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Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People People on the Move N° 111, December 2009 IL FENOMENO MIGRATORIO NELLÂERA DELLA GLOBALIZZAZZIONE Prof. Stefano Zamagni Professore Ordinario di Economia Politica Università di Bologna - Italia Introduzione Che il fenomeno migratorio sia un tema ad alto potenziale di conflittualità che tende a dividere, in modo spesso radicale, lÂopinione pubblica, e di conseguenza le forze politiche, è cosa nota ormai da tempo. In particolare, è noto che quella degli immigrati rappresenta oggi, nelle società occidentali, lÂunica categoria di soggetti desiderati e indesiderati, ad un tempo. LÂEurobarometro, ad esempio, da almeno quattro/cinque anni, segnala con precisione questo contraddittorio atteggiamento degli europei nei confronti dellÂimmigrazione. Per un verso, vi sono segmenti di popolazione che chiedono di ampliare i flussi in arrivo di lavoratori migranti, consapevoli come sono dei benefici che ne deriverebbero alla flessibilità del mercato europeo del lavoro e alla gestione delle finanze pubbliche. Invero, lÂinvecchiamento delle popolazioni dei paesi avanzati ha ormai reso la struttura vigente delle entrate e uscite dei sistemi di sicurezza sociale non più sostenibile. Per lÂaltro verso, vi sono altri segmenti della popolazione che nutrono timori vari; tre in modo specifico, e cioè che gli immigrati: a) causano disoccupazione a carico dei lavoratori dei paesi ospitanti; b) abusano dei trasferimenti assicurati dai nostri sistemi di welfare. (In effetti, lÂevidenza disponibile conferma che gli immigrati ricevono servizi di welfare in misura proporzionalmente maggiore rispetto alle popolazioni native. Come già J.S. Mill, aveva scritto attorno alla metà dellÂOttocento: ÂÈ vano pensare che tutte le bocche che lÂaumento della popolazione fa venire in esistenza trascinino con sé braccia. Le nuove bocche chiedono altrettanto cibo delle vecchie, ma le loro mani non producono gli stessi ammontari delle vecchieÂ); c) hanno già superato il punto di saturazione, così da mettere a repentaglio la coesione sociale dei paesi ospitanti per lÂimpossibilità di attuare equilibrate politiche di integrazione culturale. Gli esiti elettorali in non pochi paesi europei e i dibattiti pubblici sul tema, oggi vivaci più che mai, sembrano indicare che la seconda tipologia di cittadini sia oggi quella in maggioranza numerica. Come è ormai ampiamente dimostrato, si è consolidato nei paesi del Nord del mondo un vero e proprio circolo vizioso: la gente manifesta un atteggiamento ostile nei confronti degli immigrati; ciò induce i governanti, sempre alla ricerca del consenso politico, a restringere gli ingressi o a renderli inutilmente difficoltosi; a loro volta, politiche di questo genere vanno ad accrescere lÂimmigrazione illegale - si stima che vi sia uno stock di 11 milioni di migranti irregolari nel mondo, gran parte dei quali si affida a trafficanti il cui giro dÂaffari ha già superato quello delle droghe. LÂimmigrazione illegale finisce con il costituire un potente incentivo a comportamenti criminosi da parte di quegli immigrati che, non potendo pagare gli alti prezzi che le organizzazioni criminali pretendono per consentire loro lÂarrivo nei paesi di immigrazione, si vedono costretti a trovare fonti alternative di reddito rispetto a quelle di lavoro. Infine, il senso di insicurezza che lÂillegalità va diffondendo finisce per confermare quelle percezioni di ostilità, le quali tendono così ad autoalimentarsi. Pochi dati statistici bastano per farci comprendere la portata del fenomeno migratorio. Nel 2005, le Nazioni Unite stimavano che ci fossero 200 milioni di migranti internazionali nel mondo, ivi inclusi i 9 milioni circa di rifugiati. Oggi, nel mondo, una persona su 35 è un migrante internazionale (è tale, secondo la definizione ONU, una persona che risiede al di fuori del proprio paese per un periodo minimo di un anno). Più ancora dello stock di migranti, quel che più rileva è il flusso migratorio che nel quinquennio 2000-05 è arrivato a 13 milioni di persone (2,6 milioni allÂanno in media). Inoltre, mentre prima del 1990, la gran parte dei migranti viveva nei paesi in via di sviluppo, oggi è vero il contrario. A partire da quella data, la presenza degli immigrati nei paesi sviluppati è passata da 48 a 110 milioni e quella nei paesi in via di sviluppo da 52 a 65 milioni. Per quanto concerne la direzione dei flussi, vÂè da annotare che quello dal Sud del mondo al Nord ha generato 62 milioni di persone presenti al Nord; quello dal Nord al Nord, 53 milioni; quello dal Sud al Sud, 61 milioni; e quello dal Nord al Sud, 14 milioni. Dunque, quella dal Nord al Sud è lÂunica corrente migratoria che ha conosciuto una riduzione in termini relativi (cfr. K. Koser, Le migrazioni internazionali, Bologna, Il Mulino, 2009). Se è relativamente agevole stimare la consistenza di immigrati nei paesi di arrivo (60 milioni in Europa; 44 milioni in Asia; 41 milioni in Nord America; 16 milioni in Africa; 6 milioni in America Latina e in Australia), assai più difficile è conoscere da quali paesi gli immigrati provengono. Ciò è dovuto al fatto che le statistiche dei paesi di origine non tengono conto dei loro cittadini residenti allÂestero. Si stima, comunque, che 35 milioni siano i cinesi allÂestero; 20 milioni gli indiani; 9 milioni i pakistani; 8 milioni i filippini. Da ultimo, non è possibile ignorare i grandi spostamenti a livello intraregionale. Ad esempio, vi sono 5 milioni circa di lavoratori asiatici nei paesi del Golfo persico, in Sud Africa vivono 8 milioni di immigrati irregolari, quasi tutti provenienti dallÂAfrica nera e cosi via. In quel che segue, dopo aver illustrato le peculiarità della questione migratoria nellÂera della globalizzazione, mi soffermerò a considerare le principali tendenze del fenomeno nel prossimo futuro. Passerò poi ad indicare le ragioni che parlano a favore del passaggio da una strategia fondata sul controllo ad una basata sulla gestione dei flussi migratori e dei modi per farvi fronte. Come hanno scritto nel loro influente saggio S. Castels e M. Miller, The age of migration (Basingstoke, MacMillan, 2003), Ânel mondo sono poche le persone che non hanno esperienza diretta delle migrazioni e dei loro effetti; è lÂuniversalità di questo vissuto a caratterizzare lÂera delle migrazioni (p. 5). La questione migratoria nellÂepoca della globalizzazione È un fatto, ampiamente riconosciuto, che nellÂepoca della globalizzazione il fenomeno migratorio è destinato ad acquisire sempre più i caratteri della normalità; a perdere cioè i caratteri dellÂevento eccezionale o transitorio. Se in alcuni segmenti delle popolazioni dei paesi di arrivo è ancora diffuso il convincimento secondo cui quella delle immigrazioni è questione che andrebbe risolta restando allÂinterno della politica della mera accoglienza, ciò è basicamente dovuto alla circostanza che il processo di globalizzazione ha iniziato ad essere percepito, a livello popolare, solamente nel corso degli ultimi anni. È in ciò lÂorigine del paradosso sconcertante dellÂattuale fase storica: la globalizzazione economica, mentre accelera e magnifica la libertà di trasferimento di beni e di capitali, pare ostacolare, in modo esplicito e più spesso implicito, i movimenti delle persone mettendo a repentaglio la fruizione di quel diritto fondamentale dellÂuomo  da tutti riconosciuto  che è la libertà di movimento. In altri termini, in unÂepoca come lÂattuale in cui la cultura del mercato si va generalizzando e va entrando in tutti i domìni della vita associata, dovrebbe sembrare normale vedere nel fenomeno migratorio una risorsa per forme più avanzate di progresso umano. Ed invece quando quella stessa cultura di mercato viene applicata ai movimenti delle persone, i termini che più ricorrono sono quelli dellÂespulsione, del razionamento degli ingressi, dei permessi speciali. In verità non è difficile scoprire la radice di tale asincronia di atteggiamenti. Impedimenti e ostacoli ai movimenti delle persone non si applicano a tutti i migranti indistintamente, ma solo a coloro che, provenendo da certe aree geografiche, sono portatori di specifici bisogni. È questa una manifestazione tipica della cosiddetta Âsindrome di JohannesburghÂ, secondo la quale i Âricchi devono iniziare a difendersi dai ÂpoveriÂ, riducendo o ostacolando i loro spostamenti. Una nuova retorica si va così diffondendo a livello culturale: i migranti come responsabili delle crisi sociali e delle nuove paure collettive e soprattutto come minaccia seria alla salvaguardia delle identità nazionali. Si deve dunque essere consapevoli del ritardo culturale che impedisce ancora a tanti di afferrare appieno come, in parallelo al processo emergente di una scala planetaria per quanto attiene lÂeconomia, la finanza, e lÂinformazione, la globalizzazione mette in moto un altro processo, simmetrico rispetto al primo: la localizzazione. Invero, è la stretta interconnessione di questi due processi, il loro mutuo intersecarsi, a determinare quella duplicità di giudizi sulla globalizzazione che è dato registrare: ciò che appare come nuova conquista per alcuni, rappresenta un nuovo vincolo (lÂincatenazione alla dimensione locale) per altri; se la globalizzazione segnala nuovi spazi di libertà di azione per alcuni, dice sottomissione ad un destino non ricercato per altri; e cosi via. Come Bauman (2000) bene chiarisce in un saggio specificamente dedicato allo studio delle conseguenze della globalizzazione sulle persone, la mobilità è oggi il nuovo e principale fattore di stratificazione sociale nellÂera della globalizzazione: alcuni gruppi sociali riescono a diventare globali; altri sono inchiodati alla propria località, ma sono i Âglobali a fissare le regole del gioco della vita, quelle regole, quasi sempre non scritte, che i Âlocali sono tenuti a subire. Restare Âlocali in un mondo globale è dunque segno di inferiorità e, al contempo, causa di una nuova sofferenza: quella di chi essendo costretto a vivere in un luogo, si avvede che oggi i luoghi del locale stanno perdendo la loro capacità di generare senso, di attribuire significati allÂesistenza. Di qui, secondo il sociologo polacco, le tendenze al neotribalismo e al fondamentalismo di cui si ha triste conferma dalle cronache. È un fatto che la globalizzazione va creando una nuova causa di segregazione e di esclusione e perciò di nuove povertà  una causa che si manifesta nella libertà di movimento, che risulta concessa ad alcuni e negata ad altri. Il potente del passato era chi poteva costruirsi il castello per difendere il suo confine; il ricco di oggi è chi vive senza confini; chi non ha più un territorio da difendere. Non solo, ma ciò che più rileva è che i centri dove vengono Âprodotti le norme sociali di comportamento, i valori, gli stili di vita, sono oggi extraterritoriali e avulsi da vincoli locali, mentre non lo è certo la condizione di vita di coloro che sono legati ad un luogo specifico. Costoro si trovano quindi a dover attribuire un senso a modi di vita che non sono indigeni, ma importati da altri luoghi. È in ciò lÂorigine dello sradicamento, della perdita di radici da parte di sempre più numerosi gruppi sociali, con le conseguenze che è agevole immaginare sul processo di generazione dei flussi migratori. Per dirla in altro modo, la globalizzazione, va generando una crescente separazione tra i luoghi in cui viene prodotta una cultura e i luoghi in cui essa può essere fruita. Come a dire che sono ormai saltati i confini che determinavano le culture; il ben noto fenomeno della deterritorializzazione non riguarda solamente le imprese le quali possono decidere con relativa disinvoltura dove localizzare le proprie attività produttive, ma anche la cultura. Alla luce di questo, si riesce a comprendere quanto fuorviante sia la tesi della continuità tra le odierne migrazioni e le prime emigrazioni di massa del XIX e del primo XX secolo. Quando si dice che lÂemigrante di oggi quasi mai è il più povero o il meno acculturato rispetto alla propria comunità di origine; o quando si dice che sarebbe mera illusione pensare di allentare la pressione migratoria accelerando il processo di sviluppo nei paesi generatori dei flussi migratori, si sostengono posizioni corrette e rilevanti. Inoltre, ciò che più rileva ai fini del presente discorso, è che nel corso di oltre un secolo è andato radicalmente mutando il modello comportamentale dellÂimmigrato. Come ricorda Lepenis (2000), il migrante di ieri mirava a raggiungere il più in fretta possibile assimilazione e nuova acculturazione: dopo il clean break col paese di provenienza, lÂapertura agli usi e costumi della nuova patria costituiva il presupposto per il successo economico e per il riconoscimento sociale. Oggi, lÂimmigrazione non rappresenta affatto, o comunque non necessariamente, lÂaspirazione a un point of no return. Le possibilità degli spostamenti di massa e le nuove tecnologie infotelematiche hanno creato una società di migrazione i cui abitanti rimangono, con notevole flessibilità, cittadini di due mondi  per così dire. Sul piano dellÂagire pratico si acquisiscono i modi del paese ospitante, ma sul piano dei valori e dei sentimenti morali si vuole restare fedeli alla propria cultura di provenienza. Anzi, si è fieri di esibire, nella sfera pubblica, le proprie diversità culturali. Tanto negli USA quanto in Europa, si nota ormai come in tanti immigrati, lÂostentazione di una Âexpressive ethnicity prenda il posto del desiderio di un adattamento perfetto. Ma vi sono due altre novità che il fenomeno della globalizzazione va generando per quanto attiene sia la natura dei flussi migratori sia la genesi degli stessi. È noto come più di uno studioso abbia sottolineato come parecchi siano i legami che accomunano le odierne migrazioni e le prime emigrazioni di massa dellÂinizio del 19% secolo. Si ricorda, infatti, che nellÂ800 fino allo scoppio della prima guerra mondiale, circa 52 milioni di europei emigrarono dai loro paesi dÂorigine e di questi ben 34 milioni scelsero gli USA. Il celebre Passenger Act, votato dal Parlamento di Westminster nel 1803, incoraggiava lÂemigrazione verso le ex colonie inglesi. Fino al 1860, il 66% degli emigrati europei verso le Americhe e lÂOceania proveniva dalla sola Gran Bretagna e il 32% dalla Germania. QuestÂultima divenne poi importatrice netta di forza lavoro verso il 1880. Se informazioni del genere vanno tenute in debita considerazione per non ingigantire oltre misura le differenze tra la situazione di allora e quella attuale, si devono al tempo stesso riconoscere i forti elementi di discontinuità. Uno di questi è che lÂingresso delle nuove tecnologie nei processi produttivi, mentre ha reso più vicini paesi tra loro spazialmente lontani, non ha affatto eliminato, anzi ha ampliato, le distanze in termini culturali. E non vÂè chi non veda come il nesso tra universi culturali e impiego di nuove tecnologie divenga di centrale importanza nei processi di integrazione sociale. Fino a che si chiede allÂimmigrato di svolgere compiti di mera routine o di adempiere operazioni puramente meccaniche, la distanza culturale tra i mondi di provenienza e di arrivo non si fa sentire. Non così, invece, quando per inserirsi vantaggiosamente nellÂattività lavorativa, lÂimmigrato deve acquisire, facendoli propri, schemi logico-organizzativi che postulano il riferimento ad una ben definita matrice culturale. In buona sostanza lÂinserimento dellÂimmigrato in società tecnologicamente avanzate pone problemi di gran lunga più delicati rispetto a quelli del passato, anche recente. Un secondo elemento di profonda differenziazione tra le migrazioni odierne e quelle di ieri è che non pare suffragata dai fatti la tesi, di moda fino dagli anni Â80, secondo cui lo strumento più efficace per allentare la pressione migratoria sarebbe quello di accrescere le potenzialità occupazionali nei paesi in via di sviluppo. Cioè, lÂunico modo credibile di arrestare lÂaumento dei flussi migratori sarebbe quello di intervenire sulle cause generatrici del fenomeno, di intervenire cioè sul processo di crescita economica dei paesi generatori dei flussi. Quanto robusto è tale convincimento? Vediamo di chiarire. Lo sviluppo economico, aumentando il reddito pro-capite, riduce  si afferma spesso  lÂincentivo ad emigrare. Questa credenza è fallace per due ragioni. Per un verso, perché, come insegna la celebre Âcurva di KuznetsÂ, nei primi stadi del processo di sviluppo lÂaumento del reddito si accompagna sempre ad un aumento delle ineguaglianze tra gruppi sociali; quanto a dire che lÂaumento del reddito non avviene mai in modo equiproporzionale tra tutti i segmenti della società. E  come è noto  lÂaumento delle ineguaglianze è un potente fattore di spinta ad emigrare. Per lÂaltro verso, lÂevidenza empirica conferma che nelle fasi iniziali del processo di sviluppo si registra sempre un aumento della propensione ad emigrare in conseguenza sia del mutamento strutturale (lo sviluppo espelle lavoratori dallÂagricoltura per incanalarli verso il settore industriale, ma ciò richiede tempo, così che una parte degli espulsi prende la via dellÂestero) sia del mutamento delle aspettative di vita (una volta rotto il vecchio equilibrio di stagnazione, non tutti se la sentono di aspettare il take-off definitivo e quindi prendono la via dellÂestero). In altri termini, se si analizzano attentamente i cicli di vita dellÂemigrazione dei vari paesi, si scopre che il tasso di emigrazione (definito dal rapporto tra migranti e popolazione residente nel paese di origine) dapprima sale allÂaumentare del reddito pro-capite e poi inizia a discendere una volta che il reddito pro-capite abbia raggiunto una certa soglia critica. (In termini grafici, ponendo sullÂasse orizzontale il reddito pro-capite e sullÂasse verticale il tasso di emigrazione, si ottiene la tipica curva a forma di campana). Ecco perché non si può coltivare lÂillusione che, nel breve e medio periodo, lo sviluppo dei paesi generatori dei flussi migratori possa far diminuire il tasso di emigrazione. Al tempo stesso, però, è vero che nel lungo periodo e in seguito al processo di sviluppo il tasso di emigrazione si riduce drasticamente. Come documentano J. Williamson e T. Hatton (ÂVanishing Third Would Emigrants?Â, CEPR, 7222, March 2009) negli ultimi trentÂanni i tassi di immigrazione (definiti dal rapporto tra numero di immigrati e popolazione del paese ospitante) sono cresciuti molto più rapidamente dei tassi di emigrazione e questi ultimi raggiungono il loro punto di massimo circa un decennio prima del punto di massimo dei tassi di immigrazione. Inoltre, mentre i tassi di emigrazione dallÂAsia hanno raggiunto il picco negli anni 1980-84, quelli dallÂAmerica Latina hanno raggiunto il picco negli anni 1990-93. I paesi dellÂAfrica Sub-Sahariana, invece, non hanno ancora raggiunto il loro picco e dunque mentre la pressione migratoria dellÂAsia e dellÂAmerica Latina ha già iniziato a declinare, non altrettanto può dirsi per quella africana. Una linea argomentativa più sottile di quella sopra riportata è quella che afferma che unÂeconomia di libero scambio, favorendo i movimenti dei capitali e delle merci, diminuisce la propensione ad emigrare attraverso il livellamento dei differenziali salariali tra paesi generatori dei flussi e paesi di arrivo degli stessi. Di qui la raccomandazione secondo cui per frenare lÂimmigrazione nei paesi del Nord basterebbe intensificare lÂapertura dei mercati, e di quelli agricoli in particolare. Ciò consegue al celebre teorema di Stolper e Samuelson noto come Âteorema dellÂeguagliamento dei prezzi dei fattori (Factor price equalization theorem). Ora, come si sa, ogni teorema è valido sotto le condizioni che ne assicurano la dimostrabilità. Ebbene, nella realtà di oggi le condizioni che consentirono di dimostrare quel teorema  che risale a cinquantÂanni fa  non sono soddisfatte. Innanzitutto, perchè gran parte delle attività lavorative nei paesi generatori dei flussi migratori è collocata nei settori Ânon-tradable dellÂeconomia, e dunque lÂapertura dei mercati non sarebbe in grado di produrre gli effetti positivi previsti dal teorema. La parte restante delle attività lavorative è invece afflitta, da differenze notevoli di produttività. Ci vuole cioè tempo perché i paesi in via di sviluppo possano collocare, a condizioni vantaggiose, i loro prodotti sui mercati internazionali, così da rendere applicabile la conclusione del teorema. Ma prima che ciò avvenga i potenziali migranti cercano allÂestero la soluzione dei loro problemi di vita, anche perché investimenti esteri, commerci e aiuti non sono mai additivi, come lÂesperienza tristemente insegna. Se aumentano i primi due, viene ridotto il terzo elemento della triade e viceversa. (Si pensi a quel che è accaduto alla promessa dei paesi occidentali di destinare lo 0,7% del loro PIL agli aiuti internazionali!). Infine, il commercio estero potrebbe essere un sostituto, quasi perfetto, delle emigrazioni  come il teorema di Stolper-Samuelson prevede  solamente se i paesi generatori dei flussi migratori fossero integrati in una zona di libero scambio. Il che non è e non è certo pensabile che ciò avvenga, almeno nel prossimo futuro. Si deve allora concludere che sarebbe irresponsabile far credere alla gente che il problema migratorio potrebbe essere risolto puntando a politiche restrittive e/o discriminatorie di un tipo o dellÂaltro. (La decennale esperienza degli USA nei confronti del Messico ce ne offre eloquente conferma). Piuttosto, quel che è urgente fare è prendere atto, una volta per tutte, che la spinta più forte alla magnificazione dei flussi migratori proviene, oggi, dalla globalizzazione. La quale, mentre ha creato e va creando un mercato globale dei capitali e delle merci, non è ancora riuscita a porre le basi per un mercato globale del lavoro. Non è possibile volere, della globalizzazione, lÂuna cosa e non anche lÂaltra. LÂunico risultato certo che discende da questo atteggiamento pragmaticamente contraddittorio è sotto gli occhi di tutti: un aumento preoccupante e disumano dellÂimmigrazione illegale, sostenuta da quella nuova industria del crimine organizzato che è il traffico degli esseri umani. Non si dimentichi, infatti, che vi è sostituibilità fra immigrazione legale e illegale: la totalità delle ricerche empiriche è concorde su questo legame: più si restringono le condizioni di accesso ai permessi di entrata regolare, più aumenta lÂofferta di migrazioni illegali. Se allora si smettesse di parlare di migrazioni ponendosi esclusivamente dalla prospettiva della domanda di lavoro da parte dei paesi ospitanti, ignorando così del tutto il lato dellÂofferta di lavoro  come se lÂofferta di lavoro fosse perfettamente elastica  si riuscirebbe a trovare il consenso necessario per fondare una politica sostenibile dellÂimmigrazione (e non semplicemente una politica per lÂimmigrazione) a partire da linee di intervento ragionevoli e sicuramente implementabili. Considero tali quelle linee di intervento basate, da un lato, sul principio secondo cui le migrazioni devono fare gli interessi sia dei paesi di origine sia dei paesi di arrivo e, dallÂaltro, sulla considerazione che il processo di globalizzazione influisce sul mercato del lavoro in modo qualitativamente diverso rispetto a quanto avviene sul mercato dei beni e dei capitali. La differenza, non certo di poco conto, sta in ciò che, nel caso delle migrazioni, oggetto di scambio sono i servizi di lavoro, i quali attraversano i confini nazionali incorporati nelle persone. Una circostanza questa che già Adam Smith aveva lucidamente compreso quando, ne La Ricchezza delle Nazioni (1776), aveva scritto: ÂDi tutti i tipi di bagaglio, lÂuomo è il più difficile da trasportareÂ. Pretendere di regolare i flussi dei servizi di lavoro senza Âvedere lÂuomo che veicola quei servizi sarebbe vera miopia economicistica e grave irresponsabilità politica. 3. Sulle tendenze in atto delle migrazioni: una panoramica. Come emerge dalle ricerche svolte dallÂOECD (2001), nel corso degli ultimi decenni le tendenze dei flussi migratori sono variate tra i diversi paesi aderenti allÂOECD. Se gli anni Â80 hanno visto un aumento dei flussi in arrivo nella gran parte dei paesi in questione, il trend si è invertito nel corso degli anni Â90. In Europa, si è registrato un sostanzioso declino nel numero degli arrivi dopo il picco degli anni 1992-93, a sua volta collegato agli eventi che fecero seguito alla caduta del muro di Berlino. LÂandamento decrescente è continuato fino al 1997-98, dopo di che lÂimmigrazione ha cominciato a crescere di nuovo. Negli USA, lÂimmigrazione netta è aumentata a tasso costante tra gli anni Â70 e la metà degli anni Â90. In anni recenti, tuttavia, i flussi sembra si siano stabilizzati. La stessa cosa si può dire degli altri due paesi tradizionalmente ricettori, il Canada e lÂAustralia. Anche le categorie di immigrati sono mutate. LÂimmigrazione per ragioni familiari continua a dominare in paesi quali il Canada, la Francia e gli USA. Ma a partire dal 1997, il numero di rifugiati e di richiedenti asilo è cresciuto in modo sostanziale, specialmente in alcuni paesi europei. Nel 2000, Gran Bretagna, Germania e USA sono stati i paesi che hanno ricevuto il maggior numero di richieste di asilo. Il profilo dei rifugiati e dei richiedenti asilo è, in generale, diverso da quello degli altri immigrati, soprattutto dei cosiddetti migranti economici, ciò che influisce non poco sulle loro prospettive di integrazione nei paesi di arrivo. In aggiunta alle accresciute dimensioni e al mutamento profondo dei bacini di destinazione e di provenienza dei migranti, di tre altre tendenze dei flussi migratori nellÂera della globalizzazione conviene dire. La prima di queste riguarda la rapida crescita della percentuale di donne sul totale dei migranti. Secondo le Nazioni Unite, nel 2005 quasi il 50% dei migranti era costituito da donne. Mentre per lungo tempo le donne si spostavano per ricongiungersi ai mariti già emigrati, oggi sempre più donne sono protagoniste di migrazioni indipendenti, rappresentando spesso la principale fonte di sostegno delle famiglie che restano nel paese di origine. Nei paesi ricettori, la domanda di manodopera straniera è sempre più selettiva rispetto al genere per quanto concerne i servizi alla persona e i servizi di cura in generale. Come si può immaginare, ciò pone problemi seri e delicati nei paesi di origine: il care drain(donne che lasciano i loro figli in patria per recarsi allÂestero a lavorare) si aggiunge così al già noto brain drain (i paesi di arrivo sempre più esigono immigrati altamente qualificati). La seconda tendenza ha a che vedere con il fatto che la tradizionale distinzione tra paesi di origine, di transito e di destinazione va perdendo sempre più di significato. Accade oggi che un medesimo Stato sia contemporaneamente paese di origine, di transito e di destinazione dei migranti. Il bacino del Mediterraneo è lÂesempio certamente più eclatante: il nord Africa si sta trasformando da regione di origine a regione di transito e, nel prossimo futuro, diverrà regione di destinazione. Infine, come indica K. Kose (2009), le migrazioni temporanee vanno assumendo sempre più peso rispetto al passato, quando esse erano in prevalenza permanenti. Non solamente il migrante conserva il sogno di far ritorno in patria, ma un numero crescente di persone emigra parecchie volte nel corso della vita, spesso in paesi diversi, facendo periodicamente ritorno a casa. Tanto che oggi sempre più si parla di migrazioni circolari. Ciò è anche dovuto alla circostanza che lÂafflusso di lavoratori stranieri rallenta con la crisi economica nei paesi ricettori. Williamson e Hatton (2002) sostengono che storicamente tra flussi netti di immigrazione e disoccupazione nei paesi di arrivo vi è una relazione fondata sulla regola del 10%: per ogni cento posti di lavoro persi ci sono dieci lavoratori stranieri in meno. Ciò è accaduto nel 1929 e sta accadendo oggi con la crisi in atto. Il caso dellÂAfrica merita una considerazione a parte. Quella africana è una regione che ha generato troppo pochi migranti verso i paesi caratterizzati da scarsità di forza lavoro rispetto ai vantaggi che questa regione avrebbe potuto trarre dallÂemigrazione. Se si confrontano i redditi medi africani con quelli europei e nordamericani non si può non rimanere stupiti dal basso livello della pressione migratoria. Come spiegare questo paradosso? Tre ragioni possono essere invocate. La prima è che le politiche migratorie in ambito OECD tendono a favorire migranti portatori di conoscenze specifiche o comunque dotati di livelli medio-alti di educazione, ciò che induce i potenziali migranti africani ad autoselezionarsi. Secondo, il vincolo della povertà è più robusto del vantaggio associato allÂemigrazione per la gran parte degli Africani poveri. Non si dimentichi, infatti, che per emigrare occorre sostenere costi, non solo psicologici e culturali, ma anche finanziari; e dunque, lÂincentivo ad emigrare resta frustrato se il potenziale migrante non riesce a trovare risorse per affrontare il costo iniziale. Findlay e Sow (1998), studiando il caso delle famiglie rurali del Senegal e del Mali, hanno trovato che più povera la famiglia, più alta la probabilità che coloro che sono disposti ad emigrare restino in Africa. Terzo, potrebbe essere che le popolazioni africane siano meno mobili delle altre. Vediamo di chiarire questa terza ragione, certamente quella meno evidente e nota. Come è noto, quella africana è stata, fino agli anni 1880, una migrazione forzata, non volontaria. La piaga della schiavitù ne è lÂevidenza più convincente. Venendo a tempi recenti, lÂAfrica è divenuta famosa per i suoi rifugiati. Con una popolazione di poco superiore ad un decimo di quella mondiale, lÂAfrica ospita più di un terzo dello stock mondiale di rifugiati. DÂaltro canto, il numero degli sfollati (displaced) è stimato in circa il 2,5% dellÂintera popolazione africana. Il fatto è che i rifugiati africani, spesso avviati nelle aree rurali degli stati confinanti, sopportano privazioni superiori a quelle subite nel proprio paese. Quale il senso di tali constatazioni ai fini del nostro discorso? Quello di indicare che, nel caso dellÂAfrica, i movimenti dei rifugiati spiazzano i potenziali emigranti per ragioni economiche. Il che darebbe conto del fatto che gli ampi movimenti di popolazione africana avvengono allÂinterno del Continente nella forma di spostamenti di rifugiati e di sfollati. Quanto a dire che sullÂAfrica si abbatte il peggiore di tutti i mali: il costo umano delle migrazioni senza il vantaggio che, in qualche misura, lÂemigrazione sempre porta con sè (Hutton e Williamson, 2002). Nonostante lÂattenzione, perfino eccessiva, che la pressione migratoria sui paesi dellÂarea OECD ha finora ricevuto, molti altri sono i flussi migratori che investono la scena mondiale. In aggiunta ai movimenti che hanno interessato  per le ben note ragioni  i paesi dellÂex blocco sovietico e dellÂex Yugoslavia, occorre ricordare che, fino alla metà degli anni 1980, i più significativi paesi-calamita dei migranti asiatici sono stati il Kuwait, lÂArabia Saudita e gli altri stati produttori di petrolio. La prima guerra del golfo ha interrotto questa tendenza, dirottando i flussi migratori verso le cosiddette tigri asiatiche, soprattutto Malesia e Corea del Sud. Occorre ricordare che tale dirottamento dei flussi ha subito un arresto, almeno temporaneo, a seguito della crisi finanziaria del Sud-Est asiatico degli anni 1997-99. Di un ulteriore elemento strutturale conviene brevemente dire. Come parecchi studi sugli effetti di rete (network effects) hanno evidenziato, la migrazione futura è facilitata dalla migrazione passata. ÂUna volta che il numero delle connessioni di rete in una certa area ha raggiunto un livello critico, la migrazione tende ad autoperpetuarsi, perchè la migrazione stessa crea la struttura sociale che la sostiene. Ogni nuovo migrante riduce il costo della migrazione successiva per amici e parenti; con lÂabbassamento dei costi, alcuni di questi sono indotti a emigrare, il che espande ulteriormente lÂinsieme delle persone che hanno legami allÂestero (Massey et Al. 1993, p. 438). Ma non è solamente il migrante potenziale a trarre beneficio dalle esternalità di rete connesse ai flussi migratori; è anche vero che lÂutilità (o più genericamente il benessere) dellÂimmigrato già insediato risulta influenzata. In primo luogo, perchè i costi di adattamento del nuovo arrivato nel luogo di destinazione comprendono una forte componente psicologica che è tanto più elevata quanto maggiore è lÂostilità del paese ospitante. LÂarrivo di persone della stessa famiglia o appartenenti alla medesima matrice culturale vale a ridurre il senso di alienazione e di abbandono in cui si trova lÂimmigrato già insediato. Questo è un effetto positivo che Heitmueller (2003) chiama Âeffetto di comunitàÂ. Vi è però anche un effetto negativo su coloro che sono già insediati dei nuovi arrivati. La ragione principale di ciò è che questi ultimi, aumentando lÂofferta di lavoro nel paese ospitante, finiscono, per via dellÂusuale meccanismo competitivo, con il ridurre i livelli salariali oppure le opportunità occupazionali degli immigrati già arrivati. Ora, se è vero che nelle fasi iniziali del processo migratorio, il primo effetto domina il secondo, non si può escludere che, a lungo andare, gli immigrati delle prime ondate migratorie sviluppano sentimenti di avversione nei confronti degli immigrati potenziali o di quelli appena arrivati. LÂevidenza empirica sembra suggerire che una delle ragioni  non certo lÂunica  per le quali gli immigrati commettono reati più spesso degli autoctoni, determinando così un aumento del tassi di criminalità nei paesi ospitanti, sia proprio dovuta alla circostanza che, in parecchie situazioni, è stata superata la dimensione ottimale della rete. Ebbene, una responsabile politica migratoria che voglia contribuire a sconfiggere le ancora pervasive paure e i pregiudizi nei confronti degli immigrati non può trascurare di prendere in seria considerazione, nella programmazione degli insediamenti e dei luoghi di destinazione dei nuovi arrivati, il gioco congiunto dei due effetti di cui sopra si è detto. Invero, occorre riconoscere che non pochi dei comportamenti devianti degli immigrati siano lÂeffetto di errate politiche migratorie. 4. Verso una Âglobal governance delle migrazioni internazionali. Una conclusione di rilievo discende da quanto precede: il fenomeno migratorio di oggi è connotato da una separazione profonda tra integrazione sociale e integrazione economica dellÂimmigrato. Questi, infatti, può anche riuscire ad integrarsi in qualche modo nel mercato del lavoro del paese ospitante, ma ciò non gli assicura affatto anche lÂintegrazione sociale, intesa come capacità effettiva di accesso ai servizi di welfare e ai diritti di cittadinanza. Non è stato così nel passato, quando lÂinesistenza del welfare state faceva sì che i due livelli di integrazione, sociale ed economica, coincidessero nella realtà. Per non parlare poi della integrazione culturale dellÂimmigrato nel paese di arrivo. È in tale disallineamento tra le due forme di integrazione che possiamo porre lÂorigine di buona parte dei problemi che attanagliano le nostre coscienze e che intrigano le agende dei nostri policy makers in fatto di politiche migratorie. Vediamo allora di chiarire. In un saggio ormai celebre, J. Simon (1984) è stato tra i primi studiosi del fenomeno migratorio a formulare un criterio economico in forza del quale decidere quali caratteristiche una politica migratoria ottimale dovrebbe esibire. Il Principio di Simon  come oggi viene chiamato  recita, allÂincirca, così: un paese accolga immigrati fino al punto in cui lÂimmigrato marginale è in grado di dare un contributo netto non negativo alle finanze di quel paese. Come si comprende, si tratta di un principio pienamente in linea con la matrice di pensiero liberale, secondo cui anche al contesto migratorio dovrebbero essere applicate le regole del libero mercato. Milton Friedman  il fondatore della scuola economica di Chicago  ha osservato che le popolazioni dei paesi ospitanti non avrebbero nulla da temere dallÂarrivo degli immigrati, non importa in qual numero , se non esistesse il welfare state. Quale il sostrato teorico del principio di Simon? Questo poggia sullÂosservazione  di per sé banale  che i profili temporali del ciclo di vita degli autoctoni e degli immigrati per quanto concerne i consumi dei servizi sociali e le tasse pagate sui redditi guadagnati sono marcatamente diversi. A causa della asincronia tra situazioni di bisogno e capacità di contribuzione, accade che devono passare anni prima che, con le tasse che paga, lÂimmigrato sia in grado di finanziare i suoi consumi di beni pubblici e di beni meritori elargiti dal paese che lo accoglie. Chiaramente mentre gli immigrati altamente qualificati contribuiscono, con le tasse che pagano, al finanziamento del welfare state più di quanto ricevono, per gli immigrati non qualificati è vero il contrario. UnÂindagine USA (1997) ha trovato che i migranti con educazione inferiore alla scuola media comportano un peso fiscale netto per lo Stato ospitante pari a circa 100.000 dollari (in valore attuale) se lÂetà del migrante in arrivo è compresa tra i 20 e i 30 anni. DÂaltro canto, lÂimmigrato di pari età con educazione superiore fornisce un contributo fiscale netto di 300.000 dollari (in valore attuale) allo Stato che lo accoglie (cfr. A. Cohen e A. Razin, ÂThe skill composition of migration and the generosity of the welfare stateÂ, CEPR, 7185, Feb. 2009). Si comprende allora perchè la tendenza al Nord sia quella di selezionare gli immigrati ad alto potenziale. Un altro dato empirico rafforza tale tendenza. In un pregevole lavoro, J. Hunt (ÂHow much does immigration boost innovation?Â, IZA DP 3921, Jan. 2009) documenta che lÂimpatto dellÂimmigrazione sul tasso di innovatività dei paesi ospitanti è davvero notevole. Negli USA, il 26% dei premi Nobel assegnati nel periodo 1990-2005 sono stati attribuiti agli immigrati (contro una presenza di stranieri nella popolazione USA del 12%). Il 25% delle nuove imprese high-tech nel 2006 erano state fondate da immigrati. Lo stesso dicasi del contributo degli immigrati allÂottenimento dei brevetti: un immigrato laureato dà un contributo alla creazione di innovazioni di almeno il doppio di quanto faccia lÂomologo autoctono. Va da sé che il contributo positivo che lÂimmigrato istruito dà al paese di arrivo si trasforma in un duplice effetto negativo nel paese di origine: una diminuzione del tasso di crescita, per un verso, e una diminuzione della qualità dei servizi di welfare (si pensi solo alla costante riduzione nei paesi poveri di insegnanti e di medici locali). Si consideri  per fare un solo esempio  lÂassistenza sanitaria. Come una schiera di indagini empiriche documenta, lÂimmigrato giunge sano nel paese di arrivo, ma tende ad ammalarsi di lì a poco e ciò a causa del mutamento repentino sia dello stile di vita sia delle condizioni di lavoro. In situazioni del genere, garantire lÂaccesso ai servizi sanitari allÂimmigrato significa accettare un trasferimento finanziario netto dagli autoctoni ai nuovi arrivati. Va da sé che può essere vero anche il contrario. Di per sé, il Principio di Simon non esclude tale eventualità e cioè che siano gli immigrati che finanziano i cittadini dei paesi ospitanti. La questione va dunque risolta a livello empirico. Cosa dicono i fatti? LÂanalisi più completa e aggiornata al riguardo è quella di De Voretz (2004) che ha condotto unÂaccurata verifica empirica del Principio di Simon ponendo a confronto le politiche migratorie del Nord America e dellÂEuropa nel corso degli ultimi anni. Relativamente agli USA, i risultati della ricerca confermano che questo paese si è avvalso del Principio di Simon per limitare il finanziamento pubblico a favore degli immigrati. Di fronte ai flussi crescenti di ingressi dal Messico  conseguenza diretta degli accordi NAFTA del 1995  lÂamministrazione USA ha reagito limitando drasticamente gli accessi ai servizi sociali degli immigrati (fino a che, nel 2004, il Presidente Bush si è visto costretto a concedere la cosiddetta Âgreen card temporanea, per ovvie ragioni sia di ordine pubblico sia economiche). Politica del tutto analoga è stata seguita dalla gran parte dei paesi dellÂUE che pure hanno di fatto ridotto la mobilità dei cittadini dei nuovi paesi entrati agendo, in senso restrittivo, sulla valvola dei servizi sociali. Non così, invece, il Canada che si è avvalso del Principio di Simon per attuare una politica migratoria di tipo espansivo (la legge canadese sullÂimmigrazione del 1978 esplicitamente indica, tra i suoi principi fondativi, lÂobiettivo della crescita economica del paese ospitante). VÂè tuttavia unÂasimmetria marcata nel modo in cui paesi diversi interpretano e applicano il Principio di Simon: quando la congiuntura economica diventa sfavorevole, le politiche migratorie diventano prontamente restrittive, ma il viceversa non è vero. È interessante osservare che la giustificazione addotta per dare conto di tale asimmetria nasconde una sorta di contraddizione pragmatica. Si dice, infatti, che la prudenza nellÂattuare politiche espansive troverebbe la sua ragion dÂessere nella difficoltà di realizzare lÂintegrazione culturale degli immigrati. Ma il principio di Simon è e vuole essere un principio esclusivamente di natura economica, la cui applicabilità non dovrebbe risentire di condizioni di altra natura. È ben vero che società diverse hanno norme sociali diverse. Ed è ovvio che gli immigrati portano con sé, nel momento in cui arrivano nel paese di destinazione, norme e pratiche di vita che possono confliggere con quelle della popolazione locale. Ma è proprio in ciò il nucleo del problema dellÂintegrazione socio-culturale. Quel che non è consentito è invocare un principio economico, quale quello di Simon, per spiegare una realtà che non può essere compresa allÂinterno della sola logica che sorregge quel principio. Vi è un secondo livello di critica al quale legare il giudizio sul Principio di Simon e sulla base culturale su cui si regge. Si tratta di questo. In alcuni lavori recenti, lÂeconomista tedesco Sinn (2004 a; 2004 b) ha sviluppato una linea di argomentazione che va guadagnando consensi negli ambienti culturali e politici dei paesi dellÂOccidente avanzato. Essa va dunque seguita con grande attenzione. Dopo aver correttamente osservato che i vincitori dellÂattuale passaggio dÂepoca  un passaggio caratterizzato dai fenomeni della globalizzazione e della terza rivoluzione industriale  sono le imprese del settore Âhigh-tech e i lavoratori altamente qualificati, Sinn indica come lÂintegrazione del mercato europeo, se per un verso accresce la ricchezza complessiva, per lÂaltro verso diminuisce il benessere dei segmenti poco qualificati della forza lavoro autoctona. E ciò a causa dei differenziali salariali tra Est e Ovest. Valga un solo dato. Il salario medio dei 75 milioni di persone che vivono nei paesi del Centro Europa che si sono uniti allÂUE nel 2004 è circa 1/5 della media europea (e 1/7 della media tedesca), pur trattandosi di persone la cui produttività non è di molto inferiore, in media, a quella occidentale. È dunque evidente che i Âperdenti da questo tipo di gara si appellino al welfare state dei rispettivi paesi per ottenere forme varie di compensazione nei confronti dei cosiddetti Âpains from tradeÂ. Ma eccoci al paradosso: quanto più il welfare state giunge in aiuto dei perdenti - cioè dei segmenti svantaggiati della forza lavoro autoctona  tanto più la situazione si aggrava, perché un welfare generoso, al modo di un magnete, attira a sé i flussi migratori. E tanto maggiore è il numero di coloro che entrano nel paese, tanto peggiori saranno le chance di vita degli autoctoni non qualificati e quindi tanto maggiori saranno i costi del welfare stesso. Quale allora la via dÂuscita? La proposta che Sinn, a nome del gruppo di ricercatori di Monaco da lui diretto, avanza è quella del ÂPrincipio dellÂIntegrazione Economica Selettivamente Dilazionata (Principle of Selectively Delayed Economic Integration): gli immigrati pagano tasse e contributi sociali sui redditi derivanti dal loro lavoro; ricevono dal paese ospitante i benefici sociali finanziati dai loro contributi; hanno libero accesso alle infrastrutture pubbliche. Tuttavia, per un periodo iniziale che può variare dai 5 ai 7 anni, gli immigrati sono esclusi dai servizi di welfare del paese ospitante e, in caso di necessità, costoro dovranno rivolgersi al paese dÂorigine che dovrà provvedere ai loro bisogni. Operando in tal modo  conclude Sinn  non vi sarebbe bisogno di alcuna politica dei controlli allÂimmigrazione, la quale se può servire temporaneamente per difendere i redditi dei lavoratori poco qualificati dalla competizione degli immigrati, finisce con lÂimpedire i guadagni derivanti dallÂapertura degli scambi internazionali. Meglio dunque operare nel senso di differenziare i redditi di nazionali e immigrati. Giova rimarcare la sottigliezza dellÂargomento, allÂapparenza suadente e persuasivo. LÂidea secondo cui i diritti degli autoctoni godrebbero di una precedenza nei confronti dei diritti dei migranti si appoggia sulla tesi  che si può far risalire alla concezione del repubblicanesimo  secondo cui lo Stato nazionale ha lÂobbligo di tutelare in primis, i diritti dei propri cittadini. CÂè un grumo di verità in ciò. Ma non si possono chiudere gli occhi di fronte ai pericoli di regresso morale, oltre che politico e civile, che una posizione del genere, se accolta, andrebbe a innescare. Se si accoglie come pertinente e accettabile la definizione che Richard Rorty dà di progresso morale  ÂlÂaffermarsi della capacità di considerare moralmente irrilevanti una parte sempre maggiore delle differenze tra gli esseri umani  si deve concludere che il ÂPrincipio dellÂIntegrazione Economica Selettivamente DilazionataÂ, è moralmente regressivo. CÂè anche una ragione di ordine pratico a rendere inaccoglibile il principio in questione. Essa concerne quella misura del grado di integrazione economica dellÂimmigrato nota come Âtempo di catch-upÂ. Da almeno trentÂanni, in letteratura economica si è soliti adottare la misura del reddito relativo per determinare il cosiddetto aggancio: quanto tempo deve impiegare un immigrato, dotato di certe abilità lavorative per agganciare il livello di reddito del suo gruppo di riferimento nel paese di arrivo. Chiswick (2000) ha stimato che ci vogliono, in media, 15 anni prima che ciò avvenga, proprio come il medesimo autore aveva congetturato nel saggio del 1978, in cui per la prima volta questa misura era stata introdotta. Ecco allora il problema: lÂadozione del PIESE non è compatibile con un così lungo tempo di aggancio. Non è cioè possibile articolare una proposta politica che, da un lato, conserva una forte discriminazione dellÂimmigrato sul piano economico e, dallÂaltro, gli nega lÂaccesso ai servizi di welfare per un certo numero di anni perché questi non è ancora riuscito a finanziarne il costo. 5. LÂurgenza di una Organizzazione Mondiale delle Migrazioni Quando si giunge ad un tale stadio di consapevolezza si comprende perché non è più possibile eludere la questione riguardante la creazione di una ÂAutorità politica mondiale  per usare le parole di Benedetto XVI nella Caritas in Veritate  in grado di porsi alla guida dei flussi migratori. Giova ricordare che il 6 novembre 1947 a Città del Messico, alla Conferenza dellÂUNESCO, J. Maritain già aveva posto come condizione necessaria per un mondo di pace e di giustizia, per un verso, il riconoscimento, da tutti e ovunque, dei fondamentali diritti umani e, per lÂaltro verso, la creazione di una comunità mondiale dotata di poteri decisionali e fondata sullÂabbandono del concetto di sovranità nazionale (lÂONU, che stava allora nascendo, gli appariva come un primo passo in tale direzione). Occorre essere chiari su tale punto: in assenza di unÂAgenzia o di una Autorità transnazionale in grado di rendere esecutorie, cioè di far rispettare, le regole fissate nelle varie Convenzioni e trattati, lÂistituto dellÂasilo rischia di scomparire nel giro di non molti anni. Abbiamo bensì lÂUNHCR, ma questa importante e altamente meritoria agenzia delle Nazioni Unite non è una vera e propria istituzione multilaterale, sostenuta e cogestita da un ampio spettro di paesi della Comunità internazionale. I fondi continuano a provenire, su base esclusivamente volontaria, da una coalizione di pochi paesi. DÂaltro canto, il sostegno finanziario del settore privato, da sempre in ammontare insufficiente, a partire dalla fine della guerra fredda sembra ulteriormente falcidiato dal fenomeno noto come Âstanchezza dei donatoriÂ. Come si può comprendere, tutto ciò nè consente una seria programmazione per il futuro nè fa sì che lÂUNHCR possa arrivare a disporre di veri e propri poteri esecutivi. Esiste bensì lÂart. 33 della Convenzione sui rifugiati del 1951  che impone ad ogni Stato contraente di non espellere o respingere un rifugiato verso territori in cui Âla sua vita e la sua libertà possono essere minacciate  ma quando ragioni di sicurezza nazionale o di interesse economico lo esigono, tale obbligo internazionale viene sistematicamente eluso. Ed ancora: è vero che dal 2004, a Varsavia, funziona unÂAgenzia dellÂUnione Europea, chiamata FRONTEX, che dovrebbe occuparsi della gestione della frontiera esterna. Ma il lavoro svolto in quasi un quinquennio è stato praticamente nullo. E così via. Ebbene, così come si ha avuto bisogno di istituzioni finalizzate ad assicurare che la più spinta integrazione dei mercati produca benefici reali per tutti  ed infatti è stata questa la ragione che ha spinto alla trasformazione del GATT nella WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio)  allo stesso modo si ha oggi necessità di unÂistituzione transnazionale per proteggere i diritti di migranti e rifugiati e per punire il numero crescente di violazioni degli stessi ovunque queste si materializzano. Seguendo Bhagwati (1998), sono dellÂavviso che i tempi siano maturi per far decollare la proposta di una World Migration Organization (WMO) capace di superare la posizione di stallo in cui ci si trova. Quali i compiti specifici di una tale organizzazione delle Nazioni Unite che potrebbe inglobare i compiti finora svolti dallÂUNHCR e dallÂOrganizzazione mondiale delle migrazioni? Di tre compiti importanti voglio dire, in breve. Il primo è quello che concerne la rappresentazione attendibile, sotto il profilo statistico, del fenomeno delle migrazioni forzate. In effetti, non esistono ancor oggi statistiche credibili sulla mobilità migratoria che è lecito attendersi nel prossimo futuro. Eppure, in assenza di informazioni del genere non solo non si può impostare alcuna seria e coerente politica di interventi ma neppure si possono contestare quelle speculazioni politiche il cui unico fine è sempre quello di diffondere panico o apprensioni tra le popolazioni autoctone. Si congettura oggi che da qui al 2030, il Nord registrerà una diminuzione della popolazione in età lavorativa di 65 milioni di persone a fronte di un contemporaneo aumento nel Sud di circa un miliardo di persone. Supponendo che la creazione endogena di posti di lavoro al Sud sia del 75%, i posti di lavoro addizionali che occorre creare per soddisfare questa dinamica demografica saranno pari a 250 milioni di unità. Se anche il Nord assorbisse i 65 milioni che gli servono, resterebbe pur sempre un aumento di pressione migratoria di poco meno di 200 milioni di persone. Possiamo fidarci di tali proiezioni e sulla base di queste fondare le politiche migratorie? E che dire del peso delle possibili migrazioni ambientali dovute, da un lato, allÂelevamento del livello del mare, e dallÂaltro, allÂaumento della desertificazione? Ecco, dunque, un primo compito istituzionale della WMO: provvedere alla costituzione di una banca dati e alla fissazione di un sistema statistico-informativo sul fenomeno migratorio capace sia di contrastare la diffusione sempre più frequente di notizie allarmistiche sia di fornire il necessario supporto tecnico per consentire alle varie autorità di governo di gestire in modo responsabile i flussi migratori. Un secondo compito importante che una WMO dovrebbe poter svolgere è, per un verso, quello di monitorare lÂimplementazione delle regole già in esistenza, fungendo da arbitro nella risoluzione delle dispute, e, per lÂaltro verso, quello di favorire la cooperazione tra paesi appartenenti ad una medesima regione geografica perchè giungano ad adottare politiche migratorie tra loro omogenee e coerenti. Perchè è importante un compito del genere? Per la fondamentale ragione che, al fine di congetturare il pattern delle migrazioni mondiali dei prossimi anni, è necessario conoscere il tipo di politiche migratorie che i paesi di arrivo dei flussi andranno a porre in essere. Il fatto che le variabili economiche e demografiche influenzino in maniera robusta i flussi migratori non toglie peso al ruolo delle scelte politiche in materia. Anzi, gli andamenti futuri saranno sempre più influenzati dalle scelte politiche dei vari governi. Ad esempio, se queste ultime prenderanno la via  peraltro già intrapresa  di aumentare le restrizioni allÂentrata, in presenza di un aumento inevitabile della pressione migratoria, non potrà che registrarsi un preoccupante aumento delle migrazioni illegali. Contrariamente a ciò che molti sembrano (o vogliono) pensare, lÂinasprimento delle politiche migratorie non diminuisce affatto la pressione migratoria: serve soltanto a trasformare lÂimmigrazione da legale a illegale. Come bene chiariscono G. Ferri et Al., (LÂesercito degli invisibili, Il Mulino, Bologna, 2007), quanto più restrittive sono le politiche migratorie tanto maggiore è lo spazio che si apre alla criminalità organizzata che si occupa di gestire il traffico dei migranti. Se lÂimmigrazione poggia su una logica di mercato, è controproducente pensare di controllarla solo con divieti e contingentamenti. Ciò serve solamente ad ampliare il mercato della clandestinità. Il terzo compito, infine, riguarderebbe la gestione, da parte di una WMO, di specifici progetti di livello propriamente globale. In un recente saggio, D. Rodrik (2002) avanza una proposta di parziale liberalizzazione dei movimenti internazionali di lavoratori e rifugiati tesa ad accrescere, in modo sistematico, i redditi dei paesi poveri. Si tratta di questo. Si consideri uno schema di permessi temporanei di lavoro dellÂordine del 3% della forza lavoro dei paesi ÂricchiÂ. Lavoratori specializzati e non specializzati, in proporzioni ben definite, dei paesi Âpoveri verrebbero ammessi a lavorare nei paesi ricchi per un periodo di 3-5 anni al termine del quale una nuova ondata di migranti subentrerebbe. Allo scopo di far sì che i migranti facciano ritorno effettivamente al paese dÂorigine al termine del periodo contrattato, si disegna un opportuno schema che fissa incentivi a favore di tutte le parti in causa: lavoratori, imprese, governi dei paesi di invio e di quelli dei paesi ospitanti. Inoltre la possibilità di rinegoziare il permesso temporaneo varrebbe ad incentivare comportamenti virtuosi da parte dellÂimmigrato e a stimolare le imprese ad investire sul suo capitale umano. Al solo scopo di fissare le idee, si potrebbe pensare di trattenere dal salario del lavoratore una quota parte, vincolandone la restituzione (comprensiva degli interessi) al suo rientro in patria. Questa specie di risparmio forzato assicurerebbe al migrante una somma tale da consentirgli un agevole inserimento nel paese di origine. Si potrebbe anche pensare a forme di penalizzazioni per i governi che non collaborano per facilitare i rientri in patria: ad esempio, le quote di ingresso di migranti a favore di un certo paese potrebbero essere ridotte in proporzione al numero di coloro che non hanno fatto ritorno in quel paese. UnÂaltra misura ancora è quella di incoraggiare la costruzione di legami tra migranti e datori di lavoro con lo scopo di aprire mercati di esportazione per questi ultimi nelle località da cui provengono i migranti. Il risultato ultimo dellÂimpiegare le migrazioni come mezzo di sviluppo è quello di porre fine al bisogno di emigrare da un particolare paese entro lÂorizzonte temporale di una generazione. Un approccio del genere servirebbe anche a scoraggiare lÂuso, da parte del potenziale migrante, della via della richiesta di asilo come estrema ratio. Coloro i quali fuggono dalla persecuzione sarebbero meno esposti ai sospetti da cui ora sono circondati. Non solo, ma il piano sopra abbozzato potrebbe tornare utile anche direttamente ai rifugiati, i quali hanno tutto lÂinteresse a trovare un lavoro nel paese che lo ospita, per acquisire abilità e capitali che faciliteranno il loro ritorno, una volta superata lÂemergenza che li ha costretti ad abbandonare il proprio paese, che è tipicamente di un paese in via di sviluppo. Ciò accrescerebbe la stima di sè: la constatazione di essere autosufficienti. Rodrik calcola che lÂimplementazione di un progetto del genere farebbe affluire ai paesi poveri oltre 200 miliardi di dollari allÂanno. Si tratta di una cifra imponente, oltre il doppio di quanto si può stimare che la completa liberalizzazione degli scambi frutterebbe ai paesi poveri. Non solo, ma a tale somma occorre aggiungere gli enormi spill-overs positivi che le persone che rientrano al proprio paese porterebbero con sè: si pensi allÂesperienza accumulata, al know how acquisito; allÂintraprendenza acquisita; allÂetica del lavoro e alle norme sociali di comportamento necessarie per sostenere a lungo il processo di sviluppo. Inoltre un progetto del genere servirebbe ad evitare il depauperamento delle risorse umane che le migrazioni di lungo periodo portano sempre con sé (il brain drain appunto). Si pensi allÂAfrica Sub-Sahariana che nel corso degli ultimi 20 anni ha perso il 30% dei lavoratori qualificati. (Dati del FMI, 1999). Sorge la domanda: se le cose stanno in questi termini, perchè uno schema del genere non riesce a farsi strada? Perchè non è politicamente fattibile, mentre è economicamente vantaggioso. La spiegazione si nasconde nelle pieghe di quel celebre gioco che è il dilemma del prigioniero: esiste bensì una soluzione ottimale, ma non è possibile raggiungerla perchè nessun governo nazionale è in grado di fare la prima mossa. Infatti, chi lo facesse si esporrebbe al suicidio politico, dal momento che nel breve periodo  che è lÂorizzonte temporale cui sono interessati tutti i governi democratici  la proposta di Rodrik avrebbe implicazioni distributive avverse nei mercati del lavoro dei paesi ricchi: i salari dei lavoratori non specializzati di questi ultimi subirebbero una sensibile riduzione. Ebbene, lÂesistenza di una WMO varrebbe a sortire lÂeffetto desiderato, consentendo di raggiungere la soluzione socialmente ottimale. Agendo come parte terza rispetto ai vari governi nazionali, una WMO riuscirebbe a far scegliere a ciascuno di questi ultimi la strategia cooperativa, quella che appunto conduce allÂottimo sociale. Sarebbe sufficiente prendere in considerazione questa funzione specifica per convincersi della necessità e dellÂurgenza di dare vita ad un organismo come quello qui proposto. 6. Il modello dellÂintegrazione interculturale. Prima di chiudere, un riferimento  sia pure fugace  alla questione dellÂintegrazione socio-culturale degli immigrati. Tre gli interrogativi che sorgono spontanei. Preso atto che le nostre società tendono a diventare società di immigrazione e di emigrazione, come configurare il rapporto tra multiculturalità e identità? Vale a dire, fino a che punto può e deve spingersi una politica dellÂidentità (politics of identity) se si vuole  come presumo chiunque voglia  che la pluralità delle culture presenti in un paese risulti compatibile con un ordine sociale garante della pace sociale e delle ragioni della libertà? Secondo, riconosciuto che lo scarto crescente tra cittadinanza economica e cittadinanza socio-politica dellÂimmigrato ha ormai raggiunto un livello non più in grado di assicurare la dignità della persona umana, cosa fare per conciliare lÂinclusione economica dellÂimmigrato  lÂinclusione cioè nel mercato del lavoro e nel sistema produttivo del paese ospitante  con la sua esclusione dai diritti sociali e politici? Terzo, se specifiche ragioni di principio, oltre che pratiche, sconsigliano riedizioni, più o meno aggiornate, sia del modello assimilazionista di marca francese, che tende a fare del diverso uno di noi, sia del modello della marginalizzazione degli immigrati (cioè della loro apartheid), sia ancora del modello dellÂautogoverno delle minoranze (il modello cioè della balcanizzazione della società ovvero del multiculturalismo), non resta che la via dellÂintegrazione socio-culturale dei nuovi arrivati nella società di accoglienza. Ma quale modello di integrazione si intende realizzare? In altri termini, quali principi basilari deve soddisfare un modello di integrazione che faccia propria la prospettiva interculturale, una prospettiva che rifiuta sia di prendere in considerazione solamente le differenze che separano gli immigrati dagli autoctoni per giungere a forme più o meno accentuate di balcanizzazione della società, sia lÂesistenza di differenze significative tra gli uni e gli altri per giungere allÂassimilazione più o meno esplicita e forzata? Quali principi devono cioè essere posti a fondamento di una politica che voglia assicurare a tutti il soddisfacimento dei diritti fondamentali dellÂuomo e al tempo stesso garantire uno spazio pubblico in cui i soggetti portatori di una identità culturale diversa da quella del paese ospitante possano mettere a confronto le loro rispettive posizioni in modo pacifico e soprattutto possano giungere al consenso intorno ai limiti entro cui mantenerle? Ne indico cinque, avvertendo, che il contesto cui penso tali principi debbano applicarsi è quello degli stati uninazionali (del tipo Gran Bretagna, Francia, Italia) e non quello degli stati multinazionali (del tipo Canada, Svizzera, Belgio, Spagna). Il primo principio è quello del primato della persona sia sullo Stato sia sulla comunità. Sulla primazia della persona rispetto allo Stato non cÂè bisogno di spendere parole; si tratta di acquisizione ormai assodata, almeno nelle nostre società occidentali. Conviene dire invece qualcosa dellÂaltra relazione, quella tra persona e comunità. Scrive Sandel, esponente di punta del comunitarismo radicale, a proposito dellÂidentità comunitaria concepita come qualcosa che attiene alla autorealizzazione del soggetto e non già alla sua libera scelta: ÂLa comunità dice non solo ciò che essi hanno come cittadini, ma anche ciò che essi sono; non una relazione che essi scelgono (come accade nelle associazioni volontarie) ma un attaccamento che essi scoprono; non semplicemente un attributo ma un elemento costitutivo delle loro identitàÂ. Quanto a dire che la comunità, e dunque lÂidentità, viene Âprima della persona che sceglie, e dunque viene Âprima della ragione che guida la scelta. Non ci vuol molto a capire perché chi si riconosce nelle posizioni della filosofia personalista  magistralmente enunciate ne LÂuomo e lo Stato da Jacques Maritain e, in tempi più recenti, da Emmanuel Levinas e da Paul Ricoeur - non possa accettare una simile inversione del nesso tra persona e comunità. In buona sostanza, è la soggettività della persona il fondamento del rapporto comunitario, il quale va edificato o reinventato a partire da soggetti che sono capaci e liberi di scegliere e dunque capaci di assumersi la responsabilità del proprio destino. È bensì vero che lÂindividuo isolato è pura astrazione e che, come si dirà tra breve, lÂidentità individuale non può prescindere dalla trama di rapporti che legano il singolo alla sua comunità. Ma il comune denominatore collettivo non riesce mai a definire pienamente la singola persona, la quale è pur sempre un insieme di attributi unici. Al tempo stesso, però, la libertà  ed è questo il secondo principio  non è pienamente tale se non va oltre la mera autodeterminazione, il Âfare quel che si vuoleÂ. Tale concezione è troppo gracile perché essa possa essere compatibile con lo statuto personalista. Infatti, la persona, a differenza dellÂindividuo, è definita anche dalla cultura in cui essa è cresciuta e nella quale essa sceglie di riconoscersi. Invero, ciò che è tipico della persona umana è la relazionalità, la quale postula che lÂaltro diventi un tu. La piena realizzazione dellÂidentità personale non può dunque limitarsi al semplice rispetto dellÂaltrui libertà, come afferma la posizione neo-liberale per la quale il vivere in comune è unÂopzione. Sappiamo, infatti, che per ciascuno di noi non è affatto così. La scelta non è mai tra vivere in solitudine o vivere in società, ma tra vivere in una società sorretta da certe regole oppure da altre. È dunque troppo poco, per la nozione forte di libertà, pensare ad una individualità che prescinde dalla relazione con lÂaltro. Ecco perché le culture meritano tutela e riconoscimento anche a livello della sfera pubblica. Se è vero che lÂidentità personale nasce dialogicamente come risposta alle nostre relazioni con gli altri, allora una società autenticamente rispettosa delle ragioni della libertà non può negare che la preservazione di un contesto culturale sicuro, cioè non minacciato né, tanto più, negato, costituisca un bene primario su cui verte lÂinteresse fondamentale dei singoli. E se così ha da essere, allora occorre spingersi fino al riconoscimento pubblico delle particolarità culturali. Il terzo principio è quello della neutralità, - beninteso, non della indifferenza, - dello Stato nei confronti delle culture che sono Âportate da coloro che in esso risiedono. La visione relativistica della libertà, tipica della concezione liberal-individualistica, riducendo la libertà a mero permissivismo privato ha favorito la confusione fra Stato laico, cioè Stato neutrale nei confronti delle varie culture in esso presenti, e Stato indifferente, uno Stato cioè che si dichiara incapace di scegliere ovvero di stabilire differenze tra culture diverse. Se la neutralità dice dellÂimparzialità con cui lo Stato deve trattare le varie identità, lÂindifferentismo dice della impossibilità di fissare un ordine tra diverse istanze culturali per via della non esistenza di un criterio oggettivo di scelta. Lo Stato laico non può fare a meno di presupposti di valore che non tocca ad esso produrre  se così avvenisse si trasformerebbe in Stato etico  ma che spetta allo Stato recepire dai soggetti della società civile portatori di cultura. Il quarto principio afferma che lo Stato laico, cioè neutrale, nel perseguire lÂobiettivo di integrare le minoranze etnoculturali entro una comune cultura nazionale, adotta quale presupposto per lÂintegrabilità che le culture presenti nel paese concordino tutte su, cioè facciano proprio, un nucleo duro di valori, di valori cioè irrinunciabili che, in quanto tali, valgono per tutti gli uomini, quale che sia la loro appartenenza a una specifica cultura. Si tratta di quei valori che sono a fondamento dei diritti universali dellÂuomo e che, di recente, sono stati magistralmente rinverditi da Benedetto XVI. Sorge spontanea la domanda: poiché non è mai lecito giudicare una cultura servendosi di unÂaltra come unità di misura, e poiché i diritti universali dellÂuomo sono unÂacquisizione (recente) della cultura occidentale, non cÂè forse il rischio che il quarto principio conduca allÂimperialismo culturale? Il fatto che valori come quello della dignità umana e teorie come quella dei diritti umani usino il linguaggio della cultura occidentale non è segno di pregiudizio etnocentrico; piuttosto è indicazione del fatto che lÂOccidente è giunto prima di altri contesti a prendere coscienza di tali valori, dando ad essi una fondazione su basi razionali. E pertanto, proprio perché giustificati per via di ragione, questi valori sono estensibili, in linea di principio, a tutti gli uomini. In altri termini, la nozione di diritti umani non è legata allÂOccidente, anche se questo è il luogo di nascita delle carte dei diritti. Il contenuto di tali diritti non è specifico di una determinata cultura, anche se è vero che cÂè oggi un modello culturale dei diritti umani che è dominante, quello occidentale appunto. È dunque lÂaccettazione da parte di chi è portatore di una particolare cultura di tale nucleo di valori che marca la soglia al di sotto della quale non è possibile accogliere alcuna legittima richiesta di riconoscimento a livello istituzionale, cioè pubblico, per quella cultura. DÂaltro canto, al di sopra di quella soglia, il compito da assolvere è quello di discernere ciò che, di una data cultura, è tollerabile, da ciò che è rispettabile, da ciò che è condivisibile. Chiaramente, la tolleranza copre la gamma più vasta di richieste. Essa costituisce il primo livello di accettabilità per una determinata posizione o atteggiamento. La tolleranza Âvirtù pubblica che si rifà alla prudenza  si configura come metodo per risolvere quei conflitti che discendono dalla convivenza di diversi entro la cittadinanza democratica. Il rispetto, invece, è una rete a maglie più strette rispetto a quelle della tolleranza. Infatti, il rispetto non è solo questione di diritti; esso rinvia allÂonore. Si rispetta qualcuno che si riconosce essere degno di valore. Nel rispetto c'èÂdunque il riconoscimento che l'altro è portatore di una prospettiva meritevole di considerazione, anche se quella prospettiva non coincide con la mia. Ancora più strette sono le maglie della rete della condivisione. Mi preme sottolineare che lÂidentificazione dei tre livelli di giudizio  tollerabilità, rispettabilità, condivisibilità  produce una conseguenza pratica di grande momento, quella di offrire un criterio sulla cui base procedere allÂattribuzione di risorse pubbliche ai vari gruppi di minoranze etno-culturali presenti nel paese. Si potrebbe, infatti, stabilire che le richieste giudicate tollerabili non ricevono risorse, monetarie e di altra natura, dallo Stato o dagli altri enti publici; le richieste giudicate rispettabili ricevono un riconoscimento a livello amministrativo, entrano cioè nellÂordinamento amministrativo dello Stato; le richieste giudicate condivisibili vengono accolte nellÂordinamento giuridico del paese ospitante, con tutto ciò che questo comporta in termini di destinazione di risorse pubbliche. Da ultimo, che ne è di quelle culture che chiedono di partecipare al progetto interculturale, ma che non accettano di trasformarsi per accogliere lo statuto dei diritti fondamentali? A ciò dà risposta il quinto principio: lo Stato, in nome dei diritti del cittadino - i quali, a differenza dei diritti dellÂuomo, non hanno fondazione giusnaturalistica - destinerà risorse ai gruppi portatori di quelle culture per aiutarli ad evolvere verso posizioni capaci di accogliere i diritti fondamentali dellÂuomo. È questo il significato del principio che chiamo della Âtolleranza condizionataÂ: ti aiuto perché tu possa fare posto, dentro la tua matrice culturale e secondo i modi propri della tua cultura, allÂaccoglimento dei diritti fondamentali. È noto che le culture hanno la tendenza ad adattarsi allÂevolversi delle situazioni; non sono qualcosa di statico. E dunque lÂeducazione interculturale deve consentire a ciascun individuo sia di affermare la propria identità culturale sia di andare oltre qualora essa non si dimostri capace di afferrare lÂuniversalità dei diritti fondamentali. Quale il senso di un principio del genere? Si tratta di qualcosa capace di condurre a risultati pratici oppure si tratta di pura utopia? Per scendere nello specifico, cÂè speranza che anche lÂislamico di stretta osservanza possa modificare in senso evolutivo la propria posizione fino a recepire quel nucleo duro di valori di cui sopra si è detto? La rilevanza di queste domande sta in ciò che, in caso di risposta negativa, il quinto principio risulterebbe vuoto, anzi vacuo. Ci è di aiuto, nella ricerca di una risposta, la recente riflessione di F. Viola, secondo cui i diritti dellÂuomo non sono più definiti a prescindere dalle differenze (di genere, di religione, di razza, di cultura) ma come veri e propri diritti delle differenze. Come a dire che la storia dei diritti si muove verso una loro progressiva contestualizzazione; non più cioè lÂuniversalismo astratto di un sé umano sradicato dal riferimento di un qualche contesto esistenziale. Se le cose stanno in questi termini, si deve allora convenire che è, in linea di principio, fattibile il progetto di favorire, per tutte le culture, una marcia, più o meno lunga, al termine della quale si registra la convergenza su una base comune di valori condivisi. Presi nel loro insieme, i cinque principi sopra illustrati ci consentono di cogliere i punti di forza del modello che chiamo dell'integrazione interculturale. Primo, tale modello evidenzia una marcata finalità integrazionista, dal momento che i gruppi di immigrati presenti nel paese ospitante non vengono incoraggiati a sentirsi come Ânazioni separate che si autogovernano come accade , tanto per intenderci, con gli Amish e con la comunità Lubavic (a Brooklyn) negli USA. Diversamente da quanto deriverebbe dallÂaccoglimento della posizione comunitarista, la politica interculturale, come qui esplicitata, comporta bensì una revisione dei termini dellÂintegrazione, ma non un rifiuto dellÂintegrazione in sé nella società ospitante, e ciò perché tale politica non accetta di trattare le varie culture come Âisole cognitive tra loro incomunicabili. Al tempo stesso, la politica interculturale è in grado di scongiurare il rischio paventato dai sostenitori della posizione neoliberale  il rischio cioè che il riconoscimento della identità etno-culturale degli immigrati possa condurre al separatismo e quindi allÂannacquamento dellÂidentità nazionale. Non è così perché, come sopra si è sottolineato, il riconoscimento di cui si parla avviene entro le esistenti istituzioni comuni. E dunque ciò che muta non sono i principi regolativi delle istituzioni medesime, che restano invariati, ma i modi tradizionali di applicazione di quei principi, i modi cioè dettati da una particolare tradizione culturale. Solo chi coltivasse una concezione statica, e perciò obsoleta, di identità nazionale sarebbe portato a difendere la purezza delle proprie tradizioni dal contagio di altre tradizioni. Il secondo punto di forza è quello di rendere palese e trasparente a tutti, ed in modo ex-ante, tanto alle autorità politico-amministrative e di polizia quanto a coloro che intendono stabilirsi nel paese di immigrazione, le regole e i criteri in base ai quali le richieste avanzate verranno prese in considerazione e giudicate. In tal modo si eliminano pericolosi spazi di discrezionalità. Si veda, al riguardo, il documento del Consiglio dÂEuropa recante per titolo ÂLe relazioni intercomunitarie e interetniche in Europa del 1991. Alla p. 175 si legge: ÂLo StatoÂ
deve essere particolarmente vigilante nei riguardi delle pratiche culturali che limitano il diritto dellÂindividuo a compiere scelte fondamentaliÂ. E più avanti, alla p. 179: ÂIl diritto islamico della famiglia comporta alcuni elementi totalmente incompatibili con il principio europeo dei diritti inalienabili dellÂindividuo e con lÂeguaglianza dei sessi. Sembra difficilissimo poter arrivare ad un compromesso su questo puntoÂ. Con affermazioni general-generiche del genere non si può certo sperare che le raccomandazioni di una istituzione importante come è il Consiglio dÂEuropa (creata nel 1949!) possano essere prese in seria considerazione; men che meno tradotte in pratica. Il terzo punto di forza, cui sopra facevo riferimento, è quello di rendere concretamente possibile il dialogo interculturale con quei segmenti del mondo islamico  e ve ne sono indubitabilmente  che hanno fatto dellÂapertura nei confronti del mondo occidentale la loro ragion dÂesistere. Invero, il grave rischio che si nasconde nelle pieghe della vulgata Âislamicamente corretta è quello di relativizzare il concetto di diritti della persona per rendere accomodante e più agevole il dialogo. Il che non è affatto, perché confonde il dialogo con la conversazione. Esplicitando, invece, al proprio interlocutore, fin dallÂinizio del rapporto dialogico, il sistema di principi nei quali ci si riconosce, si facilita, oltre che la mutua comprensione  il che è ovvio  la presa dÂatto da parte del nuovo arrivato che diritti umani e istituzioni imperniate sul principio di libertà hanno valore vincolante anche per quelle culture che dichiarano di non volerli accogliere. AllÂapparenza, il multiculturalismo sembra essere una dottrina che favorisce la tolleranza e la pacifica coesistenza sociale. La stessa immagine della Âsocietà arcobaleno suggerita dai multiculturalisti sembra far riferimento ad un mondo dove la tolleranza regna sovrana. Ma, come sopra ho cercato di mostrare, la realtà è ben diversa. La via del compromesso ragionato e ragionevole suggerita dal modello dellÂintegrazione interculturale mi pare lÂunica via pervia ed efficace. Soprattutto perché essa è capace di superare il trade-off tra integrazione sociale ed integrazione economica dellÂimmigrato. Infatti, il primo tipo di integrazione, proprio perché si appoggia sul capitale sociale, tende a privilegiare lÂuniformità tra la matrice culturale dellÂimmigrato e quella dellÂautoctono. LÂintegrazione economica, invece, facendo riferimento principalmente al capitale umano, tende a privilegiare la differenziazione tra le abilità degli immigrati e quelle degli autoctoni, perché come si sa, la produttività del lavoro aumenta sempre, coeteris paribus, in presenza di una composizione differenziata di abilità lavorative. Avviene così che lÂeconomia esige la differenza; la politica privilegia invece la somiglianza. È questo ciò che spiega lÂaltalena delle politiche migratorie finora implementate dai principali paesi occidentali. 7. Per concludere LÂimmigrazione, come tutti i fenomeni di modernizzazione, reca in sé elementi di vantaggiosità sul piano economico e di grande ambivalenza sul piano socio-culturale. LÂimmigrazione è una necessità per lÂeconomia del paese ospitante; una fonte di squilibri per la società di quel paese. LÂeconomia li vuole; la società li teme. Come ha scritto Alejandro Partes: Âi lavoratori immigrati non vengono solo perché lo vogliono, ma perché li vogliono. Ecco perché non si può pensare di risolvere il problema migratorio con misure unidimensionali: o solo economiche e solo socio-politiche. CÂè tuttavia una sorta di precondizione che deve essere soddisfatta se si desiderano trovare soluzioni durature alla questione migratoria: liberarsi del mito dellÂautoctonia. È questo il mito che esprime la rivendicazione di essere Ânati dalla terra e quindi di aver abitato sempre la stessa terra. Come sappiamo, il tema dellÂautoctonia è tipico della Grecia classica, la quale rifiuta la possibilità stessa della coesistenza, al suo interno, di culture diverse. LÂhellenikon è di un solo sangue, di una sola lingua ed ha in comune lÂidentità dei costumi. Il tutto veniva usato sia per legittimare il carattere democratico della poleis, (dal momento che il principio democratico postula un certo grado di omogeneità tra i cittadini) sia per assicurare lÂegemonia nella gestione del potere (dato che lÂomogeneità riduce i costi di litigation). Ben diverso il caso di Roma, già in età repubblicana. Come indica M. Sordi (ÂNella poleis greca e nella civitas romanaÂ, Nuova Secondaria, 1, 2007), Sallustio nelle Catilinarie (VI,2), parlando dellÂincontro tra Aborigeni e Troiani osserva che, quando costoro convennero dentro le stesse mura, pur essendo diversi per stirpe, per lingua e per costumi, si fusero facilmente in un modo che pare credibile e aggiunge: ÂCosì in breve tempo, una moltitudine diversa ed errante, grazie alla concordia, divenne una civitasÂ. DallÂincontro con gli Etruschi, Roma nacque come urbs e come civitas e dimostrò nel concreto come lÂintegrazione di realtà diverse per sangue, per lingua, per cultura fosse qualcosa di positivo. Grazie a questo incontro originario col diverso, Roma fu Âcattolica prima ancora di essere cristiana e acquisì quelle capacità di integrazione e di dialogo interculturale che la resero celebre e capace di progresso autentico, come Polibio, Livio, Virgilio e tanti altri non mancarono di rimarcare. CÂè allora da meravigliarsi se Pietro e Paolo poterono trovare in Roma il luogo adatto e propizio dal quale annunciare il messaggio tipicamente cristiano dellÂunità nella diversità? |