Derecho. Actas del V Simposio del Instituto Martín de Azpilcueta sobre “Movimientos migratorios y acción de la Iglesia. Aspectos sociales, religiosos y canónicos”, a cura di Jorge Otaduy, Eloy Tejero, Antonio Viana, Pamplona 2003, pp. 49-82).

[9] vaticano ii, cost. Dog. Lumen Gentium, n. 13.

[10] Cfr. Principia quae Codicis Iuris Canonici recognitionem dirigant, in «Communicationes» 1 (1969), pp. 77-85.

[11] Cfr. j. hervada, Elementi di Diritto Costituzionale, cit., pp. 228-229.

[12] Non è, quindi, un decreto generale esecutivo, di cui al can. 31, emanato da un’autorità esecutiva.

[13] vaticano ii, decr. Christus Dominus, n. 2.

[14] Ibidem, n. 18.

[15] In questo punto è notevole la differenza con quanto disposto dalla cost. Ap. Exsul Familia, in cui si davano numerose competenze alla S. Congregazione Concistoriale (cfr. Tit. II, cap. I).

[16] Cann. 294-297. L’esarcato personale (cfr. can. 311 § 1 del Codice delle Chiese Orientali) può equivalere nel diritto orientale alle prelature personali.

[17] L’atto di erezione della prelatura e gli statuti possono determinare molti particolari della prelatura (ambito di azione, competenze del prelato, ecc.). Senza escludere altre soluzioni, sembra logico che per questo tipo di pastorale le prelature siano nazionali, essendo molto conveniente l’inserzione del prelato nel seno della Conferenza Episcopale, allo scopo di favorire la comunione tra l’azione pastorale della prelatura e quella delle diocesi.

[18] Cfr., p. es., a. benlloch poveda, La nuova legislazione canonica sulla mobilità sociale, in Migrazioni e diritto ecclesiale. La pastorale della mobilità umana nel nuovo codice di diritto canonico, Padova 1992, p. 14; j. beyer, The new Code of Canon Law and pastoral care for people on the move, in Pontificia Commissione per la Pastorale delle Migrazioni e del Turismo, Migrazioni. Studi interdisciplinari, Centro Studi Emigrazioni Roma 1985, vol. 1, pp. 177-179; p.a. bonnet, The fundamental duty-right of the migration faithful, in ibidem, vol. 1, p. 209; l. sabbarese, Girovaghi, migranti, forestieri e naviganti nella legislazione ecclesiastica, Roma 2006, p. 93.

E’ interessante la lettura dei verbali di una Plenaria del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti: «Una Prelatura Personale è vista come la miglior soluzione per la pastorale degli zingari, un gruppo etnico omogeneo e radicalmente tagliato fuori da qualsiasi normale contatto pastorale (10.4.1). Alla sua direzione dovrebbe esserci un Vescovo che conosca la loro mentalità e la loro lingua (11.5.2; 11.2.2) (…) I lavoratori agricoli migranti, ce ne sono due milioni negli Stati Uniti, “che non vivono da nessuna parte ma dappertutto”, dovrebbero essere seguiti da una prelatura personale (5.2.1). Appare utile una prelatura personale temporanea in casi di spostamenti di massa (7.2.1)» S. tomasi, La missione del Pontificio Consiglio alla luce di una inchiesta presso le Conferenze Episcopali – attese e proposte, in Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, La missione del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti nel crescente fenomeno odierno della mobilità umana. Atti della XII Riunione Plenaria, Vaticano 19-21 Ottobre 1993, Città del Vaticano, p. 140).

[19] Sul punto rinvio a E. Baura, Pastorale e diritto nella Chiesa, in Vent’anni di esperienza canonica: 1983-2003, a cura del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Città del Vaticano 2003, pp. 159-180.

[20] Cfr. benedetto xvi, Enc. Deus Caritas est, del 25 dicembre 2005, in AAS, 98 (2006), pp. 217-252.

 

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