The Holy See
back up
Search
riga

OMELIA DEL CARD. TARCISIO BERTONE
IN OCCASIONE DEL 26° CAPITOLO GENERALE
DEI SALESIANI DI DON BOSCO

Sabato, 15 marzo 2008

 

Carissimi Rettor Maggiore e Confratelli capitolari salesiani,

è con la gioia di chi si sente in famiglia che presiedo questa celebrazione eucaristica con voi nella solennità di San Giuseppe, mentre è in svolgimento il 26° nostro Capitolo Generale. Non avendo potuto partecipare all’apertura dei lavori, eccomi ora qui insieme a voi per ravvivare i legami con il nostro venerato padre Don Bosco e con la nostra amata madre la Congregazione salesiana. Ho saputo che avete espresso riconoscenza a Sua Santità Benedetto XVI, per il messaggio stimolante e impegnativo che vi ha inviato nei giorni scorsi e sul quale tornerò. Vi porto il Suo cordiale saluto, la Sua stima e la Sua preghiera.

Oggi la liturgia ci fa onorare San Giuseppe, “uomo giusto e custode di Gesù”. E’ poco quello che di lui ci dice il Vangelo; tuttavia è sufficiente per capire l’importante funzione che gli è stata affidata nel disegno salvifico divino. La sua “giustizia” è intimamente legata alla sua docilità radicale al progetto di Dio. Proprio così egli divenne il “custode generoso” del Figlio dell’Altissimo, per usare le parole stesse con cui abbiamo pregato all’inizio della Santa Messa con la colletta. San Giuseppe è padre.

La sua però è una paternità che non è nata dal desiderio della carne e neppure dalla volontà dell’uomo; una paternità che è stata trovata, non cercata, concessa inaspettatamente, provvidenzialmente e totalmente gratuita. Dio intendeva diventare l’Emmanuele, cioè il Dio-con-noi e per questo ha voluto che Giuseppe prendesse con sé la Madre di Gesù. Dio voleva dare un Salvatore al suo popolo e per questo ha voluto che Giuseppe accogliesse il Figlio di Maria come il proprio figlio e lo chiamasse Gesù. Iddio si è servito anche della paternità di Giuseppe per salvare l’umanità. Ed ancor oggi, come nel corso della storia, Iddio cerca dei “padri” per i suoi figli. Cari Confratelli, in un certo modo pure noi siamo stati scelti dal Signore per fare da padri ai suoi figli, specialmente ai giovani e ai giovani che si trovano in difficoltà. Non è infatti proprio questa la specifica vocazione e il carisma di noi salesiani secondo l’esempio e gli insegnamenti di don Bosco?

Fermiamoci a meditare sull’eminente figura biblica di san Giuseppe, molto cara alla tradizione cristiana e dal Papa Pio IX proclamato patrono della Chiesa universale, l’8 dicembre del 1870. La sua grandezza risiede nell’enorme grazia che Dio gli fece, quando mise nelle sue mani e sotto la sua autorità le persone a cui voleva più bene: il suo Figlio fatto uomo, Gesù, e la sua vergine Madre, Maria. Commenta san Giovanni Crisostomo: “Maria è affidata ora a Giuseppe, come più tardi Cristo la affiderà al suo discepolo” (Omelie sul Vangelo di Matteo 4,6). Nessun altro uomo ha avuto né avrà mai un simile incarico: curare e custodire il Figlio di Dio, convivere con Lui ed educarLo. Sbaglieremmo, però, se ammirassimo solo la familiarità che Giuseppe ebbe con Gesù. Una venerazione, che scaturisce soltanto da una simile ammirazione, non renderebbe giustizia al cammino di fede da lui percorso. Come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella seconda Lettura, Dio non dà una grazia senza fare i conti con la fede di coloro che chiama: il credente non diviene giusto per ciò che riesce a fare da solo, con i suoi propri sforzi, ma “in virtù della giustizia, che viene dalla fede”. Questo significa che al chiamato è chiesto anzitutto di affidarsi totalmente a Dio e alla sua grazia. Così ha fatto Giuseppe: si è fidato di Dio pur non comprendendo gli avvenimenti che lo riguardavano.

E’ ovvio che fidarsi sempre e totalmente di Dio non è né semplice, né facile. Chi percorre questo cammino attraversa spesso momenti di oscurità e deve affrontare prove dolorose. Il racconto evangelico, che abbiamo ascoltato poc’anzi, parla della “notte” di Giuseppe. Promesso sposo a Maria, prima di andare a vivere con lei, viene a scoprire la misteriosa maternità della sua promessa sposa e si chiede che fare. Essendo giusto, sottolinea l’evangelista Matteo, da una parte non vuole coprire con il suo nome un figlio di cui ne ignora la paternità, ma, al tempo stesso, convinto della virtù di Maria è deciso a non consegnarla alla procedura rigorosa prevista dalla legge (cf Dt 22, 20 ss). In sogno l’angelo gli fece comprendere che Maria aveva concepito per opera dello Spirito Santo e, fidandosi di Dio, Giuseppe acconsente e coopera al piano della salvezza. Certo, Dio non gli chiese in anticipo il suo consenso. L’“ingerenza” – per così dire – divina nella sua vita matrimoniale, l’intromissione nella più intima relazione personale con la sua sposa, il cambiamento del progetto di vita, non poterono che suscitare in lui dubbi, interrogativi e, perché no, anche un giustificato sconcerto. In effetti, chi si affida a Dio non per questo vede tutto chiaro. Chi accoglie Dio e i suoi progetti, è chiamato inevitabilmente a svuotarsi di sé e a rinunciare ai propri sogni e desideri. Dio non chiama, senza pretendere; non riempie, senza svuotare; non dà, senza togliere via. Solo chi accetta volontariamente la perdita di sé, può entrare nella logica Dio. Ancora una volta, è la legge biblica dell’esodo, le condizioni esigenti della sequela Christi. Dice Gesù: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso…chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà”(Lc 9, 23-24)

Questa “logica” evangelica ha orientato la vita dei santi ed ha ispirato anche quella del nostro Fondatore. Del resto, lo sappiamo bene, la nostra esistenza e la nostra attività apostolica sono feconde nella misura in cui ci si lascia guidare, come fece lui, da quest’orientamento di fondo richiamato con forza anche dalle nostre Costituzioni ed in particolare dal tema stesso di questo Capitolo: “Da mihi animas,cetera tolle”. Presi come siamo dal servizio pur meritevole e generoso del “da mihi animas” , ci può forse capitare, più spesso di quanto si pensi, di dimenticare l’ascetico “cetera tolle”. Ma la carità pastorale del salesiano - “centro” e “sintesi” del nostro spirito come evidenziano le Costituzioni (art10) - si realizza in pieno solo quando passa attraverso tutte e due le facce della medaglia. Da una parte sta il cetera tolle, cioè il lasciarsi svuotare da Cristo sì da nulla, assolutamente nulla anteporre a Lui e al suo amore - precetto fondamentale e irrinunciabile della vita consacrata, fin dalle sue origini, ed in specie dalla Regula di San Benedetto. E’ l’amore radicale per il Signore, è porre Cristo al primo posto in tutta la nostra esistenza. C’è poi l’altra faccia della medaglia e cioè il da mihi animas, che consiste in una dedizione generosa di noi stessi a quanti sono affidati alle nostre cure, e in particolare i giovani più bisognosi. Le due facce dell’unica medaglia si richiamano continuamente e si alimentano reciprocamente. Si può dire che una faccia è la motivazione dell’altra. Così non si dovrebbe dare un salesiano che ami Cristo senza amare i giovani, e neppure, dall’altra parte, un salesiano che ami i giovani senza amare Cristo e la sua Chiesa.

Torniamo a san Giuseppe: la sua giustizia risiede nel suo silenzioso assenso ai progetti di Dio. Non calcolò quanto gli sarebbe costato conformarsi ad essi, né perse tempo a valutare le conseguenze della sua decisione. Dio lo chiamava, ed egli docile ubbidì. Destatosi dal sonno, precisa l’Evangelista, fece come gli aveva ordinato l’angelo. Così Giuseppe è uomo giusto, non per aver preteso giustizia, secondo i propri diritti, ma per aver permesso a Dio di entrare nella sua vita. Dio, che gli aveva tolto la famiglia a cui lui aveva pensato, lo mise a capo della sua propria famiglia; lo privò del diritto alla paternità fisica, ma lo rese protagonista di una paternità quanto mai responsabile. Nel sogno Giuseppe vide con chiarezza quale era la volontà del Signore. Nel sogno, prima che nella vita quotidiana, Giuseppe divenne familiare con quella volontà divina, che giorno dopo giorno avrebbe dovuto realizzare. E questo “sognare la volontà di Dio” lo preparò a viverla, illuminando le vicende della sua esistenza familiare e facilitandone il quotidiano adempimento.

Cari Confratelli, anche noi Salesiani siamo figli di un sogno: il sogno di don Bosco. Noi, Salesiani di questa nostra non facile epoca, siamo chiamati a seguire quello stesso sogno e a percorrere il cammino della santità. In questa assemblea capitolare, grande è poi la vostra responsabilità in ordine proprio a come orientare la Congregazione perché risponda il più fedelmente possibile alla chiamata divina e la realizzi generosamente, rispondendo alle sfide della modernità. E’ opportuno allora chiedersi: come possiamo imitare san Giuseppe, come realizzare oggi il “sogno” di don Bosco? Lo sappiamo bene: la strada è sempre la stessa. Una vita che si sottometta radicalmente a Dio e ai suoi progetti; lasciare il posto a Dio nei nostri sogni perchè Lui ci diventi familiare e vicino; permettere a Cristo di mostrarci il sogno che ha su di noi, sulla nostra Congregazione, un sogno sempre più stupendo dei nostri progetti. Insomma, san Giuseppe ci invita quest’oggi a lasciarci sorprendere da Dio. Perché seppe rinunciare ai suoi desideri personali e si dedicò a realizzare il sogno di Dio, Giuseppe ebbe il Figlio di Dio da custodire e cooperò a che l’umanità avesse il Salvatore.

Come san Giuseppe, ognuno di noi, in modi diversi, è chiamato a fare da padre a figli di Dio. E’ la missione salesiana che comprende la cura e l’accompagnamento di ragazzi e giovani, specialmente della gioventù in difficoltà. E possiamo realizzare questo progetto che viene dall’alto, solo rinunciando ai nostri propri progetti personali. Nel messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato al Capitolo viene sottolineato quale debba essere il contributo originale e specifico che attende dai salesiani nel campo dell’educazione dei giovani oggi. Di questo messaggio a voi ben noto vorrei semplicemente richiamare una breve ma quanto mai significativa espressione: “Nelle situazioni plurireligiose ed in quelle secolarizzate –scrive il Papa – occorre trovare vie inedite per far conoscere, specialmente ai giovani, la figura di Gesù, affinché ne percepiscano il perenne fascino.” Evangelizzare la gioventù, educare i giovani alla fede costituisce, come giustamente si va ripetendo, una vera “emergenza educativa” che domanda – è sempre il Papa a ricordarlo in un altro suo discorso - “una comune sollecitudine per il bene delle nuove generazioni, per la crescita e per il futuro dei figli che il Signore [ci] ha donato” (Discorso nella consegna alla Diocesi di Roma della Lettera sul compito urgente dell’educazione, 23 febbraio 2008). Mai è stato facile educare, è vero; ma oggi questo compito sembra essere diventato più difficile. “Lo sanno bene i genitori – osserva il Papa –, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande ‘emergenza educativa’, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita”. Tutti noi che siamo qui ne potremmo parlare a lungo: ne abbiamo fatte di esperienze!... Ma le incertezze, le difficoltà, le sfide devono accrescere la nostra fiducia: chiamati a diventare padri e custodi, possiamo sperare nel Dio che ci ha affidato questo compito. “Anima dell’educazione –ricorda ancora il Santo Padre – può essere solo una speranza affidabile. Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti, e rischiamo di ridiventare anche noi, come gli antichi pagani, uomini ‘senza speranza e senza Dio in questo mondo’, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12). Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita” (Lettera sul compito urgente dell’educazione, 21 febbraio 2008) che, in fondo, non è altro che sfiducia in quel Dio che ci ha chiamati.

Cari Confratelli Capitolari, che saluto con tanto affetto, auguro di cuore che il vostro lavoro di questi giorni, oltre ad essere una forte esperienza di vita comunitaria salesiana, contribuisca ad imprimere rinnovato slancio ascetico e apostolico alla nostra famiglia spirituale, incamminata a celebrare il secondo centenario della nascita del nostro Fondatore. San Giuseppe vegli su di voi, sui Superiori che verranno da voi eletti e sulle decisioni che insieme assumerete. Affido alla Vergine Santa, Madre della Chiesa ed Ausiliatrice, le vostre persone e tutti i salesiani del mondo. Don Bosco e gli altri Santi e Beati della nostra Famiglia Salesiana ottengano per tutti il dono di essere, come lo furono loro, veri padri per i giovani che il Signore ci affida in questo nostro tempo. Amen!

     

top