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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 111, December 2009

 

 

 

IL FENOMENO MIGRATORIO

NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZZIONE

 

 

Prof. Stefano Zamagni

Professore Ordinario di Economia Politica

Università di Bologna - Italia

Introduzione

Che il fenomeno migratorio sia un tema ad alto potenziale di conflittualità che tende a dividere, in modo spesso radicale, l’opinione pubblica, e di conseguenza le forze politiche, è cosa nota ormai da tempo. In particolare, è noto che quella degli immigrati rappresenta oggi, nelle società occidentali, l’unica categoria di soggetti desiderati e indesiderati, ad un tempo. L’Eurobarometro, ad esempio, da almeno quattro/cinque anni, segnala con precisione questo contraddittorio atteggiamento degli europei nei confronti dell’immigrazione. Per un verso, vi sono segmenti di popolazione che chiedono di ampliare i flussi in arrivo di lavoratori migranti, consapevoli come sono dei benefici che ne deriverebbero alla flessibilità del mercato europeo del lavoro e alla gestione delle finanze pubbliche. Invero, l’invecchiamento delle popolazioni dei paesi avanzati ha ormai reso la struttura vigente delle entrate e uscite dei sistemi di sicurezza sociale non più sostenibile. Per l’altro verso, vi sono altri segmenti della popolazione che nutrono timori vari; tre in modo specifico, e cioè che gli immigrati: a) causano disoccupazione a carico dei lavoratori dei paesi ospitanti; b) abusano dei trasferimenti assicurati dai nostri sistemi di welfare. (In effetti, l’evidenza disponibile conferma che gli immigrati ricevono servizi di welfare in misura proporzionalmente maggiore rispetto alle popolazioni native. Come già J.S. Mill, aveva scritto attorno alla metà dell’Ottocento: Â“È vano pensare che tutte le bocche che l’aumento della popolazione fa venire in esistenza trascinino con sé braccia. Le nuove bocche chiedono altrettanto cibo delle vecchie, ma le loro mani non producono gli stessi ammontari delle vecchie”); c) hanno già superato il punto di saturazione, così da mettere a repentaglio la coesione sociale dei paesi ospitanti per l’impossibilità di attuare equilibrate politiche di integrazione culturale. Gli esiti elettorali in non pochi paesi europei e i dibattiti pubblici sul tema, oggi vivaci più che mai, sembrano indicare che la seconda tipologia di cittadini sia oggi quella in maggioranza numerica.

Come è ormai ampiamente dimostrato, si è consolidato nei paesi del Nord del mondo un vero e proprio circolo vizioso: la gente manifesta un atteggiamento ostile nei confronti degli immigrati; ciò induce i governanti, sempre alla ricerca del consenso politico, a restringere gli ingressi o a renderli inutilmente difficoltosi; a loro volta, politiche di questo genere vanno ad accrescere l’immigrazione illegale - si stima che vi sia uno stock di 11 milioni di migranti irregolari nel mondo, gran parte dei quali si affida a trafficanti il cui giro d’affari ha già superato quello delle droghe. L’immigrazione illegale finisce con il costituire un potente incentivo a comportamenti criminosi da parte di quegli immigrati che, non potendo pagare gli alti prezzi che le organizzazioni criminali pretendono per consentire loro l’arrivo nei paesi di immigrazione, si vedono costretti a trovare fonti alternative di reddito rispetto a quelle di lavoro. Infine, il senso di insicurezza che l’illegalità va diffondendo finisce per confermare quelle percezioni di ostilità, le quali tendono così ad autoalimentarsi.

Pochi dati statistici bastano per farci comprendere la portata del fenomeno migratorio. Nel 2005, le Nazioni Unite stimavano che ci fossero 200 milioni di migranti internazionali nel mondo, ivi inclusi i 9 milioni circa di rifugiati. Oggi, nel mondo, una persona su 35 è un migrante internazionale (è tale, secondo la definizione ONU, una persona che risiede al di fuori del proprio paese per un periodo minimo di un anno). Più ancora dello stock di migranti, quel che più rileva è il flusso migratorio che nel quinquennio 2000-05 è arrivato a 13 milioni di persone (2,6 milioni all’anno in media). Inoltre, mentre prima del 1990, la gran parte dei migranti viveva nei paesi in via di sviluppo, oggi è vero il contrario. A partire da quella data, la presenza degli immigrati nei paesi sviluppati è passata da 48 a 110 milioni e quella nei paesi in via di sviluppo da 52 a 65 milioni. Per quanto concerne la direzione dei flussi, v’è da annotare che quello dal Sud del mondo al Nord ha generato 62 milioni di persone presenti al Nord; quello dal Nord al Nord, 53 milioni; quello dal Sud al Sud, 61 milioni; e quello dal Nord al Sud, 14 milioni. Dunque, quella dal Nord al Sud è l’unica corrente migratoria che ha conosciuto una riduzione in termini relativi (cfr. K. Koser, Le migrazioni internazionali, Bologna, Il Mulino, 2009).

Se è relativamente agevole stimare la consistenza di immigrati nei paesi di arrivo (60 milioni in Europa; 44 milioni in Asia; 41 milioni in Nord America; 16 milioni in Africa; 6 milioni in America Latina e in Australia), assai più difficile è conoscere da quali paesi gli immigrati provengono. Ciò è dovuto al fatto che le statistiche dei paesi di origine non tengono conto dei loro cittadini residenti all’estero. Si stima, comunque, che 35 milioni siano i cinesi all’estero; 20 milioni gli indiani; 9 milioni i pakistani; 8 milioni i filippini. Da ultimo, non è possibile ignorare i grandi spostamenti a livello intraregionale. Ad esempio, vi sono 5 milioni circa di lavoratori asiatici nei paesi del Golfo persico, in Sud Africa vivono 8 milioni di immigrati irregolari, quasi tutti provenienti dall’Africa nera e cosi’ via.

In quel che segue, dopo aver illustrato le peculiarità della questione migratoria nell’era della globalizzazione, mi soffermerò a considerare le principali tendenze del fenomeno nel prossimo futuro. Passerò poi ad indicare le ragioni che parlano a favore del passaggio da una strategia fondata sul controllo ad una basata sulla gestione dei flussi migratori e dei modi per farvi fronte. Come hanno scritto nel loro influente saggio S. Castels e M. Miller, The age of migration (Basingstoke, MacMillan, 2003), “nel mondo sono poche le persone che non hanno esperienza diretta delle migrazioni e dei loro effetti; è l’universalità di questo vissuto a caratterizzare l’era delle migrazioni” (p. 5). 

 La questione migratoria nell’epoca della globalizzazione

È un fatto, ampiamente riconosciuto, che nell’epoca della globalizzazione il fenomeno migratorio è destinato ad acquisire sempre più i caratteri della normalità; a perdere cioè i caratteri dell’evento eccezionale o transitorio. Se in alcuni segmenti delle popolazioni dei paesi di arrivo è ancora diffuso il convincimento secondo cui quella delle immigrazioni è questione che andrebbe risolta restando all’interno della politica della mera accoglienza, ciò è basicamente dovuto alla circostanza che il processo di globalizzazione ha iniziato ad essere percepito, a livello popolare, solamente nel corso degli ultimi anni. È in ciò l’origine del paradosso sconcertante dell’attuale fase storica: la globalizzazione economica, mentre accelera e magnifica la libertà di trasferimento di beni e di capitali, pare ostacolare, in modo esplicito e più spesso implicito, i movimenti delle persone mettendo a repentaglio la fruizione di quel diritto fondamentale dell’uomo – da tutti riconosciuto – che è la libertà di movimento. In altri termini, in un’epoca come l’attuale in cui la cultura del mercato si va generalizzando e va entrando in tutti i domìni della vita associata, dovrebbe sembrare normale vedere nel fenomeno migratorio una risorsa per forme più avanzate di progresso umano. Ed invece quando quella stessa cultura di mercato viene applicata ai movimenti delle persone, i termini che più ricorrono sono quelli dell’espulsione, del razionamento degli ingressi, dei permessi speciali. In verità non è difficile scoprire la radice di tale asincronia di atteggiamenti. Impedimenti e ostacoli ai movimenti delle persone non si applicano a tutti i migranti indistintamente, ma solo a coloro che, provenendo da certe aree geografiche, sono portatori di specifici bisogni. È questa una manifestazione tipica della cosiddetta “sindrome di Johannesburgh”, secondo la quale i “ricchi” devono iniziare a difendersi dai “poveri”, riducendo o ostacolando i loro spostamenti. Una nuova retorica si va così diffondendo a livello culturale: i migranti come responsabili delle crisi sociali e delle nuove paure collettive e soprattutto come minaccia seria alla salvaguardia delle identità nazionali.

Si deve dunque essere consapevoli del ritardo culturale che impedisce ancora a tanti di afferrare appieno come, in parallelo al processo emergente di una scala planetaria per quanto attiene l’economia, la finanza, e l’informazione, la globalizzazione mette in moto un altro processo, simmetrico rispetto al primo: la localizzazione. Invero, è la stretta interconnessione di questi due processi, il loro mutuo intersecarsi, a determinare quella duplicità di giudizi sulla globalizzazione che è dato registrare: ciò che appare come nuova conquista per alcuni, rappresenta un nuovo vincolo (l’incatenazione alla dimensione locale) per altri; se la globalizzazione segnala nuovi spazi di libertà di azione per alcuni, dice sottomissione ad un destino non ricercato per altri; e cosi via. Come Bauman (2000) bene chiarisce in un saggio specificamente dedicato allo studio delle conseguenze della globalizzazione sulle persone, la mobilità è oggi il nuovo e principale fattore di stratificazione sociale nell’era della globalizzazione: alcuni gruppi sociali riescono a diventare globali; altri sono inchiodati alla propria località, ma sono i “globali” a fissare le regole del gioco della vita, quelle regole, quasi sempre non scritte, che i “locali” sono tenuti a subire. Restare “locali” in un mondo globale è dunque segno di inferiorità e, al contempo, causa di una nuova sofferenza: quella di chi essendo costretto a vivere in un luogo, si avvede che oggi i luoghi del locale stanno perdendo la loro capacità di generare senso, di attribuire significati all’esistenza. Di qui, secondo il sociologo polacco, le tendenze al neotribalismo e al fondamentalismo di cui si ha triste conferma dalle cronache.

È un fatto che la globalizzazione va creando una nuova causa di segregazione e di esclusione e perciò di nuove povertà – una causa che si manifesta nella libertà di movimento, che risulta concessa ad alcuni e negata ad altri. Il potente del passato era chi poteva costruirsi il castello per difendere il suo confine; il ricco di oggi è chi vive senza confini; chi non ha più un territorio da difendere. Non solo, ma ciò che più rileva è che i centri dove vengono “prodotti” le norme sociali di comportamento, i valori, gli stili di vita, sono oggi extraterritoriali e avulsi da vincoli locali, mentre non lo è certo la condizione di vita di coloro che sono legati ad un luogo specifico. Costoro si trovano quindi a dover attribuire un senso a modi di vita che non sono indigeni, ma importati da altri luoghi. È in ciò l’origine dello sradicamento, della perdita di radici da parte di sempre più numerosi gruppi sociali, con le conseguenze che è agevole immaginare sul processo di generazione dei flussi migratori. Per dirla in altro modo, la globalizzazione, va generando una crescente separazione tra i luoghi in cui viene prodotta una cultura e i luoghi in cui essa può essere fruita. Come a dire che sono ormai saltati i confini che determinavano le culture; il ben noto fenomeno della deterritorializzazione non riguarda solamente le imprese le quali possono decidere con relativa disinvoltura dove localizzare le proprie attività produttive, ma anche la cultura.

Alla luce di questo, si riesce a comprendere quanto fuorviante sia la tesi della continuità tra le odierne migrazioni e le prime emigrazioni di massa del XIX e del primo XX secolo. Quando si dice che l’emigrante di oggi quasi mai è il più povero o il meno acculturato rispetto alla propria comunità di origine; o quando si dice che sarebbe mera illusione pensare di allentare la pressione migratoria accelerando il processo di sviluppo nei paesi generatori dei flussi migratori, si sostengono posizioni corrette e rilevanti. Inoltre, ciò che più rileva ai fini del presente discorso, è che nel corso di oltre un secolo è andato radicalmente mutando il modello comportamentale dell’immigrato. Come ricorda Lepenis (2000), il migrante di ieri mirava a raggiungere il più in fretta possibile assimilazione e nuova acculturazione: dopo il clean break col paese di provenienza, l’apertura agli usi e costumi della nuova patria costituiva il presupposto per il successo economico e per il riconoscimento sociale. Oggi, l’immigrazione non rappresenta affatto, o comunque non necessariamente, l’aspirazione a un point of no return. Le possibilità degli spostamenti di massa e le nuove tecnologie infotelematiche hanno creato una società di migrazione i cui abitanti rimangono, con notevole flessibilità, cittadini di due mondi – per così dire. Sul piano dell’agire pratico si acquisiscono i modi del paese ospitante, ma sul piano dei valori e dei sentimenti morali si vuole restare fedeli alla propria cultura di provenienza. Anzi, si è fieri di esibire, nella sfera pubblica, le proprie diversità culturali. Tanto negli USA quanto in Europa, si nota ormai come in tanti immigrati, l’ostentazione di una “expressive ethnicity” prenda il posto del desiderio di un adattamento perfetto.

Ma vi sono due altre novità che il fenomeno della globalizzazione va generando per quanto attiene sia la natura dei flussi migratori sia la genesi degli stessi. È noto come più di uno studioso abbia sottolineato come parecchi siano i legami che accomunano le odierne migrazioni e le prime emigrazioni di massa dell’inizio del 19% secolo. Si ricorda, infatti, che nell’800 fino allo scoppio della prima guerra mondiale, circa 52 milioni di europei emigrarono dai loro paesi d’origine e di questi ben 34 milioni scelsero gli USA. Il celebre Passenger Act, votato dal Parlamento di Westminster nel 1803, incoraggiava l’emigrazione verso le ex colonie inglesi. Fino al 1860, il 66% degli emigrati europei verso le Americhe e l’Oceania proveniva dalla sola Gran Bretagna e il 32% dalla Germania. Quest’ultima divenne poi importatrice netta di forza lavoro verso il 1880. Se informazioni del genere vanno tenute in debita considerazione per non ingigantire oltre misura le differenze tra la situazione di allora e quella attuale, si devono al tempo stesso riconoscere i forti elementi di discontinuità. Uno di questi è che l’ingresso delle nuove tecnologie nei processi produttivi, mentre ha reso più vicini paesi tra loro spazialmente lontani, non ha affatto eliminato, anzi ha ampliato, le distanze in termini culturali. E non v’è chi non veda come il nesso tra universi culturali e impiego di nuove tecnologie divenga di centrale importanza nei processi di integrazione sociale. Fino a che si chiede all’immigrato di svolgere compiti di mera routine o di adempiere operazioni puramente meccaniche, la distanza culturale tra i mondi di provenienza e di arrivo non si fa sentire. Non così, invece, quando per inserirsi vantaggiosamente nell’attività lavorativa, l’immigrato deve acquisire, facendoli propri, schemi logico-organizzativi che postulano il riferimento ad una ben definita matrice culturale. In buona sostanza l’inserimento dell’immigrato in società tecnologicamente avanzate pone problemi di gran lunga più delicati rispetto a quelli del passato, anche recente.

Un secondo elemento di profonda differenziazione tra le migrazioni odierne e quelle di ieri è che non pare suffragata dai fatti la tesi, di moda fino dagli anni ’80, secondo cui lo strumento più efficace per allentare la pressione migratoria sarebbe quello di accrescere le potenzialità occupazionali nei paesi in via di sviluppo. Cioè, l’unico modo credibile di arrestare l’aumento dei flussi migratori sarebbe quello di intervenire sulle cause generatrici del fenomeno, di intervenire cioè sul processo di crescita economica dei paesi generatori dei flussi. Quanto robusto è tale convincimento? Vediamo di chiarire. Lo sviluppo economico, aumentando il reddito pro-capite, riduce – si afferma spesso – l’incentivo ad emigrare. Questa credenza è fallace per due ragioni. Per un verso, perché, come insegna la celebre “curva di Kuznets”, nei primi stadi del processo di sviluppo l’aumento del reddito si accompagna sempre ad un aumento delle ineguaglianze tra gruppi sociali; quanto a dire che l’aumento del reddito non avviene mai in modo equiproporzionale tra tutti i segmenti della società. E – come è noto – l’aumento delle ineguaglianze è un potente fattore di spinta ad emigrare. Per l’altro verso, l’evidenza empirica conferma che nelle fasi iniziali del processo di sviluppo si registra sempre un aumento della propensione ad emigrare in conseguenza sia del mutamento strutturale (lo sviluppo espelle lavoratori dall’agricoltura per incanalarli verso il settore industriale, ma ciò richiede tempo, così che una parte degli espulsi prende la via dell’estero) sia del mutamento delle aspettative di vita (una volta rotto il vecchio equilibrio di stagnazione, non tutti se la sentono di aspettare il take-off definitivo e quindi prendono la via dell’estero).

In altri termini, se si analizzano attentamente i cicli di vita dell’emigrazione dei vari paesi, si scopre che il tasso di emigrazione (definito dal rapporto tra migranti e popolazione residente nel paese di origine) dapprima sale all’aumentare del reddito pro-capite e poi inizia a discendere una volta che il reddito pro-capite abbia raggiunto una certa soglia critica. (In termini grafici, ponendo sull’asse orizzontale il reddito pro-capite e sull’asse verticale il tasso di emigrazione, si ottiene la tipica curva a forma di campana). Ecco perché non si può coltivare l’illusione che, nel breve e medio periodo, lo sviluppo dei paesi generatori dei flussi migratori possa far diminuire il tasso di emigrazione. Al tempo stesso, però, è vero che nel lungo periodo e in seguito al processo di sviluppo il tasso di emigrazione si riduce drasticamente. Come documentano J. Williamson e T. Hatton (“Vanishing Third Would Emigrants?”, CEPR, 7222, March 2009) negli ultimi trent’anni i tassi di immigrazione (definiti dal rapporto tra numero di immigrati e popolazione del paese ospitante) sono cresciuti molto più rapidamente dei tassi di emigrazione e questi ultimi raggiungono il loro punto di massimo circa un decennio prima del punto di massimo dei tassi di immigrazione. Inoltre, mentre i tassi di emigrazione dall’Asia hanno raggiunto il picco negli anni 1980-84, quelli dall’America Latina hanno raggiunto il picco negli anni 1990-93. I paesi dell’Africa Sub-Sahariana, invece, non hanno ancora raggiunto il loro picco e dunque mentre la pressione migratoria dell’Asia e dell’America Latina ha già iniziato a declinare, non altrettanto può dirsi per quella africana.

Una linea argomentativa più sottile di quella sopra riportata è quella che afferma che un’economia di libero scambio, favorendo i movimenti dei capitali e delle merci, diminuisce la propensione ad emigrare attraverso il livellamento dei differenziali salariali tra paesi generatori dei flussi e paesi di arrivo degli stessi. Di qui la raccomandazione secondo cui per frenare l’immigrazione nei paesi del Nord basterebbe intensificare l’apertura dei mercati, e di quelli agricoli in particolare. Ciò consegue al celebre teorema di Stolper e Samuelson noto come “teorema dell’eguagliamento dei prezzi dei fattori” (Factor price equalization theorem). Ora, come si sa, ogni teorema è valido sotto le condizioni che ne assicurano la dimostrabilità. Ebbene, nella realtà di oggi le condizioni che consentirono di dimostrare quel teorema – che risale a cinquant’anni fa – non sono soddisfatte. Innanzitutto, perchè gran parte delle attività lavorative nei paesi generatori dei flussi migratori è collocata nei settori “non-tradable” dell’economia, e dunque l’apertura dei mercati non sarebbe in grado di produrre gli effetti positivi previsti dal teorema. La parte restante delle attività lavorative è invece afflitta, da differenze notevoli di produttività. Ci vuole cioè tempo perché i paesi in via di sviluppo possano collocare, a condizioni vantaggiose, i loro prodotti sui mercati internazionali, così da rendere applicabile la conclusione del teorema. Ma prima che ciò avvenga i potenziali migranti cercano all’estero la soluzione dei loro problemi di vita, anche perché investimenti esteri, commerci e aiuti non sono mai additivi, come l’esperienza tristemente insegna. Se aumentano i primi due, viene ridotto il terzo elemento della triade e viceversa. (Si pensi a quel che è accaduto alla promessa dei paesi occidentali di destinare lo 0,7% del loro PIL agli aiuti internazionali!). Infine, il commercio estero potrebbe essere un sostituto, quasi perfetto, delle emigrazioni – come il teorema di Stolper-Samuelson prevede – solamente se i paesi generatori dei flussi migratori fossero integrati in una zona di libero scambio. Il che non è e non è certo pensabile che ciò avvenga, almeno nel prossimo futuro.

Si deve allora concludere che sarebbe irresponsabile far credere alla gente che il problema migratorio potrebbe essere risolto puntando a politiche restrittive e/o discriminatorie di un tipo o dell’altro. (La decennale esperienza degli USA nei confronti del Messico ce ne offre eloquente conferma). Piuttosto, quel che è urgente fare è prendere atto, una volta per tutte, che la spinta più forte alla magnificazione dei flussi migratori proviene, oggi, dalla globalizzazione. La quale, mentre ha creato e va creando un mercato globale dei capitali e delle merci, non è ancora riuscita a porre le basi per un mercato globale del lavoro. Non è possibile volere, della globalizzazione, l’una cosa e non anche l’altra. L’unico risultato certo che discende da questo atteggiamento pragmaticamente contraddittorio è sotto gli occhi di tutti: un aumento preoccupante e disumano dell’immigrazione illegale, sostenuta da quella nuova industria del crimine organizzato che è il traffico degli esseri umani. Non si dimentichi, infatti, che vi è sostituibilità fra immigrazione legale e illegale: la totalità delle ricerche empiriche è concorde su questo legame: più si restringono le condizioni di accesso ai permessi di entrata regolare, più aumenta l’offerta di migrazioni illegali.

Se allora si smettesse di parlare di migrazioni ponendosi esclusivamente dalla prospettiva della domanda di lavoro da parte dei paesi ospitanti, ignorando così del tutto il lato dell’offerta di lavoro – come se l’offerta di lavoro fosse perfettamente elastica – si riuscirebbe a trovare il consenso necessario per fondare una politica sostenibile dell’immigrazione (e non semplicemente una politica per l’immigrazione) a partire da linee di intervento ragionevoli e sicuramente implementabili. Considero tali quelle linee di intervento basate, da un lato, sul principio secondo cui le migrazioni devono fare gli interessi sia dei paesi di origine sia dei paesi di arrivo e, dall’altro, sulla considerazione che il processo di globalizzazione influisce sul mercato del lavoro in modo qualitativamente diverso rispetto a quanto avviene sul mercato dei beni e dei capitali. La differenza, non certo di poco conto, sta in ciò che, nel caso delle migrazioni, oggetto di scambio sono i servizi di lavoro, i quali attraversano i confini nazionali incorporati nelle persone. Una circostanza questa che già Adam Smith aveva lucidamente compreso quando, ne La Ricchezza delle Nazioni (1776), aveva scritto: “Di tutti i tipi di bagaglio, l’uomo è il più difficile da trasportare”. Pretendere di regolare i flussi dei servizi di lavoro senza “vedere” l’uomo che veicola quei servizi sarebbe vera miopia economicistica e grave irresponsabilità politica. 

3. Sulle tendenze in atto delle migrazioni: una panoramica.

Come emerge dalle ricerche svolte dall’OECD (2001), nel corso degli ultimi decenni le tendenze dei flussi migratori sono variate tra i diversi paesi aderenti all’OECD. Se gli anni ’80 hanno visto un aumento dei flussi in arrivo nella gran parte dei paesi in questione, il trend si è invertito nel corso degli anni ’90. In Europa, si è registrato un sostanzioso declino nel numero degli arrivi dopo il picco degli anni 1992-93, a sua volta collegato agli eventi che fecero seguito alla caduta del muro di Berlino.  L’andamento decrescente è continuato fino al 1997-98, dopo di che l’immigrazione ha cominciato a crescere di nuovo. Negli USA, l’immigrazione netta è aumentata a tasso costante tra gli anni ’70 e la metà degli anni ’90. In anni recenti, tuttavia, i flussi sembra si siano stabilizzati. La stessa cosa si può dire degli altri due paesi tradizionalmente ricettori, il Canada e l’Australia.

Anche le categorie di immigrati sono mutate. L’immigrazione per ragioni familiari continua a dominare in paesi quali il Canada, la Francia e gli USA. Ma a partire dal 1997, il numero di rifugiati e di richiedenti asilo è cresciuto in modo sostanziale, specialmente in alcuni paesi europei. Nel 2000, Gran Bretagna, Germania e USA sono stati i paesi che hanno ricevuto il maggior numero di richieste di asilo. Il profilo dei rifugiati e dei richiedenti asilo è, in generale, diverso da quello degli altri immigrati, soprattutto dei cosiddetti migranti economici, ciò che influisce non poco sulle loro prospettive di integrazione nei paesi di arrivo.

In aggiunta alle accresciute dimensioni e al mutamento profondo dei bacini di destinazione e di provenienza dei migranti, di tre altre tendenze dei flussi migratori nell’era della globalizzazione conviene dire. La prima di queste riguarda la rapida crescita della percentuale di donne sul totale dei migranti. Secondo le Nazioni Unite, nel 2005 quasi il 50% dei migranti era costituito da donne. Mentre per lungo tempo le donne si spostavano per ricongiungersi ai mariti già emigrati, oggi sempre più donne sono protagoniste di migrazioni indipendenti, rappresentando spesso la principale fonte di sostegno delle famiglie che restano nel paese di origine. Nei paesi ricettori, la domanda di manodopera straniera è sempre più selettiva rispetto al genere per quanto concerne i servizi alla persona e i servizi di cura in generale. Come si può immaginare, ciò pone problemi seri e delicati nei paesi di origine: il care drain(donne che lasciano i loro figli in patria per recarsi all’estero a lavorare) si aggiunge così al già noto brain drain (i paesi di arrivo sempre più esigono immigrati altamente qualificati).

La seconda tendenza ha a che vedere con il fatto che la tradizionale distinzione tra paesi di origine, di transito e di destinazione va perdendo sempre più di significato. Accade oggi che un medesimo Stato sia contemporaneamente paese di origine, di transito e di destinazione dei migranti. Il bacino del Mediterraneo è l’esempio certamente più eclatante: il nord Africa si sta trasformando da regione di origine a regione di transito e, nel prossimo futuro, diverrà regione di destinazione. Infine, come indica K. Kose (2009), le migrazioni temporanee vanno assumendo sempre più peso rispetto al passato, quando esse erano in prevalenza permanenti. Non solamente il migrante conserva il sogno di far ritorno in patria, ma un numero crescente di persone emigra parecchie volte nel corso della vita, spesso in paesi diversi, facendo periodicamente ritorno a casa. Tanto che oggi sempre più si parla di migrazioni circolari. Ciò è anche dovuto alla circostanza che l’afflusso di lavoratori stranieri rallenta con la crisi economica nei paesi ricettori. Williamson e Hatton (2002) sostengono che storicamente tra flussi netti di immigrazione e disoccupazione nei paesi di arrivo vi è una relazione fondata sulla regola del 10%: per ogni cento posti di lavoro persi ci sono dieci lavoratori stranieri in meno. Ciò è accaduto nel 1929 e sta accadendo oggi con la crisi in atto.

Il caso dell’Africa merita una considerazione a parte. Quella africana è una regione che ha generato troppo pochi migranti verso i paesi caratterizzati da scarsità di forza lavoro rispetto ai vantaggi che questa regione avrebbe potuto trarre dall’emigrazione. Se si confrontano i redditi medi africani con quelli europei e nordamericani non si può non rimanere stupiti dal basso livello della pressione migratoria. Come spiegare questo paradosso? Tre ragioni possono essere invocate. La prima è che le politiche migratorie in ambito OECD tendono a favorire migranti portatori di conoscenze specifiche o comunque dotati di livelli medio-alti di educazione, ciò che induce i potenziali migranti africani ad autoselezionarsi. Secondo, il vincolo della povertà è più robusto del vantaggio associato all’emigrazione per la gran parte degli Africani poveri. Non si dimentichi, infatti, che per emigrare occorre sostenere costi, non solo psicologici e culturali, ma anche finanziari; e dunque, l’incentivo ad emigrare resta frustrato se il potenziale migrante non riesce a trovare risorse per affrontare il costo iniziale. Findlay e Sow (1998), studiando il caso delle famiglie rurali del Senegal e del Mali, hanno trovato che più povera la famiglia, più alta la probabilità che coloro che sono disposti ad emigrare restino in Africa. Terzo, potrebbe essere che le popolazioni africane siano meno mobili delle altre. Vediamo di chiarire questa terza ragione, certamente quella meno evidente e nota.

Come è noto, quella africana è stata, fino agli anni 1880, una migrazione forzata, non volontaria. La piaga della schiavitù ne è l’evidenza più convincente. Venendo a tempi recenti, l’Africa è divenuta famosa per i suoi rifugiati. Con una popolazione di poco superiore ad un decimo di quella mondiale, l’Africa ospita più di un terzo dello stock mondiale di rifugiati. D’altro canto, il numero degli sfollati (displaced) è stimato in circa il 2,5% dell’intera popolazione africana. Il fatto è che i rifugiati africani, spesso avviati nelle aree rurali degli stati confinanti, sopportano privazioni superiori a quelle subite nel proprio paese. Quale il senso di tali constatazioni ai fini del nostro discorso? Quello di indicare che, nel caso dell’Africa, i movimenti dei rifugiati spiazzano i potenziali emigranti per ragioni economiche. Il che darebbe conto del fatto che gli ampi movimenti di popolazione africana avvengono all’interno del Continente nella forma di spostamenti di rifugiati e di sfollati. Quanto a dire che sull’Africa si abbatte il peggiore di tutti i mali: il costo umano delle migrazioni senza il vantaggio che, in qualche misura, l’emigrazione sempre porta con sè (Hutton e Williamson, 2002).

Nonostante l’attenzione, perfino eccessiva, che la pressione migratoria sui paesi dell’area OECD ha finora ricevuto, molti altri sono i flussi migratori che investono la scena mondiale. In aggiunta ai movimenti che hanno interessato – per le ben note ragioni – i paesi dell’ex blocco sovietico e dell’ex Yugoslavia, occorre ricordare che, fino alla metà degli anni 1980, i più significativi paesi-calamita dei migranti asiatici sono stati il Kuwait, l’Arabia Saudita e gli altri stati produttori di petrolio. La prima guerra del golfo ha interrotto questa tendenza, dirottando i flussi migratori verso le cosiddette tigri asiatiche, soprattutto Malesia e Corea del Sud. Occorre ricordare che tale dirottamento dei flussi ha subito un arresto, almeno temporaneo, a seguito della crisi finanziaria del Sud-Est asiatico degli anni 1997-99.

Di un ulteriore elemento strutturale conviene brevemente dire. Come parecchi studi sugli effetti di rete (network effects) hanno evidenziato, la migrazione futura è facilitata dalla migrazione passata. “Una volta che il numero delle connessioni di rete in una certa area ha raggiunto un livello critico, la migrazione tende ad autoperpetuarsi, perchè la migrazione stessa crea la struttura sociale che la sostiene. Ogni nuovo migrante riduce il costo della migrazione successiva per amici e parenti; con l’abbassamento dei costi, alcuni di questi sono indotti a emigrare, il che espande ulteriormente l’insieme delle persone che hanno legami all’estero” (Massey et Al. 1993, p. 438). Ma non è solamente il migrante potenziale a trarre beneficio dalle esternalità di rete connesse ai flussi migratori; è anche vero che l’utilità (o più genericamente il benessere) dell’immigrato già insediato risulta influenzata. In primo luogo, perchè i costi di adattamento del nuovo arrivato nel luogo di destinazione comprendono una forte componente psicologica che è tanto più elevata quanto maggiore è l’ostilità del paese ospitante. L’arrivo di persone della stessa famiglia o appartenenti alla medesima matrice culturale vale a ridurre il senso di alienazione e di abbandono in cui si trova l’immigrato già insediato. Questo è un effetto positivo che Heitmueller (2003) chiama “effetto di comunità”.

Vi è però anche un effetto negativo su coloro che sono già insediati dei nuovi arrivati. La ragione principale di ciò è che questi ultimi, aumentando l’offerta di lavoro nel paese ospitante, finiscono, per via dell’usuale meccanismo competitivo, con il ridurre i livelli salariali oppure le opportunità occupazionali degli immigrati già arrivati. Ora, se è vero che nelle fasi iniziali del processo migratorio, il primo effetto domina il secondo, non si può escludere che, a lungo andare, gli immigrati delle prime ondate migratorie sviluppano sentimenti di avversione nei confronti degli immigrati potenziali o di quelli appena arrivati. L’evidenza empirica sembra suggerire che una delle ragioni – non certo l’unica – per le quali gli immigrati commettono reati più spesso degli autoctoni, determinando così un aumento del tassi di criminalità nei paesi ospitanti, sia proprio dovuta alla circostanza che, in parecchie situazioni, è stata superata la dimensione ottimale della rete. Ebbene, una responsabile politica migratoria che voglia contribuire a sconfiggere le ancora pervasive paure e i pregiudizi nei confronti degli immigrati non può trascurare di prendere in seria considerazione, nella programmazione degli insediamenti e dei luoghi di destinazione dei nuovi arrivati, il gioco congiunto dei due effetti di cui sopra si è detto. Invero, occorre riconoscere che non pochi dei comportamenti devianti degli immigrati siano l’effetto di errate politiche migratorie.  

4. Verso una “global governance” delle migrazioni internazionali.

 Una conclusione di rilievo discende da quanto precede: il fenomeno migratorio di oggi è connotato da una separazione profonda tra integrazione sociale e integrazione economica dell’immigrato. Questi, infatti, può anche riuscire ad integrarsi in qualche modo nel mercato del lavoro del paese ospitante, ma ciò non gli assicura affatto anche l’integrazione sociale, intesa come capacità effettiva di accesso ai servizi di welfare e ai diritti di cittadinanza. Non è stato così nel passato, quando l’inesistenza del welfare state faceva sì che i due livelli di integrazione, sociale ed economica, coincidessero nella realtà. Per non parlare poi della integrazione culturale dell’immigrato nel paese di arrivo. È in tale disallineamento tra le due forme di integrazione che possiamo porre l’origine di buona parte dei problemi che attanagliano le nostre coscienze e che intrigano le agende dei nostri policy makers in fatto di politiche migratorie. Vediamo allora di chiarire.

In un saggio ormai celebre, J. Simon (1984) è stato tra i primi studiosi del fenomeno migratorio a formulare un criterio economico in forza del quale decidere quali caratteristiche una politica migratoria ottimale dovrebbe esibire. Il Principio di Simon – come oggi viene chiamato – recita, all’incirca, così: un paese accolga immigrati fino al punto in cui l’immigrato marginale è in grado di dare un contributo netto non negativo alle finanze di quel paese. Come si comprende, si tratta di un principio pienamente in linea con la matrice di pensiero liberale, secondo cui anche al contesto migratorio dovrebbero essere applicate le regole del libero mercato. Milton Friedman – il fondatore della scuola economica di Chicago – ha osservato che le popolazioni dei paesi ospitanti non avrebbero nulla da temere dall’arrivo degli immigrati, non importa in qual numero , se non esistesse il welfare state. Quale il sostrato teorico del principio di Simon? Questo poggia sull’osservazione – di per sé banale – che i profili temporali del ciclo di vita degli autoctoni e degli immigrati per quanto concerne i consumi dei servizi sociali e le tasse pagate sui redditi guadagnati sono marcatamente diversi. A causa della asincronia tra situazioni di bisogno e capacità di contribuzione, accade che devono passare anni prima che, con le tasse che paga, l’immigrato sia in grado di finanziare i suoi consumi di beni pubblici e di beni meritori elargiti dal paese che lo accoglie. Chiaramente mentre gli immigrati altamente qualificati contribuiscono, con le tasse che pagano, al finanziamento del welfare state più di quanto ricevono, per gli immigrati non qualificati è vero il contrario. Un’indagine USA (1997) ha trovato che i migranti con educazione inferiore alla scuola media comportano un peso fiscale netto per lo Stato ospitante pari a circa 100.000 dollari (in valore attuale) se l’età del migrante in arrivo è compresa tra i 20 e i 30 anni. D’altro canto, l’immigrato di pari età con educazione superiore fornisce un contributo fiscale netto di 300.000 dollari (in valore attuale) allo Stato che lo accoglie (cfr. A. Cohen e A. Razin, “The skill composition of migration and the generosity of the welfare state”, CEPR, 7185, Feb. 2009). Si comprende allora perchè la tendenza al Nord sia quella di selezionare gli immigrati ad alto potenziale.

Un altro dato empirico rafforza tale tendenza. In un pregevole lavoro, J. Hunt (“How much does immigration boost innovation?”, IZA DP 3921, Jan. 2009) documenta che l’impatto dell’immigrazione sul tasso di innovatività dei paesi ospitanti è davvero notevole. Negli USA, il 26% dei premi Nobel assegnati nel periodo 1990-2005 sono stati attribuiti agli immigrati (contro una presenza di stranieri nella popolazione USA del 12%). Il 25% delle nuove imprese high-tech nel 2006 erano state fondate da immigrati. Lo stesso dicasi del contributo degli immigrati all’ottenimento dei brevetti: un immigrato laureato dà un contributo alla creazione di innovazioni di almeno il doppio di quanto faccia l’omologo autoctono. Va da sé che il contributo positivo che l’immigrato istruito dà al paese di arrivo si trasforma in un duplice effetto negativo nel paese di origine: una diminuzione del tasso di crescita, per un verso, e una diminuzione della qualità dei servizi di welfare (si pensi solo alla costante riduzione nei paesi poveri di insegnanti e di medici locali).

Si consideri – per fare un solo esempio – l’assistenza sanitaria. Come una schiera di indagini empiriche documenta, l’immigrato giunge sano nel paese di arrivo, ma tende ad ammalarsi di lì a poco e ciò a causa del mutamento repentino sia dello stile di vita sia delle condizioni di lavoro. In situazioni del genere, garantire l’accesso ai servizi sanitari all’immigrato significa accettare un trasferimento finanziario netto dagli autoctoni ai nuovi arrivati. Va da sé che può essere vero anche il contrario. Di per sé, il Principio di Simon non esclude tale eventualità e cioè che siano gli immigrati che finanziano i cittadini dei paesi ospitanti. La questione va dunque risolta a livello empirico. Cosa dicono i fatti? L’analisi più completa e aggiornata al riguardo è quella di De Voretz (2004) che ha condotto un’accurata verifica empirica del Principio di Simon ponendo a confronto le politiche migratorie del Nord America e dell’Europa nel corso degli ultimi anni.

Relativamente agli USA, i risultati della ricerca confermano che questo paese si è avvalso del Principio di Simon per limitare il finanziamento pubblico a favore degli immigrati. Di fronte ai flussi crescenti di ingressi dal Messico – conseguenza diretta degli accordi NAFTA del 1995 – l’amministrazione USA ha reagito limitando drasticamente gli accessi ai servizi sociali degli immigrati (fino a che, nel 2004, il Presidente Bush si è visto costretto a concedere la cosiddetta “green card” temporanea, per ovvie ragioni sia di ordine pubblico sia economiche). Politica del tutto analoga è stata seguita dalla gran parte dei paesi dell’UE che pure hanno di fatto ridotto la mobilità dei cittadini dei nuovi paesi entrati agendo, in senso restrittivo, sulla valvola dei servizi sociali. Non così, invece, il Canada che si è avvalso del Principio di Simon per attuare una politica migratoria di tipo espansivo (la legge canadese sull’immigrazione del 1978 esplicitamente indica, tra i suoi principi fondativi, l’obiettivo della crescita economica del paese ospitante).

V’è tuttavia un’asimmetria marcata nel modo in cui paesi diversi interpretano e applicano il Principio di Simon: quando la congiuntura economica diventa sfavorevole, le politiche migratorie diventano prontamente restrittive, ma il viceversa non è vero. È interessante osservare che la giustificazione addotta per dare conto di tale asimmetria nasconde una sorta di contraddizione pragmatica. Si dice, infatti, che la prudenza nell’attuare politiche espansive troverebbe la sua ragion d’essere nella difficoltà di realizzare l’integrazione culturale degli immigrati. Ma il principio di Simon è e vuole essere un principio esclusivamente di natura economica, la cui applicabilità non dovrebbe risentire di condizioni di altra natura. È ben vero che società diverse hanno norme sociali diverse. Ed è ovvio che gli immigrati portano con sé, nel momento in cui arrivano nel paese di destinazione, norme e pratiche di vita che possono confliggere con quelle della popolazione locale. Ma è proprio in ciò il nucleo del problema dell’integrazione socio-culturale. Quel che non è consentito è invocare un principio economico, quale quello di Simon, per spiegare una realtà che non può essere compresa all’interno della sola logica che sorregge quel principio.

Vi è un secondo livello di critica al quale legare il giudizio sul Principio di Simon e sulla base culturale su cui si regge. Si tratta di questo. In alcuni lavori recenti, l’economista tedesco Sinn (2004 a; 2004 b) ha sviluppato una linea di argomentazione che va guadagnando consensi negli ambienti culturali e politici dei paesi dell’Occidente avanzato. Essa va dunque seguita con grande attenzione. Dopo aver correttamente osservato che i vincitori dell’attuale passaggio d’epoca – un passaggio caratterizzato dai fenomeni della globalizzazione e della terza rivoluzione industriale – sono le imprese del settore “high-tech” e i lavoratori altamente qualificati, Sinn indica come l’integrazione del mercato europeo, se per un verso accresce la ricchezza complessiva, per l’altro verso diminuisce il benessere dei segmenti poco qualificati della forza lavoro autoctona. E ciò a causa dei differenziali salariali tra Est e Ovest. Valga un solo dato. Il salario medio dei 75 milioni di persone che vivono nei paesi del Centro Europa che si sono uniti all’UE nel 2004 è circa 1/5 della media europea (e 1/7 della media tedesca), pur trattandosi di persone la cui produttività non è di molto inferiore, in media, a quella occidentale. È dunque evidente che i “perdenti” da questo tipo di gara si appellino al welfare state dei rispettivi paesi per ottenere forme varie di compensazione nei confronti dei cosiddetti “pains from trade”.

Ma eccoci al paradosso: quanto più il welfare state giunge in aiuto dei perdenti - cioè dei segmenti svantaggiati della forza lavoro autoctona – tanto più la situazione si aggrava, perché un welfare generoso, al modo di un magnete, attira a sé i flussi migratori. E tanto maggiore è il numero di coloro che entrano nel paese, tanto peggiori saranno le chance di vita degli autoctoni non qualificati e quindi tanto maggiori saranno i costi del welfare stesso. Quale allora la via d’uscita? La proposta che Sinn, a nome del gruppo di ricercatori di Monaco da lui diretto, avanza è quella del “Principio dell’Integrazione Economica Selettivamente Dilazionata” (Principle of Selectively Delayed Economic Integration): gli immigrati pagano tasse e contributi sociali sui redditi derivanti dal loro lavoro; ricevono dal paese ospitante i benefici sociali finanziati dai loro contributi; hanno libero accesso alle infrastrutture pubbliche. Tuttavia, per un periodo iniziale che può variare dai 5 ai 7 anni, gli immigrati sono esclusi dai servizi di welfare del paese ospitante e, in caso di necessità, costoro dovranno rivolgersi al paese d’origine che dovrà provvedere ai loro bisogni. Operando in tal modo – conclude Sinn – non vi sarebbe bisogno di alcuna politica dei controlli all’immigrazione, la quale se può servire temporaneamente per difendere i redditi dei lavoratori poco qualificati dalla competizione degli immigrati, finisce con l’impedire i guadagni derivanti dall’apertura degli scambi internazionali. Meglio dunque operare nel senso di differenziare i redditi di nazionali e immigrati.

Giova rimarcare la sottigliezza dell’argomento, all’apparenza suadente e persuasivo. L’idea secondo cui i diritti degli autoctoni godrebbero di una precedenza nei confronti dei diritti dei migranti si appoggia sulla tesi – che si può far risalire alla concezione del repubblicanesimo – secondo cui lo Stato nazionale ha l’obbligo di tutelare in primis, i diritti dei propri cittadini. C’è un grumo di verità in ciò. Ma non si possono chiudere gli occhi di fronte ai pericoli di regresso morale, oltre che politico e civile, che una posizione del genere, se accolta, andrebbe a innescare. Se si accoglie come pertinente e accettabile la definizione che Richard Rorty dà di progresso morale – “l’affermarsi della capacità di considerare moralmente irrilevanti una parte sempre maggiore delle differenze tra gli esseri umani” – si deve concludere che il “Principio dell’Integrazione Economica Selettivamente Dilazionata”, è moralmente regressivo.

 C’è anche una ragione di ordine pratico a rendere inaccoglibile il principio in questione. Essa concerne quella misura del grado di integrazione economica dell’immigrato nota come “tempo di catch-up”. Da almeno trent’anni, in letteratura economica si è soliti adottare la misura del reddito relativo per determinare il cosiddetto aggancio: quanto tempo deve impiegare un immigrato, dotato di certe abilità lavorative per agganciare il livello di reddito del suo gruppo di riferimento nel paese di arrivo. Chiswick (2000) ha stimato che ci vogliono, in media, 15 anni prima che ciò avvenga, proprio come il medesimo autore aveva congetturato nel saggio del 1978, in cui per la prima volta questa misura era stata introdotta. Ecco allora il problema: l’adozione del PIESE non è compatibile con un così lungo tempo di aggancio. Non è cioè possibile articolare una proposta politica che, da un lato, conserva una forte discriminazione dell’immigrato sul piano economico e, dall’altro, gli nega l’accesso ai servizi di welfare per un certo numero di anni perché questi non è ancora riuscito a finanziarne il costo.           

5. L’urgenza di una Organizzazione Mondiale delle Migrazioni

Quando si giunge ad un tale stadio di consapevolezza si comprende perché non è più possibile eludere la questione riguardante la creazione di una “Autorità politica mondiale” – per usare le parole di Benedetto XVI nella Caritas in Veritate – in grado di porsi alla guida dei flussi migratori. Giova ricordare che il 6 novembre 1947 a Città del Messico, alla Conferenza dell’UNESCO, J. Maritain già aveva posto come condizione necessaria per un mondo di pace e di giustizia, per un verso, il riconoscimento, da tutti e ovunque, dei fondamentali diritti umani e, per l’altro verso, la creazione di una comunità mondiale dotata di poteri decisionali e fondata sull’abbandono del concetto di sovranità nazionale (l’ONU, che stava allora nascendo, gli appariva come un primo passo in tale direzione).

Occorre essere chiari su tale punto: in assenza di un’Agenzia o di una Autorità transnazionale in grado di rendere esecutorie, cioè di far rispettare, le regole fissate nelle varie Convenzioni e trattati, l’istituto dell’asilo rischia di scomparire nel giro di non molti anni. Abbiamo bensì l’UNHCR, ma questa importante e altamente meritoria agenzia delle Nazioni Unite non è una vera e propria istituzione multilaterale, sostenuta e cogestita da un ampio spettro di paesi della Comunità internazionale. I fondi continuano a provenire, su base esclusivamente volontaria, da una coalizione di pochi paesi. D’altro canto, il sostegno finanziario del settore privato, da sempre in ammontare insufficiente, a partire dalla fine della guerra fredda sembra ulteriormente falcidiato dal fenomeno noto come “stanchezza dei donatori”. Come si può comprendere, tutto ciò nè consente una seria programmazione per il futuro nè fa sì che l’UNHCR possa arrivare a disporre di veri e propri poteri esecutivi. Esiste bensì l’art. 33 della Convenzione sui rifugiati del 1951 – che impone ad ogni Stato contraente di non espellere o respingere un rifugiato verso territori in cui “la sua vita e la sua libertà possono essere minacciate” – ma quando ragioni di sicurezza nazionale o di interesse economico lo esigono, tale obbligo internazionale viene sistematicamente eluso. Ed ancora: è vero che dal 2004, a Varsavia, funziona un’Agenzia dell’Unione Europea, chiamata FRONTEX, che dovrebbe occuparsi della gestione della frontiera esterna. Ma il lavoro svolto in quasi un quinquennio è stato praticamente nullo. E così via.

Ebbene, così come si ha avuto bisogno di istituzioni finalizzate ad assicurare che la più spinta integrazione dei mercati produca benefici reali per tutti – ed infatti è stata questa la ragione che ha spinto alla trasformazione del GATT nella WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) – allo stesso modo si ha oggi necessità di un’istituzione transnazionale per proteggere i diritti di migranti e rifugiati e per punire il numero crescente di violazioni degli stessi ovunque queste si materializzano. Seguendo Bhagwati (1998), sono dell’avviso che i tempi siano maturi per far decollare la proposta di una World Migration Organization (WMO) capace di superare la posizione di stallo in cui ci si trova. Quali i compiti specifici di una tale organizzazione delle Nazioni Unite che potrebbe inglobare i compiti finora svolti dall’UNHCR e dall’Organizzazione mondiale delle migrazioni?

Di tre compiti importanti voglio dire, in breve. Il primo è quello che concerne la rappresentazione attendibile, sotto il profilo statistico, del fenomeno delle migrazioni forzate. In effetti, non esistono ancor oggi statistiche credibili sulla mobilità migratoria che è lecito attendersi nel prossimo futuro. Eppure, in assenza di informazioni del genere non solo non si può impostare alcuna seria e coerente politica di interventi ma neppure si possono contestare quelle speculazioni politiche il cui unico fine è sempre quello di diffondere panico o apprensioni tra le popolazioni autoctone. Si congettura oggi che da qui al 2030, il Nord registrerà una diminuzione della popolazione in età lavorativa di 65 milioni di persone a fronte di un contemporaneo aumento nel Sud di circa un miliardo di persone. Supponendo che la creazione endogena di posti di lavoro al Sud sia del 75%, i posti di lavoro addizionali che occorre creare per soddisfare questa dinamica demografica saranno pari a 250 milioni di unità. Se anche il Nord assorbisse i 65 milioni che gli servono, resterebbe pur sempre un aumento di pressione migratoria di poco meno di 200 milioni di persone. Possiamo fidarci di tali proiezioni e sulla base di queste fondare le politiche migratorie? E che dire del peso delle possibili migrazioni ambientali dovute, da un lato, all’elevamento del livello del mare, e dall’altro, all’aumento della desertificazione? Ecco, dunque, un primo compito istituzionale della WMO: provvedere alla costituzione di una banca dati e alla fissazione di un sistema statistico-informativo sul fenomeno migratorio capace sia di contrastare la diffusione sempre più frequente di notizie allarmistiche sia di fornire il necessario supporto tecnico per consentire alle varie autorità di governo di gestire in modo responsabile i flussi migratori.

Un secondo compito importante che una WMO dovrebbe poter svolgere è, per un verso, quello di monitorare l’implementazione delle regole già in esistenza, fungendo da arbitro nella risoluzione delle dispute, e, per l’altro verso, quello di favorire la cooperazione tra paesi appartenenti ad una medesima regione geografica perchè giungano ad adottare politiche migratorie tra loro omogenee e coerenti. Perchè è importante un compito del genere? Per la fondamentale ragione che, al fine di congetturare il pattern delle migrazioni mondiali dei prossimi anni, è necessario conoscere il tipo di politiche migratorie che i paesi di arrivo dei flussi andranno a porre in essere. Il fatto che le variabili economiche e demografiche influenzino in maniera robusta i flussi migratori non toglie peso al ruolo delle scelte politiche in materia. Anzi, gli andamenti futuri saranno sempre più influenzati dalle scelte politiche dei vari governi. Ad esempio, se queste ultime prenderanno la via – peraltro già intrapresa – di aumentare le restrizioni all’entrata, in presenza di un aumento inevitabile della pressione migratoria, non potrà che registrarsi un preoccupante aumento delle migrazioni illegali. Contrariamente a ciò che molti sembrano (o vogliono) pensare, l’inasprimento delle politiche migratorie non diminuisce affatto la pressione migratoria: serve soltanto a trasformare l’immigrazione da legale a illegale. Come bene chiariscono G. Ferri et Al., (L’esercito degli invisibili, Il Mulino, Bologna, 2007), quanto più restrittive sono le politiche migratorie tanto maggiore è lo spazio che si apre alla criminalità organizzata che si occupa di gestire il traffico dei migranti. Se l’immigrazione poggia su una logica di mercato, è controproducente pensare di controllarla solo con divieti e contingentamenti. Ciò serve solamente ad ampliare il mercato della clandestinità.

Il terzo compito, infine, riguarderebbe la gestione, da parte di una WMO, di specifici progetti di livello propriamente globale. In un recente saggio, D. Rodrik (2002) avanza una proposta di parziale liberalizzazione dei movimenti internazionali di lavoratori e rifugiati tesa ad accrescere, in modo sistematico, i redditi dei paesi poveri. Si tratta di questo. Si consideri uno schema di permessi temporanei di lavoro dell’ordine del 3% della forza lavoro dei paesi “ricchi”. Lavoratori specializzati e non specializzati, in proporzioni ben definite, dei paesi “poveri” verrebbero ammessi a lavorare nei paesi ricchi per un periodo di 3-5 anni al termine del quale una nuova ondata di migranti subentrerebbe. Allo scopo di far sì che i migranti facciano ritorno effettivamente al paese d’origine al termine del periodo contrattato, si disegna un opportuno schema che fissa incentivi a favore di tutte le parti in causa: lavoratori, imprese, governi dei paesi di invio e di quelli dei paesi ospitanti. Inoltre la possibilità di rinegoziare il permesso temporaneo varrebbe ad incentivare comportamenti virtuosi da parte dell’immigrato e a stimolare le imprese ad investire sul suo capitale umano.

Al solo scopo di fissare le idee, si potrebbe pensare di trattenere dal salario del lavoratore una quota parte, vincolandone la restituzione (comprensiva degli interessi) al suo rientro in patria. Questa specie di risparmio forzato assicurerebbe al migrante una somma tale da consentirgli un agevole inserimento nel paese di origine. Si potrebbe anche pensare a forme di penalizzazioni per i governi che non collaborano per facilitare i rientri in patria: ad esempio, le quote di ingresso di migranti a favore di un certo paese potrebbero essere ridotte in proporzione al numero di coloro che non hanno fatto ritorno in quel paese. Un’altra misura ancora è quella di incoraggiare la costruzione di legami tra migranti e datori di lavoro con lo scopo di aprire mercati di esportazione per questi ultimi nelle località da cui provengono i migranti. Il risultato ultimo dell’impiegare le migrazioni come mezzo di sviluppo è quello di porre fine al bisogno di emigrare da un particolare paese entro l’orizzonte temporale di una generazione. Un approccio del genere servirebbe anche a scoraggiare l’uso, da parte del potenziale migrante, della via della richiesta di asilo come estrema ratio. Coloro i quali fuggono dalla persecuzione sarebbero meno esposti ai sospetti da cui ora sono circondati. Non solo, ma il piano sopra abbozzato potrebbe tornare utile anche direttamente ai rifugiati, i quali hanno tutto l’interesse a trovare un lavoro nel paese che lo ospita, per acquisire abilità e capitali che faciliteranno il loro ritorno, una volta superata l’emergenza che li ha costretti ad abbandonare il proprio paese, che è tipicamente di un paese in via di sviluppo. Ciò accrescerebbe la stima di sè: la constatazione di essere autosufficienti.

Rodrik calcola che l’implementazione di un progetto del genere farebbe affluire ai paesi poveri oltre 200 miliardi di dollari all’anno. Si tratta di una cifra imponente, oltre il doppio di quanto si può stimare che la completa liberalizzazione degli scambi frutterebbe ai paesi poveri. Non solo, ma a tale somma occorre aggiungere gli enormi spill-overs positivi che le persone che rientrano al proprio paese porterebbero con sè: si pensi all’esperienza accumulata, al know how acquisito; all’intraprendenza acquisita; all’etica del lavoro e alle norme sociali di comportamento necessarie per sostenere a lungo il processo di sviluppo. Inoltre un progetto del genere servirebbe ad evitare il depauperamento delle risorse umane che le migrazioni di lungo periodo portano sempre con sé (il brain drain appunto). Si pensi all’Africa Sub-Sahariana che nel corso degli ultimi 20 anni ha perso il 30% dei lavoratori qualificati. (Dati del FMI, 1999).

Sorge la domanda: se le cose stanno in questi termini, perchè uno schema del genere non riesce a farsi strada? Perchè non è politicamente fattibile, mentre è economicamente vantaggioso. La spiegazione si nasconde nelle pieghe di quel celebre gioco che è il dilemma del prigioniero: esiste bensì una soluzione ottimale, ma non è possibile raggiungerla perchè nessun governo nazionale è in grado di fare la prima mossa. Infatti, chi lo facesse si esporrebbe al suicidio politico, dal momento che nel breve periodo – che è l’orizzonte temporale cui sono interessati tutti i governi democratici – la proposta di Rodrik avrebbe implicazioni distributive avverse nei mercati del lavoro dei paesi ricchi: i salari dei lavoratori non specializzati di questi ultimi subirebbero una sensibile riduzione. Ebbene, l’esistenza di una WMO varrebbe a sortire l’effetto desiderato, consentendo di raggiungere la soluzione socialmente ottimale. Agendo come parte terza rispetto ai vari governi nazionali, una WMO riuscirebbe a far scegliere a ciascuno di questi ultimi la strategia cooperativa, quella che appunto conduce all’ottimo sociale. Sarebbe sufficiente prendere in considerazione questa funzione specifica per convincersi della necessità e dell’urgenza di dare vita ad un organismo come quello qui proposto. 

6. Il modello dell’integrazione interculturale.

Prima di chiudere, un riferimento – sia pure fugace – alla questione dell’integrazione socio-culturale degli immigrati. Tre gli interrogativi che sorgono spontanei. Preso atto che le nostre società tendono a diventare società di immigrazione e di emigrazione, come configurare il rapporto tra multiculturalità e identità? Vale a dire, fino a che punto può e deve spingersi una politica dell’identità (politics of identity) se si vuole – come presumo chiunque voglia – che la pluralità delle culture presenti in un paese risulti compatibile con un ordine sociale garante della pace sociale e delle ragioni della libertà? Secondo, riconosciuto che lo scarto crescente tra cittadinanza economica e cittadinanza socio-politica dell’immigrato ha ormai raggiunto un livello non più in grado di assicurare  la dignità della persona umana, cosa fare per conciliare l’inclusione economica dell’immigrato – l’inclusione cioè nel mercato del lavoro e nel sistema produttivo del paese ospitante – con la sua esclusione dai diritti sociali e politici? Terzo, se specifiche ragioni di principio, oltre che pratiche, sconsigliano riedizioni, più o meno aggiornate, sia del modello assimilazionista di marca francese, che tende a fare del diverso uno di noi, sia del modello della marginalizzazione degli immigrati (cioè della loro apartheid), sia ancora del modello dell’autogoverno delle minoranze (il modello cioè della balcanizzazione della società ovvero del multiculturalismo), non resta che la via dell’integrazione socio-culturale dei nuovi arrivati nella società di accoglienza. Ma quale modello di integrazione si intende realizzare?

In altri termini, quali principi basilari deve soddisfare un modello di integrazione che faccia propria la prospettiva interculturale, una prospettiva che rifiuta sia di prendere in considerazione solamente le differenze che separano gli immigrati dagli autoctoni per giungere a forme più o meno accentuate di balcanizzazione della società, sia l’esistenza di differenze significative tra gli uni e gli altri per giungere all’assimilazione più o meno esplicita e forzata? Quali principi devono cioè essere posti a fondamento di una politica che voglia assicurare a tutti il soddisfacimento dei diritti fondamentali dell’uomo e al tempo stesso garantire uno spazio pubblico in cui i soggetti portatori di una identità culturale diversa da quella del paese ospitante possano mettere a confronto le loro rispettive posizioni in modo pacifico e soprattutto possano giungere al consenso intorno ai limiti entro cui mantenerle? Ne indico cinque, avvertendo, che il contesto cui penso tali principi debbano applicarsi è quello degli stati uninazionali (del tipo Gran Bretagna, Francia, Italia) e non quello degli stati multinazionali (del tipo Canada, Svizzera, Belgio, Spagna).

Il primo principio è quello del primato della persona sia sullo Stato sia sulla comunità. Sulla primazia della persona rispetto allo Stato non c’è bisogno di spendere parole; si tratta di acquisizione ormai assodata, almeno nelle nostre società occidentali. Conviene dire invece qualcosa dell’altra relazione, quella tra persona e comunità. Scrive Sandel, esponente di punta del comunitarismo radicale, a proposito dell’identità comunitaria concepita come qualcosa che attiene alla autorealizzazione del soggetto e non già alla sua libera scelta: “La comunità dice non solo ciò che essi hanno come cittadini, ma anche ciò che essi sono; non una relazione che essi scelgono (come accade nelle associazioni volontarie) ma un attaccamento che essi scoprono; non semplicemente un attributo ma un elemento costitutivo delle loro identità”. Quanto a dire che la comunità, e dunque l’identità, viene “prima” della persona che sceglie, e dunque viene “prima” della ragione che guida la scelta.

Non ci vuol molto a capire perché chi si riconosce nelle posizioni della filosofia personalista – magistralmente enunciate ne L’uomo e lo Stato da Jacques Maritain e, in tempi più recenti, da Emmanuel Levinas e da Paul Ricoeur - non possa accettare una simile inversione del nesso tra persona e comunità. In buona sostanza, è la soggettività della persona il fondamento del rapporto comunitario, il quale va edificato o reinventato a partire da soggetti che sono capaci e liberi di scegliere e dunque capaci di assumersi la responsabilità del proprio destino. È bensì vero che l’individuo isolato è pura astrazione e che, come si dirà tra breve, l’identità individuale non può prescindere dalla trama di rapporti che legano il singolo alla sua comunità. Ma il comune denominatore collettivo non riesce mai a definire pienamente la singola persona, la quale è pur sempre un insieme di attributi unici.

Al tempo stesso, però, la libertà – ed è questo il secondo principio – non è pienamente tale se non va oltre la mera autodeterminazione, il “fare quel che si vuole”. Tale concezione è troppo gracile perché essa possa essere compatibile con lo statuto personalista. Infatti, la persona, a differenza dell’individuo, è definita anche dalla cultura in cui essa è cresciuta e nella quale essa sceglie di riconoscersi. Invero, ciò che è tipico della persona umana è la relazionalità, la quale postula che l’altro diventi un tu. La piena realizzazione dell’identità personale non può dunque limitarsi al semplice rispetto dell’altrui libertà, come afferma la posizione neo-liberale per la quale il vivere in comune è un’opzione. Sappiamo, infatti, che per ciascuno di noi non è affatto così. La scelta non è mai tra vivere in solitudine o vivere in società, ma tra vivere in una società sorretta da certe regole oppure da altre. È dunque troppo poco, per la nozione forte di libertà, pensare ad una individualità che prescinde dalla relazione con l’altro. Ecco perché le culture meritano tutela e riconoscimento anche a livello della sfera pubblica. Se è vero che l’identità personale nasce dialogicamente come risposta alle nostre relazioni con gli altri, allora una società autenticamente rispettosa delle ragioni della libertà non può negare che la preservazione di un contesto culturale sicuro, cioè non minacciato né, tanto più, negato, costituisca un bene primario su cui verte l’interesse fondamentale dei singoli. E se così ha da essere, allora occorre spingersi fino al riconoscimento pubblico delle particolarità culturali.

Il terzo principio è quello della neutralità, - beninteso, non della indifferenza, - dello Stato nei confronti delle culture che sono “portate” da coloro che in esso risiedono. La visione relativistica della libertà, tipica della concezione liberal-individualistica, riducendo la libertà a mero permissivismo privato ha favorito la confusione fra Stato laico, cioè Stato neutrale nei confronti delle varie culture in esso presenti, e Stato indifferente, uno Stato cioè che si dichiara incapace di scegliere ovvero di stabilire differenze tra culture diverse. Se la neutralità dice dell’imparzialità con cui lo Stato deve trattare le varie identità, l’indifferentismo dice della impossibilità di fissare un ordine tra diverse istanze culturali per via della non esistenza di un criterio oggettivo di scelta. Lo Stato laico non può fare a meno di presupposti di valore che non tocca ad esso produrre – se così avvenisse si trasformerebbe in Stato etico – ma che spetta allo Stato recepire dai soggetti della società civile portatori di cultura.

Il quarto principio afferma che lo Stato laico, cioè neutrale, nel perseguire l’obiettivo di integrare le minoranze etnoculturali entro una comune cultura nazionale, adotta quale presupposto per l’integrabilità che le culture presenti nel paese concordino tutte su, cioè facciano proprio, un nucleo duro di valori, di valori cioè irrinunciabili che, in quanto tali, valgono per tutti gli uomini, quale che sia la loro appartenenza a una specifica cultura. Si tratta di quei valori che sono a fondamento dei diritti universali dell’uomo e che, di recente, sono stati magistralmente rinverditi da Benedetto XVI. Sorge spontanea la domanda: poiché non è mai lecito giudicare una cultura servendosi di un’altra come unità di misura, e poiché i diritti universali dell’uomo sono un’acquisizione (recente) della cultura occidentale, non c’è forse il rischio che il quarto principio conduca all’imperialismo culturale? Il fatto che valori come quello della dignità umana e teorie come quella dei diritti umani usino il linguaggio della cultura occidentale non è segno di pregiudizio etnocentrico; piuttosto è indicazione del fatto che l’Occidente è giunto prima di altri contesti a prendere coscienza di tali valori, dando ad essi una fondazione su basi razionali. E pertanto, proprio perché giustificati per via di ragione, questi valori sono estensibili, in linea di principio, a tutti gli uomini. In altri termini, la nozione di diritti umani non è legata all’Occidente, anche se questo è il luogo di nascita delle carte dei diritti. Il contenuto di tali diritti non è specifico di una determinata cultura, anche se è vero che c’è oggi un modello culturale dei diritti umani che è dominante, quello occidentale appunto.

È dunque l’accettazione da parte di chi è portatore di una particolare cultura di tale nucleo di valori che marca la soglia al di sotto della quale non è possibile accogliere alcuna legittima richiesta di riconoscimento a livello istituzionale, cioè pubblico, per quella cultura. D’altro canto, al di sopra di quella soglia, il compito da assolvere è quello di discernere ciò che, di una data cultura, è tollerabile, da ciò che è rispettabile, da ciò che è condivisibile. Chiaramente, la tolleranza copre la gamma più vasta di richieste. Essa costituisce il primo livello di accettabilità per una determinata posizione o atteggiamento. La tolleranza –virtù pubblica che si rifà alla prudenza – si configura come metodo per risolvere quei conflitti che discendono dalla convivenza di diversi entro la cittadinanza democratica. Il rispetto, invece, è una rete a maglie più strette rispetto a quelle della tolleranza. Infatti, il rispetto non è solo questione di diritti; esso rinvia all’onore. Si rispetta qualcuno che si riconosce essere degno di valore. Nel rispetto c'è’dunque il riconoscimento che l'altro è portatore di una prospettiva meritevole di considerazione, anche se quella prospettiva non coincide con la mia. Ancora più strette sono le maglie della rete della condivisione.

Mi preme sottolineare che l’identificazione dei tre livelli di giudizio – tollerabilità, rispettabilità, condivisibilità – produce una conseguenza pratica di grande momento, quella di offrire un criterio sulla cui base procedere all’attribuzione di risorse pubbliche ai vari gruppi di minoranze etno-culturali presenti nel paese. Si potrebbe, infatti, stabilire che le richieste giudicate tollerabili non ricevono risorse, monetarie e di altra natura, dallo Stato o dagli altri enti publici; le richieste giudicate rispettabili ricevono un riconoscimento a livello amministrativo, entrano cioè nell’ordinamento amministrativo dello Stato; le richieste giudicate condivisibili vengono accolte nell’ordinamento giuridico del paese ospitante, con tutto ciò che questo comporta in termini di destinazione di risorse pubbliche.

Da ultimo, che ne è di quelle culture che chiedono di partecipare al progetto interculturale, ma che non accettano di trasformarsi per accogliere lo statuto dei diritti fondamentali? A ciò dà risposta il quinto principio: lo Stato, in nome dei diritti del cittadino - i quali, a differenza dei diritti dell’uomo, non hanno fondazione giusnaturalistica - destinerà risorse ai gruppi portatori di quelle culture per aiutarli ad evolvere verso posizioni capaci di accogliere i diritti fondamentali dell’uomo. È questo il significato del principio che chiamo della “tolleranza condizionata”: ti aiuto perché tu possa fare posto, dentro la tua matrice culturale e secondo i modi propri della tua cultura, all’accoglimento dei diritti fondamentali. È noto che le culture hanno la tendenza ad adattarsi all’evolversi delle situazioni; non sono qualcosa di statico. E dunque l’educazione interculturale deve consentire a ciascun individuo sia di affermare la propria identità culturale sia di andare oltre qualora essa non si dimostri capace di afferrare l’universalità dei diritti fondamentali.

Quale il senso di un principio del genere? Si tratta di qualcosa capace di condurre a risultati pratici oppure si tratta di pura utopia? Per scendere nello specifico, c’è speranza che anche l’islamico di stretta osservanza possa modificare in senso evolutivo la propria posizione fino a recepire quel nucleo duro di valori di cui sopra si è detto? La rilevanza di queste domande sta in ciò che, in caso di risposta negativa, il quinto principio risulterebbe vuoto, anzi vacuo. Ci è di aiuto, nella ricerca di una risposta, la recente riflessione di F. Viola, secondo cui i diritti dell’uomo non sono più definiti a prescindere dalle differenze (di genere, di religione, di razza, di cultura) ma come veri e propri diritti delle differenze. Come a dire che la storia dei diritti si muove verso una loro progressiva contestualizzazione; non più cioè l’universalismo astratto di un sé umano sradicato dal riferimento di un qualche contesto esistenziale. Se le cose stanno in questi termini, si deve allora convenire che è, in linea di principio, fattibile il progetto di favorire, per tutte le culture, una marcia, più o meno lunga, al termine della quale si registra la convergenza su una base comune di valori condivisi.

Presi nel loro insieme, i cinque principi sopra illustrati ci consentono di cogliere i punti di forza del modello che chiamo dell'integrazione interculturale. Primo, tale modello evidenzia una marcata finalità integrazionista, dal momento che i gruppi di immigrati presenti nel paese ospitante non vengono incoraggiati a sentirsi come “nazioni separate” che si autogovernano come accade , tanto per intenderci, con gli Amish e con la comunità Lubavic (a Brooklyn) negli USA. Diversamente da quanto deriverebbe dall’accoglimento della posizione comunitarista, la politica interculturale, come qui esplicitata, comporta bensì una revisione dei termini dell’integrazione, ma non un rifiuto dell’integrazione in sé nella società ospitante, e ciò perché tale politica non accetta di trattare le varie culture come “isole cognitive” tra loro incomunicabili. Al tempo stesso, la politica interculturale è in grado di scongiurare il rischio paventato dai sostenitori della posizione neoliberale – il rischio cioè che il riconoscimento della identità etno-culturale degli immigrati possa condurre al separatismo e quindi all’annacquamento dell’identità nazionale. Non è così perché, come sopra si è sottolineato, il riconoscimento di cui si parla avviene entro le esistenti istituzioni comuni. E dunque ciò che muta non sono i principi regolativi delle istituzioni medesime, che restano invariati, ma i modi tradizionali di applicazione di quei principi, i modi cioè dettati da una particolare tradizione culturale. Solo chi coltivasse una concezione statica, e perciò obsoleta, di identità nazionale sarebbe portato a difendere la purezza delle proprie tradizioni dal contagio di altre tradizioni.

Il secondo punto di forza è quello di rendere palese e trasparente a tutti, ed in modo ex-ante, tanto alle autorità politico-amministrative e di polizia quanto a coloro che intendono stabilirsi nel paese di immigrazione, le regole e i criteri in base ai quali le richieste avanzate verranno prese in considerazione e giudicate. In tal modo si eliminano pericolosi spazi di discrezionalità. Si veda, al riguardo, il documento del Consiglio d’Europa recante per titolo “Le relazioni intercomunitarie e interetniche in Europa” del 1991. Alla p. 175 si legge: “Lo Stato… deve essere particolarmente vigilante nei riguardi delle pratiche culturali che limitano il diritto dell’individuo a compiere scelte fondamentali”. E più avanti, alla p. 179: “Il diritto islamico della famiglia comporta alcuni elementi totalmente incompatibili con il principio europeo dei diritti inalienabili dell’individuo e con l’eguaglianza dei sessi. Sembra difficilissimo poter arrivare ad un compromesso su questo punto”. Con affermazioni general-generiche del genere non si può certo sperare che le raccomandazioni di una istituzione importante come è il Consiglio d’Europa (creata nel 1949!) possano essere prese in seria considerazione; men che meno tradotte in pratica.

Il terzo punto di forza, cui sopra facevo riferimento, è quello di rendere concretamente possibile il dialogo interculturale con quei segmenti del mondo islamico – e ve ne sono indubitabilmente – che hanno fatto dell’apertura nei confronti del mondo occidentale la loro ragion d’esistere. Invero, il grave rischio che si nasconde nelle pieghe della vulgata “islamicamente corretta” è quello di relativizzare il concetto di diritti della persona per rendere accomodante e più agevole il dialogo. Il che non è affatto, perché confonde il dialogo con la conversazione. Esplicitando, invece, al proprio interlocutore, fin dall’inizio del rapporto dialogico, il sistema di principi nei quali ci si riconosce, si facilita, oltre che la mutua comprensione – il che è ovvio – la presa d’atto da parte del nuovo arrivato che diritti umani e istituzioni imperniate sul principio di libertà hanno valore vincolante anche per quelle culture che dichiarano di non volerli accogliere. All’apparenza, il multiculturalismo sembra essere una dottrina che favorisce la tolleranza e la pacifica coesistenza sociale. La stessa immagine della “società arcobaleno” suggerita dai multiculturalisti sembra far riferimento ad un mondo dove la tolleranza regna sovrana. Ma, come sopra ho cercato di mostrare, la realtà è ben diversa. La via del compromesso ragionato e ragionevole suggerita dal modello dell’integrazione interculturale mi pare l’unica via pervia ed efficace. Soprattutto perché essa è capace di superare il trade-off tra integrazione sociale ed integrazione economica dell’immigrato. Infatti, il primo tipo di integrazione, proprio perché si appoggia sul capitale sociale, tende a privilegiare l’uniformità tra la matrice culturale dell’immigrato e quella dell’autoctono. L’integrazione economica, invece, facendo riferimento principalmente al capitale umano, tende a privilegiare la differenziazione tra le abilità degli immigrati e quelle degli autoctoni, perché come si sa, la produttività del lavoro aumenta sempre, coeteris paribus, in presenza di una composizione differenziata di abilità lavorative. Avviene così che l’economia esige la differenza; la politica privilegia invece la somiglianza. È questo ciò che spiega l’altalena delle politiche migratorie finora implementate dai principali paesi occidentali. 

7. Per concludere

L’immigrazione, come tutti i fenomeni di modernizzazione, reca in sé elementi di vantaggiosità sul piano economico e di grande ambivalenza sul piano socio-culturale. L’immigrazione è una necessità per l’economia del paese ospitante; una fonte di squilibri per la società di quel paese. L’economia li vuole; la società li teme. Come ha scritto Alejandro Partes: “i lavoratori immigrati non vengono solo perché lo vogliono, ma perché li vogliono. Ecco perché non si può pensare di risolvere il problema migratorio con misure unidimensionali: o solo economiche e solo socio-politiche.

C’è tuttavia una sorta di precondizione che deve essere soddisfatta se si desiderano trovare soluzioni durature alla questione migratoria: liberarsi del mito dell’autoctonia. È questo il mito che esprime la rivendicazione di essere “nati dalla terra” e quindi di aver abitato sempre la stessa terra. Come sappiamo, il tema dell’autoctonia è tipico della Grecia classica, la quale rifiuta la possibilità stessa della coesistenza, al suo interno, di culture diverse. L’hellenikon è di un solo sangue, di una sola lingua ed ha in comune l’identità dei costumi. Il tutto veniva usato sia per legittimare il carattere democratico della poleis, (dal momento che il principio democratico postula un certo grado di omogeneità tra i cittadini) sia per assicurare l’egemonia nella gestione del potere (dato che l’omogeneità riduce i costi di litigation).

Ben diverso il caso di Roma, già in età repubblicana. Come indica M. Sordi (“Nella poleis greca e nella civitas romana”, Nuova Secondaria, 1, 2007), Sallustio nelle Catilinarie (VI,2), parlando dell’incontro tra Aborigeni e Troiani osserva che, quando costoro convennero dentro le stesse mura, pur essendo diversi per stirpe, per lingua e per costumi, si fusero facilmente in un modo che pare credibile e aggiunge: “Così in breve tempo, una moltitudine diversa ed errante, grazie alla concordia, divenne una civitas”. Dall’incontro con gli Etruschi, Roma nacque come urbs e come civitas e dimostrò nel concreto come l’integrazione di realtà diverse per sangue, per lingua, per cultura fosse qualcosa di positivo. Grazie a questo incontro originario col diverso, Roma fu “cattolica” prima ancora di essere cristiana e acquisì quelle capacità di integrazione e di dialogo interculturale che la resero celebre e capace di progresso autentico, come Polibio, Livio, Virgilio e tanti altri non mancarono di rimarcare. C’è allora da meravigliarsi se Pietro e Paolo poterono trovare in Roma il luogo adatto e propizio dal quale annunciare il messaggio tipicamente cristiano dell’unità nella diversità? 

 

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