The Holy See
back up
Search
riga
DISCORSO DEL CARDINALE TARCISIO BERTONE
IN OCCASIONE DEL CONFERIMENTO
DELLA CITTADINANZA ONORARIA DI VERCELLI

Sabato, 26 maggio 2007

 

Eccellenza,
Illustri Autorità,
Signor Sindaco,
Cari Vercellesi,

Ricevendo la cittadinanza onoraria da questa città di Vercelli che ho amato con cuore di Vescovo, e che è entrata nella mia memoria e nella mia nomenclatura davanti a Papi e Cardinali, davanti a comunità di credenti e non credenti sparsi nel mondo, desidero offrire alcune linee di riflessione, su quattro punti.

1. La cittadinanza di Hierusalem

Nella rivelazione biblica, e nell'esperienza di moltitudini di credenti fondati nella fede abramitica, la città simbolo è "Hierusalem", la storica città mediorientale, simbolo e segno della "città della pace", approdo sicuro di ogni desiderio del cuore: una città luminosa e santa, che accoglie lo Spirito di Dio e vive dei suoi doni. Tutti aspirano a diventare cittadini di Gerusalemme: "Di te si dicono cose stupende, città di Dio... Ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: "L'uno e l'altro è nato in essa e l'Altissimo la tiene salda"" (cfr Salmo 86). A Gerusalemme si volgono le nostalgie degli esuli che hanno perso la pace in terra di Babilonia. Su Gerusalemme si impernia tutta la vita terrena di Gesù, Principe della pace. Verso la Gerusalemme celeste, luogo della pace escatologica, si muove finalmente tutta la storia universale.

Gerusalemme simbolizza la civitas Dei immaginata dall'africano Agostino d'Ippona: una città fondata sull'amore e non sull'odio. Agostino nella sua opera parla di due diversi amori che hanno fatto due città "la prima esalta nella sua gloria la sua testa; la seconda dice al suo Dio "Tu sei la mia gloria anche perché levi in alto la mia testa [Salmi 3, 4]". Sulla prima domina la brama di dominio, nei suoi capi o in quei popoli che sottomette; nella seconda al contrario servono nella carità sia i capi consigliando, che i sudditi obbedendo. La prima predilige la sua forza nei suoi potenti; la seconda dice al suo Dio: "Ti amerò, Dio, mia forza"" (cfr De Civitate Dei, XIV, 28).

Si tratta di due istanze che generano l'una l'amore di sé, di chi si ritiene sapiente prescindendo da Dio, l'altra invece fa riferimento a Dio, testimone di ogni coscienza. Occorre allora ricapitolare le categorie morali che generano il "buon governo" di ogni città che voglia costruirsi con i due poli di riferimento: Dio e l'uomo.

Ai giorni nostri, con l'Enciclica Deus caritas est, il Papa ha proposto di aprire una nuova stagione di convivenza ripartendo da Dio amore e dall'amore per il prossimo come certificazione della verità dell'amore per Dio. Dal cuore dell'Occidente, in crisi per essersi allontanato dai suoi valori civili fondativi - libertà, uguaglianza, fraternità anzitutto - mettendo a rischio la sostanza stessa della democrazia, Benedetto XVI offre una via di uscita che parte dal disarmo dell'odio che dimora nelle menti e nei cuori degli uomini.

Ma è sufficiente il disarmo dell'odio per mettere in atto strutture giuste, che rispondano alle grandi sfide spirituali e sociali che minacciano le nostre comunità, per le quali ci sentiamo tutti in certo modo responsabili?

2. Le strutture giuste per un ordine giusto nella società

Conviene allora ascoltare quanto ha detto Benedetto XVI durante il suo recente viaggio in Brasile, nel discorso rivolto all'episcopato latinoamericano. Le strutture messe in atto per fondare una società giusta "non nascono né funzionano senza un consenso morale della società sui valori fondamentali e sulla necessità di vivere questi valori con le necessarie rinunce, perfino contro l'interesse personale. Dove Dio è assente - Dio dal volto umano di Gesù Cristo - questi valori non si mostrano con tutta la loro forza, né si produce un consenso su di essi. Non voglio dire - sottolinea il Papa - che i non credenti non possano vivere una moralità elevata ed esemplare; dico solamente che una società nella quale Dio è assente non trova il consenso necessario sui valori morali e la forza per vivere secondo il modello di questi valori, anche contro i propri interessi" (13 maggio 2007).

Gli sforzi moderni di costruire una società più giusta sulla base del "come se Dio non ci fosse", alla fine si sono rivelati un fallimento. A questo proposito il Papa ha offerto una analisi acuta sulle derive che si sono prodotte nella società. Tanto il capitalismo quanto il marxismo hanno promesso che i loro sistemi avrebbero creato strutture giuste le quali, una volta stabilite, avrebbero funzionato da sole senza il bisogno di una precedente moralità individuale. Anzi, quelle stesse strutture avrebbero promosso una moralità comune. Ci sono rimaste purtroppo delle tristi eredità: il sistema marxista, oltre l'oppressione delle anime, ha lasciato distruzioni economiche ed ecologiche, mentre il capitalismo ha creato distanze ancora più grandi fra ricchi e poveri, insieme ad una degradazione della dignità personale.

Si è posti così davanti alla questione della recta ratio per cui le strutture giuste devono cercarsi ed elaborarsi alla luce dei valori fondamentali, con tutto l'impegno della ragione politica, economica e sociale (cfr discorso citato).

Per Benedetto XVI i valori morali diventano evidenti solo se Dio esiste e allora ha invitato i laici a riflettere se non valga la pena oggi di vivere "come se Dio esistesse" (cfr L'Europa di Benedetto, pp. 103-114). Vivere "quasi Deus esset" ha un suo fascino universale perché non si tratta di un qualsivoglia Dio ma di un Dio Amore che contribuisce in maniera positiva al superamento di tutte le paure della vita, ponendo gli esseri umani prima delle leggi, per regolare il mondo in una forma umana condivisibile. Pur se le diverse culture sono segnate da interpretazioni differenti della realtà, esse stesse si connettono insieme, in profondità, nell'esperienza fondamentale della condizione umana, intorno a domande sulla nascita e sulla morte, sul lavoro, la malattia, l'ingiustizia sociale, la salvaguardia del nostro pianeta.

3. La Chiesa, comunità dei credenti, nella città

Eccoci allora giunti al terzo punto, che ci richiama alla nostra esperienza di Chiesa come comunità dei credenti, nel contesto della nostra città. Da quanto detto fin qui appare evidente che parlando di Chiesa non si intendono le antiche e gloriose mura di pietra che stanno nel cuore urbanistico della città, ma della comunità dei credenti, uomini e donne che costituiscono le "pietre" di una realtà vivente e palpitante.

In una bella lettera pastorale il Cardinale Tettamanzi, quando ancora era mio predecessore come Arcivescovo di Genova, ha commentato la parabola di Gesù sul desiderio degli abitanti della città di costruire una torre, per la quale occorre prima mettersi seduti per progettarla e calcolarne la spesa, altrimenti non si arriva a compimento e si viene derisi dalla gente (cfr Luca 14, 28-30). "Questa torre, di cui parla l'evangelista Luca, può essere considerata il simbolo della città che siamo chiamati a costruire. La torre è una realtà complessa e unitaria, globale e articolata. È fatta di tanti elementi, dalla sabbia e dal cemento, dai mattoni e dalle pietre; è destinata a diversi servizi e presenta una forma che la rende riconoscibile. Per questo può essere davvero l'immagine di una città e del suo sviluppo ordinato e concatenato". E poi continuava ancora il Card. Tettamanzi: "Mi viene spontanea alla mente la frase biblica, che per la verità riguarda direttamente Gesù Cristo: "la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra angolare (1 Pietro 2, 7). Come a dire che nella costruzione della città non si deve scartare nessuna pietra, perché ogni pietra - anche quella apparentemente meno importante - può rivelarsi utile e necessaria: sto pensando, ad esempio, alle famiglie che si prendono a cuore gli anziani e i malati, alle donne che si sobbarcano a un doppio lavoro con la fatica fuori e dentro la casa, alle colf extracomunitarie, ecc." (Città di Genova, Il futuro è nelle tue radici, 19 marzo 2002).

Ma, che cos'è dunque una comunità? Il nome deriva dal concetto dei "munera" romani. Munus per i nostri lontani avi era obbligo-dovere, ma anche dono-prestazione volontaria in un progetto di vita caratterizzato da un'etica che ha come fine il bene comune. La Chiesa che vive "nel cuore della città", vive accanto alle sue famiglie, nel cuore delle sue istituzioni, dentro il flusso della vita quotidiana, feriale e festiva, del lavoro, del progresso, della cultura, della civiltà di quella data terra. I cristiani nella città dell'uomo, sono concittadini e dunque corresponsabili in tema di pace, di socialità, di educazione delle nuove generazioni, di cultura, in un servizio disinteressato all'uomo e al suo destino; con quel timbro di profezia che il cristianesimo offre nel considerare i valori fondamentali, perché, è bene dirlo chiaramente, in tema di difesa della vita in ogni momento del suo sviluppo dal concepimento alla morte, non sempre si trovano promotori al di fuori dalla severa e ferma dottrina della Chiesa.

Con tutta chiarezza Benedetto XVI sottolinea che "la società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l'adoperarsi per la giustizia lavorando per l'apertura dell'intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente" (Deus caritas est n. 28). Formare le coscienze, educare alle virtù individuali e politiche è compito fondamentale della Chiesa, e i laici cattolici non possono eludere il loro compito di essere presenti nei luoghi dove si formano i consensi per l'instaurarsi di una società più giusta.

I cristiani diventano allora coscienza critica nella città. Il Vangelo diventa quel faro dal quale attingere la luce per una concordia costruttiva e dialettica nell'unità, per illuminare il buio dei dissidi e delle difficoltà familiari e sociali, per far crescere il rispetto reciproco e la perseveranza nell'amore. La Chiesa chiede alla città di non trascurare questa voce e di ascoltarla attraverso le donne e gli uomini cristiani che la abitano, compresi naturalmente i pastori.

4. Il Vescovo e la città

Il quarto punto che vorrei brevemente sviluppare riguarda l'azione pastorale del Vescovo nel contesto della città, o diocesi, affidata alle sue cure.

Teologicamente la figura del Vescovo è ben delineata nella storia della Chiesa universale e delle singole Chiese locali. Egli è successore degli Apostoli e assicura la continuità del mandato di Cristo nel corso dei secoli come ministro della Parola, della liturgia, del governo come pastore proprio della porzione del popolo di Dio che gli è affidata.

Il Vescovo è un pellegrino che cammina insieme a tutti, immergendosi con discrezione dentro la dimensione quotidiana, con i suoi chiaroscuri di gioia e di sofferenza, per cercare una sintesi più alta, illuminata dalle istanze del Vangelo. Egli si definisce in relazione con una data diocesi: in tutte le positività, le ambiguità, le contraddizioni proprie di ogni contesto, in grado di reagire alle provocazioni più drammatiche con continuità di impegno civile e morale.

Un esempio conosciuto da noi è quello di Sant'Eusebio, la cui figura è stata trattata in Convegni di alto livello, alcuni dei quali da me promossi durante il mio ministero vescovile in questa città.

Sant'Ambrogio offre una preziosa testimonianza nei confronti di Eusebio che esprime la singolarità del rapporto che lega il Vescovo alla sua città: un rapporto dialettico, che richiama per alcuni aspetti espressioni come quelle dell'antico scritto "A Diogneto", secondo cui i cristiani - pur abitando le loro città come tutti gli altri cittadini - offrono l'esempio di una "cittadinanza paradossale"; per loro, infatti, ogni terra straniera è patria, e ogni patria è terra straniera. Così Eusebio - sardo di nascita e romano di formazione -, mentre fa sua la sancta plebs di Vercelli, vive in mezzo alla città come un monaco. Questo tratto, evidentemente, nulla toglie al suo straordinario dinamismo pastorale (Eusebio ha assai probabilmente istituito a Vercelli le pievi per un servizio pastorale ordinato e stabile, e ha promosso i santuari mariani per la conversione delle popolazioni rurali pagane): piuttosto, conferisce una dimensione peculiare al suo rapporto con la città.

Un altro elemento interessante è fornito dal commiato della famosa Lettera ai Vercellesi e ai Piemontesi dove Eusebio chiede ai suoi figli e alle sue figlie di salutare etiam eos, qui foris sunt et nos dignantur diligere: segno evidente che il rapporto del Vescovo con la sua città non era limitato alla popolazione cristiana, ma si estendeva anche a coloro che - al di fuori della Chiesa - ne riconoscevano in qualche modo l'autorità spirituale.

Come Gesù ha amato Gerusalemme, la sua città, così il Vescovo si adopera a donare tutto se stesso per la salvezza delle persone a lui affidate, ma anche per contribuire allo sviluppo della città terrena.

L'esperienza della successione dei Vescovi di Vercelli lo dimostra: nella sua storia bimillenaria si è consolidata: 1) una solida alleanza col Cristianesimo; 2) un rapporto fecondo tra Chiesa e società; 3) un rapporto fecondo e positivo tra Chiesa e mondo del lavoro e della cultura.

Dalla memoria gloriosa e meritoria, il passaggio all'oggi e al futuro è obbligatorio e impegnativo. Non possiamo, oltre lo sviluppo di tipo economico, industriale e lavorativo, la lotta alle forme di disagio sociale, il giusto rapporto con gli extracomunitari, l'attenzione alla qualità della vita, non ricercare ed offrire i valori morali e spirituali più profondi: il vero, il bene, il bello, il giusto, il gratuito, l'onestà, l'amicizia, la solidarietà, la saggezza, l'apertura all'infinito e all'eterno di Dio. È questa una urgenza che non riguarda solo ogni singola persona, nella sua coscienza, ma la comunità e dunque la città, come ricorda a tutti noi Vescovi e ai profeti l'appello di Giona: "Alzati, va a Ninive la grande città [a Vercelli, ad Alessandria...], e in essa proclama..." (Giona 1, 2).

Conclusione

Se le prospettive poste da questa mia conversazione possono sembrare ardue, concludo con una citazione di Claudio Magris tratta dal suo libro dal titolo suggestivo: "Utopia e disincanto". Dice: "La fine e l'inizio di millennio hanno bisogno di utopia e disincanto. Il destino di ogni uomo, e della Storia stessa, rassomiglia a quello di Mosè, che non raggiunse la Terra Promessa, ma non smise di camminare nella sua direzione. Utopia significa non arrendersi alla cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero essere; sapere che il mondo, come dice un verso di Brecht, ha bisogno di essere cambiato e riscattato... Utopia e disincanto, anziché contrapporsi, devono sorreggersi e correggersi a vicenda... Il disincanto, che corregge l'utopia, rafforza il suo elemento fondamentale, la speranza... che rischiara il grigiore del presente..." (Garzanti, Milano 1999). E la speranza, ricordiamolo, è una virtù tipicamente cristiana, da coltivare incessantemente.

     

top