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68ª SESSIONE DELL' ASSEMBLEA GENERALE DELLE NAZIONI UNITE

INTERVENTO DI S.E. MONS. DOMINIQUE MAMBERTI,
SEGRETARIO PER I RAPPORTI CON GLI STATI

New York
Martedì, 1° ottobre 2013

Pace e sviluppo integrale

 

Signor Presidente,

Ho l’onore, innanzitutto, di esprimerLe le congratulazioni della Santa Sede per la Sua elezione alla Presidenza della 68.ma sessione dell’Assemblea Generale. Parimenti, sono lieto di trasmettere a Lei, come pure a tutte le delegazioni partecipanti, i più cordiali saluti di Sua Santità Papa Francesco, che assicura la Sua vicinanza e la Sua preghiera affinché questa sessione dell’Assemblea Generale sia fruttuosa.

Signor Presidente,

Sua Santità Papa Francesco, nei primi passi del Suo Pontificato, ha saputo aprire, in modo entusiasmante, un nuovo orizzonte di speranza, fondato su una cultura dell’incontro, che dovrebbe essere il principio e dare la misura di tutti i rapporti sociali, da quelli interpersonali a quelli internazionali. Tale cultura si caratterizza per il riconoscimento concreto ed impegnativo del valore dell’altro, sia del singolo sia dei gruppi sociali o degli Stati e ha il suo fondamento ultimo nel riconoscimento della dignità e della trascendenza dell’uomo. Così, l’affermazione della fede, che in certi settori della civiltà contemporanea è vista con paura e accusata ingiustamente di essere l’inizio dell’intolleranza, diventa in realtà il motore della comprensione, dell’unione dei popoli e della pace. Formulo voti affinché questa sessione dell’Assemblea generale sia inspirata dallo stesso spirito di solidarietà universale che ha animato la giornata di preghiera per la pace indetta dal Papa il 7 settembre scorso, e a cui si sono uniti leader religiosi di tutte le confessioni. Che essa segni la strada e sia l’occasione di un nuovo slancio affinché tutte le nazioni si mettano decisamente in moto per risolvere i conflitti aperti e rimarginare le ferite dell’umanità.

È molto opportuno che il tema "Il programma di sviluppo per il dopo 2015 – preparando il terreno" sia stato scelto per la presente sessione dell’Assemblea generale. L’esperienza della realizzazione degli Obiettivi del Millennio (Millennium Development Goals), con i suoi progressi, ma anche con i suoi limiti e le sue ombre, ha messo in evidenza l’importanza di fissare mete comuni per tutti i membri della comunità internazionale, che servano da catalizzatore e motore e misura degli sforzi degli attori internazionali, sia che si tratti delle Nazioni Unite e delle Agenzie specializzate, che delle Organizzazioni regionali e degli Stati. E’ da augurarsi, in tale senso, che la presente sessione dell’Assemblea generale permetta di rinnovare l’adesione comune ai concetti fondamentali che sono alla base dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e che rimangono validi per la determinazione di obiettivi nuovi e adeguati al dopo 2015. Essi, dal punto di vista dello sviluppo umano integrale, dovrebbero partire dalla promozione della famiglia, fondata sull’unione di un uomo e una donna, e dalla protezione dei suoi diritti, quale cellula sociale basica e fondamento di ogni sviluppo duraturo e sostenibile. Essi dovrebbero pure «assicurare una vita degna a tutti e ad ogni abitante della terra, dai più anziani ai bambini ancora nel grembo materno,(…) persino a coloro che si trovano nelle situazioni sociali più difficili o nei luoghi più sperduti» [Lettera del Santo Padre al Presidente Vladimir Putin, 4 settembre 2013].

Con l’approssimarsi della scadenza per la realizzazione dei Millennium Developments Goals, non è difficile constatare che il loro raggiungimento non è stato universale. Ciò è dovuto, in parte, alle limitazioni e ambiguità, comprese quelle di natura etica, insite nella formulazione di alcuni di questi obiettivi, ma, soprattutto, alla difficoltà di mettere a fuoco in modo efficace e consensuale i mezzi di attuazione dell’ottavo obiettivo, relativo alle risorse economiche necessari per conseguire gli altri sette. In relazione a tale obiettivo, le decisioni che sono seguite alla crisi del 2008 hanno cercato di disegnare una governabilità equa delle finanze internazionali e di riformare le grandi organizzazioni finanziarie multilaterali. Tuttavia, duole costatare che le discussioni circa la governabilità dell’economia mondiale si sono svolte essenzialmente all’interno di gruppi ristretti di Stati, come è il caso dei membri del G20, che non includono gli Stati più poveri o i meno popolosi. Pur avendo una giustificazioni dal punto di vista pratico, una tale maniera di procedere non legittima di per sé le decisioni, che possono avere conseguenze importanti sugli altri membri dell’ONU che non partecipano, direttamente né indirettamente, al G20. Se si vuole assicurare la futura attuazione degli obiettivi comuni di sviluppo per il dopo 2015, è urgente disegnare meccanismi giuridici internazionali che consentano la partecipazione di tutti gli Stati nella concezione e attuazione delle grandi decisioni economiche comuni.

Sarebbe, tuttavia, insufficiente creare una struttura finanziaria e commerciale riconosciuta come giusta ed equa per tutti gli Stati, se non si confrontasse continuamente il risultato ottenuto con gli obiettivi, al fine di garantire che le condizioni di vita di coloro che sono nel bisogno progrediscano effettivamente. I futuri obiettivi di sviluppo per il dopo 2015 devono, pertanto, identificare degli strumenti di controllo e di correzione degli orientamenti economici, al fine di ottenere dei risultati concreti per arrivare all’eliminazione della fame nel mondo, ma anche la diminuzione effettiva delle bidonville, l’accesso generalizzato all’acqua potabile, il miglioramento per tutti delle condizioni sanitarie, ecc.

Il quadro sarebbe, tuttavia, incompleto, se si deviasse l’attenzione ad un fattore esterno agli stessi obiettivi di sviluppo, ma comunque assolutamente essenziale per la loro attuazione, ovvero la pace. Se è vero, da una parte, che «le ingiustizie, gli eccessivi squilibri di carattere economico o sociale, (…) che dannosamente imperversano tra gli uomini e le nazioni, minacciano incessantemente la pace e causano le guerre» (CCC, N. 2317), è vero anche, dall’altra parte, che la guerra, il terrorismo, la criminalità organizzata e altre forme di violenza armata, nazionale ed internazionale, costituiscono gli ostacoli più importanti allo sviluppo. Perciò, la domanda sul dopo 2015 deve anche essere posta oggi nel contesto dei gravi conflitti in atto e, primo fra tutti, quello in Siria. Di fronte a tali guerre e stragi è urgente che la comunità internazionale s’impegni sulla via dello sviluppo con una più grande determinazione e senza cedere allo scoraggiamento.

Se accettiamo di considerare la pace quale conditio sine qua non per lo sviluppo umano integrale, è necessario ritornare ad alcuni principi di base su cui la comunità internazionale si è impegnata solennemente quasi settanta anni fa. Le Nazioni Unite, allora, sono state create «per salvare le future generazioni dal flagello della guerra» (Carta delle Nazioni Unite, preambolo), e per «assicurare, mediante l'accettazione di principi e l'istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell'interesse comune» (idem, cfr. artt. 1-2). Il diritto di ricorrere alla guerra, che autorizzava fino ad allora l’uso politico e autonomo della forza militare, è stato sostituito dall’attribuzione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di un potere d’autorità concernente l’uso della forza, al quale la Carta dell’Organizzazione associa la sola eccezione della legittima difesa, nei modi e limiti previsti dal suo articolo 51.

In questo modo, si può dire che, dopo i drammi della prima e della seconda guerra mondiale, le Nazioni hanno ricreato una normativa internazionale, disegnando alcuni strumenti giuridici che contribuiscono a stabilire un "diritto", nel senso più alto di giustizia. In effetti, il Diritto internazionale non può essere più compreso come sinonimo delle "leggi della comunità internazionale", accordi e consuetudini per mezzo delle quali le azioni degli Stati sono coordinate. A partire dalla Carta delle Nazioni Unite, tutti gli Stati hanno voluto affermare che il Diritto internazionale è un sistema legale, che ha come scopo basilare, anche se non esclusivo, il controllo dell’uso della violenza fra gli Stati, e come norma costituzionale fondamentale (Grundnorm), la limitazione dell’uso della forza ai casi e secondo le condizioni previste nella stessa Carta. Ne consegue che la limitazione della forza costituisce il principio primo e insostituibile, come pure lo scopo ultimo di tutto il sistema giuridico per la protezione della persona e dei suoi diritti elementari.

È tragico costatare ancor oggi che, a dispetto dell’elevatezza dei principi giuridici basilari delle Nazioni Unite, i meccanismi e le procedure di attuazione non hanno permesso di evitare gravi conflitti civili o regionali, né di proteggere le popolazioni. Il Continente africano presenta numerose situazioni di conflitto civile attuale o potenziale, con decine di gruppi armati che seminano morte e sofferenze fra la popolazione. In particolare, vorrei qui menzionare la situazione nell’est della Repubblica Democratica del Congo e nella Repubblica Centroafricana. Il Medio Oriente continua ad essere oggetto di profonda preoccupazione sul piano internazionale, e, in alcuni Paesi del continente americano, il narcotraffico ha assunto le proporzioni di un’entità capace di far guerra agli Stati. Anche l’Asia presenta, in diverse regioni, zone importanti di tensioni. In molti di questi conflitti c’è stato o è ancora in atto l’intervento di pacificazione dell’ONU in coordinamento con le Organizzazioni regionali. Si dà così seguito ad una benemerita tradizione che rimonta alle origini stesse dell’Organizzazione. Tuttavia, anche la storia attesta che allorché i mezzi disponibili non sono più sufficienti e quando prevale il peso degli interessi nazionali ed internazionali in gioco, l’intervento delle Nazioni Unite non può concretizzarsi o, se è stato intrapreso, non ha avuto che un successo limitato.

Malgrado queste difficoltà, tutta l’esperienza di mantenimento e di consolidamento della pace svolta dall’ONU deve essere considerata positiva, anche quella con scarsi risultati immediati, perché costituisce di per sé un’espressione concreta di due grandi principi di diritto naturale, ossia dei diritti intrinsecamente legati alla dignità dell’uomo. Il primo esige che si faccia tutto ciò che è ragionevolmente possibile per evitare la guerra, «dati i mali e le ingiustizie di cui è causa» (cfr. CCC, 2327). Il secondo enuncia la validità permanente della legge morale durante i conflitti armati. Al riguardo, «le pratiche contrarie al diritto delle genti e ai suoi principi universali, deliberatamente messe in atto, sono dei crimini» (CCC, 2328), che, nei casi più gravi, possono essere qualificati come crimini contro l’umanità.

Appare chiaro che nella vita dei popoli i conflitti armati creano divisioni profonde e laceranti ferite che richiedono molti anni per essere rimarginate. L’esempio che oggi angoscia e costerna il mondo intero è evidentemente quello del grave conflitto che si è sviluppato in Siria, provocando già più di centodiecimila morti, quattro milioni di sfollati e più di due milioni di rifugiati nei Paesi vicini, in particolare in Libano e in Giordania, e rischiando da un momento all’altro di diventare un conflitto internazionale. Oltre alle terribili perdite di vite umane, il conflitto sta distruggendo uno dei più ricchi patrimoni storici, culturali, e di convivenza umana, fortemente collegato alle tre religioni monoteiste e a tutta la cultura europea. Rammentando la lunga storia nel corso della quale le diverse componenti della società hanno creato insieme tale patrimonio e tale tessuto di relazioni umane, non posso esimermi dal manifestare qui la viva preoccupazione della Santa Sede per la sorte delle comunità cristiane e delle altre minoranze, che non devono essere costrette, da una parte o dall’altra, all’esilio, ma al contrario devono conservare un posto nella futura configurazione del Paese e dare il loro contributo al bene comune. Il più recente rapporto della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta istituita dal Consiglio per i Diritti Umani ha dato per provato che sono stati commessi dalle parti in conflitto massacri e altre gravissime violazioni dei diritti umani. Gli stessi esperti hanno ribadito con forza che non c’è soluzione militare possibile (Independent International Commission of Inquiry on the Syrian Arab Republic "IICIS", Report to the U.N. General Assembly, A/HRC/24/46, 16 August 2013, released on 11 September 2013). In tale contesto, la Santa Sede vuole qui affermare che bisogna assolutamente evitare qualsiasi atto che possa aggravare e perfino estendere la conflagrazione ed aumentare, fino all’indicibile, le sofferenze delle popolazioni innocenti.

Nella sua recente lettera indirizzata ai leader del G20, riuniti a San Pietroburgo nel settembre scorso, il Santo Padre, evocando la responsabilità della comunità internazionale nei confronti della Siria, ha segnalato come dispiaccia che «troppi interessi di parte [abbiano] prevalso da quando è iniziato il conflitto siriano, impedendo di trovare una soluzione che evitasse l’inutile massacro a cui stiamo assistendo». Vorrei, nel riprendere le Sue parole, domandare ai leader degli Stati di non rimanere «inerti di fronte ai drammi che vive già da troppo tempo la cara popolazione siriana e che rischiano di portare nuove sofferenze ad una regione tanto provata e bisognosa di pace. A tutti loro, e a ciascuno di loro, rivolgo un sentito appello perché aiutino a trovare vie per superare le diverse contrapposizioni e abbandonino ogni vana pretesa di una soluzione militare. Ci sia, piuttosto, un nuovo impegno a perseguire, con coraggio e determinazione, una soluzione pacifica attraverso il dialogo e il negoziato tra le parti interessate con il sostegno concorde della comunità internazionale. Inoltre, è un dovere morale di tutti i Governi del mondo favorire ogni iniziativa volta a promuovere l’assistenza umanitaria a coloro che soffrono a causa del conflitto dentro e fuori dal Paese».

Si deve riconoscere che nella crisi siriana gli organi e agenzie del sistema delle Nazioni Unite hanno cercato di dispiegare tutti i mezzi disponibili per proteggere le popolazioni civili. Ciò che forse è mancato troppo a lungo è il coraggio degli Stati membri di rendere prioritaria nell’impegno internazionale la risoluzione del conflitto. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha accennato recentemente alla «sconfitta collettiva» della comunità internazionale nella sua capacità di prevenire ed evitare le atrocità commesse in Siria (cfr. Secretary-General’s Remarks to the General Assembly’s Informal Interactive Dialogue on "The Responsibility to Protect: State Responsibility and Prevention"). In proposito, vorrei richiamare il concetto della "responsabilità di proteggere", al quale il Segretario Generale ha anche fatto riferimento, e sottolineare l’importanza che esso riveste per la Santa Sede. Infatti, l’adozione del concetto politico e giuridico della "responsabilità, nazionale ed internazionale, di proteggere le popolazioni dei crimini di genocidio e di pulizia etnica e dei crimini contro l’umanità", nel Vertice mondiale del 14-16 settembre 2005, è stata una grande conquista della Comunità internazionale. Purtroppo, la "responsabilità di proteggere" a volte è stata compresa in modo erroneo, come se consistesse nella giustificazione di un ricorso alle armi, allorché in realtà vuole significare ben altra cosa. Essa è un profondo e cogente spirito di solidarietà, che invita ciascuno, a cominciare dai responsabili delle Nazioni, a sentire come proprie le gravi crisi umanitarie, laddove esse accadano, e ad impegnarsi affinché sia attuato immediatamente l’intero complesso di misure disponibili – diplomatiche, economiche, di opinione pubblica, come pure i meccanismi previsti dalla Carta delle Nazioni Unite – in vista di una soluzione efficace. Per dare una continuità fattiva al dibattito sulla "responsabilità di proteggere", sarebbe auspicabile intraprendere una sincera riflessione sul modo di includere esplicitamente tale concetto nel mandato del Consiglio di Sicurezza, nell’articolo 24 della Carta delle Nazioni Unite ed, eventualmente, nella fattispecie dell’articolo 39, relativo all’azione in caso di minaccia contro la pace.

In questa ottica, la tragedia siriana costituisce al tempo stesso una sfida e un’opportunità per l’Organizzazione delle Nazioni Unite, per dare, in modo concertato, creativo e positivo, un nuovo vigore a tutti i suoi organi, meccanismi e procedure. A tale proposito, si deve accogliere come un passo positivo l’adozione all’unanimità da parte del Consiglio di sicurezza, il 27 settembre scorso, della Risoluzione 2118 (2013). La mia Delegazione auspica che il consenso raggiunto su tale documento dia un impulso decisivo al processo di Ginevra, affinché sia alla fine possibile «instaurare la stabilità e la riconciliazione» (cfr. N. 17 della Risoluzione) nel Paese. Una soluzione pacifica e duratura al conflitto siriano creerebbe un precedente significativo per il secolo presente, segnerebbe la strada per affrontare gli altri conflitti che la comunità internazionale non è riuscita finora a risolvere, faciliterebbe grandemente l’inclusione del principio della "responsabilità di proteggere" nella Carta delle Nazioni Unite, e, dal punto di vista più generale dello sviluppo economico e sociale, sarebbe la manifestazione più chiara ed evidente della volontà di intraprendere con onestà ed efficacia un cammino di sviluppo sostenibile per il dopo 2015.

Signor Presidente,

Papa Francesco, con le sue parole e con il suo gesto profetico del 7 settembre scorso, ha lanciato un vasto movimento mondiale di preghiera per la pace, i cui frutti sono stati immediatamente percepibili nell’adesione spontanea e sincera dell’opinione pubblica a tale obiettivo. La portata di questo gesto ha oltrepassato le differenze di religione, cultura, nazionalità o provenienza geografica, e ha esercitato un forte influsso sui leader mondiali. Accompagnando il Santo Padre e dietro il Suo impulso, le istanze competenti della Santa Sede hanno anche dispiegato un’azione diplomatica allo scopo di fermare la violenza e di promuovere il dialogo fra le parti coinvolte nel conflitto, mettendo in atto così uno degli scopi principali della sua presenza internazionale.

Insieme al Papa, e riallacciandoci al tema centrale del presente Dibattito generale, affermiamo con forza che la guerra costituisce «il rifiuto pratico a impegnarsi per raggiungere quelle grandi mete economiche e sociali che la comunità internazionale si è data … Purtroppo, i molti conflitti armati che ancora oggi affliggono il mondo ci presentano, ogni giorno, una drammatica immagine di miseria, fame, malattie e morte. Infatti, senza pace non c’è alcun tipo di sviluppo economico. La violenza non porta mai alla pace, condizione necessaria per tale sviluppo» [Lettera del Santo Padre al Presidente Vladimir Putin].

Signor Presidente,

La Santa Sede ritiene, conformemente all’insegnamento teologico e morale della Chiesa cattolica, che «si deve fare tutto ciò che è ragionevolmente possibile per evitare la guerra, dati i mali e le ingiustizie di cui è causa. (CCC, 2327). Perciò, allo stesso modo, la Chiesa con insistenza esorta tutti a pregare e ad operare perché la Bontà divina ci liberi dall'antica schiavitù della guerra» (CCC, 2307).

La mia Delegazione, richiamando tali principi etici che ispirano e animano l’azione internazionale della Santa Sede, non ha altra ambizione che di fornire un contributo d’ordine morale alla presente sessione dell’Assemblea generale, esprimendo pure un dovuto riconoscimento per lo sforzo compiuto dai diversi organi e agenzie dell’ONU, per alleviare le sofferenze provocate dalla crisi siriana e da altre situazioni di conflitto, e un incoraggiamento affinché continuino la loro azione umanitaria. La mia Delegazione vuole anche lanciare un forte appello all’esercizio della propria responsabilità da parte di tutti gli Stati membri. Ci sarà pace e si raggiungeranno gli obiettivi di sviluppo umano integrale in favore di ogni abitante della terra, in particolare dei più deboli e di quelli che non hanno nessuna voce né rappresentanza, se, e solamente se, ogni Stato è capace di assumere pienamente la propria responsabilità per il bene comune di tutti.

Grazie Signor Presidente.

 

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