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INAUGURAZIONE DELL'ANNO ACCADEMICO 2009-2010
DELL'UNIVERSITÀ EUROPEA DI ROMA

DISCORSO DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO DEL SANTO PADRE

Martedì, 24 novembre 2009

 

PERCORSO STORICO DELLE PROBLEMATICHE ECONOMICHE IN EUROPA

LA CARITAS IN VERITATE PER UN NUOVO UMANESIMO

 

Carità – Verità – Giustizia

La Caritas in veritate, nella ricchezza dei suoi contenuti quale documento magisteriale e pastorale, propositivo e interpretativo della complessità economica e sociale del III millennio, riporta l'uomo al centro di un nuovo umanesimo, i cui valori sono la Carità e la Verità. Non v’è dubbio che proprio questi concetti suscitino oggi sospetto – soprattutto il termine verità – o siano oggetto di fraintendimento – e ciò vale soprattutto per il termine “amore”. Per questo è importante chiarire di quale verità e di quale amore parli la nuova enciclica. Il Santo Padre ci fa comprendere che queste due realtà fondamentali non sono estrinseche all’uomo o addirittura imposte a lui in nome di una qualsivoglia visione ideologica, ma hanno un profondo radicamento nella persona stessa. Infatti, “amore e verità – afferma il Santo Padre - sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo” (n. 1), di quell’uomo che, secondo la Sacra Scrittura, è appunto creato “ad immagine e somiglianza” del suo Creatore, cioè del “Dio biblico, che è insieme «Agápe» e «Lógos»: Carità e Verità, Amore e Parola” (n. 3).

Carità e Verità in questo senso si coniugano e si interfacciano specularmente a fondamento della dottrina sociale della Chiesa.

Se la Carità, infatti, è il principio delle micro e delle macro relazioni - dalla famiglia ai rapporti sociali, economici e politici - la Verità permette agli uomini di extrapolare le opinioni e le sensazioni individuali e di portarsi al di sopra - e oltre - delle determinazioni culturali e storiche, fino "a valutazioni del valore e della sostanza delle cose". In tal senso, l'uomo, come persona i cui comportamenti non sono ispirati dal soggettivismo finalizzato all'egoismo attraverso un calcolo edonistico, ma dal solidarismo fondato sul bene comune, è il trait-d'union tra un consolidato umanesimo - che trova origine nella dottrina del tomismo e prassi economica nel capitalismo mercantile - ed il suo rinnovamento imposto dal processo di globalizzazione e dall'attuale crisi finanziaria.

Il bene comune, scrive Benedetto XVI, "è esigenza di giustizia e di carità"; è impegnarsi nel "prendersi cura, da una parte, e avvalersi dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale". Perciò, nell'età della globalizzazione, "il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere la dimensione dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle nazioni, così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, per renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio" (cfr n. 7).

Significativo, in questo senso il capitolo della Caritas in veritate dedicato alla collaborazione della famiglia umana, dove viene messo in evidenza che “lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia” per cui “un simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione”. E ancora: “Il tema dello sviluppo coincide con quello dell'inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell'unica comunità della famiglia umana, che si costruisce nella solidarietà sulla base dei fondamentali valori della giustizia e della pace” (nn. 53-54).

 

Primo umanesimo e sua connessione con le strutture economiche

È nel XIV secolo, e con maggiore forza e rinnovato vigore nel XV secolo, che un vasto e impetuoso moto culturale europeo riscopre l'uomo riportandolo al centro del mondo, vale a dire al centro di tutti gli interessi morali e spirituali. Si va, in questo modo, aprendo la via all'età moderna: all'umanesimo prima, al rinascimento poi. L'uomo, dunque, è posto al centro del mondo.

Non è superfluo ricordare che il mondo è, in quel passaggio epocale, coeso e connesso: gli affari si estendono dall'Inghilterra alle oasi del Sahara, dal Portogallo alla Cina. Si tratta del maggiore impero economico mai conosciuto fino ad allora.

La riscoperta dell'uomo va dunque correttamente collocata sullo sfondo dell'impetuoso slancio che la vita economica alto-medioevale assume fin dall'XI secolo. Si tratta di uno slancio che rappresenta uno dei punti di svolta nella storia della civiltà europea; la maggiore rivoluzione, dopo quella neolitica e prima di quella industriale, di cui l'Europa sia stata teatro.

A propagare i benefici effetti della ripresa demografica e tecnologica sono la più ampia circolazione della moneta e dei titoli di credito, il commercio, specie marittimo, che entra anche esso in un periodo di rinascita, e il ruolo delle città, in particolare di due centri posti uno a meridione, l'altro a settentrione dell'Europa: Venezia, da una parte, Bruges, dall'altra, senza dimenticare Genova.

Propagandosi all'interno del Continente, il movimento venuto dal Nord incontra quello proveniente dal Sud. Il contatto, come è noto, avviene nella pianura della Champagne, dove hanno luogo le celebri fiere di Troyes, di Lagny, di Provins e di Bar-sur-Aube, che fino alla fine del XIII secolo svolgono la moderna funzione di borsa e di clearing house. Lettere di cambio, prestiti, vendite a rate: la finanza è già all'opera.

Non a caso, il commercio – vale a dire il capitalismo mercantile – occupa un posto centrale nel pensiero di Nicolas d'Orèsme (1320-1382), Vescovo di Lisieux e autore di un celebre trattato sulla moneta e la sua corretta gestione da parte del principe. Orèsme è l'autorevole testimone di un mondo nuovo e in via di espansione, in cui i mercati – e la moneta – vanno affermandosi.

Fu la rivoluzione commerciale lo sfondo che permise all'Europa cristiana di sviluppare quell'umanesimo che pose l'uomo al centro del mondo.

 

Carismi cristiani ed economia di mercato

Nel contesto della storia dell’umanità non possiamo tralasciare di menzionare il fatto che essa è costellata di esperienze civili ed economiche originate da correnti e carismi spirituali. L'Europa, per esempio, non sarebbe come oggi la conosciamo, anche sotto il profilo sociale ed economico, senza il movimento benedettino o quello francescano, da cui hanno avuto origine innovazioni fondamentali anche per quella che sarebbe poi diventata l'economia di mercato. Le «reduciones» dei gesuiti in Sud America restano ancora oggi un esempio luminoso di civiltà. I carismi sociali di tanti fondatori di ordini religiosi tra il XVIII e il XIX secolo, che hanno dato vita ad ospedali, scuole, opere caritative, hanno segnato la nascita e lo sviluppo del moderno stato sociale (welfare state). Tutte esperienze a movente ideale e spirituale, certamente, ma che hanno arricchito e in certi casi determinato lo sviluppo economico e sociale dei nostri paesi.

Ai fini della presente relazione, conviene prendere le mosse dalla fine dell'XI secolo, quando l'ordine cistercense si consolida e si diffonde in Europa. Figura chiave di questo periodo è Bernardo da Chiaravalle, al quale si deve la proliferazione delle abbazie benedettine. A partire da Digione, e poi nel resto dell'Europa, il rapido sviluppo delle abbazie fa sorgere ben presto problemi di natura squisitamente economica di cui Bernardo percepisce fin da subito la novità.

Uno di questi ha a che fare con i vincoli che è opportuno porre all'agire economico dell'abbazia - e dunque dell'abate - affinché possa essere scongiurato il rischio di un'accumulazione improduttiva di terreni e ricchezze. Il pericolo di quella che molto in seguito sarà chiamata «manomorta» già viene intravisto da Bernardo. Un secondo problema riguarda l'organizzazione interna del lavoro nell'abbazia: è preferibile l'autarchia, con il che ciascuna abbazia deve tendere ad essere autosittica, provvedendo da sè medesima a tutto ciò di cui ha bisogno, oppure la specializzazione? In questo secondo caso, ciascuna abbazia deve occuparsi di determinate lavorazioni soltanto e poi, per il tramite dello scambio, entrare in possesso dei beni prodotti dalle altre abbazie. Un terzo problema, infine, in parte conseguenza di quello precedente, è quello del tipo di rapporto che avrebbe dovuto instaurarsi tra abbazia madre e abbazie «affiliate»: rapporti di cooperazione oppure di competizione? Per dirla con il linguaggio economico moderno, i rapporti tra le abbazie devono essere quelli vigenti tra le imprese di un gruppo oppure tra reti di imprese?

È nella Carta Caritatis del 1098, vera e propria continuazione e aggiornamento della precedente Regula Sancti Benedicti, che troviamo un primo abbozzo di soluzione ai problemi sopra indicati. Due sono i principi che la Carta Caritatis enuncia in modo netto e chiaro. Per un verso, si afferma che non è lecito «costruire la propria abbondanza ricavandola dall'impoverimento altrui». Questo significa che quello economico ha da essere un gioco a somma positiva, dal quale cioè tutte le parti in causa devono trarre giovamento, anche se in proporzioni non necessariamente eguali. L'implicazione notevole della concezione per la quale l'agire economico non può limitarsi ad un gioco a somma nulla - nel quale ciò che una parte ottiene eguaglia quello che l'altra parte perde - è che l'organizzazione del processo produttivo ha da essere tale da generare un sovrappiù: solo così, infatti, tutti coloro che prendono parte al processo possono trarne vantaggio. Per l'altro verso, la Carta sancisce la sostituzione del termine elemosina con il termine «beneficentia», «fare il bene». Quali le implicazioni di ordine pratico di tale sostituzione? In primo luogo, che nella beneficenza il bisogno di chi chiede aiuto deve essere valutato con intelligenza; quanto a dire che il benefattore deve sforzarsi di comprendere le ragioni per le quali il povero è tale. In secondo luogo, che la beneficenza non deve incentivare la pigrizia nel bisognoso; non deve cioè inibire la possibilità di uscita dalla situazione di bisogno – quella che oggi viene chiamata «la trappola della povertà». Non accade così nell'elemosina, dove l'identità del portatore di bisogni è spesso sconosciuta al benefattore.

È veramente sorprendente la straordinaria vicinanza di questi due principi contenuti nella Carta con un pensiero assai più antico, quello di Aristotele, quando, nell'Etica Nicomachea, scrive: «Nel dare bisogna proporsi il bene e dare ragionevolmente. Si deve sapere a chi si deve dare; quale ammontare è conveniente e qual è il momento appropriato. In tal modo si fa, nel più alto grado possibile, un servizio vero all'altro» (IV, I).

Del pari, è importante ricordare come il pensiero e l'opera dei cistercensi confluiranno pochi secoli dopo, a mo' di affluenti, nel grande fiume della tradizione francescana, vera e propria prima scuola di pensiero economico, dalla quale verranno le idee per realizzare gli strumenti finanziari tipici di una moderna economia di mercato: la carta di credito; la contabilità d'impresa (si pensi al francescano Luca Pacioli, che nel 1494 sistematizzerà in modo definitivo la partita doppia); le lettere di cambio; il foro dei mercanti; la borsa; e soprattutto i Monti di Pietà.

Come è noto, i Monti di Pietà quasi tutti fondati da personaggi come Bernardino da Feltre e ispirati dalle Prediche Volgari (1427) di San Bernardino da Siena, costituirono il modello dal quale trasse origine la banca moderna. Giova richiamare alla memoria l'idea fondativa del Monte di Pietà: il credito va concesso al povero perché questi possa essere aiutato ad uscire dalla sua condizione e a chi ha progetti da realizzare, cioè a chi ha il talento dell'imprenditorialità, perché possa generare valore aggiunto sociale - come oggi si tende a dire. Sono questi i criteri ispiratori dell'attività finanziaria, e di quella bancaria in particolare, al momento della sua nascita: non si combatte efficacemente l'usura - vera e propria piaga sociale dell'epoca - senza un'adeguata e ben funzionante struttura finanziaria; né si può assicurare sostenibilità allo sviluppo senza quest'ultima (cfr S. Zamagni, L’etica nell’attività finanziaria, discorso alla Fondazione Gabriele Berionne, dicembre 2006; T. Bertone, L’etica del bene comune nella dottrina sociale della Chiesa, LEV 2007).

Queste ed altre esperienze ci insegnano che è nel tempo lungo della storia che l'uomo è chiamato a svolgere la sua missione terrena con dignità e libertà. Non sembra un caso, volgendo nuovamente lo sguardo e il pensiero alle origini umanistiche della moderna civiltà europea, che proprio nel Quattrocento, nella Firenze dei grandi banchieri e dei ricchi mercanti, l'umanista Giovanni Pico della Mirandola scrivesse una Oratio de hominis dignitate, nella quale Dio parla ad Adamo, e dunque all'uomo: «Non ti ho fatto né celeste, né terreno, né mortale, né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine [...] Nell'uomo nascente il Padre ripose semi di ogni specie e germi di ogni vita. E, secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti».

 

Secondo umanesimo e sua connessione con le strutture economiche

Oggi siamo di fronte a un passaggio epocale radicale, un nuovo punto di svolta della civiltà; e non si tratta più solo dell'Europa, quanto dell'intera famiglia umana. Globalizzazione, liberalizzazione, finanziarizzazione, nuove tecnologie, migrazioni globali, disuguaglianze sociali, conflitti identitari, rischi ambientali sono solo alcuni dei processi che segnano l'ingresso della civiltà nella rete della complessità.

È possibile, dunque, in questo contesto, un nuovo umanesimo? Riteniamo di sì, perché la crisi finanziaria rende più urgente tale domanda, anche se la risposta sarà più articolata, e per taluni aspetti più ardua.

Si è giunti alla crisi finanziaria, oltre che per la persistenza di gravi squilibri strutturali nell'economia mondiale perché si sono trascurate le dimensioni etiche della finanza: è stata, in termini diversi, dimenticata la sua vera natura, quella di essere strumento nobile e positivo, che indirizza l'impiego delle risorse risparmiate lì dove esse favoriscono l'economia reale, il benessere, lo sviluppo di tutti gli uomini.

Vediamone brevemente le cause remote, attraverso i fattori di crisi più eclatanti.

Il primo concerne il mutamento radicale nel rapporto tra finanza e produzione di beni e servizi che si è venuto a consolidare nel corso dell’ultimo trentennio. A partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, diversi paesi occidentali hanno condizionato le loro promesse in materia pensionistica ad investimenti che dipendevano dalla profittabilità sostenibile dei nuovi strumenti finanziari, esponendo così l’economia reale ai capricci della finanza e generando il bisogno crescente di destinare alla remunerazione dei risparmi in essi investiti quote di valore aggiunto. Le pressioni sulle imprese, derivanti dalle borse e dai fondi di private equity, si sono ripercosse in più direzioni: sui dirigenti indotti a migliorare continuamente le performance delle loro gestioni allo scopo di ricevere volumi crescenti di stocks options; sui consumatori per convincerli a comprare sempre di più, pur in assenza di potere d’acquisto; sulle imprese dell’economia reale per convincerle ad aumentare il valore per l’azionista. E così è accaduto che la richiesta persistente di risultati finanziari sempre più brillanti si sia ripercossa sull’intero sistema economico, fino a diventare un vero e proprio modello culturale.

Un altro fattore causale della crisi è la diffusione a livello di cultura popolare dell’ethos dell’efficienza come criterio ultimo di giudizio e di giustificazione della realtà economica (cfr. T. Bertone, Discorso al Senato della Repubblica Italiana, 28 luglio 2009).

Lo strumento si è, pertanto, trasformato in un fine. Non è certo un fenomeno nuovo. Già in Aristotele si trova una spiegazione di questo processo. Ecco il suo ragionamento: la ricchezza - sostiene - è parte di una "vita buona", cioè di una vita conforme alla verità, mentre diventa più difficile, se non impossibile, raggiungere l'obiettivo di una "vita buona" quando si affoga nell'indigenza. Può trattarsi di "vita buona" per l'individuo, e allora si chiama "etica"; di "vita buona" per lo Stato, e allora si chiama "politica".

Ciò premesso, Aristotele descrive il rovesciamento di mezzi e di fini. All'inizio ci si adopera per essere ricchi, per realizzare una convivenza civile, in cui la sofferenza, come penuria dei mezzi per la sussistenza, non incida oltre i limiti che per Aristotele sono "naturali". In sintesi, ci si adopera per realizzare la "vita ricca di beni materiali" al fine di raggiungere la "vita buona". Quest'ultima non ha un significato "sentimentale", ma va intesa come agire che si adegua all'ordinamento del mondo, che il pensiero filosofico ha svelato.

Poi si rovescia tutto. Si comincia a essere ricchi per essere ancora più ricchi e inizia a delinearsi la figura dell'incremento indefinito del profitto. È la logica distruttiva dell'illimitato, di ciò che non ha limite, di ciò che non ha senso.

Non a caso, i guasti, anche quelli morali, della attuale crisi finanziaria discendono proprio dall'insostenibilità di quei comportamenti che distruggono gli equilibri su cui si reggono la tenuta della società e le sue possibilità di sviluppo. Tale insostenibilità non è il risultato di una patologia del sistema. È, invece, il frutto di una esasperazione della sua logica: la logica del capitalismo è l'accumulazione, la quale per natura è illimitata. Si dovrebbe dire, più propriamente, sterminata. Ed è la logica della sterminatezza che sta alla base dei disastri finanziari.

Si può opporre a questa logica dissennata dell'illimitato l'etica dei limiti? Si può circoscrivere la presunta "creatività" delle scommesse finanziarie? Si possono rallentare i movimenti di capitale speculativi? Si possono reintrodurre politiche che proporzionino lavoro e produttività? Si possono introdurre misure di moralità nella sfrenata corsa delle rendite manageriali?

Sono domande, queste, che segnalano l'urgenza, più che di una via d'uscita (exit strategy) di una moral reentry: il ritorno della morale. Che significa, anzitutto, responsabilità della persona, prima che dei Governi, verso gli altri e la loro dignità.

Lo stesso ragionamento, quello, cioè, del rovesciamento di mezzi e fini, può essere fatto valere per il dibattito sulla opportunità, che può essere condivisibile, di introdurre nuove regole per l'attività finanziaria; un dibattito spesso condotto senza interrogarsi sul comportamento di regolatori e controllori. Regole e controlli, infatti, non sono un fine in sé, di cui è sufficiente assicurare la mera esistenza. Sono strumenti nelle mani degli uomini. E gli strumenti, come ha ricordato Benedetto XVI a proposito del "mercato" nella Caritas in veritate, possono essere buoni, oppure cattivi: ma è la responsabilità dell'uomo che può indirizzare tali strumenti verso la giustizia.

 

Verso un nuovo umanesimo

Dall’enciclica Caritas in veritate vediamo emergere l’esigenza dell’uomo alleato dell'altro uomo, della sua sorte, della sua storia. Alleato con l'uomo e la terra, dentro i suoi medesimi orizzonti, dentro un umanesimo chiamato a sfidare il suo futuro.

Se la globalizzazione è la ricomposizione dei sistemi economici attraverso l'affermazione e la diffusione della teoria e della prassi del mercato, che ha mutato l'assetto geo-economico mondiale attraverso i processi di interrelazione tra individui, società, istituzioni e Stati, è necessario che gli Stati stessi intervengano dove maggiori si stanno dimostrando le distorsioni del mercato nell'emarginare aree geografiche periferiche, classi sociali più deboli ed economie meno competitive, nell'ambito di un rinnovato pensare dell'economia.

Questo significa andare oltre, o meglio, ampliare con nuovi paradigmi la teoria del mercato e la teoria tradizionale dell'impresa nell'economia globalizzata, che deve essere sempre più rivolta all'etica e meno al profitto. Si tratta, in altri termini, di adeguare l'evidenza empirica della globalizzazione a nuove regole, fatte dall'uomo per l'uomo, per i suoi valori, per il miglioramento, morale e materiale, dell'intera comunità.

La Caritas in veritate non tralascia di segnalare che: “In questi ultimi decenni è andata emergendo un'ampia area intermedia tra le due tipologie di imprese [imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit)]. Essa è costituita da imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti di aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che sono espressione di singole imprese; da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale; dal variegato mondo dei soggetti della cosiddetta economia civile e di comunione. Non si tratta solo di un « terzo settore », ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali” (n. 46).

Ripetiamo la domanda: è dunque possibile oggi un nuovo umanesimo, che riporti l'uomo, la sua dignità e la sua responsabilità al centro?

Giuseppe Anzani, magistrato, membro della Commissione Giustizia e Pace della CEI, scrisse su Avvenire nel 1998, due anni prima della fine del secondo millennio, questa analisi piena di speranza: “Fissiamo pure gli occhi sull'orizzonte umano. Sull'umanesimo di questo secolo che si chiude. Proviamo pure ad intenderlo come una sorta di fede nell'uomo, nei «magnifici destini» cantati ai suoi albori, nell'entusiasmo per le rivoluzioni promesse. Esploriamo, a ritroso, i suoi trionfi, e le sue sconfitte. L'uomo padrone della terra, dell'atomo, degli spazi cosmici della scintilla della vita; divenuto capace, come abbiamo appreso in concreto, di mandare in pezzi la terra, di marchiare il cielo con i presidii delle guerre stellari, di rivoluzionare i villaggi umani massificando, con ideologie «liberatrici» di raffinata schiavitù. Guardiamolo d'infilata, questo secolo dell'estrema modernità, con i suoi olocausti e le sue ecatombi. Guardiamo alla scienza e all'evanescenza: all'impennata tecnologica e allo smarrimento confessato del pensiero. Alle intuizioni di giustizia [vedi Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo] e alle contraddizioni che accostano lussi e miserie, eccedenze e disperazioni; pensiamo ai soprassalti del pensiero ecologico, dentro le desertificazioni e deforestazioni. O infine, in una parola, pensiamo alla devastazione normalizzata dell'ambiente umano, materiale e spirituale: allo scarto tragico tra i propositi e i risultati.

Un umanesimo sconfitto? Il Papa dice di no [si riferiva a Giovanni Paolo II, ma in perfetta continuità ciò vale per Benedetto XVI], il Papa guarda oltre, e ci incoraggia. E’ forse un inguaribile ottimista? Chissà perché è crollato il muro di Berlino. Chissà perché la speranza pianta i suoi steli negli interstizi della storia. L'ottimismo è una parola povera, la speranza è una virtù teologale…” (da Avvenire, giovedì 19 novembre 1998).

Per concludere vorrei leggere un brano attribuito a Giovanni Battista Montini, poi Paolo VI, che si inserisce bene nel nostro discorso: “Come la Chiesa al tempo della civiltà pagana, ellenico-romana, respinse, sì, quanto vi era di idolatrico e di inumano, ma conservò, purificò, assimilò i tesori della cultura e dell'arte classica; come la Chiesa al tempo del feudalesimo si oppose, sì, a quanto di barbaro e di violento vi era in quella espressione storica delle nuove genti, ma accolse, corresse, nobilitò le forze dell'uomo medioevale; come la Chiesa, al tempo del rinascimento, frenò l'ebrezza dell'umanesimo pagano risorgente e fece sue, portandole a vertici incomparabili, le virtù artistiche del tempo; così la Chiesa ancora denuncerà il materialismo di ogni specie, proprio nella nostra età, ma non maledirà la gigantesca e meravigliosa civiltà della scienza, dell'industria, della tecnica, della vita internazionalizzata della nostra epoca, sibbene bene cercherà di "assumerla", cioè di darle, alla base, principi forti e buoni che ancora non ha, al vertice di aprirle orizzonti di verità spirituali, di preghiera e di redenzione, che solo ella può veramente dare.

La Chiesa cercherà di compiere oggi ciò che da secoli compie: di dare pace e fratellanza agli uomini facendoli in Cristo figli di Dio. Cercherà come sempre di dare al mondo un'anima cristiana”.

 

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